ECONOMIA POLITICA

Enciclopedia Italiana (1932)

ECONOMIA POLITICA

Ugo SPIRITO
Ulisse GOBBI

. L'economia politica è una delle scienze che studiano l'attività umana. Il suo particolare oggetto non è determinato allo stesso modo da tutti i trattatisti; ma si riscontra come punto di partenza caratteristico di ogni indagine economica lo squilibrio fra lo sviluppo illimitato di cui sono suscettibili i bisogni e la limitazione dei mezzi per la loro soddisfazione.

Per raggiungere uno scopo si sente il bisogno dei mezzi adatti. I bisogni sono suscettibili di sviluppo illimitato, mentre invece i mezzi disponibili sono in generale limitati e la disposizione che qualcuno ne ottenga esclude in vario grado quella da parte di altri. Questo squilibrio, data la possibilità di modificare (mediante procedimenti tecnici) la consistenza dei mezzi disponibili, determina la convenienza di operazioni con cui alla disposizione di alcuni si sostituisce quella di altri. Ciò vale per tutti i mezzi, sia personali (inerenti alle persone), sia esterni (cose distinte dalle persone). Questi ultimi sono da alcuni qualificati come materiali, ma anche i mezzi personali, in quanto si manifestano con fenomeni fisici, sono materiali. Si dicono operazioni economiche le azioni volontarie considerate in quanto arrecano variazioni nel complesso dei mezzi disponibili. Fatti involontarî, come vicende atmosferiche, terremoti, ecc., che producono conseguenze economiche, non sono operazioni economiche. Tuttavia certi risultati sono in parte volontarî, in parte involontarî. Attività economica è il complesso di tutte le azioni considerate sotto l'aspetto economico.

Convenienza economica. - Il criterio da cui è guidata l'attività economica si dice convenienza economica. In ogni operazione si distinguono due termini: costo, ciò che s' impiega; prodotto, ciò che si ottiene. La possibilità di ottenere un dato prodotto con un dato costo è questione tecnica; la convenienza di far questo è questione economica.

Il criterio della convenienza economica si può ricavare dal principio che ognuno procura di essere dotato meglio che sia possibile di mezzi per quello scopo che domina la sua condotta.

Corollario del principio della convenienza è quello del minimo mezzo, per il quale fra varî possibili modi di ottenere un dato risultato conviene scegliere quello che richiede il costo minore. Non è la legge del minimo mezzo che distingue l'economia della tecnologia: indicare con che procedimento certi prodotti si ottengano, rispettate certe condizioni, fra cui vi può appunto essere quella del minimo di spese, è sempre compito della tecnica.

La convenienza economica può riferirsi a un individuo, o a una collettività; si hanno interessi particolari e interessi generali a cui i primi vanno subordinati e che non sono la somma di quelli.

La convenienza per un individuo è inerente all'azione volontaria: sostituendo il prodotto al costo egli ha mostrato di trovare conveniente la sostituzione, di preferire il primo al secondo. I motivi della preferenza possono essere tutti quelli che determinano le azioni umane: un individuo può desiderare cose dannose alla sua salute: la preferenza può anche essere determinata da opinioni erronee. Non si può dire che la convenienza consista nel piacere che l'individuo sente per la sostituzione del prodotto al costo: a meno che per "piacere" non s'intenda il motivo della preferenza qualunque esso sia, nel qual caso non vi è che una questione di parole.

Soggetto dell'attività economica è l'uomo reale con tutte le sue qualità: i suoi desiderî e i mezzi per soddisfarli sono quelli che possono essere dato l'ambiente fisico e sociale in cui vive. L'attività economica non è quella di un uomo astratto (homo oeconomicus): essa non si spiega staccata dal complesso dell'attività umana.

Valutazione in moneta dei mezzi impiegati e ottenuti. - Il criterio della convenienza economica implica un confronto tra costo e prodotto. Ma i mezzi rispettivamente impiegati e ottenuti sono un aggregato di quantità eterogenee. Si può sostituire all'indicazione del numero di unità di misura di cose eterogenee quella del numero di unità di misura di una cosa unica, per quei mezzi che sono oggetto di scambio. Nella società le operazioni economiche possono essere di produzione o di circolazione: con le prime si modifica la consistenza dei mezzi a disposizione del gruppo sociale che si considera; con le seconde certi mezzi passano dalla disposizione di alcuni a quella di altri soggetti che ne fanno parte, cosicché è modificata solo la distribuzione dei mezzi fra elementi del gruppo stesso.

Uno scambio è costituito da due operazioni di circolazione compiute una in corrispettivo dell'altra: si ha una prestazione e una controprestazione. Esse possono consistere in cessione della disposizione di ricchezze, o in prestazioni personali (servigi resi da uno a un altro soggetto). Se una cosa può essere ottenuta in cambio di un'altra, quelle due cose sono equivalenti: avere l'una o l'altra è indifferente. S'intende che l'equivalenza non ha luogo che in quelle date circostanze nelle quali è possibile lo scambio fra l'una e l'altra. Nelle circostanze in cui una quantità x di una cosa (a) si può scambiare contro xb di (b), si dice che xb, è il valore di xa in (b), e rispettivamente xa è il valore di xb in (a); una cosa è valutata nell'altra indicando il numero di unità di misura di quest'altra equivalente a un dato numero di unità di misura della prima.

Scegliendo una cosa che si chiama moneta come mezzo di valutazione di tutte le altre, si chiama valore senz'altro (sottintendendo in moneta) la somma di moneta equivalente a date quantità di cose di qualunque specie; con ciò si ottengnno termini omogenei: si sommano i valori e se ne misura la differenza. Il valore dell'unità di misura di una cosa si dice prezzo. Il prezzo della moneta è 1 per definizione. Il criterio della convenienza economica si basa ordinariamente sul prezzo o sul valore. È indifferente prendere per dato fondamentale l'uno o l'altro poiché il prezzo moltiplicato per la quantità dà il valore, e il valore diviso per la quantità dà il prezzo. Sono prezzi anche i premî d'assicurazione, le poste del giuoco, i saggi d'interesse, i saggi di salario, i corsi del cambio; anche i costi sono prezzi (prezzi di costo).

È vero che l'attività economica può aver luogo anche senza l'uso di moneta: si può avere il baratto di una cosa contro un'altra, un agricoltore che consuma i prodotti del suo fondo può non interessarsi del loro prezzo, ma anche in questi casi la determinazione del prezzo è possibile seppure non eseguita. Nell'economia moderna poi cose e prestazioni sono cominuamente valutate in moneta.

Rispetto alla valutazione in moneta non vi è perfetto parallelismo fra cose e mezzi personali. L'uso durante un certo tempo può essere valutato sia per le cose sia per le prestazioni personali. Delle cose si può valutare anche la disponibilità in un dato momento, cioè la disposizione di tutti i suoi usi per il tempo di sua durata (disposizione che tutelata dalla legge è la proprietà), o per una durata limitata (usufrutto), o differita di un certo tempo (nuda proprietà, credito, aspettativa), subordinata al verificarsi di date eventualità (crediti eventuali). Invece non si può valutare in moneta la persona (salvo quella dello schiavo).

Le cose valutabili in moneta si dicono ricchezze, che possono anche essere definite come i mezzi esterni appropriabili, cioè tali da poter essere a disposizione esclusiva di una persona o di un gruppo di persone; oppure come le cose utili e limitate perché l'utilità (nel senso di adoperabilità) e la limitazione rispetto alla convenienza di servirsene, o difficoltà d'acquisto, sono le condizioni necessarie e sufficienti dell'appropriabilità, e le cose esteme appropriabili sono anche permutabili, cioè oggetto di scambio, quindi valutabili in moneta. Dire cose valutabili in moneta è quanto dire che abbiano un prezzo. Le ricchezze a disposizione di un soggetto in un dato momento formano il suo patrimonio. Questo è un'indicazione parziale della potenzialità economica, la quale dipende anche dai mezzi personali e dalla possibilità di usare dei mezzi esterni non appropriabili.

Comunemente si definisce l'economia politica come la dottrina dell'ordine sociale delle ricchezze, o la scienza che studia l'attività umana applicata alle ricchezze sotto l'aspetto dell'interesse generale, distinguendo la tecnologia che, giovandosi delle verità insegnate dalle scienze matematiche e naturali, addita i processi da seguirsi per ottenere prodotti pienamente conformi allo scopo cui devono servire, e l'economia che studia le ricchezze in relazione alla rete complessa di interessi pubblici e privati, che sorgono dalla lotta incessante che l'uomo deve sostenere con la natura limitata sia nelle materie sia nelle forze che la costituiscono (Cossa).

