Ecologia

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Ecologia

Domenico Siniscalco
Umberto Colombo e Giuseppe Lanzavecchia

Economia e ambiente, di Domenico Siniscalco

Sviluppo sostenibile, di Umberto Colombo e Giuseppe Lanzavecchia

Economia e ambiente

SOMMARIO: 1. Introduzione.  2. I nuovi fenomeni ambientali nella valutazione della comunità internazionale.  3. Le caratteristiche comuni dei nuovi fenomeni ambientali e l'esigenza di un nuovo quadro analitico.  4. Contabilità ambientale e prodotto nazionale netto.  5. Sviluppo sostenibile e patrimonio naturale.  6. Politiche per lo sviluppo sostenibile: a) strumenti amministrativi; b) strumenti economici e tassazione; c) strumenti negoziabili.  7. Barriere allo sviluppo sostenibile: a) inadeguatezza istituzionale; b) fattori internazionali; c) fattori intergenerazionali; d) interessi costituiti; e) povertà.  8. La protezione dell'ambiente richiede sviluppo? □ 9. Quanta gente può vivere sulla Terra?  10. Conclusioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Le relazioni tra economia e ambiente sono antiche e profonde. Il loro punto di partenza è probabilmente costituito dal lavoro di Thomas Robert Malthus, il cui Essay on the principle of population (v., 1798) analizzava il rapporto tra variabili demografiche e offerta di risorse alimentari. A partire da quel contributo, scritto in polemica con la visione ottimistica di Condorcet e di William Godwin, un ampio gruppo di economisti classici del secolo scorso ha studiato il ruolo delle risorse naturali nel sostenere il processo di sviluppo economico avviato con la rivoluzione industriale. Tra essi, John Stuart Mill (v., 1848) ha dato l'avvio alla trattazione moderna delle questioni ambientali, ponendo in luce le funzioni alternative dell'ambiente: serbatoio di risorse e ricettacolo di rifiuti, ma anche supporto della vita naturale e bene pubblico necessario al benessere dell'uomo.

In anni più recenti, dopo il contributo fondamentale di Arthur Cecil Pigou (v., 1920), gli economisti neoclassici hanno dato l'avvio a un vero e proprio programma di ricerca sulle relazioni tra economia e ambiente. Tra i temi maggiormente trattati troviamo le questioni allocative e di efficienza, mentre i legami tra ambiente e sviluppo figurano tra quelli meno studiati. Ciononostante, alla fine degli anni ottanta gli economisti disponevano ormai di un corpo organico di concetti e teorie per analizzare i legami tra economia e ambiente, i cui fondamenti erano presentati e sistematizzati in alcuni noti libri di testo, come quelli di Baumol e Oates (v., 1988), di Siebert (v., 1981) e di Pearce e Turner (v., 1990). Il quadro analitico, a questo punto, pareva completamente assestato, tanto che all'inizio degli anni novanta un noto economista, Partha Dasgupta (v., 1990), giungeva ad affermare che l'economia dell'ambiente era un campo ormai ‛morto' dal punto di vista della ricerca originale.

In questo quadro ormai sistematizzato, a partire dalla metà degli anni settanta gli studiosi di scienze naturali hanno posto in evidenza alcuni nuovi fenomeni legati all'uso dell'ambiente: il deterioramento della fascia di ozono, i mutamenti climatici globali, le nuove dimensioni dell'inquinamento atmosferico, idrico e marino, i danni legati alla deforestazione e alla perdita di specie biologiche. Quasi tutti questi fenomeni hanno una scala intrinsecamente transnazionale o addirittura globale; alcuni di essi hanno caratteristiche e conseguenze ancora molto incerte, sia sul piano scientifico, sia su quello economico; tutti, infine, sono strettamente legati ai processi di sviluppo economico e demografico. Sono proprio queste caratteristiche ad aver dato un impulso notevole all'economia e alla politica ambientale e ad aver fornito forti sollecitazioni alla stessa teoria economica, sollevando nuove questioni e soprattutto ponendo vecchie questioni in un nuovo contesto. Da queste tendenze è emerso un nuovo punto di vista, che affronta le questioni ambientali nel quadro dello ‛sviluppo sostenibile', in base al quale - come vedremo - esse devono essere analizzate come una particolare dimensione dello sviluppo umano. L'ambiente, come nei classici, ritorna così al centro delle analisi economiche e demografiche.

In questo articolo, nel discutere di economia dell'ambiente porremo l'accento proprio su questo nuovo approccio e sulle sfide che esso pone, sul piano della ricerca teorica ed empirica, agli economisti e agli studiosi di scienze sociali. Il punto di vista che proponiamo supera la distinzione tradizionale tra ‛ecologia della popolazione' (che studia l'interazione tra diverse specie, tra cui quella umana) ed ‛ecologia dei sistemi' (che si concentra sui flussi di risorse e di servizi che derivano dall'interazione tra i diversi organismi); secondo la moderna ‛economia dell'ambiente', infatti, i due approcci differiscono soltanto nelle ‛variabili di stato' utilizzate per descrivere le medesime relazioni tra economia e ambiente in un sistema complesso (v. Dasgupta, 1996). Accettando questa impostazione, inoltre, i problemi economici, ecologici e demografici possono essere trattati inquadrandoli in uno schema unitario, che descriveremo sinteticamente nei capitoli seguenti.

2. I nuovi fenomeni ambientali nella valutazione della comunità internazionale

Dalla fine degli anni ottanta, i più importanti organismi internazionali (come l'ONU, la Banca Mondiale, l'Agenzia Europea per l'Ambiente) passano in rassegna lo stato dell'ambiente nel mondo, e uno sforzo analogo è condotto da importanti centri di ricerca privati (come il Worldwatch Institute). Il loro scopo è quello di segnalare ai governi e all'opinione pubblica le questioni ambientali emergenti e quelle di maggiore gravità. Negli anni novanta, i temi più rilevanti sono stati trattati anche in grandi conferenze internazionali, generalmente organizzate dalle Nazioni Unite: quella di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo (1992), quella del Cairo sulla popolazione (1994), quella di Istanbul sulle città e lo sviluppo sostenibile (1996). I punti di crisi messi in luce da queste analisi riguardano l'atmosfera, le acque, i suoli, la biodiversità. Si tratta, in generale, di problemi emersi di recente - come il buco nell'ozono - oppure tornati alla ribalta per le dimensioni planetarie che hanno assunto e per la gravità delle loro conseguenze (v. inquinamento ambientale, voll. III e VIII).

Le emissioni di gas nell'atmosfera continuano a essere la principale fonte di preoccupazione per gli effetti negativi sul clima, sulla salute umana, sulle risorse forestali e idriche, nonché su monumenti, edifici e infrastrutture. Alla fine degli anni novanta, quasi la metà della popolazione mondiale che vive nelle città (oltre un miliardo di persone, in continuo aumento) si trova esposta a pericolosi livelli di inquinamento urbano, dovuti alle emissioni di diossido di zolfo, ossidi di azoto e oltre duecentosessanta tipi di particolati. Nella prima metà degli anni novanta, Milano continuava a trovarsi in fondo alla graduatoria per qualità dell'aria (con concentrazioni tre volte superiori alle norme stabilite dall'Organizzazione Mondiale della Sanità), insieme a Teheran, Seul, Rio de Janeiro, San Paolo, Parigi e Pechino.

Le deposizioni acide, secche e umide - conseguenza delle emissioni di ossidi di zolfo e azoto - che vengono trasportate nelle fasce alte dell'atmosfera non cessano di essere uno dei problemi più gravi in Europa e nel Nordamerica per i danni diretti che provocano alla pesca, alle foreste, all'agricoltura e alla vita naturale. La situazione è particolarmente grave in Europa. Secondo le stime del Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP, United Nations Environment Programme), oltre un terzo dell'area forestata del nostro continente (50 milioni di ettari su un totale di 141) viene danneggiato in varia misura da questo fenomeno, con danni transnazionali assai difficili da contrastare.

Progressi importanti sono stati invece conseguiti nella protezione dell'ozono stratosferico, il cui assottigliamento continua tuttavia a minacciare la salute e il sistema immunitario di uomini e animali. Il protocollo di Montreal del 1987 e l'accordo di Londra del 1990 hanno stabilito di attuare un drastico programma coordinato per ridurre del 50%, e poi azzerare, entro il 2000, la produzione dei gas che danneggiano l'ozono, in particolare i CFC (clorofluorocarburi).

Per quanto riguarda i mutamenti climatici globali, i lavori dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climatic Change), creato sotto gli auspici dell'ONU e dell'Organizzazione Meteorologica Mondiale, hanno prodotto alcuni risultati importanti, tra i quali spiccano la migliore comprensione delle determinanti e delle conseguenze dei mutamenti climatici e l'avvio di una negoziazione che ha portato a una importante convenzione internazionale (la Convenzione sui cambiamenti climatici, del 1992). Secondo i lavori dell'IPCC, le concentrazioni di gas serra, tra cui anidride carbonica (CO2), metano (CH4), ossidi di azoto (NOx), sono cresciute sensibilmente negli ultimi 250 anni, finendo per perturbare l'equilibrio energetico del sistema Terra-atmosfera; ciò ha portato a un aumento della temperatura (fra 0,3 e 0,6 °C), a un innalzamento del livello dei mari (tra 10 e 25 cm negli ultimi 100 anni) e a una maggiore variabilità del clima tra regioni e all'interno di ogni regione. Le maggiori concentrazioni di gas serra nell'atmosfera sono senz'altro riconducibili, almeno in parte notevole, all'azione dell'uomo e alle sue emissioni. Se queste emissioni - in particolare quelle di CO2 - fossero mantenute ai livelli attuali, entro la fine del XXI secolo esse porterebbero a concentrazioni doppie rispetto a quelle che precedevano la rivoluzione industriale (500 parti per milione in volume, contro 280 del 1750). Vista la lunga persistenza dei gas serra nell'atmosfera, una stabilizzazione delle concentrazioni richiederebbe una sensibile riduzione (almeno del 30%) delle emissioni antropogeniche rispetto ai livelli attuali. Per il futuro, dunque, è ragionevole stimare che il clima continuerà a cambiare, con una crescita della temperatura media e della variabilità regionale, a prescindere dal paese in cui avvengono le emissioni.

I tentativi di valutare gli effetti di tali mutamenti dal punto di vista economico sono ancora agli inizi, e si fondano principalmente su modelli macroeconometrici tradizionali, derivati dai modelli energetici mondiali (i cosiddetti modelli top down; v. IPCC, 1996). Nessuna di queste stime, tuttavia, considera adeguatamente gli importanti fenomeni indotti dal riscaldamento globale (come le migrazioni), gli eventi estremi e i costi non recuperabili in talune aree urbane, anche se in alcune regioni, come quella mediterranea, sono queste le conseguenze che destano le maggiori preoccupazioni.

Preoccupazioni non minori riguardano l'inquinamento idrico e marino. I tre quarti della superficie terrestre sono coperti da acqua, ma di questa solo il 3% è dolce, mentre per il resto si tratta dell'acqua salata dei mari e degli oceani. L'acqua dolce, di superficie e sotterranea, sostiene la vita umana e animale, viene utilizzata dall'agricoltura e dall'industria, costituisce l'habitat di numerose specie. Anche se l'offerta annuale di acqua dolce (circa 9.000 km3 annui a livello mondiale) sembra sufficiente per venti miliardi di persone, vi sono problemi che derivano dall'inquinamento e problemi di distribuzione geografica. Sulla base di un ampio processo di monitoraggio, l'UNEP afferma che le risorse di acqua dolce oggi disponibili sono seriamente minacciate da inquinanti di origine organica (tra cui i nitrati) e industriale (metalli pesanti, prodotti sintetici della chimica, fosfati e pesticidi). La situazione appare critica in Europa, meno grave nelle altre aree. Sul piano della distribuzione geografica, gran parte del Medio Oriente e del Nordafrica, come pure alcune regioni della Cina e dell'America Centrale, scarseggiano di risorse idriche. Date le tendenze demografiche regionali, inoltre, molti paesi in via di sviluppo, nei primi anni dopo il 2000, avranno una disponibilità pro capite di acqua dolce di poco superiore al 50% rispetto al livello del 1975. E già oggi, nei paesi in via di sviluppo, secondo l'UNEP (v., 1991), vi sono un miliardo e duecento milioni di persone che non hanno accesso a risorse idriche sicure.

Per quanto riguarda i mari, infine, è noto che essi contengono gli ecosistemi più ricchi e complessi che si conoscano. Le zone costiere rappresentano soltanto il 10% dell'area marina totale, ma oltre il 60% della popolazione mondiale vive in una fascia di cento chilometri dal mare. Le coste - che, secondo il rapporto dell'UNEP, sono le zone più delicate e sfruttate degli oceani - ricevono emissioni dei fiumi, scarichi diretti e contaminanti vari che derivano dal traffico marittimo, in primo luogo dal trasporto petrolifero.

La lista dei punti di crisi si chiude con l'erosione del suolo, la deforestazione e la perdita di specie biologiche. Questi ultimi aspetti sono particolarmente gravi per la loro natura irreversibile e per il valore di esistenza (il cosiddetto ‛valore di opzione' o di ‛non uso') che si può attribuire alle specie in pericolo di estinzione.

3. Le caratteristiche comuni dei nuovi fenomeni ambientali e l'esigenza di un nuovo quadro analitico

Pur nella loro diversità, tutti i fenomeni ambientali sin qui richiamati hanno rilevanti caratteristiche comuni: 1) una dimensione intrinsecamente internazionale, dovuta alla natura globale dei loro effetti e anche alle ripercussioni delle politiche ambientali sul commercio estero e sulla mobilità dei fattori; 2) conseguenze di lungo e lunghissimo periodo, tali da influenzare anche il benessere delle generazioni future; 3) legami molto stretti con lo sviluppo economico e demografico. Di conseguenza, l'economia dell'ambiente ha subito radicali cambiamenti, sia nei metodi d'indagine, sia nei problemi considerati. Secondo l'impostazione tradizionale, richiamata nell'introduzione, i fenomeni ambientali considerati provocavano effetti esterni limitati nello spazio e nel tempo. Ciò consentiva di analizzarli in modo separato dall'equilibrio complessivo del sistema e di proporre correzioni ottimali a livello di singolo Stato. I nuovi fenomeni ambientali, al contrario, hanno spesso un impatto di dimensione macroeconomica e transnazionale. Per questo motivo essi devono essere analizzati in connessione con lo sviluppo economico e demografico e in un contesto globale (v. demografia, vol. II; v. ecologia, vol. VIII).

La questione dei cambiamenti climatici, già esaminata nel precedente capitolo, rappresenta un esempio paradigmatico in tal senso. Nei prossimi 100-200 anni, l'aumento delle concentrazioni di inquinanti nell'atmosfera si verificherà in conseguenza delle emissioni di gas serra da parte di tutti i paesi. La riduzione delle emissioni è possibile solo con cambiamenti radicali nel modello di sviluppo economico nelle principali regioni del mondo. Le stime dei danni associati ai mutamenti del clima possono raggiungere svariati punti (da 0,5 a 6, a seconda del livello di sviluppo dei paesi) del PIL (Prodotto Interno Lordo); nei paesi in via di sviluppo, i costi della riduzione delle emissioni possono variare dal 2 al 9% del PIL. Questioni di efficienza - cioè di minimizzazione dei costi nel ridurre le emissioni - si intrecciano con questioni di equità tra paesi, classi sociali, generazioni. E tutto il processo è dominato dalle dinamiche della popolazione, la cui dimensione è cruciale nel determinare le emissioni complessive. È dunque evidente che la questione del clima, così come la sua gestione, ha più a che fare con lo sviluppo economico e sociale che con la sola politica ambientale.

A fronte di questi problemi, come si accennava, le analisi di economia e politica dell'ambiente richiedono un nuovo insieme di strumenti analitici e quantitativi. La prima esigenza, di carattere quantitativo e descrittivo, è quella di poter disporre di dati empirici coerenti con le statistiche economiche. Per ovviare alla carenza di queste informazioni, l'ONU, l'Unione Europea e molti studiosi stanno esplorando metodi che permettano di costruire conti nazionali delle risorse naturali e ambientali. I problemi metodologici in questo campo sono molteplici, e vanno dalla valutazione monetaria di risorse senza prezzi e mercati (v. Markandya, 1992) all'integrazione di queste grandezze nei conti nazionali (v. Mäler, 1992). Eguali difficoltà si riscontrano nella costruzione di indicatori di sostenibilità ambientale (v. Daly e Cobb, 1989).

Sul piano teorico, la richiesta di nuovi strumenti non è minore. I legami con lo sviluppo economico e demografico, uniti alla dimensione intertemporale dei problemi ambientali, richiedono di affinare i modelli di crescita con un'esplicita considerazione delle risorse naturali, ambientali e della popolazione. Soltanto all'interno di questi modelli si possono studiare con precisione analitica questioni di efficienza e questioni di equità tra individui e generazioni. In questa classe di modelli un'attenzione specifica va riservata alla dinamica dei cambiamenti tecnologici endogeni, i quali nel lungo periodo assumono un'importanza fondamentale.

Sempre sul piano teorico, la dimensione internazionale e globale delle politiche ambientali pone la questione delle esternalità ambientali in un contesto in cui non esiste un'istituzione che abbia il potere di regolare l'uso dell'ambiente a livello sovranazionale. Il problema è dunque quello di coordinare le politiche ambientali dei singoli paesi, attraverso la preparazione e la ratifica di convenzioni e trattati internazionali; ciò richiede uno sviluppo della teoria dei giochi non cooperativi, con particolare attenzione alla formazione di coalizioni tra paesi e alle dinamiche democratiche all'interno di ogni paese.

Sul piano applicativo, le analisi richiedono di considerare esplicitamente il mondo delle istituzioni e dell'interazione tra gruppi di interessi. Particolare attenzione va infine riservata al problema della povertà, al quale si associano direttamente i fenomeni più acuti di degrado ambientale, e alle varie forme di fallimento dei mercati. Soltanto in questo contesto acquista significato analizzare le tradizionali questioni legate agli strumenti della politica ambientale e quindi integrarle con gli altri aspetti della politica economica.

