Ecosistema tra città e regione

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Ecosistema tra città e regione

Gabriella Corona

Metabolismo urbano

Dopo la Seconda guerra mondiale si è affermata una realtà urbana che ha conosciuto una straordinaria espansione e ha portato all’avvento di una metropoli con vaste periferie. Da quel momento in poi, la città ha iniziato a drenare, metabolizzare ed espellere come un immenso ecosistema, quantità sempre maggiori di risorse naturali e di energia, producendo una pressione senza precedenti sugli equilibri dell’habitat. Si tratta di una fase nuova del rapporto tra città e ambiente che si colloca in un contesto storico completamente cambiato rispetto ai decenni antecedenti alla guerra: è l’Italia del consumismo e dell’industrializzazione, dell’abbandono delle campagne e della discesa dai monti, della rivoluzione igienica e dell’acqua in tutte le abitazioni, delle automobili e dell’inquinamento atmosferico, del consumo accelerato del suolo e della crescita della produzione di rifiuti urbani.

La crescita demografica – dai 29,791 milioni di abitanti nel 1881 ai 41,043 milioni del 1931 per arrivare ai 47 milioni nel 1951 – aveva interessato prevalentemente le aree urbane, dove si erano registrati incrementi superiori rispetto al resto della penisola. Le profonde trasformazioni nella distribuzione della popolazione erano generate dagli spostamenti verso le grandi città e i loro hinterland, e lungo le principali vie di comunicazione. La popolazione residente nei grandi centri si era più che triplicata nel corso di quasi un secolo, passando da 2.906.267 abitanti nel 1861 a 11.046.485 nel 1951. E se nel Centro-Nord era passata da 1.736.928 a 7.857.967, nel Mezzogiorno, invece, il salto era stato da 1.169.339 a 3.188.518. Oltre a ciò, la popolazione residente nei centri con più di 20.000 abitanti cresceva sempre più: del 23,7% nel 1881, del 28,1% nel 1901, del 35,5% nel 1931 e del 41,1% nel 1951 (SVIMEZ 2011).

La dinamica della popolazione italiana dopo la Seconda guerra mondiale si è configurata, oltre che in un incremento numerico e in una crescita dei tassi di urbanizzazione, anche e soprattutto in un gigantesco rimescolio di uomini e donne nell’ambito del territorio nazionale. Circa 15 milioni di persone cambiarono in questi anni il loro comune di residenza. Grazie a tali movimenti, nell’Italia settentrionale, con particolare riguardo alle aree meridionali delle Alpi fino alle sponde del Po, si andarono formando conurbazioni di rilievo intorno alle città più importanti. Dalle regioni meridionali, dalle aree più povere del Polesine e dell’Oltrepò pavese e mantovano, dall’alta pianura friulana e trevigiana, dal Cuneese, la popolazione si spostava verso i litorali veneto e toscano, e verso Milano, Torino, Genova, Venezia e Bologna. Andava inoltre crescendo intorno a Roma e a Napoli (Gambi 1972).

Nell’Italia meridionale e in parte di quella centrale il cambiamento delle strutture urbane si intrecciava a quella vasta opera igienico-sanitaria, oltre che idraulica, già avviata nel periodo tra le due guerre mondiali e realizzata grazie agli interventi di bonifica integrale e di colonizzazione nelle aree di pianura per secoli malariche e di difficile insediamento e coltivazione. Si è trattato di un fenomeno di grande portata che ha segnato profondamente la storia di questa parte della penisola. Dopo secoli di insediamento alto-collinare e montano le popolazioni hanno ripopolato le pianure determinando una mobilitazione ampia ed estesa di acque, terre, fiumi e coste. Questo fenomeno risulta evidente se si guarda al cambiamento della distribuzione della popolazione sul territorio nazionale considerando le fasce altimetriche. Infatti, se nel 1861 la popolazione della collina litoranea e della pianura nel Mezzogiorno era rispettivamente di 3.643.550 e 3.540.714 (su una popolazione totale di 13.501.037), un secolo dopo ammontava a 6.092.666 e 8.025.205 (su una popolazione totale di 20.515.736). Nel suo insieme, dunque risultava raddoppiata. Un fenomeno che ha riguardato il Centro-Nord addirittura con percentuali più accentuate (SVIMEZ 2011). Rispetto al Centro-Nord, tuttavia, nel Mezzogiorno soprattutto continentale si evidenzia con più forza che l’aumento della densità abitativa lungo i litorali si accompagnò alla nascita di nuove città e alla trasformazione di piccoli villaggi in realtà urbane più ampie. Un fenomeno che ebbe inizio negli anni Trenta con le opere di bonifica integrale realizzate dal fascismo e che riguardò i centri abitati sorti sia nell’agro romano sia in Campania, in Puglia, in Lucania, in Calabria, in Sardegna. Analoga importanza ebbe il fenomeno delle ‘marine’ ossia lo sdoppiamento dei vecchi centri situati nell’interno, che, iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento, acquisì una più forte consistenza all’inizio degli anni Cinquanta. Sulle coste calabresi, per es., in questi anni si potevano contare oltre 50 marine di recente insediamento.