Designando come oggetto dell'attività economica le ricchezze, cioè le cose valutabili in moneta, si ricorre appunto al criterio del valore o del prezzo. Una difficoltà sorge dal fatto che il criterio della convenienza economica vale anche per i mezzi personali. Definita la scienza economica dalla ricchezza, per mantenere l'unità dello studio si comprese nel campo economico soltanto il lavoro detto produttivo. Ma una simile premessa conduce logicamente a proposizioni come questa: che l'aumento di produzione si ottiene diminuendo il lavoro produttivo e aumentando quello improduttivo! Considerando come oggetto caratteristico dello studio dell'attività economica i prezzi, in questi sono compresi i saggi di salario di ogni specie di lavoro (amministrativo, scientifico, artistico, ecc.).

Convenienza d'ordine inferiore e d'ordine superiore. - La convenienza economica di primo grado (cioè di grado inferiore) consiste nell'aumentare la ricchezza a disposizione del soggetto nel cui interesse si agisce. Questo criterio si presenta per il consumatore nel procurarsi dati prodotti o servizî con la minima spesa, per il lavoratore nell'ottenere il massimo salario, per il capitalista nell'ottenere il massimo interesse, per l'imprenditore nell'ottenere la massima differenza fra incasso e spesa di produzione.

La subordinazione a una convenienza d'ordine più elevato può essere determinata dal sentimento di previdenza, dall'amore alla famiglia, da un principio morale, dall'amor di patria. La convenienza di ordine superiore, ossia la conformità ai fini nazionali, può essere sentita dall'individuo che spontaneamente regola su essa la sua condotta, oppure imposta dall'autorità sociale mediante le leggi. L'individuo può trovar conveniente d'obbedire alla legge, sia per evitare le sanzioni che subirebbe per la loro trasgressione, sia per sentimento del dovere; e può invece trovar conveniente di trasgredirla. D'altra parte può avvenire che chi governa lo stato sacrifichi gl'interessi della nazione al vantaggio proprio.

Bisogna tener conto di tutte le azioni, anche di quelle sciocche o criminose, perché anch'esse sono componenti dei fenomeni sociali. Del resto non esiste la perfezione nel campo dell'agire umano. L'ideale richiederebbe la perfetta convergenza degli scopi individuali con quelli dello stato: diciamo che lo stato è in condizioni normali quando questa convergenza va maggiormente affermandosi; che è in condizioni anormali quando invece si accentua il contrasto.

Econonomia politica e aziendale. - La scienza economica si distingue in economia politica ed economia aziendale. L'organismo sociale risulta dalla combinazione di più organismi dotati di un patrimonio e di mezzi personali per il raggiungimento di un dato scopo: essi sono le aziende private e pubbliche.

L'economia aziendale si distingue a seconda che abbia per oggetto: a) aziende private: 1. economia domestica (il significato originario di economia fu appunto amministrazione della casa); 2. economia industriale prendendo la parola industria nel senso generale di esercizio sistematico di qualunque attività economica: essa può avere per oggetto o le aziende, qualunque sia l'industria da esse esercitata, oppure l'esercizio di gruppi più o meno ampî d' industria, onde si ha l'economia rurale o agraria, economia mineraria, ecc.; b) aziende pubbliche: scienza delle finanze o amministrazione dell'azienda dello stato e delle altre aziende pubbliche, delle quali tuttavia si potrebbe trattare distintamente.

Il principio della convenienza economica si applica nell'economia aziendale in relazione allo scopo delle singole aziende; il che non significa che debba essere dimenticata la loro connessione con l'economia sociale. Così verrà considerato come scopo di un'impresa industriale il lucro nei limiti dei superiori interessi della collettività nazionale. Nella scienza delle finanze la convenienza per l'azienda dello stato non significherà fiscalismo: in altre parole lo stato come fisco non si dimenticherà di essere lo stato. Nella scienza delle finanze lo stato è considerato in quanto è azienda, nell'economia politica in quanto è l'organizzazione politica della società, e quindi ha come elementi tutte le aziende, compresa la propria.

Nell'economia domestica e nell'industriale (in senso generico) sono prevalenti nozioni sia di tecnica industriale, agraria, bancaria, ecc., sia di tecnica amministrativa. Nella scienza delle finanze sono fondamentali insieme alle premesse economiche, quelle politiche e giuridiche. Ciascuna di queste scienze ha un campo di competenza che non è nettamente separato dalle altre. Se l'economia industriale considera come vengano ridotti al minimo i costi di produzione, tratta un tema d'importanza essenziale per l'economia politica. Sono di competenza dell'economia politica e della scienza delle finanze le imposte, i prestiti pubblici, i dazî doganali, ecc.

L'economia politica è detta anche pubblica, civile, nazionale, sociale. Poiché la più perfetta unità politica si ha quando una nazione è organizzata in uno stato, la denominazione di economia nazionale è adatta come sinonimo di economia politica. L'espressione "economia sociale" può riferirsi a tutta l'umanità: ma questa non è politicamente organizzata, e non ha un interesse superiore a quello dei singoli stati. Si può parlare di economia internazionale per riferirsi ai rapporti economici fra i varî stati: ma essa non è che una parte dell'economia politica nazionale, perché l'organismo superiore rimane quello dei singoli stati: quando l'insieme dei singoli stati diventasse un organismo superiore a questi, sarebbe esso lo stato. I rapporti fra gli stati non sono analoghi a quelli fra gli individui nello stato. Quindi lo studio del commercio internazionale fa parte dell'economia nazionale.

Alcuni distinguono economia sociale e politica economica trattando in quest'ultima dell'azione dello stato rispetto alla vita economica. Ma tutta la vita economica si compie nella società politicamente organizzata: non è possibile studiare le leggi economiche prescindendo dallo stato. Si può scrivere un trattato o dare un insegnamento di politica economica, ma questa è una parte dell'economia politica. Altri distinguono economia pura e sociale intendendo che nella prima si stia puramente nel campo economico, mentre nella seconda si tenga conto di altre considerazioni sociali, cioè politiche, morali, giuridiche, ecc. Ma la vita sociale è unica, e non si possono nemmeno per astrazione considerare i fenomeni economici staccati dall'ambiente fisico e sociale in cui si verificano.

L'economia attinge alla geografia i dati sulle condizioni che il territorio dei varî paesi offre per la produzione e la circolazione delle ricchezze; se lo studio è dedicato principalmente a queste si ha la geografia economica. Del pari l'economia si basa, con diverso grado di astrazione, sui dati forniti dalla storia economica. Questo non significa escludere che vi siano leggi economiche costanti: quelle in cui si tien conto solo dei caratteri permanenti della natura umana e dell'organizzazione politica valgono per qualunque tempo e per qualunque luogo, le altre sono relative alle varie condizioni geografiche e storiche. Quali caratteri siano permanenti e quali variabili risulta appunto dalla storia. Siccome poi il benessere non è uno stato, ma una meta verso la quale si tende, lo studio dei fenomeni economici ha carattere storico. Alla demografia l'economia è legata per la connessione dei fenomeni economici con lo sviluppo della popolazione; alla politica e al diritto per la loro connessione con l'ordinamento politico e giuridico della società.

L'economia politica si distingue in teorica e applicata: la prima studia le leggi dei fenomeni economici, la seconda ne suggerisce l'applicazione all'attività pubblica e privata. L'economia applicata è da alcuni scrittori distinta dall'economia pura in base al diverso grado di astrazione dalle circostanze di fatto con cui vengono determinate le leggi economiche. Allora l'espressione applicata non è usata in senso proprio. Didatticamente conviene esaminare i fenomeni prima nelle loro linee generali, semplificandoli mediante la astrazione, e poi tenendo conto di un maggior numero di dati; ma anche la seconda parte dello studio è di teoria e non di applicazione.

Le discussioni sull'uso del metodo deduttivo piuttosto che di quello induttivo nell'economia, si sono chiuse nell'accordo sull'opportunità di usare tutti i metodi che si dimostrino utili.

Poiche la convenienza economica risulta da un confronto fra la quantità dei mezzi rispettivamente impiegati e ottenuti, per la trattazione delle quantità è ovvio che si usi la matematica. L'applicazione della matematica all'economia si è perfezionata specialmente in due rami: la statistica applicata all'economia e la matematica finanziaria. Appositi istituti provvedono alla raccolta e all'elaborazione di dati statistici che possano fornire una base a previsioni economiche. Lo studio delle operazioni finanziarie, cioè di quelle in cui costo e prodotto sono somme di moneta differenti rispetto al tempo della loro disposizione e alle emntualità a cui essa é condizionata, purché sia possibile l'espressione sia pure approssimata della probabilità o rapporto di frequenza, forma oggetto della matematica finanziaria e attuariale.

Nello studio dei rapporti fra quantità di merci che trovano compratori e prezzi, fra quantità prodotte e costi di produzione, fra imposte e ricchezza, ecc., è indispensabile l'uso del ragionamento matematico. Gli scrittori che l'hanno applicato più largamente hanno contribuito a rendere più rigorosa la trattazione delle questioni economiche, con l'usare i termini soltanto nel senso definito, col controllare che non avvengano cambiamenti d'ipotesi nel corso di un ragionamento, col verificare se in un problema il numero delle condizioni indipendenti che legano fra loro le incognite sia eguale al numero di queste. L'uso di simboli matematici invece del linguaggio ordinario è poi questione di opportunità. Per far vedere a colpo d'occhio l'andamento della relazione fra due quantità variabili, sono opportuni i diagrammi che possono anche servire per la relazione fra tre variabili.