In estrema sintesi, i fenomeni di degrado ambientale possono sempre essere ricondotti ai fattori che determinano i fallimenti del mercato, fattori che sono stati analizzati nella letteratura tradizionale: inadeguatezza delle istituzioni (a partire dai diritti di proprietà); esternalità; povertà; vincoli alla liquidità. Ma le caratteristiche dei nuovi fenomeni ambientali impongono di riformulare l'analisi in un quadro ‛intertemporale', internazionale, di progresso tecnico e crescita endogena. E questo nuovo contesto richiede strumenti completamente diversi, dai dati empirici ai modelli teorici.

4. Contabilità ambientale e prodotto nazionale netto

Le informazioni quantitative sull'ambiente raccolte da molti uffici statistici non trovano ancora una collocazione sistematica nei conti nazionali, con i quali, peraltro, sono scarsamente integrabili. Per rispondere all'esigenza di informazioni sistematiche e omogenee con la contabilità nazionale, l'ONU, l'Eurostat e gli uffici statistici di molti paesi, tra cui il nostro, hanno introdotto nei loro programmi la costruzione, sulla base di determinate modalità, di una contabilità nazionale delle risorse naturali e ambientali. Tali modalità sono principalmente tre, in parte complementari: a) una contabilità dei flussi di emissioni, reflui e rifiuti espressi in termini fisici; b) una riclassificazione delle spese ambientali e difensive, da finali a intermedie, con la possibile deduzione dal PIL; c) una contabilità del patrimonio naturale e ambientale (stocks e flussi), espressi in termini fisici e monetari (v. Musu e Siniscalco, 1993).

I flussi di emissioni sono rilevati in molti paesi, ma i dati di fatto sono difficili da classificare e quindi poco integrabili con la contabilità nazionale, sono discontinui dal punto di vista temporale e sono scarsamente comparabili nel tempo e tra paesi.

I dati sulle spese ambientali e difensive sono raccomandati nello schema di conti ambientali in discussione presso l'Eurostat; essi danno una misura dello sforzo ambientale compiuto da ciascun paese e, secondo la letteratura, possono anche essere usati come stime indirette del danno ambientale (v. Mäler, 1992). I dati sono piuttosto semplici da rilevare ed esistono ormai per tutti i paesi europei, quanto meno a livello informale.

I conti del patrimonio naturale - previsti nel progetto dell'ONU, in quello francese e in quello italiano - sono fondamentali per le discussioni sulla sostenibilità della crescita. La difficoltà principale nella loro costruzione sta nel valutare in termini monetari le risorse ambientali (stocks e flussi), i cui mercati sono spesso mancanti e i cui prezzi, anche quando esistono, sono caratterizzati da forti distorsioni. A tali difficoltà si ovvia, generalmente, utilizzando metodi indiretti o convenzionali. Soltanto con queste valutazioni monetarie, tuttavia, il deterioramento netto del capitale naturale può essere dedotto dal PIL, al fine di pervenire a una stima del ‛prodotto netto'.

La natura teorica della nozione di prodotto netto, esaminata da Nordhaus e Tobin (v., 1972), è stata approfondita da Mäler (v., 1992) e da Solow (v., 1992) al fine di tenere conto del degrado ambientale nelle misure del benessere. L'ambiente, in questo contesto, viene trattato come uno stock di risorse esauribili e rinnovabili: un tipo particolare di capitale che viene deprezzato con l'uso delle risorse naturali e con l'inquinamento di quelle ambientali, e che viene incrementato con attività di prevenzione e ripristino. Questo trattamento consente di applicare un unico schema teorico alle varie forme di capitale: a quello riproducibile e umano, come a quello naturale. La logica della teoria economica del capitale ci dice, allora, come costruire un concetto di prodotto netto che consideri in maniera omogenea l'accumulazione e il deprezzamento di tutti gli stocks.

Sul piano empirico è importante offrire una stima non tanto degli stocks, assai complessa da ottenere, quanto del loro deprezzamento netto. La disponibilità di questo flusso, a sua volta, consente di comprendere le differenze di benessere tra due economie il cui PIL cresca al medesimo tasso, ma con diversi gradi di utilizzo del capitale naturale. Le stime del deprezzamento del capitale naturale, sottratte dal PIL, offrono una misura del prodotto al netto del degrado ambientale: questa grandezza, nel dibattito corrente, viene spesso definita ‛prodotto verde'. Misure del prodotto netto, anche se ottenute con metodologie parzialmente disomogenee, sono oggi disponibili per molti paesi e conducono a stime del prodotto netto e del benessere (v. Musu e Siniscalco, 1993; v. Cullino, 1993; v. Guenno e Tiezzi, 1998). I dati della fig. 1, che riporta alcuni di questi indici di benessere, mostrano come in quasi tutti i principali paesi il benessere cresca nel tempo, ma a tassi minori di quelli evidenziati dalla dinamica del PIL.

5. Sviluppo sostenibile e patrimonio naturale

Chiarito il significato di prodotto netto, definito in modo da includere il degrado del capitale naturale, è agevole comprendere la definizione di prodotto sostenibile e quella, ad essa connessa, di ‛sviluppo sostenibile', che sono nozioni di carattere ‛intertemporale', legate alla teoria della crescita. Secondo il rapporto della World Commission on Environment and Development (v., 1987) - noto come Rapporto Brundtlandt, dal nome del presidente di quella Commissione -, si definisce ‟sostenibile un livello di prodotto che assicura il benessere della generazione attuale, ma non compromette le possibilità di benessere delle generazioni future" in conseguenza dell'eccessivo sfruttamento delle risorse naturali e ambientali.

All'infuori di alcune componenti estreme del mondo ambientalista, nessuno pensa che, per avere sostenibilità del prodotto, l'ambiente debba essere lasciato intatto: il timore, però, è che il livello di benessere e di consumo attuale distrugga irreparabilmente le risorse per le generazioni future, così da pregiudicarne il benessere. In questo caso lo sviluppo attuale sarebbe, appunto, insostenibile nel più lungo periodo. Questa preoccupazione si fonda su due nozioni intuitive: in primo luogo, maggior prodotto implica maggior uso di risorse naturali; in secondo luogo, esso implica maggiori emissioni e rifiuti, mettendo a rischio le capacità di assorbimento e riciclaggio dell'ambiente. Per questo motivo, i commentatori più allarmati sostengono che gli effetti della crescita stanno ponendo a repentaglio la carrying capacity della biosfera, con conseguenze disastrose per tutte le forme di vita e per il benessere umano (v., ad esempio, Daly, 1977; v. Meadows e altri, 1992). Altri commentatori sostengono che la scala dell'attività economica è soltanto una dimensione del problema, ma che la composizione del prodotto, le tecnologie e la popolazione hanno un ruolo altrettanto importante (v. World Bank, 1992; v. Nordhaus, 1991).

Il problema, data la natura dei principali fenomeni ambientali, ha una dimensione planetaria e riguarda i rapporti Nord-Sud, sino a investire le questioni demografiche. Nel dibattito sviluppatosi sull'argomento, alcuni hanno affermato che il modello di sviluppo e consumo dei paesi industriali, se esteso a tutto il mondo, provocherebbe un disastro ecologico e, di riflesso, economico; simmetricamente, altri hanno sostenuto che i tassi di crescita demografica nei paesi meno sviluppati porterebbero allo stesso risultato anche senza crescita dei consumi pro capite. Le componenti ideologiche e politiche presenti in queste discussioni sono forti e impediscono spesso un approfondimento rigoroso. Ma la teoria economica, unita a valutazioni empiriche, può offrire strumenti per chiarire alcuni punti fondamentali della questione.

Riconsideriamo la definizione del Rapporto Brundtlandt: il prodotto è sostenibile se non compromette il benessere delle generazioni future. Se consideriamo questa definizione di prodotto sostenibile entro schemi di ragionamento economico, comprendiamo facilmente che ciò che occorre preservare per le generazioni future non è un insieme specifico di risorse ambientali e naturali, ma una capacità produttiva di benessere eguale o superiore a quella attuale. L'obiettivo della sostenibilità, così specificato, è compatibile con una riduzione del patrimonio naturale? La risposta della teoria economica è senz'altro positiva, se le risorse naturali necessarie alla produzione e al consumo vengono gradualmente sostituite con altre forme di capitale. Ciò è vero anche nel caso, meno favorevole, in cui tutte le risorse naturali siano esauribili e non esista innovazione (v. Solow, 1992); ed è ovviamente ancora più plausibile se parte del patrimonio naturale è riproducibile e se esiste innovazione (v. Beltratti, 1996).

La questione, da un punto di vista analitico, può essere studiata nell'ambito dei modelli di crescita; in questa prospettiva, il prodotto sostenibile scaturisce dalla soluzione che consente la massimizzazione del benessere, sotto il vincolo che il benessere totale sia non decrescente lungo tutto il sentiero di crescita. Per ottenere questo risultato è necessario lasciare alle generazioni future una dotazione di capitale riproducibile, di conoscenze (capitale umano) e di capitale naturale, tali che esse possano produrre nell'insieme un benessere eguale o superiore a quello delle nostre generazioni, considerando anche un possibile mutamento delle preferenze e il ‛valore di opzione' di alcune risorse (per il tasso di sconto con cui effettuare la comparazione intertemporale, v. IPCC, 1996; per le questioni di equità tra generazioni, v. Beltratti e Siniscalco, 1994).

Molte risorse naturali - con alcune importanti eccezioni, come l'atmosfera o i mari, oppure gli assets specifici per cui può esserci un valore di esistenza o un valore di opzione - non hanno un valore perché esistono, ma perché insieme ad altri fattori producono beni e servizi, oppure perché possono essere consumati direttamente. Per questo motivo, la sostenibilità non richiede di lasciare alle generazioni future il capitale naturale intatto, ma di rimpiazzare con altre forme di capitale tutto ciò che di esso viene usato. Non importa la forma del capitale sostitutivo di quello naturale: importa la sua capacità di generare un eguale grado di utilità. In questo senso è possibile porre sullo stesso piano le decisioni relative all'utilizzazione delle risorse naturali e quelle di accumulazione di conoscenza e capitale riproducibile.

In alcuni lavori recenti (v., ad esempio, Beltratti, 1996; v. Beltratti e altri, 1995; v. Mäler, 1992; v. Solow, 1992) si trovano modelli di crescita con risorse naturali che consentono di ottenere formalmente i principali parametri sulla sostenibilità del prodotto. Altri modelli studiano la possibilità di un tasso di crescita sostenibile indefinitamente, in presenza di alcune risorse naturali finite (v. Michel, 1993; v. Musu e Lines, 1993). In tutti questi modelli l'ambiente entra nella produzione come flusso, e nel consumo come stock. Gli agenti prendono alcune decisioni fondamentali: quanto risparmiare e investire e quanto utilizzare dello stock di risorse naturali. Nei modelli che considerano generazioni sovrapposte, lo ‛scambio' tra generazioni è semplice: la generazione attuale usa risorse naturali e le rimpiazza con investimenti in altre forme di capitale (a partire da quello umano), cosicché le generazioni future erediteranno meno capitale naturale e più capitale di altro tipo. Lo scambio è equo se le generazioni future riceveranno una dotazione complessiva che consente di ottenere utilità uguale o superiore a quella della generazione attuale. L'eventuale ‛iniquità' della generazione attuale non risiede nell'uso delle risorse naturali, ma nel consumarne il prodotto, anziché investirlo in altre forme di capitale.

Tutto questo, ovviamente, dipende dalle possibilità tecnologiche di sostituire il patrimonio naturale nella produzione e nel consumo. Come mostrano Dasgupta e Heal (v., 1974), in un modello di crescita è possibile mantenere indefinitamente un tasso di crescita positivo, anche in presenza di risorse non rinnovabili, se l'elasticità di sostituzione tra inputs rinnovabili e inputs esauribili è superiore a 1, in una funzione di produzione CES (Constant Elasticity of Substitution). Recenti ricerche empiriche mostrano che questo è effettivamente il caso di molte risorse naturali e ambientali, storicamente sostituite grazie all'andamento dei prezzi, degli investimenti, del reddito pro capite.

6. Politiche per lo sviluppo sostenibile

a) Strumenti amministrativi.

Poiché la sostituzione tra capitale naturale e altre forme di capitale è fondamentale per garantire la sostenibilità, le politiche ambientali devono mirare a indurre e orientare queste sostituzioni quando esse non avvengano spontaneamente. Tradizionalmente, il primo strumento adottato è stato quello dei divieti, sanzionati in via amministrativa e anche penale. Quando si ravvisava un problema di inquinamento o sovrasfruttamento di una risorsa, la legislazione fissava dei limiti o delle soglie, e la magistratura ne controllava l'applicazione.

L'analisi economica ha mostrato che questo approccio (definito di command and control) è appropriato in una serie di casi, ma inefficiente per la maggioranza degli inquinanti. Può essere appropriato nel caso di divieto assoluto di taluni materiali (come l'amianto), per ottenere standard ambientali di taluni prodotti (ad esempio, lo zolfo nei combustibili) o per proteggere talune specie (ad esempio, vietando l'importazione dell'avorio si proteggono gli elefanti); in generale, tuttavia, presenta almeno due inconvenienti principali: in primo luogo impone sostituzioni troppo brusche ed eguali per tutti, che non tengono conto del deprezzamento del capitale riproducibile già installato; e in secondo luogo impone alla pubblica amministrazione requisiti informativi, di monitoraggio e di applicazione delle norme spesso impossibili da realizzare.

b) Strumenti economici e tassazione.

Dati gli inconvenienti insiti nell'approccio di command and control, le politiche ambientali si sono gradualmente spostate verso l'uso dei cosiddetti strumenti economici, la cui logica è fondata sul meccanismo dei prezzi. Se una risorsa ambientale è sovrasfruttata, o va sostituita, è sufficiente elevarne il prezzo con un intervento appropriato. In questo modo, usando cioè la leva dei prezzi, essa verrà sostituita, superando gli inconvenienti degli interventi di command and control; la sostituzione avverrà gradualmente e in modo differenziato, in funzione del calcolo economico di ciascun soggetto economico. Le imprese obbediranno agli usuali segnali di prezzo e la pubblica amministrazione, dal canto suo, non avrà alcun compito di monitoraggio, poiché la sostituzione della risorsa sarà indotta automaticamente dal mercato (v. OECD, 1994).

Lo strumento economico più diffuso è la tassazione ambientale, mirata ad aumentare il costo degli inputs e dei prodotti inquinanti. L'intuizione alla base di questa forma di tassazione è dovuta a Pigou (v., 1920). Poiché gli inquinanti hanno effetti esterni negativi sugli altri soggetti, la situazione può essere corretta internalizzando nel costo il danno ambientale, il che si ottiene tassando in vario modo l'attività inquinante. Il maggior costo dell'attività inquinante ne provocherà una riduzione ottimale, proprio perché verrà calibrata in funzione del danno esterno da essa provocato.

L'esempio più dibattuto di tassazione ambientale applicata ai problemi di sostenibilità di lungo periodo è la cosiddetta carbon-tax: una tassa sulle fonti energetiche non rinnovabili, commisurata in parte rilevante al loro contenuto di carbonio. Lo scopo di questa tassa è quello di ridurre le emissioni di CO2, che sono le principali responsabili dei cambiamenti climatici. L'aliquota, che determina il maggior costo dei prodotti energetici, è fissata in modo tale da eguagliare al margine il costo di abbattimento delle emissioni con il danno futuro connesso ai cambiamenti climatici (v. Carraro e Siniscalco, The European..., 1993). Analoghi schemi sono stati adottati per inquinanti di tipo diverso, tassando sia gli inputs che gli outputs (v. OECD, 1994).

Con il procedere del dibattito, le forme di tassazione ambientale, sul carbonio come su altri inquinanti, hanno subito un notevole processo di sofisticazione. Sempre con riferimento alla carbon-tax, si è sostenuta l'opportunità di una politica che imponesse una maggiore tassazione dell'energia, riducendo al contempo le imposte sul lavoro. In questo modo, si è argomentato, è possibile raggiungere un ‛doppio dividendo' sociale: minori emissioni di CO2 e maggiore occupazione (v. Bovenberg, 1997). E ancora sullo stesso argomento, si è avviato un vero e proprio filone di studi che ha esaminato questi temi nell'ambito di sistemi fiscali subottimali, mercati imperfetti, disoccupazione: il risultato generale è che gli effetti della tassazione ambientale nel mondo reale sono spesso incerti, e vanno quindi considerati con molta cautela (v. Bovenberg e Cnossen, 1995; v. Carraro e Siniscalco, 1996).

A fianco della tassazione ambientale, pertanto, sono stati proposti altri strumenti economici, quali canoni, depositi e cauzioni, contratti di programma o sussidi alla ricerca e allo sviluppo, alla diffusione di innovazioni e all'investimento in infrastrutture, che consentono risparmi energetici o di altre risorse (v. OECD, 1994). La natura complementare di questi ultimi interventi è ovvia. Il loro scopo, oltre a quello di ridurre direttamente l'uso di risorse naturali, è anche quello di consentire più agevolmente le sostituzioni indotte dai prezzi. Un progetto di treni veloci e moderni trasporti pubblici, ad esempio, consente di rendere più efficienti gli aumenti nel prezzo della benzina e dei combustibili per autotrazione. In presenza di tali infrastrutture, le tasse energetiche inducono le sostituzioni desiderate. In assenza delle stesse infrastrutture le tasse opererebbero principalmente attraverso effetti di reddito e riduzioni di attività economica.

Una menzione particolare, infine, va riservata allo strumento dei ‛permessi negoziabili di inquinamento', che ha iniziato a diffondersi negli Stati Uniti. Secondo questo approccio, la pubblica amministrazione distribuisce ai soggetti economici titoli negoziabili che autorizzano, nel complesso, il volume desiderato di emissioni inquinanti. I soggetti economici, scambiando questi titoli, li riallocano tra loro in modo efficiente, scegliendo se comprarli (e inquinare), oppure se investire in capitale per ridurre le emissioni, ridurre la produzione o, al limite, uscire dal mercato. Il prezzo dei permessi, determinato dal mercato, ne riflette la scarsità. La pubblica amministrazione, con operazioni di mercato aperto, e persino i cittadini, che si organizzano per acquistare e vendere permessi, regolano il volume complessivo di inquinanti.