Acque nella città

Nell’Italia del secondo dopoguerra il processo di modernizzazione nell’ambito dell’approvvigionamento idrico e dello smaltimento delle acque reflue delle città, benché già avviato nei decenni precedenti, non era per nulla compiuto. Un numero davvero esiguo di abitazioni era provvisto della combinazione di energia elettrica, acqua potabile e servizi igienici; l’acqua nelle case era un privilegio che riguardava per lo più ancora le aree urbane più estese. Nelle zone periferiche e nei centri minori erano prevalenti i sistemi di adduzione che rifornivano fontane e lavatoi pubblici, dai quali ciascuno poteva rifornirsi (Massarutto 2008). I processi di trasformazione igienico-sanitaria avevano avuto un impulso importante già nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando aveva preso avvio un grande sforzo da parte del governo centrale e delle amministrazioni pubbliche locali per far fronte all’aggravarsi della crisi igienica prodotta dal cambiamento e dall’espansione delle realtà urbane. L’Italia giungeva alla metà del Novecento con una regolamentazione in tema di igiene urbana e con un apparato di tecnici sanitari in grado di supportare le amministrazioni locali nella realizzazione di importanti interventi di risanamento. Le innovazioni nelle modalità di accesso alle acque e di smaltimento di quelle reflue stavano producendo una svolta senza precedenti nei rapporti tra città e ambiente. Grazie a esse stava maturando un mutamento anche nella storia della salute pubblica che avrebbe trovato il suo compimento nei decenni successivi, caratterizzati dalla scomparsa delle malattie legate a determinate condizioni igienico-sanitarie tipiche del mondo preindustriale (come il tifo, il colera e la dissenteria), per lasciare il posto a patologie ambientali più complesse. Tali mutamenti erano una conseguenza dell’affermazione della cultura igienista, un filone di pensiero tecnico-scientifico risalente alla rivoluzione batteriologica e agli studi di Louis Pasteur (1822-1895) e dei suoi allievi. Sulla base delle nuove scoperte si era passati da una concezione di insalubrità fortemente connotata sul piano morale e intesa come ‘sporcizia’, a un’idea nuova di inquinamento urbano collegata alla presenza di alterazioni microbiche.

Nel decennio antecedente alla Seconda guerra mondiale, migliaia di chilometri di acquedotti erano stati costruiti grazie all’intenso impegno profuso dal regime fascista a favore dell’agricoltura, attraverso la realizzazione di grandi opere pubbliche destinate alla bonifica e alla costruzione di impianti idrovori per il sollevamento delle acque. In questo periodo erano già numerose le città provviste di uno o più acquedotti, molti dei quali riuscivano a servire anche parzialmente i comuni limitrofi. Di proprietà comunale o costruiti a spese di privati, erano alimentati con risorse idriche prelevate da sorgive, pozzi artesiani, serbatoi artificiali e falde sotterranee. Nonostante ciò, in questo decennio erano serviti ancora solo 10 milioni di abitanti su un totale di poco più di 41 (Massarutto 2008).

Negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, il quadro risultava ancora più critico rispetto al decennio precedente. A causa dei danni prodotti dalla guerra, oltre alle migliaia di edifici e ai chilometri di strade, ferrovie e linee elettriche andati distrutti, numerosi acquedotti rimasero per molto tempo fuori uso. Fu soprattutto grazie ai finanziamenti erogati dal Piano Marshall che risultò possibile realizzare nuovi impianti, oltre a riattivare e rendere nuovamente operativi quelli già esistenti. In questa fase amministratori locali, dirigenti comunali, tecnici ed esperti profusero uno sforzo gigantesco nell’opera di costruzione e ricostruzione di reti idriche e fognarie. In alcune città si ricorse agli invasi montani per potenziare le forniture idriche: ciò avvenne a Genova grazie al bacino del Brugneto, a Palermo con la diga di Scanzano sul fiume Eleuterio, a Sassari con il bacino di Bidighinzu, a Bergamo con una condotta in Val Seriana, a Padova con un acquedotto in grado di utilizzare le falde idriche di Anconetta in provincia di Vicenza e a Roma con l’acquedotto del Peschiera in provincia di Rieti (D’Angelis, Irace 2011).

Successivamente, solo grazie al Piano regolatore generale degli acquedotti approvato nel 1963, lo Stato poté pianificare e finanziare nuovi impianti idrici, dandoli in gestione a comuni o a consorzi di comuni, prevalentemente attraverso le aziende comunali cosiddette municipalizzate e interamente pubbliche. Un modello di gestione che, soprattutto nelle aree urbane dell’Italia centro-settentrionale, si era andato radicando fin dall’inizio del 20º sec. come sistema di gestione efficace nell’attivare un meccanismo di investimenti volto a realizzare miglioramenti nell’ambiente urbano. Oltre ai progressi nell’ambito dell’erogazione del gas e dell’energia elettrica, anche il settore delle acque fu uno di quelli maggiormente potenziati e in cui la municipalizzazione aveva avuto la sua maggiore diffusione già da prima dell’approvazione della l. 29 marzo 1903 nr. 103, seguita dalla riforma del 1923 e dal Testo unico nr. 2578 del 1925.

Tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, il procedere rapido dell’industrializzazione e l’incremento della popolazione urbana favorirono una mobilitazione e una movimentazione delle risorse idriche sconosciute in passato. Mentre l’indice della produzione industriale cresceva rapidamente, la popolazione dei grandi comuni continuò la sua ascesa fino agli anni Ottanta, passando da 11.046.485 nel 1951 a 15.401.178 nel 1981. Nel 1970 il fabbisogno idrico ammontava a 41,9 miliardi di metri cubi, dei quali 7 miliardi erano destinati agli usi civili, 25,6 all’agricoltura e 9 all’industria. Nonostante ciò, ancora negli anni Settanta il processo di generalizzazione dell’accesso all’acqua non si poteva considerare completo. In oltre dieci anni, tra il 1963 e il 1975 il numero dei comuni dotati di acquedotto passò da 5532 a 6835, su un totale di 8035, mentre la rete fognaria serviva ancora nel 1971 solo il 66% della popolazione (31.611.000 abitanti). Ancora più lento era lo sviluppo del settore della depurazione delle acque che contava appena 37 depuratori nel 1960 e 217 nel 1970 (Neri Serneri 2005).

Oltre a ciò, la situazione dei servizi idrici e delle reti fognarie nel Mezzogiorno e nelle isole risultò per molto tempo nettamente peggiore rispetto a quella dell’Italia settentrionale e centrale e il processo teso a stabilire un equilibrio tra le due realtà della penisola è stato lungo e faticoso.