Economia matematica. - Il diverso grado in cui nella trattazione dell'economia viene applicata la matematica, non determina una differenza essenziale fra una dottrina e un'altra. Si è tuttavia dato il nome di economia matematica a un sistema delle teorie più astratte dell'economia dedotte da poche premesse di carattere quantitativo. Vi è una differenza essenziale fra due applicazioni della matematica all'economia: a) si considerano soltanto le quantità che sono oggetto delle operazioni economiche e i rapporti fra di esse, sia raccogliendo dati d'esperienza ed elaborandoli mediante la statistica, sia supponendo quantità non constatate come dati storici, ma soggette a condizioni stabilite mediante la generalizzazione di dati d'osservazione; b) si assoggetta al calcolo anche il criterio della convenienza economica: alle quantità che esistono nel mondo fisico e a cui le nostre azioni si applicano, si aggiungono altre quantità dette soggettive che rappresentano le forze da cui le persone sono mosse nel trasformare i mezzi disponibili per i loro scopi.

Essendo costo e prodotto in generale termini eterogenei, non è possibile prendere come criterio della convenienza il fatto che il prodotto sia maggiore del costo: la statua è minore del blocco di marmo. Ma se il prodotto è preferito al costo, questo vuol dire che nel primo vi è qualche cosa di più che nel secondo: prenderemo dunque per base del confronto una quantità che diremo eguale in due eose se non vi è alcun motivo di preferenza per l'una in confronto all'altra, e superiore in una cosa a quella che c'è in un'altra se la prima è preferita alla seconda.

Siccome la preferenza ha luogo da parte di un soggetto in un dato momento, così la quantità di cui ora si tratta è detta soggettiva, cioè rela. tiva al modo di pensare d'un individuo in date circostanze. Si può riferirla anche a un soggetto diverso dall'individuo. Tale quantità fu detta utilità soggettiva, desiderabilità, ofelimità, valore d'uso soggettivo, ecc.

Per darne un'idea sensibile la si presentò come il piacere inerente all'acquisto di una cosa. Ma più correttamente si osservò doversi prescindere dalla natura di essa, bastando constatare il fatto dell'indifferenza fra due cose o della preferenza dell'una sull'altra. Si suppone che le cose oggetto delle operazioni si possano graduare per porzioni infinitesime, salvo a introdurre nelle conclusioni le modificazioni necessarie per tenere conto di quelle, come pianoforti, automobili, ecc., che non sono così graduabili. Così si è in grado di servirsi del calcolo infinitesimale.

Alcune proprietà dell'utilità soggettiva o ofelimità si ricavano dall'esperienza: l'ofelimità di successive porzioni che si aggiungono a una cosa da acquistare, almeno dopo un certo punto, va decrescendo; l'ofelimità di una cosa dipende non solo dalla quantità di questa, ma anche da quella delle altre, in modo diverso a seconda che queste siano surrogabili a quella per lo scopo che interessa o complementari, cioè da usarsi insieme. Sviluppando queste premesse, si dimostra la posizione di equilibrio del consumatore, data dall'eguaglianza dell'ofelimità elementare divisa per il prezzo per tutte le cose che egli in un dato intervallo di tempo si procura, e poi si passa alla determinazione delle condizioni di equilibrio generale del mercato in un dato momento e a quelle delle modificazioni dell'equilibrio stesso nel tempo.

Per determinare le condizioni di equilibrio bisogna tener conto del fatto che un individuo vive in un ambiente fisico e sociale; per l'ambiente sociale è necessario dire come lo si considera regolato: la supposizione più astratta, che permise di dare il carattere più generale alle conclusioni, fu quella della perfetta libera concorrenza fra tutti coloro che si presentano sul mercato; ma si considerarono anche condizioni di monopolio, e si fece anche l'ipotesi di un ordinamento comunistico. L'avere dimostrato che in un ambiente nel quale ognuno fosse libero di agire secondo l'interesse proprio (rispettando però certe condizioni imposte dall'autorità dello stato, perché dall'esistenza di questo non è possibile fare astrazione) si stabilirebbe una certa posizione di equilibrio, è utile per mettere in chiaro l'interdipendenza fra tutte le quantità che entrano nelle operazioni economiche. Se ne deduce che se vogliamo variarne qualcuna (poiché la vita economica consiste nelle variazioni che interessa introdurre nel complesso dei mezzi disponibili) dovremo tener conto delle ripercussioni ossia delle variazioni che ne conseguono nelle altre.

L'indicazione dell'ofelimità non è ricavata da uno studio di psicologia, ma dal semplice fatto della preferenza di una cosa a un'altra. L'aiuto della psicologia non s'incontra nelle teorie astratte dell'economia pura, ma nella spiegazione dei fenomeni concreti. (Per es., la disposizione del pubblico a pagare una somma eventuale rilevante la cui probabilità di ottenimento sia piccola più del suo valore matematico; l'influenza dello spirito d'imitazione, ecc.).

L'ofelimità è l'espressione di tutti i motivi da cui l'attività individuale è determinata, siano derivati dall'egoismo o dalla simpatia, dalla rapacità o dallo spirito di sacrificio: per indicare l'ofelimità non occorre l'ipotesi dell'homo oeconomicus. La difficoltà derivante dalla questione se l'ofelimità fosse misurabile si evitò prendendo in considerazione combinazioni di beni indifferenti o preferibili ad altre e facendo corrispondere indici di ofelimità a combinazioni in ordine di preferenza.

L' obiezione più grave contro un sistema di economia sociale basato sull'ofelimità consiste in ciò, che partendo da un dato che esprime il semplice fatto della preferenza che un individuo manifesta per una cosa in confronto a un'altra (qualunque ne sia il motivo), si arriverà sempre a conclusioni relative a questa semplice preferenza la matematica non può far mutare natura alle quantità a cui si applica. Dalla preferenza individuale non si ricava il criterio della convenienza di ordine superiore. Disturbare un individuo dalla situazione in cui per suo conto sarebbe rimasto o dalla direzione che per suo conto avrebbe seguito, può essere utile alla nazione. Fra le condizioni per cui una via risulta di minima resistenza vi sono anche le qualità personali di chi la deve percorrere, qualità che alla nazione può interessare di modificare.

Si avverta poi che le condizioni d'equilibrio parziali o generali si possono stabilire anche ragionando soltanto su prezzi e quantità di cose. L'analogia fra la meccanica e l'economia non può essere posta come fondamento della scienza, perché le forze economiche non sono date. Le analogie possono essere suggestive, ma poi ogni scienza deve studiare la materia propria senza forzarla negli schemi adatti per un'altra.

Storia delle dottrine economiche.

La scienza dell'economia ha inizio verso la metà del sec. XVIII. Di dottrine economiche v'ha esempio, naturalmente, fin dalla più antica età, fin da quando cioè, col sorgere della moneta, si sono posti i problemi a essa relativi e si è cercato di rendersi conto del rapporto che lega i fenomeni dello scambio. Ma erano teorie che non oltrepassavano il grado di opinioni arbitrarie e mitologiche, come i presupposti sui quali venivano fondate: ché tutte potevano riportarsi a una concezione dello stato, il cui principio informatore era costituito da un ente di natura divina o terrena condizionante ad arbitrio la vita sociale. Solo col tramontare, nel pensiero speculativo e nella realtà, della grossolana trascendenza del governo rispetto ai governati, può avere inizio una ricerca sistematica dei fenomeni sociali, visti nel loro processo spontaneo e alla luce delle leggi intrinseche al loro svolgimento. Così avviene appunto nel sec. XVIII, quando crolla ogni fede aprioristica e si vuole con la forza della ragione spiegare la natura dei fatti sociali.

Il naturalismo contrassegna l'inizio della scienza economica: e la vecchia tradizione, giunta alle estreme forme del dogmatismo nella scuola mercantilistica del sec. XVII (v. mercantilismo), si dissolve rapidamente col dissolversi dello stato di cui era legittima espressione. Culla del movimento fu la Francia, sebbene alcune idee dei fisiocrati - così vennero denominati da Dupont de Nemours, in conformità del principio informatore, i seguaci del nuovo indirizzo - fossero già state affermate in Inghilterra alla fine del sec. XVII e nei primi anni del XVIII (Locke, William Petty, Dudley North).