Negli Stati Uniti, l'esperimento dei permessi ha avuto un certo successo nel caso delle società elettriche - le cosiddette utilities, ossia società che producono servizi di pubblica utilità -, per regolare le emissioni di zolfo; difficoltà sono state invece incontrate nel caso di inquinanti derivanti da produzioni di minore entità. Al di là del diverso grado di successo, tuttavia, l'esperimento è molto interessante per la sua matrice teorica: nel caso della tassazione ambientale alla Pigou, infatti, lo Stato deve conoscere costi e benefici della politica ambientale e fissare di conseguenza le aliquote fiscali; nel caso dei permessi, invece, è il mercato a fissare il ‛prezzo dell'inquinamento' secondo l'approccio teorico di Ronald H. Coase (v., 1960), per il quale il libero negoziato tra soggetti consente di raggiungere risultati efficienti. In questo modo si riduce ulteriormente il requisito di informazione dello Stato, sostituendolo con il contenuto informativo dei prezzi.

c) Strumenti negoziabili.

Una logica non dissimile da quella alla base dei permessi negoziabili di inquinamento governa infine l'approccio negoziale alla politica ambientale, nato nell'ambito delle cosiddette Agende 21 locali (il documento sulla sostenibilità approvato nella conferenza ONU di Rio de Janeiro); secondo tale approccio, si ritiene di poter regolare l'inquinamento attraverso negoziati ambientali a livello locale (cittadino o metropolitano). In questi processi, i portatori di interessi della comunità negoziano tra loro il piano di sostenibilità economico-sociale-ambientale dell'area, tenuto ovviamente conto delle leggi. La soluzione che emerge dovrebbe riflettere le reali preferenze della cittadinanza ed evitare casi di sovra- o sottoprotezione dell'ambiente.

L'approccio è particolarmente interessante, viste le tendenze generali al decentramento amministrativo e il correlativo richiamo al principio di sussidiarietà. In Italia, tuttavia, le prime applicazioni di questo approccio - conosciuto anche come ‛metodo partecipativo' - hanno dato risultati controversi e generalmente deludenti. Asimmetrie informative, squilibri nel potere negoziale e nella rappresentanza, incertezza sulle ‛regole del gioco' hanno contribuito a raffreddare gli entusiasmi dei sostenitori dell'approccio alla Coase, da essi ritenuto teoricamente superiore, e si sono risolti in un blocco generalizzato alla costruzione di nuovi impianti.

7. Barriere allo sviluppo sostenibile

Il quadro analitico e di politica ambientale tratteggiato nei precedenti capitoli riflette un approccio ‛normativo': una volta definita la nozione di sviluppo sostenibile, si disegnano infatti gli interventi necessari a raggiungere questo sentiero di crescita. Il problema di questo approccio - tipico nell'analisi economica - è che esso ignora le numerosissime barriere, di natura istituzionale, sociale ed economica, che ostacolano l'emergere di un esito ottimale. Lo studio di queste barriere, saldamente radicate nel mondo reale, è l'oggetto dell'approccio cosiddetto ‛positivo', tipico delle analisi di political economy. Tale approccio, sviluppato in modo crescente dagli economisti a partire dagli anni ottanta, è importante per capire i fallimenti del mercato e i fallimenti del governo. Nel caso dell'economia ambientale, esso assume un ruolo fondamentale proprio nell'ambito di applicazione caratterizzato da beni pubblici, esternalità, fallimenti del mercato e del governo.

a) Inadeguatezza istituzionale.

Sul piano istituzionale, moltissime risorse ambientali non hanno mercati né prezzi, in parte per motivi fisici, ma soprattutto per l'assenza di diritti di proprietà. Si pensi all'atmosfera, alle acque, alle foreste tropicali, alle specie biologiche. L'assenza di prezzi e diritti di proprietà porta a fenomeni di sovrasfruttamento delle risorse (quando il prezzo è zero la domanda tende a crescere all'infinito), che possono determinare conseguenze particolarmente gravi quando le risorse a proprietà comune si fanno scarse. In questi casi, infatti, agenti economici razionali mettono in atto comportamenti strategici (tipo ‛dilemma del prigioniero') che portano rapidamente alla scomparsa delle risorse. Di qui il timore diffuso di una ‛tragedia dei beni a proprietà comune' (v. Harding, 1968; v. Ostrom, 1990).

Per ovviare a questi inconvenienti, è in atto in sede internazionale un tentativo di definire in modo non tradizionale i diritti di proprietà per molte risorse ambientali (un esempio sono i permessi negoziabili di emissione proposti in via globale e attribuiti direttamente ai paesi; un altro sono i diritti di proprietà sui genomi necessari alle biotecnologie). Ma questi tipi di accordo sono assai difficili per le implicazioni distributive e per le resistenze sul piano etico-culturale, economico e politico.

b) Fattori internazionali.

È legittimo dunque parlare di vere e proprie barriere alle politiche di sviluppo sostenibile. In quest'ambito le prime difficoltà sono senza dubbio legate alla dimensione transnazionale e globale dei fenomeni ambientali. Come si è detto (v. capp. 2 e 3), quasi tutti i nuovi fenomeni ambientali hanno effetti negativi che vanno ben al di là del paese nel quale avvengono le emissioni. Di qui una situazione di interdipendenza che rende difficile - e comunque inefficace - ogni sforzo di carattere unilaterale da parte dei singoli paesi. Anche quando le emissioni non hanno effetti transnazionali, l'interdipendenza deriva dai costi di abbattimento, che si ripercuotono sul commercio estero e sulla mobilità dei fattori.

In un mondo di interdipendenze internazionali legate all'ambiente, la protezione ottimale delle risorse richiede dunque un coordinamento internazionale delle politiche, e al limite la creazione di un'autorità dotata di poteri sovranazionali. Il problema, a questo proposito, deriva però dagli incentivi al free riding. Prendiamo come esempio i mutamenti climatici. Supponiamo che tutti i paesi si accordino volontariamente su un piano di riduzione delle emissioni, accollandosi dunque una parte dei costi a fronte di un beneficio collettivo. In questo contesto è razionale per ciascun paese uscire dall'accordo e godere della stabilizzazione del clima, assicurato dagli altri paesi, senza pagare i costi di riduzione delle proprie emissioni. Di qui la difficoltà di trovare un accordo internazionale stabile.

La letteratura economica ha cercato di comprendere le caratteristiche di questi accordi internazionali utilizzando la teoria dei giochi non cooperativi, anche al fine di favorire la nascita di accordi stabili. In una prima fase si è studiata la logica di accordi limitati alle sole questioni ambientali (v. Barrett, 1992; v. Heal, 1993); poiché tali analisi dimostrano che è possibile costruire accordi stabili, ma che questi sono limitati a gruppi molto piccoli di giocatori (paesi), in una seconda fase si è allora tentato di aggiungere elementi stabilizzanti ai negoziati: ad esempio, trasferimenti di denaro o tecnologie, legami con altri negoziati, in genere sul commercio estero (v. Carraro e Siniscalco, Strategies for..., 1993 e 1996; v. Barrett, 1997). I risultati ottenuti hanno permesso di concludere che è possibile ampliare il numero dei paesi firmatari degli accordi internazionali; nella realtà dei negoziati politici la stessa strada è stata battuta nella Convenzione sul clima nella cosiddetta ‛clausola ambientale' del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade).

L'intuizione sottostante è piuttosto semplice. Se un accordo ambientale è conveniente ma intrinsecamente instabile, per la presenza di incentivi al free riding (ovvero a godere dell'ambiente pulito da altri senza pagarne i costi), allora questi incentivi possono essere contrastati legando necessariamente il negoziato ambientale ad altri negoziati internazionali, convenienti e stabili, come quelli commerciali.

c) Fattori intergenerazionali.

Strumenti analitici analoghi possono essere utilizzati per studiare le questioni legate alla dimensione intergenerazionale dello sviluppo sostenibile, questa volta con risultati meno incoraggianti. Un problema di sviluppo sostenibile, in un modello a generazioni sovrapposte, può essere caratterizzato come un gioco tra generazioni che si spartiscono una ‛torta' di risorse. Lo scambio tra generazioni è efficiente ed equo se lo sviluppo è sostenibile, ovvero se le risorse prodotte vengono reinvestite in un capitale che può generare egual benessere per le generazioni future. Anche in questo caso, vi sono ovvi incentivi al free riding. Il problema è però aggravato dal fatto che la generazione presente ha sempre una sorta di potere dittatoriale sulle risorse, dal momento che le generazioni future non sono presenti né rappresentate nel gioco, visto l'orizzonte temporale considerato. Se consideriamo i mutamenti climatici, ad esempio, nessuna delle generazioni attualmente presenti sarà influenzata negativamente dal danno provocato dalle decisioni di oggi.

In questo caso la soluzione raggiunta è analiticamente deludente, ma praticamente rilevante. Lo sviluppo sostenibile non può essere garantito a meno che non si introduca nel gioco un certo grado di ‛etica', consistente, in questo caso, nel fatto che ogni generazione debba includere nella propria funzione di benessere anche il benessere delle generazioni future. Soltanto in questo caso - che non si discosta dall'etica propria di molte religioni - è possibile assicurare un certo grado di equità tra generazioni (v. Beltratti e Siniscalco, 1994; v. IPCC, 1996).

d) Interessi costituiti.

Anche escludendo problemi internazionali e tra generazioni, infine, l'approccio positivo può rendere chiaramente visibili le molteplici barriere che ostacolano lo sviluppo sostenibile. La prima deriva dal ruolo degli interessi costituiti (vested interests), che attraverso l'opera delle lobbies e la ‛cattura' delle autorità distorcono a proprio favore la legislazione. Questo fattore è semplicemente un'applicazione ambientale della più ampia letteratura sui gruppi di interesse e sviluppo. Una seconda barriera è rappresentata dalle imperfezioni di mercato che ostacolano e rallentano il diffondersi delle tecnologie più favorevoli all'ambiente. Lo stesso tipo di imperfezioni ostacola l'efficacia delle politiche fiscali di ‛doppio dividendo' (v. cap. 6) e spiega i diversi risultati dei modelli econometrici top down e bottom up. Questi ultimi, di derivazione ingegneristica, non considerano le imperfezioni di mercato e conducono a stime dei costi inferiori a quelle dei modelli top down, che invece incorporano le imperfezioni e i market failures che ne derivano (v. Carraro e Galeotti, 1996).

e) Povertà.

Un ultimo fattore da considerare - particolarmente critico nei paesi in via di sviluppo, dove vive oltre l'80% della popolazione mondiale - è la povertà. La fascia di popolazione più povera che vive con un reddito pro capite inferiore ai 300 dollari l'anno (meno di un dollaro al giorno) grava in modo pesante sulle risorse naturali, prime fra tutte le biomasse, e inoltre non possiede la capacità economica di pianificare il futuro in modo ottimale a causa dei vincoli connessi alla povertà. Analoghi problemi si presentano nei paesi i cui progetti ambientali sono ostacolati da vincoli alla liquidità. Questi paesi rappresentano la quota preponderante della popolazione mondiale; per questo motivo politiche di cooperazione tecnologica da parte dei paesi industriali sarebbero davvero nell'interesse comune (v. Dasgupta, 1996).

8. La protezione dell'ambiente richiede sviluppo?

Le difficoltà e le barriere allo sviluppo sostenibile elencate nel precedente capitolo offrono un quadro poco incoraggiante del futuro del mondo. A fronte di tale situazione, vale la pena di considerare se non esistano fattori di riaggiustamento endogeno del sistema, che riducano più o meno spontaneamente la pressione sulle risorse naturali.

Grafici costruiti dall'economista americano Gene Grossman (v., 1995), su un data base di Resources for the future riferito a 137 paesi e a oltre 200 inquinanti, mettono in relazione le emissioni pro capite con il reddito pro capite (reso comparabile con opportuni aggiustamenti). I grafici ottenuti per quasi tutti gli inquinanti, che mostrano tipicamente un andamento ‛a campana', sono i primi esempi di quelle che potremmo definire ‛curve di Kuznets ambientali' (per analogia con l'approccio introdotto dall'economista Simon Kuznets negli studi sullo sviluppo). Nella fig. 2, sull'asse delle ascisse troviamo il reddito pro capite e sull'asse delle ordinate le emissioni, reflui o rifiuti pro capite; ogni punto della curva rappresenta il risultato delle osservazioni relative a un singolo paese. La forma a campana della curva indica che le emissioni pro capite sono molto limitate nelle primissime fasi della crescita; che si impennano all'aumentare del grado di sviluppo, sino a raggiungere un massimo nei paesi di nuova industrializzazione; che iniziano a decrescere per i paesi più avanzati, sino a raggiungere livelli molto bassi nei paesi maggiormente sviluppati. La regolarità è notevole e riguarda l'uso di risorse naturali (come i minerali) nonché le emissioni nell'atmosfera (ossidi di zolfo e di azoto, composti organici volatili), in acqua (metalli pesanti, coliformi) e nei suoli. In questo quadro, le uniche notevoli eccezioni sono rappresentate dall'anidride carbonica e dai rifiuti solidi urbani, che non mostrano segni di inversione di tendenza. Ciò che distingue i diversi inquinanti è il livello di reddito pro capite nel quale si osserva il punto di svolta. Ma, in generale, si può affermare che l'inquinamento pro capite si riduce quasi sempre al crescere del reddito pro capite.

Il panorama è ancora più interessante se si prendono in esame le dinamiche nel tempo. I grafici della fig. 3, costruiti da Nemat Shafik (v., 1994), mostrano che, nel tempo, nelle curve a campana il punto di svolta si sposta sistematicamente in basso a sinistra, dove l'inquinamento e il reddito pro capite sono più bassi: ciò significa che la situazione, complessivamente, migliora. Senza arrivare all'estremo di Baldwin (v., 1995), il quale sulla base dei grafici afferma che la crescita è necessaria alla tutela ambientale, questi dati consentono di dubitare delle previsioni più catastrofiche sul futuro dell'ambiente.

Naturalmente, le ‛curve di Kuznets ambientali' presentano delle correlazioni semplici; prima di trarre qualsiasi implicazione, esse devono dunque essere spiegate. A tal fine è possibile immaginare almeno tre effetti: la legge di Engel (la qualità dell'ambiente è un bene superiore, la cui domanda cresce più che proporzionalmente al crescere del reddito pro capite); il cambiamento strutturale dei sistemi produttivi (le economie, sviluppandosi, si terziarizzano e si dematerializzano, specializzandosi in beni e servizi a minore impatto ambientale); lo sviluppo di migliori tecnologie, frutto di ricerca e processi di diffusione. Tutti questi effetti richiedono investimento, in capitale fisso e in capitale umano; proprio quell'investimento che spinge lo sviluppo nei modelli economici di crescita endogena richiamati nel cap. 5.

Per promuovere la sostenibilità del prodotto occorre dunque tornare al modello di crescita e al suo messaggio principale: l'ingrediente fondamentale della sostenibilità è la sostituzione del capitale naturale con altre forme di capitale (anche umano), sostituzione che deve avvenire con l'investimento. Sul piano concreto, occorre comprendere che la sostenibilità rappresenta un problema di lungo e lunghissimo periodo, che va analizzato come una dimensione fondamentale dello sviluppo umano, utilizzando strumenti appropriati; pertanto, questi ultimi non possono essere quelli impiegati per il breve periodo, semplicemente applicati a un orizzonte temporale più esteso. Le varianti in gioco e gli effetti rilevanti sembrano altri, legati ai processi di investimento, innovazione e sviluppo.

In questa prospettiva, un posto particolare va riservato alle variabili demografiche. Se sovrapponiamo alle curve di Kuznets ambientali le curve di fertilità, che legano le dinamiche demografiche al reddito pro capite, vediamo facilmente che la crescita della popolazione è destinata a realizzarsi nei paesi che si trovano ancora nella parte ascendente della curva a campana. Se questa condizione non dovesse modificarsi, attraverso uno spostamento in basso a destra della curva di fertilità e/o della curva di Kuznets, assisteremmo a un peggioramento complessivo delle condizioni ambientali del pianeta.

L'incrocio tra variabili economiche, demografiche e ambientali ci riporta dunque, in modo nuovo, alla questione originariamente affrontata da Malthus.

9. Quanta gente può vivere sulla Terra?

La popolazione mondiale alla metà degli anni novanta si aggira intorno ai 5,7 miliardi di individui e cresce a un tasso dell'1,6% l'anno. Se il tasso di crescita rimanesse invariato, essa sarebbe destinata a raddoppiare in poco più di quarant'anni, con una dinamica che non ha precedenti nella storia. Nei diecimila anni che precedono la nascita di Cristo, il tasso di crescita della popolazione mondiale era talmente basso che ci sarebbero voluti oltre 13 secoli per un suo raddoppio. Oggi basta meno di mezzo secolo.

Negli ultimi decenni, qualche meccanismo di correzione ha iniziato a manifestarsi. Dal 1968, infatti, il tasso di crescita della popolazione mondiale ha iniziato a decrescere, per la prima volta dopo molti secoli. Ma anche estrapolando questa flessione, le previsioni delle Nazioni Unite per il 2050 stimano una popolazione mondiale compresa tra 7,8 e 12,5 miliardi. Dobbiamo quindi abituarci all'idea di un pianeta sempre più densamente popolato, con tutti i problemi di sostenibilità che ne potrebbero derivare sul piano ambientale (inquinamento), sociale (migrazioni) ed economico (povertà). Ma quante persone possono vivere sulla Terra?

La questione appassiona da molto tempo gli studiosi. La prima stima della dimensione massima della popolazione è stata tentata nel 1679 dall'olandese Antony van Leeuwenhoek, secondo il quale la Terra non poteva sostenere più di 13,6 miliardi di abitanti. Dopo questo primo tentativo, la domanda è stata affrontata da moltissimi studiosi che hanno prodotto altre valutazioni di massima, comprese tra i 4 e i 16 miliardi di persone, finché il tema è stato approfondito da Malthus (v., 1798), nel suo Essay on the principle of population. La sua tesi di fondo, argomentata con un modello teorico, è che il tasso di crescita della popolazione tende necessariamente a eccedere quello delle risorse agricole necessarie per il suo sostentamento.