Nonostante ciò anche in queste zone nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale vi fu un decisivo miglioramento grazie agli investimenti realizzati dalla Cassa per il Mezzogiorno nell’ambito della prima fase delle politiche di intervento straordinario. Oltre agli investimenti destinati all’ampliamento delle reti fognarie, per gli acquedotti furono spesi 350 miliardi di lire tra il 1950 e il 1965 e furono costruiti 7000 km di condotte e 1300 serbatoi per 1286 centri abitati. D’altra parte, fin dall’inizio del secolo lo Stato era intervenuto per risollevare le sorti dell’Italia meridionale con opere pubbliche di grande portata come l’acquedotto del Sele, con la costruzione di una canalizzazione di circa 1700 km in grado di rifornire d’acqua 270 comuni. Nonostante ciò, ancora negli anni Ottanta del 20° sec. oltre la metà della popolazione italiana che abitava nelle regioni meridionali lamentava irregolarità nell’erogazione dell’acqua per lunghi periodi dell’anno. Anche il problema delle perdite di rete causato dalle inefficienze gestionali e dalle carenze nella manutenzione si presentava ancora più grave al Sud. Nel 1992, il censimento delle risorse idriche presentava un elenco di ben 11.444 depuratori che servivano il 71,3% dei comuni, ma con variazioni geografiche che andavano dal 62% dei comuni siciliani all’88,6 del Friuli (D’Angelis, Irace 2011).

Nel corso degli anni Ottanta, la situazione dell’approvvigionamento idrico presentava ancora molti problemi ai quali si tentò di rimediare attraverso l’approvazione della l. 5 genn. 1994 nr. 36 (nota come legge Galli) che proponeva una riorganizzazione del sistema di gestione delle acque attraverso un riaccorpamento dei 5513 enti censiti dall’ISTAT a loro volta gestori di 13.503 acquedotti. Gli enti locali, pur rimanendo responsabili della fornitura dei servizi, vennero associati all’interno di ‘ambiti territoriali ottimali’ in modo da raggiungere un coordinamento e una più equa distribuzione delle risorse e dei loro costi. La legge ha attribuito poi alle regioni il compito di individuare tali territori e di regolamentarne le modalità di organizzazione. Nell’ambito dell’attuazione di questa riforma, è prevalsa la scelta di affidare la gestione in molti casi a imprese pubbliche successivamente quotate in borsa (ACEA di Roma, ASM di Brescia) o di assegnarle a privati in concessione o a società miste diffuse soprattutto nelle regioni centrali della penisola (Massarutto 2008).

Le implicazioni ambientali

La modernizzazione nel settore dell’approvvigionamento idrico delle aree urbane e dello smaltimento delle acque reflue ha rappresentato una svolta epocale per ciò che riguarda il miglioramento dalla salute pubblica e delle condizioni di vita nelle città. Ciononostante sono gravi le implicazioni ambientali che essa ha prodotto, la cui soluzione è tuttora oggetto di dibattito e di riflessione tecnico-scientifica. Il cambiamento che ha caratterizzato con maggior forza questa fase è costituito dalla rottura del circuito trofico campagna-città-campagna. Tale circuito, che consentiva un ritorno delle deiezioni e dei rifiuti all’agricoltura, si è spezzato e ciò ha provocato due effetti, a loro volta causa di alcune tra le principali questioni di sostenibilità tipiche dell’età contemporanea. Innanzitutto, la fine dell’agricoltura come settore autosostenibile, con la contestuale diffusione dei fertilizzanti chimici e, in secondo luogo, la crescita del consumo dell’acqua per usi domestici e industriali indotto dalla costruzione degli acquedotti e dalla canalizzazione delle acque reflue (Corona, Neri Serneri 2007). Ad antichi acquedotti, pozzi e cisterne, si andavano sostituendo tecnologie di vario tipo, come l’allacciamento a sorgenti o la filtrazione diretta delle acque superficiali o l’uso di pozzi in profondità. La situazione geografica e geologica non è stata ininfluente nel determinare scelte tecniche volte a modernizzare l’approvvigionamento idrico dei sistemi urbano-industriali in Italia, tenendo conto che dalla ricchezza d’acqua delle sorgenti dell’arco alpino e delle falde sotterranee della Pianura Padana si passava all’intermittenza stagionale delle acque provenienti dalla catena appenninica.