Nessuno dei fisiocrati ha personalità dominante: la nuova scienza era un logico corollario della nuova concezione speculativa e politica, e i fisiocrati si potevano a buon diritto ritenere gli "economisti", non per particolari teorie, quasi sempre di scarso valore e ben presto dissolte dalla critica, bensì per quei fondamenti sistematici d'indole generale che non sono dell'economia più che di qualsiasi altra scienza sociale. Gournay, Quesnay, Turgot, Mirabeau, Dupont de Nemours, Mercier de la Rivière, Letrosne, Baudeau, ecc., sono quasi meccanici traduttori delle idee correnti nel campo dei fenomeni economici, e tutti si ripetono e ripetono le più note formule illuministiche, con un linguaggio tra giuridico e filosofico. Rinviando alla voce fisiocratici per la trattazione delle loro teorie più specificamente economiche (la terra come sorgente unica della ricchezza, sterilità delle arti e del commercio, prodotto netto, imposta unica sulla terra, ecc.), occorre qui mettere appunto in rilievo quei principî speculativi che rimarranno poi i presupposti assiomatici della scienza dell'economia per quasi due secoli.

Il primo principio è quello per cui si pone l'individuo come fine a sé stesso, in un mondo suo, e arbitro assoluto delle proprie azioni. È la grande affermazione illuministica con la quale si rivendicano i diritti della personalità umana, pervenendo tuttavia a quel concetto naturalistico e atomistico dell'individuo che informerà poi tutta la storia del liberalismo. Quesnay iniziando il suo saggio sul diritto naturale affermava esplicitamente che "il diritto naturale dell'uomo può essere vagamente definito: il diritto che l'uomo ha alle cose necessarie al godimento suo"; e Dupont de Nemours nel discorso premesso al volume in cui riuniva gli opuscoli del Quesnay, confermava precisando: "Il diritto naturale dell'uomo, nel suo senso primitivo più generale, è il diritto che l'uomo ha di fare quello che gli è vantaggioso, o, come dice l'autore, di cui oggi pubblico alcuni scritti, il diritto che l'uomo ha alle cose adatte al proprio godimento". Era posto così nella scienza dell'economia il principio dell'individuo singolo come soggetto economico mosso dal proprio tornaconto: la famosa ipotesi dell'homo oeconomicus si trova già in germe in questa affermazione del diritto naturale, alla quale occorre risalire per intenderne il vero significato e i necessan limiti.

Logica conseguenza di questo individualismo è la proclamazione a oltranza di ogni genere di libertà in uno stato concepito contrattualisticamente. Funzione dello stato non è di fondere in un organismo unico la molteplicità degli elementi sociali, bensì di garantire a ogni individuo il massimo possibile di libertà, quella libertà, cioè, che non trovi altro limite all'infuori della coesistenza stessa di tante libertà. Secondo le espressioni consuete ai contrattualisti, il problema si riduce a stabilire "delle convenzioni sociali, tacite o formali, per assicurare a ciascuno l'uso lecito del suo diritto naturale, del suo diritto alle cose adatte al proprio godimento, o in altri termini, la libertà di profittare dei vantaggi ch'esso può ritrarre dall'ordine naturale". Lo stato ha il solo scopo di segnare i confini tra i campi d'azione degl'individui: entro i confini ognuno è sovrano assoluto e giudice insindacabile del valore dei proprî fini.

Siffatta concezione politica e giuridica dell'individuo e dello stato si traduce molto agevolmente in termini economici riassumendosi in due capisaldi tuttora esaltati e difesi dalla maggior parte degli economisti. Il primo è quello della libera concorrenza. Se ogni individuo è un mondo a sé e deve a sé pravvedere a suo piacimento, la sua attività economica non potrà certamente essere sottoposta ad alcuna disciplina organica né subordinata a una volontà comune: i diversi individui s'incontreranno in campo neutro dove ognuno difenderà i proprî interessi particolari. Dall'urto di tanti fini distinti nascerà bene o male una certa vita economica sociale che sarà la migliore possibile in quanto rispondente all'ordine naturale. Libertà, dunque, del commercio, delle industrie, del lavoro, e lotta a oltranza contro ogni ostacolo e contro ogni forma monopolistica. Il Baudeau, nella sua introduzione alla filosofia economica, definisce il monopolio "tutto ciò che forzosamente restringe il numero della concorrenza dei venditori e dei compratori" e lo condanna insieme con tutti gli altri "pregiudizî recati al commercio". "Il monopolio", egli dice, "che è il contrario della libertà; le tasse o esazioni che sono il contrario dell'immunità;. gli ostacoli naturali o fattizî che sono il contrario della facilità, ecco ciò che può sembrare indifferente o anche vantaggioso a tale o tal altro trafficante in particolare, ma che in realtà non è meno enormemente pregiudizievole al commercio propriamente detto, vale a dire ai produttori e ai consumatori che ne sono l'essenza".

Dall'apologia della concorrenza e dalla critica del monopolio scaturisce poi il secondo caposaldo dell'economia dei fisiocrati e cioè l'opposizione a ogni intervento statale e la limitazione al minimo indispensabile dell'azione economica dello stato. Nel suo elogio di Gournay, il Turgot ricorda il detto di Legendre a Colbert, "laissez-nous faire" (donde la formula del laissez faire diventata tipica nella storia del liberalismo), e afferma categoricamente quel che sarà il credo della scuola liberale. "È inutile di provare"), egli scrive, "che ciascun privato è il solo giudice competente dell'impiego più vantaggioso della sua terra e delle proprie braccia". E più oltre conclude "che sotto tutti i punti di vista per i quali il commercio possa interessare lo stato, l'interesse privato abbandonato a sé medesimo produrrà sempre più sicuramente il bene generale, che non le operazioni del governo, sempre difettose e necessariamente dirette da una teoria vaga ed incerta". Frasi, queste, che, ripetute poi dai classici, rifioriranno nell'economia pura delle scuole marginalistiche, psicologiche e matematiche fino a Pareto e oltre.

Fuori di Francia le idee dei fisiocrati ebbero un'enorme diffusione, ma, non essendo le loro teorie che la conseguenza delle ideologie illuministiche, anche economisti di altre nazioni arrivarono a conclusioni simili per vie indipendenti. E analogamente si spiega il fatto che la maggior parte degli economisti di quest'epoca siano uomini di varia cultura o molto spesso cultori di filosofia, i quali accentuano nello sviluppo delle teorie economiche le particolari caratteristiche dell'indirizzo speculativo da cui derivano e della tradizione del paese cui appartengono. Così in Italia, gli economisti del sec. XVIII e, tra i principali, Bandini, Broggia, Belloni, Genovesi, Galiani, Verri, Beccaria, Carli, Filangieri, Mengotti, Ortes, ecc., anche quando più si discostano dalle teorie mercantilistiche e più decisamente concordano con i fisiocrati, non accettano senza riserva il dogmatismo individualistico e liberistico di questi ultimi e spesso fanno posto a considerazioni di carattere che potremmo già definire storicistico. Tipico a questo riguardo l'atteggiamento del Galiani nei suoi Dialogues sur le commerce des blés, dove si rifiuta di risolvere il problema in maniera univoca e afferma la necessità di adeguare la soluzione alle peculiari condizioni dei singoli paesi.

Ma soprattutto in Inghilterra i filosofi entrano nel campo della scienza economica e ne pongono i fondamenti primi, orientati verso il più deciso liberalismo. Dopo Locke e Berkeley, David Hume riesce a superare le ideologie dei mercantilisti accostandosi a un liberalismo temperato da forti esigenze storicistiche e arricchito da quel senso della complessità e organicità dei fatti sociali che deve necessariamente avere ogni mente adusata alle profondità della speculazione. E dalla filosofia, anzi dalla filosofia dello stesso Hume, procede il pensiero di Adamo Smith, comunemente ritenuto il fondatore della scienza economica, sebbene nulla vi sia nella sua opera che possa giustificare un giudizio così apologetico e distaccarlo dalla schiera dei fisiocrati, con i quali concorda almeno in quei principî che abbiamo indicati come essenziali della loro dottrina. Certo, se, invece che a quei principî, si dà rilievo ad alcune teorie particolari e soprattutto alla teoria del prodotto della terra come la sola sorgente della ricchezza di un paese, tra Smith e i fisiocrati si può porre il distacco che si vuole: e la via per giungere a questa conclusione è aperta dallo stesso Smith che nel IV libro della sua opera sulla ricchezza delle nazioni cerca di confutare appunto il sistema fisiocratico. Ma non è meno vero che la concordanza fondamentale dei due sistemi apparve già agli occhi di Smith, il quale, formulando un giudizio complessivo sull'opera dei fisiocrati afferma esplicitamente: "Nulladimeno questo sistema con tutte le sue imperfezioni è quello, che tra quanti finora si sono pubblicati intorno al subbietto dell'economia politica, si avvicini più alla verità... Quantunque in rappresentare il lavoro che è impiegato sulla terra, come il solo produttivo, le idee che esso inculca sono forse troppo anguste e limitate, pure in rappresentare la ricchezza delle nazioni come consistente non nel denaro, inconsumabile cosa, ma negli oggetti consumabili annualmente riprodotti dal lavoro della società, e nel rappresentare l'intiera libertà come il solo espediente efficace di rendere quest'annuale riproduzione per quanto è più possibile grande, la sua dottrina sembra essere in ogni rispetto così giusta, come è generosa e liberale". E a conferma di questo giudizio suona il credo perentoriamente enunciato da Smith e rappresentativo di tutta la sua opera: "Ondeché tutti i sistemi, o di preferenza o di restrizione, sendo così completamente aboliti, il facile e semplice sistema della naturale libertà si stabilisce da per sé stesso. Ogni uomo, purché non violi le leggi della giustizia, è lasciato intieramente libero di fare il suo interesse a suo modo, e di portare la sua industria e il suo capitale in concorrenza di ogni altro uomo, o di una classe d'uomini. Il sovrano è affatto scarco da un dovere, cui tentando di eseguire deve necessariamente essere sempre esposto ad innumerevoli delusioni, e cui per eseguire convenevolmente nessuna umana sapienza, né cognizioni possono essere mai sufficienti, il dovere di sopraintendere all'industria dei privati, e di dirigerla verso gli impieghi più conformi all'interesse della società". Tuttavia la dottrina dello Smith non si esaurisce in un individualismo e in un liberismo così categorici, come quelli che risultano dal passo riportato. Le stesse istanze storicistiche di Hume valgono a mitigare la crudezza dei presupposti utilitaristici e a far porre, sia pure di scorcio, il problema di un'unità sociale superindividuale. Basterebbe por mente, per convincersene, alla teoria del lavoro e della divisione del lavoro, e alla stessa teoria dell'interesse privato come coincidente con quello pubblico: ma soprattutto al V libro sul sovrano e sulla repubblica, dove i problemi sociali acquistano più d'una volta un valore che trascende la sfera dei singoli e valgono a porre la famosa distinzione di fini economici e fini politici, da cui poi si originerà l'altra tra economia pura ed economia applicata, o tra homo oeconomicus e uomo concreto.