Da molto tempo il pessimismo di Malthus è stato accantonato, grazie all'avvento della rivoluzione industriale e ai conseguenti eccezionali incrementi della produttività, che Malthus stesso non aveva previsto, nonostante iniziassero a manifestarsi proprio in quegli anni. Ma a quasi duecento anni dalla pubblicazione dell'Essay, lo stesso tipo di pessimismo si riaffaccia con forza sul piano ambientale. Una popolazione mondiale in procinto di raddoppiare entro pochi anni, con dinamiche più elevate nei paesi in via di sviluppo e nelle megalopoli, sembra infatti destinata a esercitare una pressione insopportabile sulle risorse ambientali e naturali del pianeta.

Questo dibattito, che è al centro dell'attenzione internazionale, si è svolto principalmente nell'ambito delle grandi conferenze dell'ONU su ambiente e sviluppo, sulla popolazione e sulle città. Nonostante gli approfondimenti, tale dibattito ha lasciato ampie aree di incertezza e insoddisfazione nella comunità internazionale. Il problema è che l'abbandono delle questioni teoriche, ritenute ormai risolte, ha ridotto la questione demografica a un affare quasi zootecnico, in cui si discute soltanto di numeri e tecniche di controllo demografico, senza porsi gli interrogativi di fondo. Come negli studi precedenti quello di Malthus, insomma, si offrono numeri e limiti piuttosto che analisi e soluzioni. E ciò crea insoddisfazione, quanto meno tra gli economisti e gli studiosi di scienze sociali che si trovano a lavorare con variabili demografiche.

Ma quanti abitanti può sostenere la Terra, dato il tipo di sviluppo economico e tecnologico? A quali livelli di benessere e di distribuzione delle risorse economiche? Con quali valori culturali, e con quali istituzioni sociali, politiche e legali? La risposta sulla dimensione massima della popolazione, affrontata tradizionalmente in via quantitativa, diventa in questa prospettiva una stima condizionata da numerosi aspetti dello sviluppo umano. E nella risposta contano i vincoli imposti non soltanto dal sistema naturale - ad esempio quelli sull'acqua - ma anche dalle scelte umane sull'uso dell'acqua, sui suoi meccanismi allocativi, sulle tecnologie di trattamento e di desalinizzazione, sul livello di benessere dei paesi poveri, e così via. Le soluzioni, come in ogni ragionamento di questo tipo, diventano molteplici; ma il pregio del lavoro è proprio quello di indurci a riflettere sulla questione nel complesso, senza cercare facili risposte, che spesso, inoltre, tendono a essere catastrofistiche. In estrema sintesi, come sostiene lo studioso americano Joel Cohen (v., 1996), non si può discutere di ‛quanti' individui può sostenere la Terra, se non si prevede ‛come' essi vivranno. Per risolvere il problema dell'acqua nelle zone aride del pianeta, continuando nell'esempio, non occorre necessariamente controllare la popolazione. Forse è sufficiente ridisegnare i meccanismi di allocazione dell'acqua, impiegandola in modo efficiente: ad esempio, anziché coltivare il mais, conviene importarlo da dove può essere prodotto a costi molto inferiori.

Da un atteggiamento millenaristico, che spesso viene usato come alibi per evitare scelte difficili, l'economia dell'ambiente spinge a un atteggiamento più critico. Nei prossimi decenni non ci troveremo di fronte a limiti assoluti allo sviluppo, ma a scelte e alternative, in cui la popolazione sarà soltanto uno degli elementi rilevanti. Questo modo di affrontare la questione è senz'altro più coerente con il modo di ragionare degli economisti, per mestiere attenti all'insieme di azioni e retroazioni che tengono in equilibrio i sistemi sociali in modo da poterne correggere le tendenze negative. Nella letteratura economica sono numerosi gli esempi di politiche economiche e fiscali rivolte a un risparmio di risorse - con azioni sul piano tecnologico, economico e sociale - le quali mostrano come grandi progressi possono essere compiuti tramite sforzi ragionevoli. La più recente rassegna dell'IPCC (v., 1996) presenta queste politiche e ne dà un giudizio dettagliato sul piano dell'efficienza e dell'equità per le varie aree del mondo. L'economia, che pure non offre soluzioni precise, ci aiuta a inserire tutti questi aspetti in un quadro coerente, dove popolazione, economia e istituzioni politiche sono tre dimensioni dello sviluppo umano.

10. Conclusioni

Quanto detto nei capitoli precedenti rappresenta una panoramica ragionata degli sviluppi più recenti dell'economia dell'ambiente. La letteratura relativa non è ancora sistematizzata in trattati o libri di testo, ma si trova per lo più in articoli di carattere specialistico. Ciò che manca sul piano teorico è un'integrazione dei vari elementi dell'analisi. Per fare un esempio, gli studi sul coordinamento internazionale delle politiche ambientali raramente considerano la dimensione intertemporale, che pure sarebbe cruciale, visto che l'inquinamento agisce attraverso gli stocks accumulati, più che attraverso i flussi di emissioni.

Progressi, invece, sono stati compiuti nell'integrazione tra economia dell'ambiente, economia industriale e teoria della crescita. Sul piano applicativo e della policy, le analisi di political economy in un mondo subottimale restano ancora minoritarie e sporadiche, a spese delle analisi normative, più precise ma meno rilevanti. Sul piano empirico, le analisi sono frenate dalla indisponibilità di dati, tanto che le semplici analisi statistiche stanno sostituendo i modelli econometrici, più ambiziosi ma bisognosi di un maggior numero di dati.

La vera sfida dell'economia dell'ambiente, tuttavia, non è teorica né empirica, ma riguarda la sua capacità di penetrare nell'opinione comune. Soltanto se i fondamenti dell'ecologia e dell'economia dell'ambiente saranno condivisi dai cittadini, essi saranno recepiti nelle politiche economiche reali. E soltanto in questo caso sarà possibile realizzare ulteriori progressi nella tutela dell'ambiente globale.

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Sviluppo sostenibile

SOMMARIO: 1. Breve storia dello sviluppo sostenibile.  2. Considerazioni critiche e approfondimenti del concetto di sviluppo sostenibile.  3. Il rapporto uomo-natura.  4. Uomo e tecnologia.  5. L'invenzione delle risorse e la sostenibilità.  6. Scienza, tecnologia e sviluppo sostenibile.  7. La città sostenibile.  8. Una definizione operativa di sviluppo sostenibile. □ Bibliografia.

1. Breve storia dello sviluppo sostenibile

Il concetto di ‛sviluppo sostenibile' - un'espressione con la quale si indica la possibilità del pianeta di sostenere con le sue risorse e il suo ambiente la specie umana - è probabilmente vecchio quanto l'uomo e ha rappresentato una delle cause fondamentali della sua evoluzione; l'intervento sulla natura si è infatti reso necessario per garantire la disponibilità di sufficienti risorse e di un ambiente vivibile. Tale necessità ha peraltro creato anche la contraddizione tra spinta alla conservazione della natura e bisogno di intervenire sempre più intensamente sull'ambiente. In ogni epoca l'uomo ha trovato limiti alla sua crescita (demografica, economica, di sicurezza, di qualità della vita) ed è stato costretto a convivere con problemi - talora spaventosi - legati alla scarsità delle risorse, in primo luogo di cibo; tale insufficienza ha spinto l'uomo, quando ancora viveva in equilibrio ecologico col suo ambiente, ad abbandonare i territori troppo poveri per cercarne altri meno ingrati. Successivamente, nella fase agricola, l'uomo è vissuto nella dipendenza dagli eventi naturali (siccità, inondazioni, parassiti, ecc.), e ancora due secoli fa - stando alle idee di Thomas Malthus e David Ricardo - si credeva che i ritorni di fasi decrescenti della produzione della terra non avrebbero consentito di sfamare una popolazione che stava crescendo geometricamente. Infine, circa venticinque anni fa, nel primo rapporto al Club di Roma, intitolato significativamente I limiti dello sviluppo, e negli interventi dei fautori della ‛crescita zero', sono state avanzate previsioni che paventavano l'esaurimento delle risorse e del cibo necessario alla popolazione umana, nonché il rischio di un degrado irreversibile del pianeta a causa dei rifiuti e dell'inquinamento derivanti dalle attività umane; in questi ultimi anni, poi, si è giunti a temere un collasso di tutto l'ecosistema dovuto all'uso eccessivo delle risorse e alla conseguente abnorme produzione di entropia e di rifiuti, nonché alle emissioni di gas serra, possibile causa di catastrofici cambiamenti climatici.

Negli anni settanta, la crescente inquietudine avvertita nelle società occidentali per le contraddizioni e gli squilibri insiti nel modello di sviluppo seguito dai paesi avanzati e per il crescere del divario economico fra il Nord e il Sud del mondo ha costituito un fertile terreno per le considerazioni e i dibattiti sullo sviluppo sostenibile: quel modello, infatti, essendo basato sull'enorme ricorso alle risorse naturali, rischiava di mettere a repentaglio l'ecosistema e la stessa possibilità di vita sul pianeta. Le previsioni sulla domanda di risorse materiali ed energetiche a medio e lungo termine indicavano come questa fosse decisamente superiore all'offerta disponibile; inoltre, le aspettative di ulteriore forte espansione dell'economia mondiale e della popolazione facevano stimare che il fabbisogno energetico complessivo negli ultimi 30 anni del secolo sarebbe stato di circa 300 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio (tep), una quantità due volte e mezzo superiore a quella dei tre decenni precedenti. Di qui le forti preoccupazioni per un'imminente scarsità fisica di risorse energetiche (petrolifere in particolare) a fronte di una domanda che cresceva a ritmo esponenziale.

Contro questa crescita portatrice di ulteriore squilibrio si levarono voci autorevoli: Barbara Ward, uno dei pionieri del movimento ambientalistico, riteneva auspicabile, per il singolo cittadino come per un'intera comunità, un aumento graduale e non improvviso della disponibilità di risorse; altri accusavano il progresso tecnico di provvedere solo ai bisogni espressi da una domanda solvibile effettiva, finendo spesso per ignorare altri bisogni che non riuscivano a esprimersi sul mercato in modo efficiente. Inoltre, i sistemi basati sull'economia di mercato - nonché quelli basati sulla pianificazione - non hanno preso in considerazione una serie di problemi (quali, ad esempio, l'esigenza di una circolazione fluida nel centro delle città, o quella di un'atmosfera pura), almeno sino a quando essi non sono esplosi in tutta la loro gravità. È insomma divenuto evidente come la domanda possa condurre a innovazioni eccessive in certi settori e insufficienti in altri, con fenomeni di deterioramento dell'ambiente, esaurimento delle risorse, e così via: in sostanza, si è compreso che ciò che è conforme all'interesse di ogni consumatore preso isolatamente può non esserlo più nei confronti dell'interesse collettivo di tutti i consumatori. L'esempio dell'enorme diffusione delle automobili nei paesi industrializzati è emblematico di quel tipo di reazione alla ricchezza improvvisa così duramente denunciato dalla Ward: eccesso di produzione e consumo, spreco, ostinazione nel continuare sulla stessa strada, profonda convinzione che l'unica strada accettabile sia quella di avere di più, sempre di più (v. Ward e Dubos, 1972).

Anche sul fronte politico cominciava a manifestarsi una diffusa preoccupazione per i problemi di ordine globale che affliggevano l'umanità. Nel 1969, in un suo celebre discorso alle Nazioni Unite, il Segretario generale U Thant espresse il suo timore di fronte ai problemi del disarmo, del risanamento dell'ambiente, di una più equa distribuzione e di un uso più razionale delle risorse, del controllo dell'esplosione demografica, e sostenne quindi l'esigenza di orientare gli sforzi verso la problematica dello sviluppo prima che tali problemi raggiungessero, nel breve volgere di qualche anno, dimensioni tali da porli al di fuori di ogni umana capacità di controllo. Questa minaccia insita nella crescita disordinata, negli sprechi di risorse e nel deterioramento ambientale era stata, del resto, la ragione che, nel 1968, aveva spinto Aurelio Peccei e alcuni suoi amici a costituire il Club di Roma e a preparare un documento capace di scuotere e sensibilizzare opinione pubblica e responsabili politici ed economici su quella che era stata definita la ‛problematica globale'. Tale documento (v. Meadows e altri, 1972) destò enorme interesse e nel giro di pochi anni fu tradotto in trenta lingue e venduto in molti milioni di copie: suscitò l'incondizionata adesione di una minoranza preoccupata (costituita soprattutto da ambientalisti), ma anche feroci critiche da parte dei politici sia di destra - che rimproveravano al rapporto il suo catastrofismo e il suo terzomondismo - sia di sinistra, per la tesi in esso sostenuta (e forse ritenuta conseguenza di un certo semplicismo interpretativo) della necessità di arrestare la crescita economica. Nello stesso anno Sicco Mansholt, allora vice-presidente della Commissione delle Comunità Europee, chiese formalmente che la Comunità desse immediato avvio a politiche di freno alla crescita economica e ai conseguenti consumi di risorse, ed espresse questo avviso in una lettera aperta all'allora presidente della Commissione, Franco Maria Malfatti. Il dibattito aperto da Mansholt fu vivace, anche se nella Comunità Europea finirono col prevalere posizioni più prudenti e meno allarmistiche. L'economista e premio Nobel olandese Jan Tinbergen sostenne, in un successivo rapporto al Club di Roma, che la possibilità di un rapido deterioramento dell'ambiente e di un esaurimento altrettanto rapido delle risorse naturali poneva in una luce completamente diversa i problemi relativi allo sviluppo mondiale (v. Tinbergen, 1976).

In realtà, nello stesso ambito del Club di Roma, il rapporto su I limiti dello sviluppo rappresentò l'apertura, più che la conclusione, del dibattito sulla natura reale dei limiti e sul significato moderno di crescita e di sviluppo. I ‛limiti' di Meadows erano visti come limiti materiali in termini di popolazione, prodotto lordo, sfruttamento dell'energia e di altre risorse naturali, e così via. Il livello di semplicità del modello era decisamente eccessivo: per esempio, il mondo era considerato come un sistema omogeneo, trascurando così le differenze fra le diverse aree geoeconomiche e geopolitiche; inoltre, nel prevedere i consumi di energia e di materie prime, il modello non prendeva in considerazione l'elasticità dei consumi rispetto ai prezzi, il grado di omeostaticità nella risposta del sistema alle leggi della domanda e dell'offerta stabilite dal mercato e la capacità del sistema tecnico-scientifico di trovare nuove soluzioni assai più adeguate alla situazione (come ha fatto il quarto rapporto al Club di Roma; v. Gabor e Colombo, 1976): errori che anche nel passato furono commessi da autori di previsioni assai noti, compreso - come abbiamo già ricordato - Malthus.

Queste considerazioni di natura generale riguardano, anche se indirettamente, il problema dello sviluppo sostenibile; in termini diretti e traducibili in indirizzi e politiche, diversi studiosi ne vedono le radici in alcuni studi degli anni settanta, in primo luogo nei lavori che hanno portato alla definizione del modello Bariloche, secondo il quale ‟i paesi sottosviluppati non possono avanzare ripercorrendo il cammino dei paesi sviluppati [...] perché questo significherebbe ripetere gli errori che hanno condotto al deterioramento dell'ambiente [...]. La soluzione deve trovarsi nella creazione di una società intrinsecamente compatibile col suo ambiente" (v. Herrera e altri, 1976). Questo stesso modello ha introdotto il concetto di ‛bisogni base', anzitutto per formalizzare il fabbisogno minimo necessario per partecipare con successo alla vita della società, e in secondo luogo per collegare il soddisfacimento di tali bisogni base con ‟la creazione di una società intrinsecamente compatibile col suo ambiente". Col rapporto della World Commission on Environment and Development (v., 1987) - noto come Rapporto Brundtlandt perché la Commissione era presieduta da Gro Harlem Brundtlandt, allora Primo ministro norvegese - viene chiaramente definito il concetto di ‛sviluppo sostenibile': tale concetto, si legge nel rapporto, ‟è quello che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri". Il modello Bariloche, il Rapporto Brundtlandt e naturalmente anche il rapporto al Club di Roma contengono il riconoscimento delle conseguenze di lungo termine dei vincoli delle risorse e dell'ambiente e riflettono la preoccupazione per le generazioni future, in primo luogo per quanto riguarda la possibilità di disporre di risorse naturali e di beni ambientali.

Il Rapporto Brundtlandt precisa, inoltre, che ‟l'umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo [...]. Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensì imposti dall'attuale stato della tecnologia e dell'organizzazione sociale [...] e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane. La tecnologia e l'organizzazione sociale possono però essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica". Questo significa che lo sviluppo sostenibile non nega la crescita, e considera anzi lecito e necessario l'intervento dell'uomo sulla natura, almeno finché si preservi, o meglio ancora si accresca, la capacità dell'ambiente di sostenere la presenza della specie umana.

2. Considerazioni critiche e approfondimenti del concetto di sviluppo sostenibile

A un'attenta analisi, l'idea di sviluppo sostenibile, al di là degli aspetti suggestivi e stimolanti, risulta vaga se non ambigua; è pertanto necessario introdurre precisazioni e approfondimenti, indicare scelte, indirizzi e comportamenti utili al suo perseguimento. Sembra pertanto opportuno esaminare alcuni degli aspetti problematici più rilevanti del dibattito sviluppatosi in questi ultimi decenni su tale argomento.

Un appunto fatto dai gruppi ecologisti più rigorosi è che l'obiettivo di attuare una strategia di utilizzo dell'ambiente e delle risorse volta a garantire anche alle generazioni future le risorse intese nel senso più ampio (alimenti, beni materiali, energetici, naturali e culturali, ricchezza e varietà di specie viventi e di territori, stabilità e capacità di autodifesa degli ecosistemi) è in realtà un obiettivo chiaramente antropocentrico, che perpetua la tradizione culturale occidentale secondo la quale l'uomo è autorizzato a garantire per sé e i suoi posteri condizioni sempre più agiate.