Il processo di incorporazione delle risorse idriche nei sistemi urbani che caratterizzò la fase della ‘città igienica’ anche nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, coinvolgeva in maniera più complessa un ampio spettro di risorse e di equilibri ecosistemici in vasti territori interni ed esterni alle città. Il metodo più utilizzato fu la trivellazione dei suoli e il reperimento di acque profonde o di risorse idriche fluviali che provocò l’alterazione di interi sistemi ambientali a causa di abbassamenti delle falde e delle coste dei fiumi. La necessità poi di trovare sbocchi di deflusso per crescenti quantità di acque di scarico sia dalle abitazioni sia dagli stabilimenti industriali finì con il coinvolgere anche le cavità naturali situate nel sottosuolo e le acque fluviali e marine costiere, provocandone l’inquinamento (Neri Serneri 2009).

La determinazione dei livelli di inquinamento e dello stato generale della salute pubblica nelle città e nelle aree a esse circostanti è infatti fortemente legata al modo in cui sono state incorporate le risorse idriche e collocati i flussi di uscita dell’ambiente urbano. Un ruolo importante hanno giocato storicamente i metodi di captazione delle risorse idriche per assicurarne una più abbondante offerta, la costruzione dei sistemi fognari e le diverse tecniche di deflusso, la ricerca e l’estensione di aree dove depositare i rifiuti solidi e liquidi, le soluzioni per fronteggiare nuove forme di inquinamento delle acque (Neri Serneri 2009).

Per una lunga fase che è giunta fino agli anni Settanta del Novecento, sono state adottate tecnologie applicate alle risorse naturali senza tenere conto delle loro ricadute sulle aree circostanti. La pratica di allontanare dalle città le fonti di nocività e di inquinamento teneva conto essenzialmente delle conseguenze igieniche e non ambientali dell’uso delle acque. Questa impostazione, che aveva ispirato la legislazione sulle industrie insalubri nei Paesi dell’Europa nord-occidentale fin dagli inizi del 19º sec., era stata ripresa in Italia dalla legislazione sanitaria (l. 22 dic. 1888 nr. 5849), in gran parte riaffermata dalla legislazione fascista negli anni Trenta e riconfermata dalla l. 13 luglio 1966 nr. 615 sull’inquinamento. Solo dopo la Seconda guerra mondiale, nell’ambito del dibattito tecnico-scientifico, si affermò un modo nuovo di guardare alla tutela del patrimonio idrico, dominato dalla preoccupazione per la possibile scarsità di una risorsa vitale e centrale ai fini dello sviluppo del Paese.

Nel corso degli anni Settanta le acque dei fiumi e quelle marine e lacustri localizzate lungo le coste, dove si addensavano gli scarichi provenienti dalle grandi aree urbane e produttive, risultavano essere le più inquinate. Tale situazione riguardava, in particolare, le coste venete e romagnole, quelle liguri e toscane, quella pugliese presso Bari e Taranto, e quelle siciliane e calabresi in corrispondenza dello stretto di Messina, nel tratto di costa tra Catania e Siracusa, intorno a Palermo e a Marsala, nelle aree intorno a Roma e a Napoli. Nella conurbazione torinese e milanese erano poi situate ampie zone con acque superficiali di irrigazione o con acque sotterranee, destinate ad approvvigionare gli insediamenti urbani, nelle quali si manifestavano i più forti inquinamenti industriali in particolare per la presenza di cromo (Gambi 1972).

Questa mappa dell’inquinamento rappresenta l’esito del processo conosciuto come avvento del sistema urbano-industriale che, pur avendo preso le mosse in Italia nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, ha conosciuto una accelerazione senza precedenti nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Si è trattato di un cambiamento nei modelli di produzione e di consumo che ha generato modificazioni profonde sul territorio e sull’ambiente, in seguito all’espansione di grandi e medie realtà produttive all’interno dei maggiori agglomerati urbani del Centro-Nord (prevalentemente collocati nel triangolo industriale) e all’insediamento delle grandi industrie lungo le coste del Mezzogiorno continentale e insulare (Neri Serneri 2005).