Posti in tal guisa nella storia dell'economia i fondamenti del sistema individualistico e liberistico, sulle stesse orme si mossero più o meno rigorosamente gli economisti posteriori anche quando ebbero la pretesa di staccarsene in tutto o in parte. Mentre nella patria dei fisiocrati il sistema di Smith aveva grande risonanza soprattutto per opera di J.B. Say che ne divenne il maggiore interprete e propagandista, in Inghilterra alcuni filosofi e scienziati ne precisavano e sviluppavano le teorie in una serie di opere destinate a formare il corpus della cosiddetta scuola classica. Il Bentham, teorizzato filosoficamente il più rigoroso utilitarismo, accentuò ancora il carattere individualistico e liberistico dell'opera dello Smith rivendicando contro questo il principio della libera concorrenza anche nel caso dell'usura. Un altro contributo alla difesa degli stessi principî, ma approfondendo le proprie ricerche soprattutto rispetto al problema della rendita e a quello della popolazione, apportò T. R. Malthus, la cui tesi, fondata sulla presunta precisazione del rapporto tra aumento della popolazione e aumento dei mezzi di alimentazione, destò interminabili discussioni e commenti.

D'importanza molto più rilevante fu l'opera di David Ricardo. La quale è anch'essa - come esplicitamente riconosce l'autore - ispirata alle dottrine della libertà naturale in genere e a quelle dello Smith, del Say e del Malthus in specie, ma acquista un carattere più tecnico e astratto, che se ha fatto riconoscere in lui quasi il fondatore della cosiddetta economia pura, è segno tuttavia, almeno per chi si ponga da un punto di vista critico rispetto all'indirizzo liberale, della minore coscienza del principio sistematico informatore. E ciò vale a spiegare l'apparenza di assoluta obiettività della dottrina del Ricardo e il merito che le è stato attribuito d'indipendenza da ogni ideologia speculativa o politica. In effetti l'ideologia c'è, ed è precisamente la stessa dei fisiocrati e degli smithiani, ma essa è divenuta così connaturata col pensiero dell'epoca da restare implicita nel sistema a guisa di una verità assiomatica di natura prettamente scientifica. E così s'inizia il tentativo, che si ripeterà poi dall'indirizzo purista o scientifico e matematico, di voler chiudere la porta in faccia a ogni tentativo d'intrusione filosofica e politica, dimenticando quanto di politico e filosofico è stato chiuso in casa e ha reso anacronistico, per l'inconsapevole dogmatismo di chi ne è rimasto impigliato, tutto l'edificio.

Che l'ideologia - individualistica e liberistica - ci sia, non può non risultare evidente a chiunque legga, ad es., le pagine del Ricardo sul prezzo naturale o sul commercio internazionale: sono le solite affermazioni che non hanno più il calore della propaganda di un nuovo verbo e anzi si vestono del freddo abito della constatazione di fatto, ma ciò nonostante restano ideologiche e aprioristiche come quando furono enunciate in termini speculativi dai primi fisiocrati. D'ora in poi l'unità sistematica della scienza dell'economia, data appunto dal principio ideale dell'illuminismo, si andrà attenuando e l'apparente approfondimento scientifico rivelerà agli occhi esperti dello storico un processo sempre più tendente all'empirismo e al frammentarismo.

Per comprendere come proprio il sistema del Ricardo, che è stato tante volte esaltato e considerato come il prototipo dei sistemi rigorosamente scientifici, apra la via, al contrario, all'empirismo e al frammentarismo, occorre risalire ai presupposti delle teorie ricardiane e vedere come essi siano stati arbitrariamente assunti e ipostatizzati per trarne poi conseguenze solo formalmente logiche e necessarie. Se, ad esempio, si riflette alla teoria del valore, base di ogni altra in qualunque sistema di economia, si deve convenire che il contributo proprio del Ricardo non consiste se non nell'irrigidire e nell'assolutizzare ciò che era già stato detto prima di lui. Lo Smith aveva distinto il valore d'uso e il valore di cambio, ma tale distinzione era rimasta illuminata di debole luce in un sistema in cui il senso storicistico della realtà non consentiva uno schematismo troppo accentuato. Il Ricardo invece afferma in tono perentorio, come evidente assioma, la distinzione di utilità e valore, ne assolutizza i termini e ne cava a fil di logica conseguenze essenziali per la teoria del costo di riproduzione, dei salarî, della rendita, ecc., ponendo così la scienza dell'economia su una strada dalla quale non riuscirà ad allontanarsi che con molto stento e sempre in modo relativo. Chi dimentica il presupposto può venir trascinato dalla dialettica dell'autore; chi inveee ne giudica il fondamento alla luce delle nuove esigenze speculative, si accorge dell'estremo empirismo di un sistema legato a un'osservazione di senso comune. Osservazione che, appunto perché di senso comune, non riesce a dar vita che a un sistema apparente, in cui l'unità, quando pur di unità voglia parlarsi, consiste in un mero collegamento estrinseco. In effetti non vi sono che frammenti, come già nella stessa teoria del valore, in cui utilità e valore, una volta divisi, restano là come due monconi, che non si sa che cosa abbiano da fare l'uno con l'altro.

Dati questi caratteri dell'opera del Ricardo, è chiaro che i suoi meriti maggiori concernono quelle teorie in cui l'elemento tecnico ha la prevalenza sul sistematico e in cui la relativa scarsezza degli elementi d'indagine consente un uso meno pericoloso del processo di astrazione. Via via che dalle teorie generali si passa a quelle particolari e si restringe il campo d'indagine, meglio individuando e determinando i fenomeni da studiare, i risultati diventano meno arbitrarî e inconsistenti. Lo stesso frammentarismo che nuoce al sistema, vale a salvare dal suo principio ideologico taluni frammenti, in altro modo utilizzabili. Così nel campo dei fenomeni monetarî, o per quanto riguarda la famosa teoria della rendita, ricardiana più di nome che di fatto, e in ogni caso destinata ad avere tante interpretazioni quanti sono i punti di vista sistematici dai quali ci si pone a considerarla. E questa sarà la sorte di tutta la scuola classica dopo Ricardo (G. Stuart Mill, Mac Culloch, Senior, Rau, e sostanzialmente anche Carey, Bastiat, Ferrara, Cairnes, ecc.), come della recente economia pura: qualche buon contributo tecnico particolare disperso in costruzioni sistematiche anelanti all'unità attraverso principî ideologici sollevati ad assiomi scientifici.