Lo sviluppo sostenibile sottende in realtà l'adozione di un nuovo modello di sviluppo, un'espressione vaga, quest'ultima, ma carica di forte valenza ideologica. Descrivendo modelli intrinsecamente nuovi non si va spesso oltre le enunciazioni dei principî e degli obiettivi, senza spiegare quale strada - in genere impervia - si debba seguire per realizzarli. Modelli più concreti, viceversa, finiscono per essere estrapolazioni di quanto sta avvenendo nei paesi più avanzati. In ogni caso si è fortemente influenzati dalla cosiddetta ‛psicosi spazio-temporale' secondo la quale, ad esempio, negli anni cinquanta l'Europa era indietro di vent'anni rispetto agli Stati Uniti; tale asserzione implicava che le condizioni socio-economiche di quel paese rappresentassero una sorta di meta verso cui tendere. Ma vent'anni più tardi, anche se ormai i redditi nelle due aree erano diventati comparabili, Europa e Stati Uniti avevano conservato le loro differenze. Negli anni sessanta, in piena decolonizzazione, le teorie dello sviluppo si occupavano di come - ossia con quali strumenti e in che tempi - i paesi emergenti avrebbero colmato il divario che li separava dalle economie industriali avanzate; ma il trasferimento di tecnologia fu di fatto una rozza e violenta introduzione delle tecniche dei paesi industrializzati senza alcuna preoccupazione per la loro compatibilità col contesto socio-economico-culturale in cui dovevano operare: e tutto questo sulla base dell'assunto che i paesi in via di sviluppo avrebbero seguito percorsi di crescita analoghi a quelli seguiti a suo tempo dalle economie occidentali.

La fig. 1, che riporta l'andamento nel tempo, relativo ad alcuni paesi, dell'intensità energetica (energia richiesta per produrre un'unità di PIL), mostra curve con andamenti similari, ma con massimi sempre più bassi quanto più le curve si trovano a destra, perché, col passare del tempo, si fa ricorso a tecniche e soluzioni nuove e più efficienti. Tali curve mostrano anche come nei paesi industrializzati l'intensità energetica ormai diminuisca per il processo di ‛dematerializzazione', in virtù del quale le nostre società - essendo state realizzate le grandi infrastrutture che richiedono molto materiale e molta energia, ed essendo state saturate le richieste dei principali beni durevoli - sono caratterizzate dallo spostamento della domanda verso beni meno materiali, verso servizi, insomma verso tutto ciò in cui la qualità prevale sulla quantità. I paesi in via di sviluppo si trovano invece ancora nella fase crescente della curva, proprio perché debbono creare le condizioni di base per lo sviluppo, mentre l'Europa dell'Est mostra valori eccezionalmente elevati perché i prezzi dell'energia e delle risorse naturali sono stati mantenuti artificialmente bassi e perché non sono state introdotte tecnologie per aumentare l'efficienza di uso delle risorse. Insomma, lo sviluppo non segue mai pedissequamente percorsi prestabiliti, ma non può neppure ignorare gli obiettivi per cui si attua, che sono innanzitutto quelli di creare benessere, di offrire beni e servizi, di garantire capacità concorrenziale in un mondo che si globalizza.

Mentre la convinzione di poter applicare ovunque lo stesso modello di sviluppo, ossia quella che abbiamo definito ‛psicosi spaziale', è largamente prevalente nelle culture dominanti, la ‛psicosi temporale', che tende a basarsi su improbabili estrapolazioni riguardo a un futuro lontano, è da sempre connaturata agli individui e ai gruppi sociali, in quanto esprime l'esigenza di stabilità e di certezza. Ma il futuro è nella realtà sempre diverso da come era stato immaginato, né può essere inventato, perché è il frutto di un lento e complesso lavorio al quale ognuno porta il suo contributo. Lo stile di vita cambia continuamente, e così il modo di percepire e tradurre in comportamenti i valori che cementano le società; e pure i valori mutano, anche se si può ritenere che rimangano costanti alcuni fondamenti morali.

Al giorno d'oggi, ambiente e rapporto uomo-natura comportano una psicosi temporale che finisce per condizionare l'idea di sviluppo sostenibile. L'ambiente va preservato per le generazioni future, per quanto possibile così com'è: le foreste debbono rimanere foreste, le diverse specie animali e vegetali vanno tutte conservate col loro habitat, la biodiversità diventa un patrimonio da non intaccare. Ma questa psicosi temporale tende a fare del pianeta una specie di museo permanente, anche se la natura, indipendentemente dall'intervento umano, muta continuamente e talvolta in modo drammatico, distruggendo specie e generandone di nuove, cambiando conformazione fisica e clima. Non esistono quindi una natura e un ambiente cui riferirsi, giacché l'uomo da sempre ha rimodellato l'ambiente per adattarlo alle sue esigenze. Lo stesso Rapporto Brundtlandt, definendo i concetti base dello sviluppo sostenibile, considera l'intervento tecnologico come lo strumento per rendere più produttivo l'ambiente, anche se in tal modo quest'ultimo viene trasformato. D'altra parte, poiché i costi, calcolati sulla semplice base delle leggi della termodinamica, di un eventuale ripristino dell'ambiente per eliminare le conseguenze degli interventi tecnologici, sarebbero assai maggiori dei benefici conseguiti, sarebbe molto meglio non fare mai alcun intervento: la popolazione umana sul pianeta ammonterebbe ad appena 5 milioni di persone, lo stesso numero, cioè, di quando gli uomini, prima dell'invenzione dell'agricoltura, vivevano in condizioni di equilibrio ecologico col proprio ambiente; tutti gli altri sarebbero inesorabilmente destinati a morire.

L'aspetto duale della tendenza al congelamento dell'ambiente è connesso alla scissione tra uomo e natura, come se il primo non fosse parte inscindibile della seconda: ecco, allora, non soltanto la spinta alla protezione dell'ambiente, ma le leggi in sua difesa, fino a riconoscergli una personalità giuridica. Tale atteggiamento, che rifiuta l'antropocentrismo, ha conseguenze pratiche notevoli, ad esempio in relazione alla possibilità di interventi tecnologici atti a rendere l'ambiente più produttivo oggi e per le generazioni future, e sottende una serie di presupposti filosofici riguardanti la natura e l'uomo. Sulla problematica delle relazioni uomo-natura e della giustificazione dell'intervento dell'uomo che modifica l'ambiente per adattarlo ai suoi bisogni si tornerà comunque nei successivi capp. 3 e 4.

Un punto essenziale, irrisolto nella definizione del Rapporto Brundtlandt, è cosa sia davvero la sostenibilità, ossia come la si misuri e come la si possa attuare in termini economici. Un approccio per risolvere questo punto parte dalla definizione di rendita, data da John Hicks nel 1939, come ‟la massima quantità che può essere spesa senza ridurre in futuro il consumo reale", definizione che contiene indubbiamente il concetto di sostenibilità; ma, perché essa assuma un valore generale, occorre tener conto di tutte le rendite, quelle finanziarie, quelle delle risorse materiali, dei beni e valori ambientali, dei valori etici e degli atteggiamenti psichici, e questo richiede un complicatissimo sistema di contabilità ‛verde', soggetto a interpretazioni ideologiche e quindi non oggettivo di per sé. La definizione di Hicks è spesso parafrasata come ‛il massimo consumo che mantiene intatto il capitale': questa definizione ha portato Herman Daly e David Pearce ad affermare che una condizione essenziale per la sostenibilità è la costanza degli stocks (riserve) di capitali naturali. Mantenere costanti i capitali significa una forte solidarietà intergenerazionale e quindi uno sviluppo che, come propone Pearce, si ponga degli obiettivi sociali che si possono raggruppare in un vettore i cui componenti comprendano il reddito pro capite reale e un'equa distribuzione del reddito, della salute e del cibo, dell'educazione, dell'accesso alle risorse, delle libertà fondamentali.

L'aspetto centrale che emerge dalle diverse analisi e approfondimenti del concetto di sviluppo sostenibile e del modo in cui perseguirlo, è che il pianeta e il suo ambiente devono essere considerati come un capitale che non va dissipato, ma del quale andrebbero usati i soli interessi, al di là dell'eventuale inflazione. Naturalmente vi sarebbero differenze di fondo tra risorse rinnovabili e non: queste ultime si consumano e pertanto per esse si pone il problema di come arrivare al loro esaurimento nel modo più conveniente, un problema di vecchia data che fu affrontato scientificamente, forse per la prima volta, da Harold Hotelling (v., 1931).

In conclusione, lo sviluppo sostenibile deve aumentare il benessere pro capite dell'umanità mediante un flusso regolare dei consumi, senza mai farlo regredire. A questo fine occorre valutare le risorse ambientali e il loro tasso di riproducibilità, e sostituire man mano ‛capitale naturale' (territorio, risorse materiali, specie viventi) con ‛capitale costruito', cosa che, del resto, l'uomo ha fatto sin dai tempi più lontani. Naturalmente, il capitale costruito è costituito da risorse naturali, anche se trasformate in modo tale da ottenere un loro maggior rendimento. Più elevato è il tasso di crescita dell'economia del mondo, più difficile è perseguire condizioni di sostenibilità. Il tasso di crescita dipende da molti fattori, ma perché la crescita sia sostenibile questo tasso, come ha indicato R. M. Solow, deve soddisfare certe condizioni: l'elasticità di sostituzione fra capitale naturale e capitale costruito dall'uomo deve essere maggiore di 1, ossia il capitale naturale non deve essere essenziale; il progresso tecnologico deve essere in grado di aumentare la produttività dello stock di tutto il capitale naturale disponibile, a un tasso non inferiore a quello di depauperamento dello stock stesso.

Un'attenzione particolare va allora riservata ai capitali naturali, alcuni dei quali - come le risorse materiali ed energetiche - sono quasi sempre totalmente sostituibili, anche se rimane il problema della quantità di rifiuti che un uso crescente delle risorse comporta. Per altri capitali naturali - come i territori quasi incontaminati, la diversità genetica e il clima - la situazione è assai meno chiara. Ad esempio, per quanto riguarda il patrimonio genetico riferito a specie che l'intervento umano (o quello naturale) potrebbe far scomparire, si potrebbe immaginare di costruire genoteche e banche dati per conservare ogni sequenza genetica nota e decifrata, ma rimarrebbe comunque il problema di conservare memoria anche delle strutture, estremamente complesse, degli ecosistemi nei quali le specie sono (o erano) abituate a vivere.

Tutte le precedenti argomentazioni sembrano indicare che le condizioni essenziali per realizzare uno sviluppo sostenibile siano: l'uso oculato delle risorse naturali e, in particolare, il risparmio di quelle non rinnovabili, come i combustibili fossili e le materie prime minerarie; la limitazione dei rifiuti prodotti, in particolare quelli che non possono essere riciclati, quelli tossici e quelli che, anche in piccole quantità, modificano equilibri fondamentali per la vita in generale o per singole specie (come, ad esempio, il rame disciolto nelle acque, i metalli pesanti dispersi nel suolo, i fluoroclorocarburi che contribuiscono alla distruzione dello strato protettivo d'ozono una volta immessi nell'atmosfera). Tutto l'ambiente è una risorsa finita, soltanto in parte rinnovabile: esso ha una limitata ‛capacità di carico', nel senso che riesce ad assorbire una quantità limitata di inquinanti risanando il danno subito, ma, superata una certa soglia, l'effetto è spesso irreversibile. Considerazioni analoghe valgono per la preservazione di ecosistemi e della biodiversità, così come per la stabilità del clima globale a fronte del riscaldamento causato dall'accentuazione dell'effetto serra dovuta all'intervento dell'uomo, soprattutto per l'impiego di combustibili fossili e l'immissione di biossido di carbonio nell'atmosfera.

William Nordhaus ha giustamente osservato che questo tipo di definizioni più approfondite della sostenibilità rimangono comunque molto astratte e soggette a discussioni irresolubili sia sul piano strettamente tecnico, sia su quello ideologico, un po' come accadeva per le dispute religiose medievali (per ulteriori approfondimenti e analisi, si rimanda il lettore alle opere citate in bibliografia). È invece interessante ricordare i tentativi fatti da alcuni economisti per misurare il reddito sostenibile, per capire se e come il reddito effettivo sia aumentato in questi ultimi decenni. Nel 1972 William Nordhaus e James Tobin costruirono una ‛misura del benessere economico sostenibile' per gli Stati Uniti, ma il tentativo più ambizioso e completo per allargare la contabilità nazionale è stato fatto da economisti-ecologi, come Robert Repetto e i suoi collaboratori, i quali hanno messo a punto un ‛indice del benessere economico sostenibile' che parte dalle misure convenzionali dei consumi, somma tutti i benefici realizzati e sottrae le conseguenze negative come la riduzione delle risorse, i bisogni superflui, il degrado ambientale e altre caratteristiche negative della vita moderna.

Nonostante gli sforzi fatti per dare una definizione più rigorosa e operativa all'idea di sviluppo sostenibile, molti aspetti rimangono controversi e incerti: si tratta di aspetti che rimandano sia a fatti concreti, sia a impostazioni ideologiche e atteggiamenti culturali, quali ad esempio il modo di intendere il rapporto uomo-natura, il ruolo dell'intervento umano e della tecnologia, la natura effettiva delle risorse e la possibilità di misurarle, l'entità e le conseguenze sullo sviluppo sostenibile dell'attuale e del futuro sviluppo scientifico e tecnologico. Nei capitoli che seguono si cercherà di esaminare questi aspetti nel modo più concreto possibile, dando una visione storica di quanto è accaduto in passato ed esaminando le linee di tendenza per il futuro.

3. Il rapporto uomo-natura

Il problema del rapporto uomo-ambiente (v. ecologia: Economia e ambiente, vol. X) e, in termini più filosofici, uomo-natura è connaturato all'uomo, in quanto intrinsecamente faber. Tale rapporto è stato sempre vissuto in modo ambivalente, tanto che Plinio il Vecchio affermava che ‟non è facile dire se la natura sia stata per l'uomo un genitore affettuoso o una matrigna spietata". Culture diverse l'hanno affrontato in modo diverso: si pensi ai popoli polinesiani, agli Indiani dell'America settentrionale e centrale, ai popoli di religione ebraico-cristiana (nei cui testi sacri Dio si rivolge all'uomo dicendo: ‟riempite la terra e sottomettetela, dominate i pesci [...] gli uccelli [...] e tutti gli animali [...]. Vi dò tutte le piante [...] e i frutti"). Ma ogni popolo ha in realtà modificato, anche pesantemente, l'ambiente: con l'invenzione dell'agricoltura si sono incendiate le foreste; le coltivazioni degli Indiani d'America hanno reso improduttive estese aree che sono rimaste tali sino a oggi; gli abitanti dell'isola di Pasqua hanno totalmente disboscato il loro territorio rendendolo praticamente inabitabile; invece i Maya hanno realizzato un'agricoltura sostenibile e così gli Europei e i popoli dell'Asia meridionale e sud-orientale: si pensi ad esempio all'isola di Giava coltivata a riso anche sui monti, grazie al sistema delle ‛terrazze'.

Più volte nella sua storia l'uomo ha avuto problemi con l'ambiente: dalle avversità naturali (siccità, inondazioni, malattie epidemiche) alla pressione demografica, dalla carenza di spazio che implicava la necessità di migrare, alla ricerca, talvolta disperata, delle risorse (cibo, energia, minerali, acqua). Ventimila anni fa, un periodo non così lontano, si è avuta l'ultima glaciazione, con i ghiacci che arrivavano al Mediterraneo; ma il loro successivo ritiro, circa diecimila anni fa, e l'instaurarsi di un clima mite hanno favorito lo sviluppo dell'agricoltura. Anche in epoche più recenti si sono avute cospicue variazioni climatiche: mentre tra il 1100 e il 1300 si è avuto un periodo mite, tra il 1600 e la metà del 1700 si è avuto invece un periodo freddo, noto come ‛piccola glaciazione'. L'uomo ha dovuto imparare a creare condizioni microclimatiche a lui favorevoli con le tecniche del vestiario, degli ombrelli, degli edifici e delle città, del riscaldamento e del condizionamento, o delle risaie per le piantine di riso: l'acqua delle risaie, infatti, serve non tanto per l'irrigazione quanto da termostato, proteggendo le piantine dalle gelate invernali e dal rischio di essere bruciate dal caldo estivo; in questo modo si è riusciti quasi a quadruplicare la resa per ettaro. Oggi, tuttavia, si sono ottenute varietà resistenti al gelo e al caldo torrido, cosicché si potrà fare a meno di ricorrere in modo massiccio all'acqua per questa coltivazione cerealicola: questo è un esempio di come gli sviluppi della tecnologia scientifica portino al risparmio di risorse e quindi a una riduzione dell'impatto sull'ambiente.

L'uomo si è sempre trovato di fronte a una questione ambientale, anche se questa è letteralmente esplosa nella nostra epoca e, in particolare, nelle società opulente che utilizzano larghe quote delle risorse del pianeta e intervengono pesantemente sul territorio, sull'acqua, sull'aria. Nello stesso tempo, l'esplosione demografica nei paesi in via di sviluppo - dovuta soprattutto a pratiche sanitarie più efficaci e diffuse - nonché l'esigenza di una maggiore equità nella distribuzione mondiale delle risorse hanno fatto sì che ne venissero richieste in quantità assai maggiori rispetto a quelle attuali, già molto elevate, con un impatto che rischia di coinvolgere tutto il pianeta. D'altra parte il mondo costruito dall'uomo è bello, produttivo e vivibile: basti pensare alle città e alle colline tosco-umbre, al Monferrato e alle Langhe, al bacino renano, ai Vosgi. Proprio l'esempio dell'Europa è emblematico: sfruttata da millenni, densamente popolata, con un'altissima concentrazione di attività, essa è tuttavia dotata di un paesaggio ricco e vario come nessun'altra regione del mondo, se si eccettuano i paesi, altrettanto densamente popolati, del sud e sud-est asiatico. Si tratta di un ambiente forte, privo di erosione dove si è ben costruito, salvo dove l'uomo non opera più (Valtellina, Castiglia, Appennino centro-meridionale), ed è addirittura ottimo dove l'uomo opera ancora con muretti, canali di scolo, coltivazioni, e anche ricostruzione di boschi (Svizzera, Olanda, Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige).