Alle teorie della scuola classica, specialmente dopo la formulazione datane dal Ricardo, cominciarono a sollevarsi, in Francia, in Germania, in Italia e nella stessa Inghilterra, obiezioni di principio fondamentali, dirette a mostrarne l'insufficienza dei presupposti. E le critiche, naturalmente, si riallacciano alle correnti speculative della prima metà del sec. XIX, quando le teorie illuministiche cominciano a rivelare la loro debolezza e a cedere il posto a esigenze più profonde. Da una parte l'idealismo che dà il senso dell'unità organica del reale, della sua spiritualità e della sua storicità; dall'altra il positivismo che, per via diversa e anzi antitetica, finisce col porre gli stessi problemi speculativi e le stesse esigenze pratiche. E idealismo e positivismo - cui si unisce per altra via la reazione dei cattolici - giungono nel campo degli studî economici incrociandosi e sovrapponendosi in una congerie di principî, in cui la chiarezza dei termini è più o meno smarrita, sì che invano si cercherebbe di distinguere nettamente i varî indirizzi cui dànno luogo nella critica delle teorie classiche. Romanticismo, umanitarismo, socialismo, statalismo, storicismo e simili, sono le etichette per designare i nuovi tentativi critici e sistematici, ma lo storico che si proponesse di dividere gli economisti dell'epoca a seconda di esse non potrebbe far altro che mutilare la personalità di ognuno e costringerla in schemi per la massima parte arbitrarî. Dal romanticismo di Müller al positivismo di Comte e Stuart Mill; da Sismondi alle varie specie di socialismo di Saint-Simon, Owen, Fourier, Blanc, Proudhon, Rodbertus, Lassalle e Marx; dall'economia nazionale di List alla scuola storica di Roscher, Hildelbrand, Knies e Schmoller, è tutto un fermento nuovo che rompe gli argini della vecchia economia e anche là, dove sembra che tuttavia vi aderisca e ne prenda le difese, in effetti non fa che trasvalutare problemi e soluzioni. Ma come distinguere nei vaghi presupposti speculativi, superficialmente assimilati dalla speculazione contemporanea, un criterio veramente idealistico e uno positivistico, uno romantico e uno realistico? Come porre un muro divisorio tra il romanticismo tedesco e l'umanitarismo dei socialisti francesi; tra lo storicismo derivante dall'evoluzionismo positivistico e quello della scuola storica; tra lo statalismo socialista e quello nazionalista; tra il socialismo d'origine idealista e quello positivista? Ciò che importa è precisare le esigenze anticlassiche che dànno vita a tutti questi movimenti e saggiarne il valore critico e ricostruttivo, per comprendere poi l'ulteriore sviluppo della scienza economica.

Se la scuola classica era tutta informata dal principio individualistico e liberistico proprio dell'illuminismo, la reazione contro di essa deve necessariamente prendere di mira anzitutto tale individualismo. Il che si cerca di ottenere per due vie, una prevalentemente logica e un'altra morale e sociale. Per la prima, si riconosce che l'individuo visto nella sua particolarità è un frammento di un mondo più grande, il quale non può non essere organismo e come tale avere leggi e finalità proprie superindividuali. Per la seconda, si constata che individualismo è sinonimo di eroismo e che al disopra del tornaconto personale ci debbono essere interessi sociali ben più vitali e profondi. È in fondo la negazione dell'ipotesi dell'homo oeconomicus, in cui si riassume tutto il significato dell'economia tradizionale, sì che la critica dell'individualismo diventa la critica dell'economicità e dell'utilitarismo come principio informatore di tutta la vita economica. Vano è ritenere che i fenomeni economici si possano spiegare riportandoli all'unica causa dell'interesse dei singoli, e vane sono dunque le teorie della scuola classica in quanto si attengono a tale principio e ne traggono le logiche conseguenze. All'individuo deve essere sostituito l'organismo sociale: sia esso la nazione e i suoi interessi particolari, donde l'economia nazionale; sia esso la società in genere, donde il socialismo nelle sue varie forme. Analogamente, all'utile individuale viene anteposto il benessere nazionale o il sentimento di solidarietà, e cominciano a sorgere tutti quei problemi inerenti ai concetti di patria, di classe, di fratellanza, di umanità, che erano assolutamente estranei ai criterî dell'economia liberale. Inutile dire che in tutto questo erano rispecchiate le stesse vicende storiche dell'epoca e che se il sistema di Smith era scaturito dalle ideologie illuministiche e aveva tenuto d'occhio l'industrialismo britannico, l'economia nazionale di List è consona alle ideologie della sua patria e l'economia socialistica si ricollega al movimento operaio originato dalle necessità dello sviluppo industriale. È un continuo intrecciarsi di motivi speculativi e pratici, che, visti alla luce di una vita economica sempre più complessa, esorbitano evidentemente dalle linee della scuola classica e si raggruppano a volta a volta in determinati indirizzi scientifici, tutti unilaterali e perciò errati, ma tutti rispondenti a esigenze imprescindibili. Quanto poi alle singole teorie economiche è chiaro che i problemi più dibattuti diventano quelli della distribuzione, in cui il fine sociale è più immediatamente visibile. Il principio della libera concorrenza, s'intende, è molto attenuato o addirittura violentemente negato, soprattutto nelle dottrine statalistiche più estremiste e rigide: era quella l'espressione tipica dell'individualismo ed è logico ch'essa venisse negata da dottrine decisamente antindividualistiche.

Ma, intanto, siffatto moltiplicarsi di problemi e di soluzioni, e l'evidenza con cui le condizioni storiche si manifestavano nel costituirsi delle varie dottrine, dovevano tuttavia porre il bisogno di giungere a una visione complessiva di fenomeni e di dottrine, e di superare in qualche modo l'atomismo degl'indirizzi contrastanti. Si spiega in tal guisa il successo avuto dalla scuola storica, che, richiamata l'attenzione sul problema metodologico, e forte dell'esempio di un Savigny nel campo giuridico e di tutta una tradizione filosofica, ebbe la vittoria su ogni conclusione particolare e quindi su ognuno degl'indirizzi particolari. Torto avevano gli uni e gli altri, perché ognuno guardava a un solo aspetto della realtà, che ne ha invece infiniti nello spazio e nel tempo, e varia da luogo a luogo e d'epoca in epoca. Lo sforzo compiuto, dunque, dagli economisti è destinato necessariamente a fallire e a tradursi in dogmatismi: non vi sono leggi immutabili perché non è immutabile la realtà che dovrebbero condizionare. Le teorie economiche che si sono susseguite sono anch'esse figlie del processo storico e rispondono a determinati periodi e ambienti: vano sarebbe credere ch'esse possano avere una vita che trascenda lo stadio storico in cui sono sorte. D'altra parte i fenomeni economici non sono isolabili o astraibili dal complesso degli altri fenomeni, ed erra chi crede di poterne discorrere come di entità a sé, capaci d'uno sviluppo autonomo determinato da particolari leggi. Ogni problema economico si comprende nella sua unità con gli altri problemi e si risolve in modo adeguato a questo suo determinato rapporto.

Con tali conclusioni la scuola storica superava l'atomismo dei particolari sistemi, ma cadeva in un relativismo scettico in cui la scienza economica doveva fatalmente annullarsi. La reazione alla scuola classica finiva in un'opera negatrice, che al massimo avrebbe potuto dar luogo a una scienza descrittiva. Vero è che tra gli stessi storicisti vi fu chi tentò di superare il relativismo assurgendo a una sintesi dello stesso processo storico, ma ciò non poté avvenire che con la contraddizione del principio da cui si muoveva e con la caduta in forme più o meno metafisiche e mitologiche. Né migliore sorte dal punto di vista scientifico toccò agli altri tentativi anticlassicisti e antindividualisti: ché infatti la stessa critica del concetto di individuo - critica intesa in senso negativo, di mera opposizione - non consentiva di superare davvero l'individualismo che si combatteva. Allorché l'economia nazionale o il socialismo affermavano la superiorità dell'ente nazione o classe o società su quello d'individuo, muovevano tuttavia dal presupposto illuministico e liberale che l'individuo particolare in qualche modo esistesse e avesse una realtà propria diversa da quella dell'organismo di cui faceva parte, affermavano cioè una superiorità della nazione o della società sull'individuo o una subordinazione di questo a quelle, ma non giungevano a riconoscerne l'essenziale identità dialettica. E così avvenne che l'individuo fu sacrificato alla nazione o alla società dando luogo a forme di pura statolatria, ovvero che lo stato e la società tornassero a essere strumenti per il bene dell'individuo. In ogni caso rimase un dualismo d'individuo e organismo che tradiva evidentemente la sua origine dall'ideologia liberale. Si aggiunga che lo stato e l'organismo sociale in genere, che si contrapponeva all'individuo, non era un'unità storicisticamente concepita, ma una nozione sociologica che coesisteva con altre nozioni di enti solo quantitativamente diversi: famiglia, tribù, città, regione, ecc.; sì che nella molteplicità degli organismi doveva necessariamente riaffiorare l'organismo primo a base di tutti gli altri: l'individuo, nella sua realtà autonoma.