La ricchezza, oltre a moltiplicare la richiesta di beni e servizi e ad accrescere lo sfruttamento del pianeta, porta pure ad avvertire l'esigenza di un ambiente gradevole in senso estetico e dotato di una certa ‛naturalità'. Quest'ultima viene vista come antidoto a quel mondo ‛costruito', così comodo e apportatore di benessere, nel quale in fondo si vuol vivere, ma che è associato culturalmente alle condizioni di stress della vita quotidiana. L'uomo si forma così un'idea di natura e di naturalità che ha poco a che fare con la realtà delle cose.

Ci sono aspetti oggettivi che rendono il mondo industrializzato difficile da vivere e che invitano quindi a uscirne: il caos di molte situazioni, la congestione del traffico cittadino, le concentrazioni di persone e di attività, l'inquinamento. In realtà è la natura che è caotica; congestioni e concentrazioni possono trovare antidoti nell'informatizzazione di tutto il traffico, nella guida automatica dall'esterno dei veicoli, nel telelavoro. L'inquinamento, soprattutto quello più pericoloso, è oggetto di una crescente attenzione da parte dell'opinione pubblica, tanto che dal 1970 al 1993 i paesi dell'OCSE hanno registrato un aumento del PIL del 75%, mentre gli ossidi di azoto sono aumentati appena del 15%, quelli di zolfo sono diminuiti del 35%, i particolati nell'atmosfera del 65% e il piombo si è ridotto sostanzialmente a zero; si tratta peraltro di dati largamente ignorati. Inoltre, non solo è diminuita la quantità di inquinanti, ma in molte città industriali, come Londra e Milano, non c'è più smog (da smoke, fumo, e fog, nebbia), che fino alla fine degli anni cinquanta ha mietuto un gran numero di vittime. Insomma, il PIL sta diventando più ‛pulito'. L'inquinamento, localizzato e di tipo organico e perciò riassorbibile dall'ambiente - anche se portatore di pestilenze e altri gravi rischi - è molto antico, ma nei tempi passati si sono avuti inquinamenti anche da coloranti e metalli pesanti, come il piombo: alcuni storici sostengono che la civiltà di Roma sarebbe finita per avvelenamento da piombo, all'epoca il metallo per eccellenza, usato per rivestire cisterne e per far recipienti e condutture per l'acqua, così come in cosmetica e in medicina. Il piombo rilasciato dalle fornaci degli antichi Greci e Romani inquinava pesantemente l'atmosfera sino a distanze lontane: i ghiacci della Groenlandia sono ancora carichi del metallo di quei tempi.

L'aspetto veramente nuovo, e inquietante, è che la quantità degli interventi umani è tale (una quantità di oltre 100.000 volte superiore a quella che si troverebbe in condizioni di equilibrio con l'ecosistema), che non soltanto incide su scala locale, ma coinvolge globalmente l'ecosistema nei suoi aspetti fisici, nei meccanismi che lo regolano, nei parametri che lo caratterizzano, e nei cosiddetti global commons, cioè i beni comuni dell'umanità (aria, acqua, patrimonio genetico costituito dalle specie vegetali e animali). Ciò costringe l'uomo a ripensare il suo modo di essere sul pianeta. L'ecosistema naturale è assai complesso, con processi naturali di trasformazione della materia, di creazione di specie, di evoluzione e selezione, che hanno portato alla sostenibilità delle condizioni in cui esso si trova e che includono la lotta, la cooperazione e la simbiosi insieme a una molteplicità di elementi e aspetti diversi. Si sono instaurati cicli - del carbonio e del CO2, dell'azoto, dello zolfo, del fosforo - che coinvolgono l'atmosfera e i suoi movimenti (v. atmosfera, chimica della, vol. X), l'oceano e le sue correnti, le piogge e il suolo, la biomassa vivente, che regolano i processi dell'ecosistema e lo stabilizzano; ma ormai gli interventi dell'uomo stanno toccando questi processi stabilizzatori e rischiano di portare l'ecosistema in condizioni di instabilità e di modificare lo stesso clima planetario. In realtà il sistema che governa il clima è così complesso che è quasi impossibile, allo stato attuale delle conoscenze, valutare con sicurezza le conseguenze delle nostre azioni, come l'aumento del biossido di carbonio nell'atmosfera o la distruzione di una grossa foresta.

Al di là della rilevanza della denuncia sociale dei problemi dell'ambiente - che ha indubbiamente polarizzato su di essi l'attenzione della gente, dei responsabili politici ed economici, di scienziati e tecnici - occorre capire che cosa tale denuncia comporti e valutare quale contributo rechi alla soluzione dei problemi. L'uomo si sta preoccupando della biodiversità naturale anche se, talvolta, vuole tutelare specie destinate naturalmente a estinguersi, mostrando così quanto sia artificiale (ma non per questo condannabile) la sua pretesa naturalità. Egli si preoccupa pure della diversità culturale, dei popoli cosiddetti ‛primitivi', delle etnie che rappresentano le culture regionali: pur trattandosi di un intento lodevole, perché è indubitabile che non si possono dare voti alle culture, è anche vero che la cultura occidentale, nata in Europa, ha portato a una scienza, una tecnica e un'organizzazione sociale che stanno diventando il modello di riferimento per tutti gli altri paesi. Oggi l'uomo non solo si preoccupa di ogni individuo della sua specie e non accetta che uno solo di essi possa morire o soffrire, neppure per cause naturali come tare e malattie, ma sta estendendo tale preoccupazione anche ad altre specie (studiosi, moralisti, uomini di legge hanno recentemente proposto di estendere alle scimmie i diritti umani) e a singoli animali (il proprio cane, il proprio gatto, quella balena arenata, quell'uccello con l'ala rotta) o a singole piante. Egli, in fondo, non accetta più il comportamento della natura, che ignora gli individui e pensa alle specie e che, come afferma Voltaire, è come quei generali ai quali non importa nulla della morte di centinaia di migliaia di persone pur di perseguire il loro scopo. Il comportamento dell'uomo di oggi è il segno di come ormai prevalgano gli atteggiamenti di tipo culturale su quelli istintivi di cui ci ha dotati la natura. È nel quadro di questi atteggiamenti confusi, se non contraddittori, che il sistema socio-economico valuta circostanze, propone soluzioni - talvolta ascientifiche e antitecnologiche - e prende decisioni.

La risposta, di fronte a questi complessi problemi, dovrebbe invece essere razionale e costruttiva. Atteso che non si può annullare l'impatto dell'uomo (senza di esso, come abbiamo già ricordato, la vita sarebbe possibile per 5 milioni di persone invece degli attuali 6 miliardi), occorre innanzitutto cercare di comprendere meglio i problemi che abbiamo di fronte e attuare quegli interventi e politiche che, al minor costo, portino presumibilmente al massimo beneficio. Del resto, è soltanto la comprensione dei fenomeni che offrirà gli strumenti non soltanto per dominare gli effetti negativi dell'intervento umano, ma anche per arrivare a controllare gli stessi eventi aleatori, talvolta catastrofici, dell'evoluzione naturale, compresa quella del clima, che nel passato ha già visto periodi di temperature elevate alternarsi a periodi di glaciazione. La conoscenza dei fenomeni crea le condizioni per sviluppare tecniche capaci di adeguarsi ad essi: nel cap. 5 si cercherà di dare un'idea di come le prospettive aperte dallo sviluppo tecnologico e dal processo di dematerializzazione possano offrire risposte ai problemi di impatto ambientale più efficaci di quelle basate su approcci ideologici, volontaristici o etici.

4. Uomo e tecnologia

Molti percepiscono l'intervento della tecnologia come qualcosa di estraneo alla natura e all'uomo (e quindi di imposto) e come ineluttabile, tanto da ritenere che scienza e tecnologia dominino l'uomo. Le cose stanno però in termini molto diversi, perché la tecnologia è connaturata alla specie umana, anche se i mutamenti provocati dagli sviluppi scientifici e tecnologici possono sconvolgere comportamenti, modi di pensare e di essere, spesso radicati da lungo tempo, e interferire sulla stessa sfera etica (nascita, morte). La forza della tecnologia, la sua ‛ineluttabilità', sono dovute al fatto che essa è in grado di risolvere i problemi in modo molto efficace: possederla, quindi, dà potere, e chi la possiede ne è geloso, in passato l'ha tenuta segreta e oggi la brevetta. Tutto questo origina timori, spaventa in senso fisico e ancor più spirituale; basti ricordare il significato che ha per Heidegger la tecnica che ‟strappa e sradica sempre più l'uomo dalla terra" - intesa come il grembo naturale contrapposto all'artificialità del mondo nel quale la tecnologia fa vivere l'uomo - talché ‟oramai solo un Dio ci può salvare".

L'aspetto che più spaventa è che, mentre sembrano percepirsi limiti sempre più stringenti e drammatici alla crescita fisica della società umana, non sembrano essercene allo sviluppo tecnologico. Questa constatazione stimola un insieme di reazioni negative, fino all'ideologia del catastrofismo secondo la quale, alla fine, l'uomo con la sua tecnica provocherà la distruzione del pianeta e di se stesso. In questo quadro non si può ignorare che l'uomo vive - come ha del resto sempre fatto - in una condizione ‛schizofrenica'. Da un lato - almeno nei paesi industrializzati, ma sempre più anche nei paesi in via di sviluppo - egli dispone di risorse enormi rispetto al passato, di macchine e strumenti che gli consentono di produrre, di abitare, di spostarsi, di vivere senza fatica; è capace di controllare la propria salute al punto da pretendere che il male non lo tocchi più (si pensi alle nuove pesti, come l'AIDS, che si vuole siano debellate prontamente); ha imparato a gestire organizzazioni e problematiche sempre più complesse, talora planetarie; con la scienza e la tecnologia si procura strumenti per comprendere, dominare, costruire l'ambiente e la natura. Dall'altro lato l'uomo teme di essere dominato dalla tecnologia, ha paura che le risorse si esauriscano, percepisce gli interventi sulla natura come ‛violenti', se non addirittura come un peccato, desidera approcci più riguardosi verso tutti gli esseri viventi, non soltanto uomini, ma anche animali e piante, sia in termini di specie sia, ancor più, di individui. Come mille anni fa egli teme la prossima fine del mondo, dovuta - in questo caso - ai suoi interventi sconsiderati sulla natura. Molti pensatori hanno saputo esprimere l'essenza di queste sensazioni: tra questi Hans Jonas (v., 1979), il quale lamenta la cieca fiducia nella tecnica e rileva il fatto che ‟oggi, se l'uomo è vittima, deve sapere che lo è di se stesso", aggiungendo che oramai ‟non possiamo tornare indietro, diventare pretecnologici".

Questa ‛schizofrenia', queste contraddizioni, sono ricorrenti in tutta la storia dell'uomo e così pure la sensazione di incertezza del presente e del futuro e il desiderio di ritorno a un passato sicuro e felice, una specie di età dell'oro che non è mai esistita. In realtà l'uomo teme se stesso e le proprie conquiste, in particolare teme la società aperta che scienza e tecnologia hanno contribuito a realizzare. L'uomo non ha soltanto inventato e moltiplicato la tecnologia e le risorse, ma ha via via ricostruito se stesso dotandosi di strumenti sempre più sofisticati che ne hanno ampliato e moltiplicato muscoli e sensi, arricchito le conoscenze, la capacità di organizzazione e il senso etico. Infine, l'uomo è intervenuto sull'ambiente coltivandolo, sfruttandone le risorse, modificandone l'estetica, il clima, gli equilibri, la funzione d'uso. Uomo e ambiente sono così diventati sempre più ‛artificiali', ossia artefatti dell'uomo: è questo essere artificiali, che permea oramai tutti gli uomini del pianeta e sempre più anche il loro ambiente, qualunque cosa essi facciano o pensino, che fa rimpiangere una ‟innocenza perduta per sempre", come dice Jonas.

Per comprendere funzione e ruolo della tecnologia, occorre capire come e perché l'uomo è un essere tecnologico. Come abbiamo già detto, la tecnica ha sempre affascinato e spaventato l'uomo per il potere che conferisce a chi la possiede, in quanto consente di modellare la natura, di creare strumenti e ricchezza, di distruggere. Nel mito, essa è stata dapprima considerata un dono degli dei, soprattutto nelle religioni politeiste, ma in seguito l'uomo si è appropriato, teoricamente e culturalmente, della tecnica. I Greci hanno attribuito a Efesto la lavorazione dei metalli, a Demetra l'invenzione del grano, ad Atena quella dell'aratro e più in generale delle attività pratiche, innanzitutto la tessitura. L'aspetto più sconvolgente del mito greco sulla tecnica è rappresentato da Prometeo che dà il fuoco agli uomini rubandolo agli dei. In seguito, nel mito, è l'uomo che si appropria della tecnica, cioè della sua creazione, diventandone il padrone, piegandola ai suoi fini: Dedalo è l'emblema di questo modo di pensare. Le tecniche dell'uomo diventano sempre più efficienti ed efficaci, sempre più presenti nelle più diverse attività e anzi occasione e stimolo di nuove attività; diventano più complesse e interagenti tra di loro, riguardano non solo gli strumenti, le macchine, gli oggetti da usare, le costruzioni, ma anche l'organizzazione: un esempio fondamentale di ‛tecnologia immateriale' della quale gli antichi Romani furono maestri.

L'uomo si è presto reso conto che la tecnica era determinante nel concepire il mondo, nel condizionare le relazioni tra uomini e gruppi sociali, nel fare cultura, e che aveva, in un certo senso, caratteri di ineluttabilità. Gli antropologi hanno cercato di indagare sulle doti naturali che fanno dell'uomo un essere tecnologico: secondo la scuola di André Leroi-Gourhan (v., 1964) e Yves Coppens, mentre altre specie animali sono naturalmente dotate di ‛strumenti tecnologici' (pelo, unghie, denti), quella umana è invece costretta, per sopravvivere, a esteriorizzare le sue doti creando opportuni strumenti. La tecnica non sarebbe però cominciata nel momento in cui Homo habilis ha iniziato a creare i suoi strumenti e poi a elaborare il concetto di strumento e quindi di tecnologia: la ‛tecnicità' sarebbe il presupposto stesso di ogni tipo di vita sulla terra. Così il comportamento dei pesci, nelle azioni che assicurano loro la sopravvivenza (nuotare, minimizzare l'attrito), è ‛tecnico', ed è ‛tecnica' la capacità dei primi anfibi di adattarsi alla vita terrena; tecnica, infine, è la conquista della stazione eretta e la capacità di controllare l'ambiente mediante strumenti. La tecnicità sarebbe dunque un fatto intrinseco alle specie animali, ma, se si tiene presente l'evoluzione del pianeta - con la formazione delle rocce, dei continenti e con la continua trasformazione della materia inanimata, oltreché di quella vivente - dovuta a un insieme di processi chimici, fisici e biologici tesi a stabilire equilibri, e a distruggerli, tra le diverse componenti, allora si potrebbe addirittura dire che è tutta la natura ad avere un comportamento tecnico.

Lo sviluppo della tecnica umana non sarebbe altro che un processo di successive ‛esteriorizzazioni' delle capacità zoologiche, nel senso che l'uomo, per sopravvivere, avrebbe portato progressivamente fuori del suo corpo ciò che gli animali debbono invece portare sempre entro loro stessi. Il concetto di tecnica e tecnicità come elementi zoologici porta con sé il fatto che l'adattamento all'ambiente avviene se l'organismo risulta funzionale, cioè se riesce tecnicamente ad adattarsi e ad adattare l'ambiente alle sue esigenze vitali. Ciò può accadere in diversi modi e mediante compromessi, ossia modificazioni reciproche della specie e dell'ambiente: in accordo con Karl Popper e con John Eccles, la riuscita biologica di una specie sarebbe assicurata in quanto tecnicamente appropriata. La peculiarità umana conduce allora l'uomo a esteriorizzare il suo essere in quanto Homo sapiens, frutto, cioè, di una determinata linea evolutiva che sarebbe iniziata all'incirca 3 milioni di anni fa. L'uomo ha dapprima esteriorizzato le sue capacità tecnico-fisiche: postura (stazione eretta) e modo di muoversi, funzionalità della mano e dei muscoli che diventano arnesi e macchine, linguaggio (gesto e parola). In seguito ha esteriorizzato le sue capacità cerebrali o intellettuali, come conseguenza evolutiva del suo comportamento sociale. Infine l'uomo ha esteriorizzato la sua memoria sociale, un passaggio molto importante nell'evoluzione umana, che formalizza, in un certo senso, un fatto generale in natura e cioè che la priorità evolutiva non appartiene al singolo, ma alla specie che, nel caso dell'uomo, va ormai intesa come etnia.

Il solo strumento che possiede l'uomo per vivere sul pianeta è allora la tecnologia; la presa di coscienza della problematica ambientale richiede che la specie umana ricorra ancora una volta alla tecnologia per attuare lo sviluppo sostenibile, ossia quel tipo di sviluppo capace di garantire risorse e condizioni favorevoli a tutta la specie umana non solo oggi, ma anche per il tempo a venire, e quindi per perpetuare lo sviluppo. Per realizzare questo obiettivo la tecnologia deve, come si è appena detto, risultare funzionale all'obiettivo stesso e, per questo, deve adattarsi all'ambiente e adattare l'ambiente alle esigenze dell'obiettivo. Insomma, lo sviluppo sostenibile non ha che una strada: quella dell'innovazione tecnologica mirata e dell'ulteriore intervento sull'ambiente per renderlo più produttivo e adatto a sostenere la specie umana.

5. L'invenzione delle risorse e la sostenibilità

Il tema delle risorse è stato già affrontato ampiamente in questa opera (v. risorse naturali, vol. VI) e pertanto qui ci si soffermerà soltanto su alcuni aspetti rilevanti per lo sviluppo sostenibile. Siamo talmente abituati a considerare le risorse un dato della natura, con la terra concepita come uno scrigno che contiene quelle non rinnovabili in quantità finita e scarsa, e con l'uomo che le sfrutta col rischio di esaurirle, che ci risulta difficile ribaltare tale concezione. In realtà, essa è l'espressione di un modo di pensare primitivo: è l'uomo, infatti, che ha inventato le risorse, in un processo di invenzione che ancora continua ed è destinato a perpetuarsi, dato che - a parte la quantità ovviamente finita di materia della quale è costituito il pianeta o anche solo la sua crosta, ma comunque incommensurabilmente maggiore di quella delle risorse che abbiamo finora usato e probabilmente useremo nel tempo che resta all'umanità - le risorse potenziali disponibili possono essere ritenute sostanzialmente illimitate.