Nozioni così incerte dal punto di vista speculativo e cosi varie nelle conseguenze pratiche, non potevano non contribuire alla generale crisi della scienza economica, sempre più incline a scivolare nel campo della politica militante e a dissolversi in discussioni puramente ideologiche. E si cominciò ad avvertire il bisogno di una reazione alle reazioni e cioè di un ritorno a qualunque costo a una scienza ben determinata, con confini netti e inequivocabili, chiusa a tutta la congerie degl'interessi speculativi e politici che vi avevano fatto irruzione travolgendone i fondamenti. Da più parti e quasi contemporaneamente lo stesso bisogno si fece sentire imperioso, e ben presto si delineò l'ideale di un'economia pura, da contrapporsi all'economia applicata e alla politica economica; l'ideale cioè di un corpo scientifico in cui fossero individuate alcune ipotesi astratte e da esse desunte a rigore di logica le necessarie conseguenze. Si ritornò con ansia alle teorie della scuola classica e si difese contro i critici il carattere scientifico delle leggi da essa formulate, insistendo sul fatto che quelle leggi erano state esplicitamente riconosciute come astratte e che quindi contro di esse non poteva aver valore l'accusa di astrattezza con la quale si pretendeva demolirle. Fin da Adamo Smith era chiaro che l'uomo non è mosso nelle sue azioni dal solo tornaconto personale, ma fin da Smith si è creduto conveniente isolare quei fenomeni che alla legge del tornaconto si ricollegano e farne oggetto di una particolare scienza. È questa la scienza dell'homo oeconomicus, ipotesi astratta alla quale conviene ritornare se si vuol fare davvero scienza. L'istanza delle teorie umanitarie e socialistiche non ha ragione d'essere contro la scienza dell'economia, che non fa questioni di politica, ma si limita a considerare una determinata classe di fenomeni; né vale l'istanza della scuola storica, perché se è vero che tutto muta e si svolge storicamente, è vero tuttavia che al fondo del mutamento ci sono fenomeni e leggi immutabili, che la scienza astrae e studia.

In tale maniera si credette di aver ragione degli avversarî e s'iniziò l'opera di ricostruzione della scienza economica. Assunti a maestri i classici, non si dubitò di accoglierne il postulato fondamentale e cioè la legge del tornaconto personale e la conseguente figura dell'homo oeconomicus visto nella sua assoluta astrattezza. Naturalmente con questo postulato si accettavano tutte le premesse ideologiche dell'individualismo illuministico e si apriva la strada alle stesse conseguenze liberistiche, ma tutto ciò avveniva senza che se ne avesse pre'cisa coscienza e anzi con la persuasione di fondare la scienza su presupposti evidenti e su dati di fatto assolutamente indiscutibili. Che l'uomo possa concepirsi come individuo singolo e che come tale abbia degl'interessi particolari per soddisfare i quali agisce secondo il principio edonistico, è cosa che ai nuovi economisti non viene neppure in mente di discutere. Vero è che essi ammettono, accanto a questi interessi e a questo genere di azioni, altri interessi non particolari e altre azioni non economiche; ma ciò non toglie ch'essi abbiano il diritto d'isolare l'attività dell'uomo in quanto homo oeconomicus e così, astrattamente, studiarlo facendone esclusivo oggetto di scienza. Pretesa legittima, che nessuno avrebbe diritto di discutere e sulla quale invano si equivocherà dai critici che scambieranno l'astratto col concreto e che accuseranno i puristi di vedere nell'uomo solo il brutale egoismo. Contro siffatto genere di critiche sarà facile e perentoria la risposta, e la situazione cambierà solo per chi comincerà ad accorgersi che nessuna delle azioni compiute dall'uomo può riportarsi all'ipotesi dell'homo oeconomicus e che questo non rappresenta dunque un aspetto, sia pure molto limitato, della realtà, bensì la sua negazione.

L'economia pura nasce con un presupposto ricollegantesi a una concezione filosofica e politica in via di dissoluzione. E con tale presupposto si ribadisce il carattere liberale d'una scienza, che tanto più insisterà in questo suo atteggiamento politico, quanto più lo rinnegherà a parole affermando l'apoliticità dell'ipotesi astratta. Per rinnegarlo, ripetiamo, si considererà l'homo oeconomicus come una astrazione rispondente a un dato di fatto: e il dato di fatto si pretenderà di ridurre a oggetto di una scienza esatta, facendo appello per un verso alla matematica e per un altro alla psicologia. Cournot, Dupuit, Gossen, Jevons, i rappresentanti della scuola austriaca (Menger, Wieser, Böhm-Bawerk), Edgeworth, Clark, Fisher, e i teorici dell'equilibrio economico, Walras, Marshall, Pantaleoni e Pareto: questi e altri minori sono gli artefici della nuova economia, che si cimentano nel compito di rendere rigorosamente scientifico o matematizzabile ciò che era il residuo dell'ideologia illuministica.

Il compito maggiore della scienza psicologica è stato quello di precisare il concetto di valore e di utilità. Il dualismo smithiano e ricardiano tra valore d'uso e valore di scambio è stato abbandonato come affatto empirico, e dell'utilità si è voluto dare una definizione più rispondente al carattere soggettivo dell'individuo economico. Se, infatti, soggetto del mondo economico è l'individuo singolo, considerato nella sua particolarità, egli è unico giudice dell'utilità che le cose hanno per lui, e nessun altro concetto di utilità si può dare che non sia quello relativo al giudizio insindacabile di lui. Si può ammettere, è vero, e i nuovi economisti l'hanno ammessa esplicitamente, l'esistenza di un'utilità obiettiva, vale a dire l'utilità della cosa in sé stessa, indipendentemente dal gusto ch'essa procura a chi ne fa uso, ma tale genere di utilità è stato escluso dalla considerazione della scienza economica, la quale deve teorizzare unicamente il mondo dell'individuo nella sua particolare soggettività. Ed è chiaro che per questa soggettività non esistono cose obiettivamente utili, bensì cose che rispondono o non rispondono a gusti e a bisogni limitati nel tempo e nello spazio e variabili da individuo a individuo, anzi per lo stesso individuo in momenti diversi della sua esistenza. Questa, e solo questa, è la vera utilità (o ofelimità, secondo la terminologia del Pareto) che muove gli individui ad agire economicamente e a scambiare i proprî beni con quelli degli altri. Né si può negare che la premessa sia giustissima e logicamente imprescindibile, una volta ammesso il presupposto individualistico. In questo, anzi, la nuova scuola ha dato prova della massima coerenza e ha avuto il merito di condurre alle estreme conseguenze i principî sistematici della scuola classica. Se l'individuo è il centro della vita economica, egli sarà lasciato nel cozzo della libera concorrenza, ma prima di tutto deve essere lasciato arbitro incondizionato di giudicare del valore delle cose, per il cui conseguimento egli scende in lotta con i suoi simili.

Sennonché, tale posizione, logicamente rigorosa e assolutamente irrefutabile quando si sia ammesso il presupposto da cui deriva, apre tuttavia l'abisso innanzi allo scienziato, il quale dovrebbe rinunziare a entrare comunque nel mondo della pura soggettività che ha ipostatizzato, e, una volta constatatolo speculativamente, lasciarlo a sé stesso, perché si svolga secondo la propria natura. Lo scienziato, per la stessa definizione che ne ha dato, non solo deve rinunziare a modificarlo, ma deve riconoscere addirittura l'impossibilità di comunque studiarlo: è un mondo che non ha altra legge che sé stesso e la scienza deve arrestarsi impotente dinnanzi al suo sconfinato arbitrio, suicidandosi nell'atto stesso in cui ha raggiunto la verità. Ma la scuola psicologica, davvero coerente fin qui, è poi voluta uscire dalla contraddizione con un atto di forza e ha escogitato quell'ancora di salvezza che è la famosa teoria dell'utilità marginale. Secondo essa, e partendo dal principio che le utilita marginali dei varî beni d'un individuo sono eguali, è possibile quantificare il giudizio sull'ofelimità di un bene, e confrontare così l'ofelimità dei diversi beni per un determinato individuo. Ciò che era soggettivo diventa oggettivo e la scienza può cominciare a studiarne le leggi. E a studiarne le leggi si son posti con zelo gli economisti citati e, più degli altri, i teorici dell'equilibrio, che dal sistema di un individuo sono passati attraverso la fondamentale teoria dello scambio e della domanda e offerta al sistema di più individui. "Data l'ofelimità elementare del bene y per l'individuo z..."; da questa e da analoghe ipotesi il passaggio alla formula algebrica è stato facile; e in breve le formule si sono moltiplicate in ben congegnati sistemi matematici che hanno dato a tanti la certezza di aver reso esatta quella scienza dell'economia ch'era stata il campo di battaglia di tante ideologie filosofiche e politiche.