L'uomo, per vivere, ha sempre avuto bisogno di ricorrere alle risorse offerte dal pianeta: territorio, acqua, aria, cibo, materie prime per ottenere i più svariati materiali, energia. Le risorse sono servite e servono all'uomo per soddisfare una serie di esigenze diverse: mangiare, vestirsi, abitare, sviluppare le attività economiche e sociali, produrre manufatti, mettere a punto sistemi di trasporto, garantirsi la salute, realizzare fini culturali e ricreativi. Lo sviluppo della società umana, in senso fisico e spirituale, è indissolubilmente legato alla disponibilità di risorse specifiche. Per questo motivo, storicamente, le risorse hanno rappresentato l'aspetto forse più rilevante e vincolante per la nostra specie, nel senso che la loro disponibilità ha condizionato le possibilità di sviluppo economico e culturale e il numero stesso di individui in grado di vivere sul pianeta. Società umana da un lato e quantità e qualità delle risorse disponibili dall'altro sono andate avanti di pari passo, tanto che la storia delle risorse finisce per essere un modo di descrivere e comprendere quella dell'uomo. Dagli albori della preistoria a oggi si è via via profondamente modificato il concetto stesso di risorse e il modo di utilizzarle, la natura dei problemi da affrontare, il centro degli interessi: mentre per l'uomo primitivo quest'ultimo era rappresentato dal territorio come area vitale per la sua sussistenza - e quindi da difendere, analogamente a quanto fa qualsiasi altra specie animale - oggi è l'ambiente che sta diventando il centro degli interessi umani: un ambiente inteso come insieme fisico e culturale, che non soltanto offra all'uomo risorse fisiche, ma che sia anche sano, esteticamente valido, spiritualmente in sintonia col suo modo di pensare e di concepire l'universo. Il rapporto uomo-risorse ha presentato diversi stadi, da quello della raccolta a quello della coltivazione, nato con lo sviluppo dell'agricoltura e culminato nel processo di industrializzazione, per giungere allo stadio attuale di creazione vera e propria, che si avvale della tecnologia scientifica, della scienza dei sistemi e della complessità.

L'uomo ha costruito le sue risorse sviluppando tecniche: l'agricoltura ha consentito di coltivare, e non solo di raccogliere, gli alimenti. Se i materiali hanno segnato la storia dell'uomo - età della pietra, del bronzo, del ferro - ciò è avvenuto anche con le ceramiche, il legno, le pelli, la lana, il cotone, il lino, le fibre sintetiche, le materie plastiche, le gomme, il vetro, i compositi e così via. Allo stesso modo l'energia ha una lunga storia, dalla legna da ardere e dal fuoco alla forza muscolare degli animali, all'acqua, al vento, al carbone, al petrolio, al gas, all'energia nucleare, alle nuove fonti rinnovabili. Tutte le risorse erano materie del pianeta, ma occorreva ‛inventarle', ossia trovare le tecniche adatte per il loro sfruttamento: quelle agricole hanno richiesto di conoscere i cicli naturali relativi ai vegetali e il modo di sostenerli con la concimazione, l'irrigazione, la lotta ai parassiti, la rotazione delle colture; sono occorse tecniche complesse e sofisticate per lavorare i vari materiali come la pietra o il legno, per utilizzare argille e ceramiche, fibre tessili e metalli (per questi ultimi si pensi alla coltivazione delle miniere, alla riduzione del minerale a metallo, alla fusione, alligazione, tempera, forgiatura, imbutitura, laminazione, inchiodatura, saldatura, sinterizzazione, ai trattamenti superficiali); la storia dell'energia ha visto la conquista del fuoco, l'addomesticamento degli animali da lavoro, l'invenzione dell'aratro, della slitta, del carro, l'uso della ruota per il trasporto, la manifattura e le cadute d'acqua, i mantici per le fucine, i mulini a vento, le tecniche di trivellazione, i forni e le caldaie, gli oleodotti e i gasdotti, le perforazioni in mare aperto.

Le nuove risorse, quelle che l'uomo ha oggi imparato a sviluppare, si basano su avanzate conoscenze scientifiche. L'agricoltura - che ha saputo rinnovarsi più volte nei millenni aumentando la sua produttività più della popolazione (negli ultimi 100 anni nei paesi industrializzati la produttività agricola è aumentata di ben 100 volte) - è oggi tra le tecnologie più sofisticate a disposizione dell'uomo e presenta ancora enormi prospettive soprattutto per merito delle biotecnologie. Queste ultime consentiranno lo sviluppo di un'agricoltura totalmente nuova: sono state inventate specie più produttive, resistenti ai climi aridi, all'acqua salmastra, ai climi freddi (si sta, per esempio, studiando l'introduzione, nel DNA di alcuni cereali, del gene che consente a certi animali di sopravvivere nei climi artici); sono stati trovati nuovi modi di fertilizzazione, quali la fissazione diretta dell'azoto atmosferico; con la lotta biologica integrata ai parassiti si è riusciti a ridurre o eliminare il ricorso ai pesticidi chimici inquinanti; sono stati creati ecosistemi autocontrollati che limitano il bisogno di interventi esterni (fertilizzanti e pesticidi chimici, acqua, energia). Le biotecnologie, inoltre, utilizzando solo modestissime quantità di risorse materiali ed energetiche potranno essere impiegate per la salute, lo sfruttamento delle risorse, il risanamento di aree inquinate, l'industria (a partire da quella chimica).

La scienza dei materiali consente di rendere più plastici i ceramici, per sostituire i metalli, e siccome i ceramici sono composti del silicio, uno dei principali costituenti della crosta terrestre, le risorse materiali utilizzabili sono destinate ad aumentare enormemente; si inventano fibre di vetro, di carbonio, aramidiche (il kevlar) e di boro con cui rinforzare plastiche, metalli, ceramici, ottenendo compositi leggeri ed eccezionalmente resistenti (utilizzati sempre più frequentemente in avionica, per auto, carrozze ferroviarie, barche, containers, attrezzi sportivi); si approntano materiali per l'elettronica - primo fra tutti il silicio monocristallino - il cui sviluppo ha richiesto, oltre alla conoscenza del comportamento degli elettroni e delle impurezze nella materia, lo sviluppo delle tecniche di iperpurificazione e di crescita dei grandi cristalli perfetti (è alla creazione della microelettronica, peraltro, che si deve l'esplosione dell'informatica). Un discorso analogo vale per l'energia: lo sfruttamento dell'energia nucleare ha richiesto la conoscenza della costituzione della materia e dei nuclei atomici, e lo sviluppo di processi controllati delle reazioni di fissione a catena dei nuclei di uranio; l'energia solare fotovoltaica ha richiesto lo sviluppo di conoscenze analoghe a quelle che hanno portato alla microelettronica, e le celle solari a base di film di silicio amorfo consentiranno di ottenere fra qualche decennio energia elettrica dal Sole in modo economico; la fusione nucleare controllata punta a riprodurre sul nostro pianeta le condizioni del Sole e delle stelle, nelle quali nuclei di atomi leggeri (ricavati dall'acqua e dal litio) fondono liberando enormi quantità di energia. Queste tre tecniche inventano letteralmente le risorse e, inoltre, non richiedono - o lo fanno in minima parte - il ricorso continuo a grandi quantità di materie prime. Sviluppi notevoli si attendono anche dalle tecnologie per sfruttare le energie rinnovabili: vento, maree, calore delle profondità terrestri, biomasse (con nuove colture vegetali altamente produttive). In futuro l'uomo userà l'energia con la massima efficienza: sarà in grado di produrre tutta quella necessaria e, grazie alle nuove fonti rinnovabili e alle tecnologie per la produzione di energia nucleare in elevatissime condizioni di sicurezza, minimizzerà gli squilibri ambientali legati al consumo di quantità di energia maggiori di quelle oggi richieste.

Tutte le predizioni relative a future scarsità di cibo sono state regolarmente sovvertite dagli sviluppi delle tecniche agricole; la carenza di cibo si verifica nell'ex Unione Sovietica, in Africa e in qualche caso addirittura nel Sudamerica, ossia in aree che producono enormi quantità di biomassa e quindi, potenzialmente, di cibo. L'Europa occidentale, densamente popolata e con un territorio agricolo sfruttato da millenni, da qualche decennio ha un problema di surplus agricolo, tanto da essere stata costretta a mettere in atto politiche di limitazione della produzione che nei prossimi anni potrebbero essere riviste per esportare cibo nei paesi non ancora in grado di utilizzare tecniche altrettanto produttive; dal 1996 negli Stati Uniti il mais e la soja tradizionali cominciano a essere sostituiti da varietà transgeniche resistenti a insetti e ad altre avversità, che hanno una produttività maggiore del 15% e consentono un risparmio di fitofarmaci del 70%; nel sud e sud-est asiatico la rivoluzione verde - nonostante alcuni aspetti indubbiamente negativi legati alla meccanizzazione, all'uso intensivo di prodotti agrochimici e di acqua per irrigazione - è riuscita nell'ultimo quarto di secolo a far sì che paesi densamente popolati, nei quali vive quasi la metà della popolazione mondiale, si trasformassero da forti importatori di cibo in paesi autosufficienti se non esportatori, dove la fame endemica di un tempo, nonostante tutte le previsioni contrarie, è stata sconfitta. Ancora oggi le previsioni del Worldwatch Institute circa una imminente carenza di cibo, specie di riso - attribuita anche al ristagno di nuovi sviluppi tecnici -, sono smentite dai fatti e, in particolare, dai risultati della ricerca dell'International Rice Research Institute (IRRI) di Manila, che ha trovato nuove varietà di riso le quali hanno una produttività, a parità di input, molto superiore a quelle sinora coltivate e anche un'ottima resistenza ai fattori climatico-ambientali.

Oggi una corrente dell'ideologia verde spinge verso il ritorno a tecniche agricolo-biologiche tradizionali, con l'obiettivo di ridurre l'impatto negativo sull'ambiente e di dare cibi sicuri alla gente; tali tecniche, tuttavia, non solo riducono la produttività della terra, ma in alternativa a cibi indubbiamente inquinati da prodotti chimici di sintesi, ne offrono altri che, proprio perché non vengono usati conservanti chimici, sono di difficile conservazione; per di più questo tipo di prodotti contiene, in quantità molto superiori ai residui degli antiparassitari chimici, sostanze naturali velenose, mutagene se non cancerogene, prodotte dalle piante in grado di resistere ai parassiti. Di fronte all'inevitabile raddoppio della popolazione mondiale, questo tipo di agricoltura richiederebbe un'analoga crescita del terreno da coltivare, il che significherebbe l'inevitabile distruzione di quanto resta delle aree ‛naturali' del pianeta, delle rimanenti grandi foreste pluviali equatoriali e di quelle siberiane. La soluzione non può allora che essere un'agricoltura ad altissimo contenuto scientifico-tecnologico, assai più produttiva di quella attuale, per tenere il passo con l'aumento della popolazione e per soddisfare la richiesta di miglioramento della dieta nei paesi più poveri: tutto questo richiederà in un primo tempo sistemi chimico-meccanici e di irrigazione, e si tradurrà quindi in stress ambientale; ma in seguito anche queste tecniche saranno, in misura sempre maggiore, coadiuvate e sostituite dai nuovi sviluppi della moderna biotecnologia e della genetica vegetale.

L'uomo, oltre a cibo, energia e materiali, ha bisogno di altre risorse, come l'acqua, il territorio e l'ambiente, l'aria, il clima. L'acqua, che è una risorsa particolarmente importante della quale in molte parti del pianeta comincia a sentirsi la scarsità, è impiegata per oltre due terzi in agricoltura ed è minacciata da molte forme di inquinamento. La deviazione di corsi d'acqua da aree che ne sono ricche ad altre che ne sono povere, il reperimento di acque dolci sotterranee, la ‛cattura' e il trasporto di iceberg, la dissalazione di acque salmastre e marine, rappresentano altrettante modalità di creazione di nuove risorse idriche; l'irrigazione a goccia, comandata da sensori che controllano il grado di umidità delle radici ed erogano l'acqua solo quando ce n'è bisogno, e lo sviluppo di nuove specie vegetali capaci di resistere meglio all'aridità, riducono i bisogni d'acqua in agricoltura; processi di purificazione e riciclo dell'acqua, che sempre più si avvalgono di metodi biologici di depurazione, consentono di mantenere l'acqua pulita. Per rendersi conto della complessità della gestione delle risorse nel perseguimento dello sviluppo sostenibile, il caso dell'acqua in agricoltura è emblematico: la risaia, che oggi richiede moltissima acqua, potrebbe, come si è visto, richiederne molto meno in futuro; ciò porrebbe tuttavia il problema della possibile scomparsa di quegli ambienti umidi che hanno sostituito boschi planiziali, paludi e acquitrini - come nella piana del Po - costituendo un rifugio per molte specie animali e vegetali legate all'ambiente acquatico. L'aumento della produttività agricola, una gestione integrata del territorio che ottimizzi le relazioni città-infrastrutture-territorio (v. cap. 7), la ricostruzione di boschi produttivi e la produzione di biomasse energetiche, consentiranno di disporre di sufficiente territorio e di un ambiente sano. Il processo (in fase di attuazione) di contenimento e di riduzione delle emissioni nell'atmosfera, comprese quelle di CO2, col ricorso a fonti energetiche rinnovabili e a quella nucleare; la diffusione, in un domani non lontano, dell'auto elettrica nelle città; il ricorso a una corretta distribuzione temporale e geografica degli inquinanti, l'individuazione di trappole e sostanze (per esempio vegetazione) in grado di bloccarli e trasformarli; l'impiego di specie vegetali e animali più resistenti agli inquinanti: tutto ciò permetterà di garantire aria, acqua, suolo sufficientemente salubri e un clima accettabile.

6. Scienza, tecnologia e sviluppo sostenibile

L'acquisizione di esperienza a ritmi sempre più rapidi sta portando a un processo esplosivo che Max Weber ha chiamato ‛modernizzazione'. La rivoluzione tecnologica è il fattore determinante della nostra società del cambiamento: non si tratta soltanto delle tecnologie di punta - microelettronica e informatica, nuovi materiali, biotecnologie, robotica e intelligenza artificiale - ma di un gran numero di tecnologie di importanza critica per i più diversi settori manifatturieri, nuovi e tradizionali, nonché per le infrastrutture e i servizi. Il gran numero di tecnologie nuove o rinnovate sta rimettendo tutto in discussione, e con una rapidità alla quale non eravamo abituati. Ogni tecnologia, interagendo con altre nuove o vecchie, moltiplica le opportunità di innovazione: assistiamo a processi di ‛fusione tecnologica' dovuti all'intersezione di settori diversi (la meccanica e l'informatica, ad esempio, danno origine alla ‛meccatronica'); a fenomeni di ‛invasione', con le scoperte di un settore che entrano in altri (penna a sfera, Polaroid, orologio digitale), e di ‛sinergia' fra settori (ad esempio, di beni di consumo e dei relativi beni di investimento); infine, a fenomeni di ‛innesto' e ‛miscelazione' (blending) fra le più diverse tecnologie.

Aumentano continuamente produttività, prestazioni, efficienza. Un esempio è il rendimento energetico delle macchine: nella prima macchina a vapore di Newcomen, del 1700, era di appena l'1%; era salito al 2-3% in quella inventata da Watt, che consentiva di moltiplicare per 8 la produttività del lavoro manuale; oggi, il rendimento delle macchine termiche è in alcuni casi superiore al 60%. Il rendimento energetico nella produzione di luce è passato da valori dell'1% del 1700, all'1% della lampada a incandescenza di Edison alla fine del secolo scorso, a oltre il 50% di quelle più efficienti di oggi. La tecnologia è sempre più strettamente connessa alla scienza, e questo significa che gli approcci empirici e approssimati saranno sempre meno in grado di competere con quelli assai più efficaci e produttivi delle tecniche scientifiche: risulterà sempre più limitato lo spazio per i praticoni, per i beni senza tecnica, per i servizi dietro i quali non c'è un forte pensiero organizzativo, per le soluzioni strettamente ‛ideologiche', non soltanto perché non saranno in grado di offrire soluzioni efficaci, ma perché saranno anche più costose.

L'uomo ha copiato e continua a copiare la natura per creare le sue tecnologie, o comunque sfrutta comportamenti e leggi naturali. La ricchezza della natura e del suo modo di operare ha suggerito indubbiamente come realizzare molti strumenti e manufatti, dai bastoni, alle pietre taglienti, ai nodi, alle fibre, e così via; basti solo pensare a una macchina bellica quale l'ariete, certamente ispirata all'animale e al suo comportamento. La ‛bionica' - ossia la scienza che traduce in tecniche i modi di operare e le soluzioni perfezionate dai processi evolutivi della natura - è sempre stata una fonte di suggerimenti e di idee per l'operare dell'uomo. Si tratta di una tecnologia che richiede un gran numero di tecniche, le più disparate, e che coinvolge una miriade di settori applicativi. Bastano alcuni esempi per illuminare estensione e ruolo della bionica oggi, dalle microfibre iperresistenti che imitano i fili prodotti dai ragni, al movimento degli arti di insetti, granchi e altri animali preso a modello per realizzare gli arti dei robot, al volo degli uccelli studiato per migliorare gli aerei, alla forma degli squali e alla struttura della loro pelle imitate per realizzare navi e sottomarini che oppongono una resistenza ridotta alla navigazione, al modo di muoversi dei lombrichi riprodotto per sviluppare macchine per lo scavo di gallerie, al naso del dromedario che umidifica l'aria che respira nel deserto imitato per realizzare la climatizzazione dell'abitacolo di un'automobile.

Ma l'uomo inventa anche un numero incredibile di nuove tecnologie sempre più scientifiche. Negli ultimi decenni è stata dapprima rivoluzionata l'area delle macchine, col cambiamento di tutta l'industria manifatturiera: questa trasformazione potrà considerarsi conclusa quando qualsiasi attività fisica, anche domestica, sarà effettuata da macchine flessibili ed efficienti in grado di sostituire quasi completamente l'uomo. Successivamente, l'esplosione dell'informatica, la sua convergenza con le telecomunicazioni e la digitalizzazione di tutti i supporti mediali hanno dato l'avvio alla società dell'informazione, destinata a scardinare le strutture organizzative e le consuetudini delle nostre società, a sostituire l'uomo nell'adempimento delle attività burocratiche e ripetitive, a privilegiare gli aspetti immateriali dell'economia su quelli materiali. La terza area coinvolta è quella delle biotecnologie, che rappresenta la strada attraverso la quale l'economia di domani potrà sfruttare in pieno i meccanismi e le straordinarie proprietà del vivente, così da consentire un ulteriore balzo in avanti, senza che questo debba risultare rischioso per la nostra specie e per tutto l'ambiente. Le biotecnologie del futuro saranno rivoluzionarie: ad esempio, il problema della biodiversità non sarà più tale quando saranno mappati i genomi delle specie viventi (e descritti gli ecosistemi nei quali esse vivono) e per riprodurle basterà sintetizzare le sequenze molecolari del loro DNA.

Altre tecnologie in fase di sviluppo sono, ad esempio, la realtà virtuale, che consente di effettuare qualsiasi operazione senza supporti fisici: dall'apprendimento della guida di treni, aerei, macchine rischiose, alla progettazione e sperimentazione di qualsivoglia struttura o funzione (dalle macchine al trasporto urbano), dallo sport al turismo (fra l'altro questa sarà una necessità in un mondo più popolato e più ricco, perché è materialmente impossibile che un numero di persone che tende a crescere smisuratamente possa visitare un luogo, come ad esempio la cappella Sistina, o prendere visione di un oggetto a prescindere dai pericoli di deterioramento dei beni visitati). Un'altra tecnologia importante è la superconduzione, che trova già diverse applicazioni, ma in tempi ravvicinati è destinata a rivoluzionare il settore dell'energia, con generatori e motori elettrici più efficienti e di dimensioni notevolmente ridotte, con cavi sottili e senza dispersioni per il trasporto dell'elettricità, con sistemi di stoccaggio dell'energia elettrica a basso costo; e il settore del trasporto, con treni e veicoli a levitazione magnetica, velocissimi e ad alta efficienza energetica, e con navi di nuova concezione, oltre a moltissime altre applicazioni. Si possono infine ricordare gli straordinari sviluppi dei materiali, dovuti alla comprensione scientifica della loro struttura e delle loro proprietà: questi materiali, oramai realizzati su misura per le specifiche applicazioni prendendo in considerazione tutto il ciclo di vita del prodotto, presentano caratteristiche tali da permettere continue riduzioni delle dimensioni dei manufatti (quando tali dimensioni non siano necessarie), da esaltare le loro prestazioni e quelle di chi li impiega (si pensi soltanto ai nuovi attrezzi sportivi), da assolvere direttamente funzioni complesse (è questo il caso dei vetri e delle vernici per pareti e superfici autopulenti).

La tecnologia scientifica sta letteralmente ‛dematerializzando' l'economia, nel senso che, a parità di PIL, si usano sempre meno risorse materiali ed energetiche da parte dei paesi industrializzati. I motivi di questa evoluzione sono molteplici e ampiamente conosciuti. Innanzitutto le prestazioni sempre più elevate di materiali e manufatti e le progettazioni sempre più rigorose: ad esempio, una diga a doppia curvatura, che scarica sulla base e i fianchi della montagna le sollecitazioni, richiede una quantità di cemento e acciaio 50 volte inferiore a quella neccessaria per una diga a gravità; oppure, le fibre ottiche, che pesano 30-40 volte meno dei cavi di rame, convogliano un numero di comunicazioni un milione di volte superiore. Alla dematerializzazione contribuiscono in modo cospicuo anche miniaturizzazione e iperminiaturizzazione o nanotecnologia, che puntano a ridurre ai minimi termini le dimensioni dei manufatti. Un altro contributo rilevante è dato dalle tecnologie ‛immateriali': tra queste ricordiamo la ‛funzionalizzazione' delle produzioni, ossia la trasformazione dell'industria da mera fornitrice di prodotti a fornitrice di soluzioni per assolvere funzioni (compiendo, ad esempio, il salto concettuale da produzione di farmaci a industria della salute, da produzione di fertilizzanti a industria della fertilizzazione e del sostegno all'agricoltura), trasformazione che permette di sostituire dei prodotti oggi consolidati con nuove tipologie di servizio; il ricorso a organizzazioni più efficienti, adattive e flessibili, come il JIT (Just In Time), che consente di produrre solo quello che serve, quando serve, eliminando sprechi, invenduto, magazzini; il benchmarking e il TQM (Total Quality Management), che puntano alle soluzioni migliori in termini di sistemi di produzione e di prodotti; il lean manufacturing, che porta a strutture produttive più leggere; il reengineering, che riorganizza l'impresa eliminando tutto ciò che non crea valore aggiunto; lo sviluppo di soluzioni immateriali come l'elaborazione matematica dei dati (analisi di Fourier, frattali, ecc.), che consente di moltiplicare di oltre un milione di volte la quantità di comunicazioni convogliate da un supporto fisico; il ricorso all'informatica chimica, fornita di enormi potenzialità, se si pensa che una molecola (ormoni, messaggi del sistema nervoso o di quello immunitario) può mandare ordini complessi e precisi non solo negli esseri viventi, ma anche in impianti e servizi, al fine di governarli.

Oggi, poi, la conoscenza del comportamento dei sistemi naturali permette un loro impiego sempre maggiore a sostegno di ambienti modificati e processi utili alla vita dell'uomo, riducendo così il ricorso a interventi onerosi in termini di risorse e di sforzi. In passato, infatti, le tecnologie hanno soprattutto cercato di porre rimedio a situazioni insoddisfacenti se non ostili: abiti per difendersi dal freddo o dal caldo, case per proteggersi dalle intemperie, agricoltura che sconvolge gli ecosistemi naturali (su un terreno dove convivono alcune migliaia di specie vegetali e animali si cerca di farne restare una sola) per avere il cibo, medicine che combattono stati morbosi, batteri, virus. Al contrario, oggi, in agricoltura, invece di distruggere completamente l'ecosistema, si cerca di selezionarlo e modificarlo in modo che rimangano quelle specie capaci di proteggere le colture che interessano l'uomo, riducendo così il disequilibrio imposto all'ambiente e il ricorso a pesticidi e fertilizzanti; in medicina, invece, si sta cercando di passare dalla produzione di farmaci intesi a contrastare direttamente malattie e agenti patogeni, a quella di altri rimedi e interventi atti a rafforzare il sistema immunitario degli organismi. Si tratta di un cambiamento di strategia che, mutatis mutandis, si ritrova in un numero crescente di interventi, da quelli per la tutela dell'ambiente a quelli tesi a minimizzare l'uso delle risorse, con l'obiettivo di non contrastare i fenomeni naturali, ma di favorirli per esserne favoriti.

Infine, si sviluppano le conoscenze sui sistemi complessi, sui fenomeni aleatori, sulle condizioni di stabilità e instabilità: si cerca di gestire i nostri interventi attraverso una migliore comprensione della natura e di controllare gli stessi fenomeni naturali in modo da mantenere e sostenere condizioni favorevoli. Il caso del clima è emblematico in proposito: sappiamo che in passato, per cause naturali, si sono avute drammatiche e subitanee evoluzioni del clima, mentre oggi sussiste il rischio di un pericoloso riscaldamento del pianeta dovuto all'immissione nell'atmosfera di gas serra (biossido di carbonio, metano, fluoroclorocarburi); il clima è un sistema instabile del quale non conosciamo bene il comportamento e il campo di sostenibilità. Recenti studi di Vittorio Canuto, ad esempio, indicherebbero che, mentre un raddoppio della concentrazione del CO2 atmosferico farebbe aumentare la temperatura, una sua quadruplicazione porterebbe a una glaciazione; inoltre, la elevata salinità del Mediterraneo controllerebbe le correnti oceaniche e il clima mondiale (v. anche clima, vol. X).

7. La città sostenibile

Un caso specifico di grande rilevanza è quello della città, la quale rappresenta sul territorio una singolarità: la città, infatti, per un verso è luogo di convergenza (‛pozzo') di enormi risorse, sia dalle aree circostanti sia da quelle lontanissime, e costituisce in tal modo una sorgente di ricchezza; ma, per altro verso, essa è luogo di creazione e diffusione (‛sorgente') sul territorio circostante di rifiuti e inquinanti. Il problema dello sviluppo sostenibile della città è fondamentale se si pensa che, nei paesi industrializzati, dall'80 al 90% della popolazione (a seconda di come si definisce la città) è urbanizzato e lo è pure quasi il 50% di quella dei paesi in via di sviluppo, quota quest'ultima destinata a crescere considerevolmente negli anni a venire. Se è vero che l'abitante della città usa tradizionalmente assai più risorse di quello delle aree rurali, è anche vero che le usa meglio (proprio per i processi d'integrazione che la città consente), mentre l'abitante della campagna tende sempre più a richiedere gli stessi benefici di quello della città e quindi anche la stessa quantità di risorse; almeno nelle condizioni attuali, questo si traduce in un consumo accresciuto di trasporto di merci e persone e in un sistema anche più complesso e di difficile gestione della città. Pertanto, una componente fondamentale dello sviluppo sostenibile è rappresentata dalla neccessità di rendere più efficienti i sistemi urbani.

Salvo che per i fenomeni che sembrano avere effetti planetari, come i gas serra e il clima globale, lo sviluppo sostenibile della città richiede due ordini di interventi: il primo comprende quelli che trovano la loro soluzione nella gestione integrata della città col territorio circostante vicino - ma anche con quello più lontano - per superare i fenomeni tipici della concentrazione eccessiva degli effetti delle diverse attività, e per pervenire a una ottimizzazione della gestione delle risorse durante tutto il loro ciclo di vita, fino allo scarto finale; il secondo ordine di interventi si riferisce a quelli che, almeno in prima approssimazione, riguardano aspetti strettamente urbani e quindi portano a soluzioni che coinvolgono direttamente ed esclusivamente la città.

Nel primo ordine di interventi rientra innanzitutto l'uso di tutte le risorse materiali (incluse energia, acqua, cibo) che la città deve importare: quanto più esse sono non solo prodotte, ma anche trasformate (semilavorati, elettricità e calore, generatori per il teleriscaldamento, prodotti agroindustriali) fuori della città, tanto più si distribuisce l'impatto ambientale su un vasto territorio, evitando le eccessive concentrazioni; inoltre, molte di queste produzioni (centrali elettriche, industria chimica e metallurgica e altre attività altamente ‛energivore', che richiedono scarsa manodopera) possono essere dislocate in aree marginali. In città va massimizzata l'efficienza d'uso delle risorse prodotte e trasformate al suo esterno, così da arrivare, nel complesso, a minimizzarne l'impatto sul tessuto urbano. Anche buona parte della produzione industriale leggera può essere esportata nel territorio circostante, sia in centri abitati satelliti, sia avvalendosi sempre maggiormente della gestione robotizzata telecomandata, in modo da lasciare nella città il governo immateriale delle attività (e la relativa occupazione) senza accrescere il fenomeno del pendolarismo. Occorre anche che lo smaltimento dei diversi tipi di rifiuti sia organizzato, secondo una visione integrata del territorio, fuori della città: dalla depurazione delle acque - quando necessaria (col recupero della parte organica non pericolosa da reimpiegare per l'arricchimento dei terreni agricoli) - al loro eventuale riciclo all'interno o all'esterno della città, alla raccolta differenziata dei rifiuti domestici e industriali, col riciclo delle frazioni interessanti collegato allo sviluppo di tecniche di manifattura e rimanifattura.

Il secondo ordine di interventi (quelli che riguardano l'interno della città) deve invece essere teso a una organizzazione più efficiente di tutte le attività cittadine: riduzione del traffico mediante l'adozione del telelavoro, del teleinsegnamento, dei teleacquisti e della telefinanza; regolazione del traffico con l'adozione di sistemi computerizzati di guida dei veicoli e col ricorso ai trasporti pubblici - questi ultimi, al di là degli slogan sulla loro importanza sociale e sui benefici economici, energetici, ambientali, di minore congestione che dovrebbero recare, oggi sono rigidi, non rispondenti ai bisogni articolati di un'economia e di una società complesse, non concepiti in modo sistemico con altri servizi e attività (ad esempio l'intermodalità autotrasporto-treno, il collegamento treno veloce-aeroporto, i parcheggi, i sistemi telematici e con elicotteri di rilevamento, controllo e gestione del traffico), incapaci di rispondere ai tempi dell'economia moderna, e pertanto a ragione vengono scarsamente utilizzati dalle imprese e dai cittadini; riduzione dell'inquinamento del traffico con il ricorso a veicoli (automobili, ciclomotori) non inquinanti, o poco, localmente (motori ibridi, elettrici, a celle a combustibile); riduzione dell'inquinamento da riscaldamento con il ricorso parziale al riscaldamento elettrico e con l'uso delle pompe di calore; controllo dell'inquinamento col ricorso a satelliti per il telerilevamento.

Occorrono anche interventi strutturali, i più contenuti possibile, per favorire, ad esempio, un ricambio atmosferico naturale con il territorio circostante e per evitare fenomeni perduranti di inversione termica che generano una ‛cappa di piombo' sopra le aree interessate: oggi le conoscenze sulla fluidodinamica dell'atmosfera consentono infatti di cominciare a pensare a interventi di questo tipo. Ma altri interventi riguardano la viabilità (strade di attraversamento e tangenziali) e la struttura concettuale stessa della città nella quale sono sempre meno necessarie aree specializzate perché ai collegamenti fisici si possono sostituire quelli telematici.

Il perseguimento della massima efficacia può consigliare di mantenere nella città una certa produzione di risorse, per esempio energia elettrica per usi locali e per il governo di sistemi non fissi. In questi casi la tendenza è di pervenire a sistemi di produzione molto articolati, con una produzione centralizzata (all'esterno della città) da distribuire con reti, e una decentrata (a base di energie rinnovabili e di cogenerazione, soprattutto all'esterno, e celle a combustibile all'interno), oltre che col ricorso a celle fotovoltaiche e accumulatori per il governo di sistemi a modesto consumo d'energia (computers, microprocessori, sensori e stazioni di rilevamento, micromotori e microattuatori per il governo di dispositivi funzionali che sostituiscano l'intervento umano in una miriade di attività).

8. Una definizione operativa di sviluppo sostenibile

L'analisi svolta nei capitoli precedenti ha cercato di inquadrare il problema dello sviluppo sostenibile secondo un'angolatura documentata che rifugge da ogni catastrofismo e guarda con ottimismo all'uomo e al suo potenziale di intelligenza e di creatività. Senza l'intervento della tecnologia, il sistema naturale che assicura la sopravvivenza dell'uomo e il suo benessere (le diverse risorse come l'acqua, il cibo, l'ambiente, l'energia, i materiali) basterebbe solo - come abbiamo più volte ricordato - a sostenere una popolazione di 5 milioni di persone. E tuttavia, anche se a più riprese si sono levate voci a ribadire il fatto che un tale sistema è limitato, esauribile e incapace di sostenere una popolazione maggiore, dall'epoca precedente l'invenzione dell'agricoltura la popolazione è aumentata di mille volte. Ma ancora oggi diverse correnti di pensiero e molti studiosi ripropongono il problema di questi limiti.

Abbiamo visto come, in passato, questi limiti sono stati superati, consentendo non solo di accrescere la popolazione, ma anche di dare a ogni abitante del pianeta una quantità di risorse assai maggiore e di migliore qualità: questo processo è stato reso possibile essenzialmente dallo sviluppo scientifico e tecnologico, a sua volta basato su una caratteristica intrinseca della specie umana; ed è tale sviluppo a consentire l'invenzione di nuove risorse e di nuovi e più efficaci modi di usarle. Il problema sta allora nel capire se il sistema delle risorse e del loro uso presenti limiti reali. L'invenzione delle risorse (il carbone che sostituisce il legno, il petrolio che rimpiazza il carbone, il nucleare e il solare al posto del petrolio, i nuovi ceramici in luogo dei metalli, i semiconduttori che aprono nuovi settori dell'economia, come l'informatica e le telecomunicazioni) estende ovviamente i limiti del loro esaurimento; a raggiungere questo risultato concorre anche lo sviluppo di tecnologie e di soluzioni immateriali. Tutto questo indica che l'umanità è ben lontana dai limiti (ammesso che esistano) per il complesso delle risorse di cui ha bisogno, e che il ricorso a tecnologie adeguate consente di sostenere una popolazione ancora crescente offrendole beni sufficienti in quantità e qualità, in particolare consentendo la crescita dei paesi in via di sviluppo, come è loro giusta aspirazione. Il problema, più che tecnico, è di natura politica ed educativa.

Il processo di dematerializzazione e di ricorso crescente all'immateriale per creare una società sempre più virtuale è intrinseco all'uomo, che ha sempre usato simboli per operare e comunicare, dalla parola al disegno, alle più diverse rappresentazioni, e ha immesso quantità sempre maggiori di conoscenze nelle sue attività: si tratta di un'evoluzione che è la caratteristica precipua della specie umana. La dematerializzazione, assieme al concomitante processo di creazione continua delle risorse, consente, come si è cercato di far comprendere, di realizzare uno sviluppo sostenibile, ossia tale da garantire anche alle generazioni future ambiente e risorse non depauperati; a questo riguardo si deve ricordare che, data una qualsiasi risorsa, se il sistema socio-economico è in grado di sostituirla e di aumentarne l'efficienza d'uso a un tasso superiore a quello del suo consumo, il risultato è un aumento della risorsa disponibile: questo ci mostra anche come la tradizionale valutazione meramente quantitativa (tonnellate, chilometri quadrati, percentuale di inquinanti) delle diverse risorse abbia perso gran parte del suo significato, mentre occorre ricalibrare continuamente la misura (quantità e qualità) delle risorse in relazione agli strumenti disponibili per usarle.

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