Ma la certezza non è durata molto: ché anzi gli stessi puristi più coscienziosi e acuti hanno mitigato molto le loro affermazioni, fin quasi a smentirle radicalmente. Tutto il castello matematico era costruito su quella ipotesi: "data l'ofelimità", ma è poi vero che l'ofelimità sia quantificabile? Il Pareto dopo aver riconosciuto che l'ofelimità totale resta sconosciuta agli uomini, finisce col negare anche la possibilità di conoscere l'ofelimità elementare e scrive che un uomo può sapere che dal terzo bicchiere di vino ha meno piacere che dal secondo; ma egli non può in nessun modo conoscere quanto vino precisamente a lui conviene bere dopo il secondo bicchiere, per avere un piacere uguale a quello che a lui ha procurato quel secondo bicchiere. Da ciò nasce la difficoltà di considerare l'ofelimità come una quantità, se non in via di semplice ipotesi". La costruzione matematica, dunque, è tutta poggiata su un'ipotesi (la possibilità di quantificare l'ofelimità) che non può in nessun modo verificarsi nella realtà, né si capisce a qual fine continuare a perfezionare un sistema senza fondamenti. Peggio avviene per quel che riguarda la teoria dell'equilibrio economico parziale o totale, dove, se l'interdipendenza dei fenomeni economici è messa notevolmente in luce e vale a far giustizia di tanti dogmatismi scientifici, è pur vero che l'istanza teorica più evidentemente vien meno al suo scopo, cristallizzandosi in schemi utopistici ed esaurendosi in un puro virtuosismo matematico.

La ragione del cadere delle speranze riposte nella fecondità dell'economia pura non si deve, però, soltanto alla contraddizione del suo assunto matematico. L'accusa che contro di essa si è tante volte sollevata, di aver ridotto l'uomo reale alla fictio dell'homo oeconomicus, se non è, come si è visto, teoricamente giustificabile, ha avuto tuttavia in pratica una notevole importanza. Troppo spesso, infatti, gli economisti si sono dimenticati del carattere astratto della loro ipotesi e hanno continuato a ragionarvi su scambiandola per una realtà di fatto, e troppe volte si sono estese dogmaticamente alla prassi politica le conseguenze logiche solo nel campo dell'astrazione. E anche di questo ha riconosciuto la verità il Pareto, il meno dogmatico dei puristi, il quale ha dato esempio di saper correggere via via il suo liberismo iniziale, e d'altra parte ha saputo richiamare l'attenzione sulla necessità d'integrare i risultati dell'economia pura con la precisa consapevolezza di un'interdipendenza non soltanto economica, bensi sociologica o totalitaria. In tal maniera, e per una crisi interna alla stessa economia pura, si poneva l'esigenza di un diverso orientamento, inteso per un verso alla liberazione da ogni dogmatismo e alla costruzione di una scienza a carattere storicistico, e per un altro verso alla critica stessa del presupposto individualistico su cui aveva poggiato tutta l'economia classica e l'economia pura, vivendo dell'eredità del sec. XVIII.

I segni del rinnovamento appaiono ormai un po' dappertutto. E sono comuni con le tendenze della speculazione contemporanea, tutta rivolta alla critica dell'illuminismo e del sociologismo, che, dopo avere informato palesemente le diverse scienze sociali, ne costituiscono ancora l'interna struttura. Ma al movimento speculativo si accompagna la trasformazione del mondo economico nazionale e internazionale sempre più indirizzato verso forme organiche complesse e gigantesche, in cui l'individuo tende a scomparire come unità trascurabile. È l'organismo che sostituisce l'individuo, e quindi la collaborazione che sottentra alla lotta violenta e anarchica della concorrenza. Non che il principio della concorrenza sia eliminato dalla nuova vita e dalla nuova scienza economica, ché anzi mai come oggi se ne avverte la fondamentale importanza, ma si comincia a comprendere che anche la concorrenza è un mezzo per il raggiungimento del fine comune e va quindi svolta entro i limiti imposti dalla disciplina dell'organismo. Quali siano poi gli organismi economici di cui qui si tratta è chiaro a chiunque studii la recente storia dei cartelli, dei trusts, dei sindacati, delle società anonime, delle banche nazionali e internazionali, ecc. Ma al di là e al disopra di tali unità economiche si afferma sempre più l'esigenza di un'altra unità, spiritualmente più profonda e storicamente inconfondibile con le altre: lo stato, nella cui vita si riassume quella dell'individuo, non più illuministicamente concepito.

Gli antesignani di questa economica organica e antiliberale sono di tipi diversissimi e talvolta antagonistici, a seconda dell'immediato motivo informatore della loro opera, ma non è troppo difficile trovare un fondamento comune anche nelle tendenze apparentemente più disparate. Dalla profonda esperienza di un Rathenau all'ideologia dei nazionalisti francesi e italiani. dalle tendenze storicistiche e vichiane di un Sombart al filofascismo sociologico di Spann, è tutto un agitarsi contro le vecchie teorie classiche e liberali che lentamente corrode i fondamenti dell'economia pura.

Ma è in Italia che ormai il movimento ha raggiunto politicamente e scientificamente uno sviluppo d'importanza fondamentale. Proprio in Italia, infatti, la critica del pensiero illuministico era stata più perentoriamente condotta é i suoi risultati erano stati più decisivi. Né le nuove affermazioni idealistiche erano restate al margine della vita politica, ché anzi questa ne ha risentito fortemente l'influsso, giungendo ad affermazioni pratiche addirittura rivoluzionarie. La nuova concezione e la nuova prassi hanno avuto una prima formulazione sintetica nella Carta del lavoro, in cui con la famosa affermazione dell'articolo VII ("L'organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l'organizzatore della impresa è responsabile dell'indirizzo della produzione di fronte allo stato") si dava il colpo di grazia al tradizionale liberismo individualistico. Affermato il carattere pubblicistico della proprietà privata, cadeva il fondamento dell'economia tradizionale (l'homo oeconomicus guidato dall'ofelimità), e ragione della vita economica diventava l'identità del fine statale e del fine individuale.

Bibl.: Le principali e più recenti storie delle dottrine economiche sono: K. Ingram, A History of Political Economy, 1ª ed., in Encyclop. Britannica, 1885; 3ª ed. 1915; trad. it. di R. Debarbieri, Torino 1892; E. Böhm-Bawerk, Geschichte und Kritik der Kapitalzinstheorien, 4ª ed., 2 voll., Jena 1921; Ch. Gide e Ch. Rist, Histoire des doctrines économiques depuis les physiocrates jusqu'à nos jours, 5ª ed., Parigi 1926; R. Gonnard, Histoire des doctrines économiques, nuova ed., Parigi 1930; P. Mombert, Geschichte der Nationalökonomie, Jena 1927; E. Salin, Geschichte der Volkswirtschaftslehre, 2ª ed., Berlino 1929; E. Cannan, A Review of Economic Theory, Londra 1929; O. Spann, Die Haupttheorien der Volkswirtschftslehre, 20ª ed., Lipsia 1930. - Per l'Italia: G. Pecchio, Storia dell'economia pubblica in Italia, Lugano 1829; L. Cossa, Introduzione allo studio dell'economia politica, 3ª ed., Milano 1892; F. Ferrara, Introduzioni ai volumi delle prime due serie della "Biblioteca dell'economista", ripubblicate a parte col titolo Esame storico-critico di economisti e dottrine economiche, 2 voll., Torino 1889-1892. Quanto alle opere degli autori citati vedi sotto le singole voci. Un'edizione italiana delle opere dei maggiori economisti dai fisiocrati in più è data dalle cinque serie della "Biblioteca dell'economista" pubblicata a Torino (s. 1ª, 1850 segg., diretta da F. Ferrara; s. 2ª, 1859 segg., diretta da F. Ferrara; s. 3ª, 1876 segg., diretta da G. Boccardo; s. 4ª, 1896 segg., diretta da S. Cognetti de Martiis e continuata da P. Jannaccone; s. 5ª incompleta, 1908 segg., diretta da P. Jannaccone). Un'edizione degli economisti italiani dal 1582 al 1804 è compresa nella collezione di P. Custodi, Scrittori classici italiani d'economia politica (Voll. 50, Milano 1803-1817). È in preparazione una collana di 12 volumi; diretta da G. Bottai, comprendente le opere dei maggiori economisti italiani e stranieri non pubblicate nelle collezioni sopra citate.

Tra i dizionarî di economia politica va ricordato il Palgrave's, Dictionary of Political Economy, nuova ed. a cura di H. Higgs, voll. 3, Londra 1925-26.

Un quadro abbastanza ampio delle dottrine economiche contemporanee è nell'opera edita a cura di H. Mayer, Die Wirtschaftstheorie der Gegenwart (voll. 4, Vienna 1927 segg.). Nel vol. I (Gesamtbild der Forschung in den einzelnen Ländern) sono raccolti saggi di economisti appartenenti ai rispettivi paesi (il saggio sull'Italia è scritto da A. Graziani). Circa l'attuale crisi della scienza economica cfr. W. Sombart, Die drei Nationalökonomien, Monaco e Lipsia 1930. Sulle nuove dottrine economiche in Italia e sui recenti tentativi di sistemazione scientifica dell'economia corporativa cfr. U. Spirito, La critica dell'economia liberale, Milano 1930, e la rivista Nuovi studi di diritto, economia e politica, Roma 1927 segg.

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