Il quadruplicarsi della produzione industriale tra il 1951 e il 1971 aveva infatti causato, oltre alla crescita dei consumi energetici, anche un incremento senza precedenti del consumo delle risorse idriche destinate alle attività produttive che gravavano sia sulle acque superficiali sia su quelle sotterranee. Tra gli anni Sessanta e Settanta, il problema dell’inquinamento delle acque, dell’abbassamento delle falde e della scarsità delle risorse idriche era diventato oggetto di dibattito e di discussione tra tecnici, imprenditori e amministratori locali e venne affrontato dal punto di vista della programmazione economica e della pianificazione territoriale, con un’attenzione particolare al problema dei costi di risanamento delle risorse danneggiate. Solo con la l. 10 maggio 1976 nr. 319, nota come legge Merli, si riuscì a impostare una reale politica di tutela delle risorse idriche. Essa stabiliva che tutti gli scarichi nelle acque fossero sottoposti ad autorizzazione in maniera uniforme, cioè senza differenze di uso e di destinazione. Ma fu solo nel corso degli anni Ottanta, con l’adozione dei piani di risanamento regionale e con la messa in funzione dei depuratori pubblici, che lo stato dell’inquinamento delle risorse idriche conobbe un netto miglioramento (Neri Serneri 2009).

Anche il problema dell’inquinamento atmosferico prodotto dalla presenza delle industrie iniziò a diventare oggetto di attenzione tecnico-scientifica. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, si registrò una persistenza delle attività industriali generatrici di inquinamento e causa di una crescita della mortalità generale tra i lavoratori, soprattutto all’interno o nelle vicinanze di grandi e medie realtà urbane. Le mappe di questo fenomeno sono in parte analoghe a quelle disegnate per l’inquinamento idrico, come le grandi aree metropolitane del Centro-Nord, le conurbazioni intorno a Roma e a Napoli, parti del litorale pugliese e siciliano. Erano inoltre sorte aree urbano-industriali che per molti decenni – e in parte ancora oggi – hanno avuto un impatto fortemente distruttivo per gli equilibri ambientali: da Sesto S. Giovanni a Mestre-Marghera, da Piombino a Terni, da Bagnoli a Manfredonia, Brindisi e Taranto, da Augusta-Priolo e Gela a Porto Torres (Neri Serneri 2009).

Città ed energia

Nei sistemi urbano-industriali i processi di urbanizzazione si andavano a intrecciare con sempre maggiore forza con quelli di industrializzazione e di costruzione delle infrastrutture nei trasporti, nell’elettrificazione e nei sistemi igienico-sanitari. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, il generale cambiamento nella distribuzione della popolazione era legato non solo alla ricerca di migliori condizioni di lavoro e di reddito, ma anche a prospettive di maggiore benessere. Prodotti simbolo della nuova società dei consumi, il telefono, il frigorifero e l’automobile, iniziavano a trasformare ritmi e stili di vita soprattutto nelle realtà urbane.

Nel secondo dopoguerra la sostituzione delle risorse energetiche rinnovabili con quelle non rinnovabili era in Italia un processo già avviato, seppure con ritardo rispetto ai Paesi dell’Europa settentrionale. Paolo Malanima ha mostrato come già prima della Seconda guerra mondiale, i combustibili fossili avessero iniziato a sostituire la legna, il cui uso andava sempre più diminuendo, e rappresentassero il 50% del consumo totale. Il mutamento più significativo nella struttura dei consumi si è avuto, tuttavia, a partire dagli anni Cinquanta, quando i combustibili fossili hanno conosciuto una vera impennata, passando tra il 1950 e il 2000 dal 46,95% all’88,70%. Si può definire epocale il cambiamento della struttura del consumo energetico che ha interessato l’Italia nel corso dei decenni successivi al secondo dopoguerra. L’aumento senza precedenti della quota dei combustibili fossili si è accompagnato alla forte contrazione del consumo di legna sceso dal 16,50% nel 1950 al 2,39% nel 2000. E se nel corso degli anni Cinquanta è stato il settore industriale a consumare la percentuale maggiore di energia con una quota che nel 1953 è pari al 44% del totale, a partire dagli anni Novanta sarà il settore dei trasporti ad assumere il primato, seguito dal terziario e dal residenziale (Malanima, in Economia e ambiente in Italia, 2012).

Nel settore dei combustibili fossili, dagli anni Cinquanta del Novecento in poi, il consumo del petrolio, strettamente legato alla diffusione delle automobili, iniziava ad avere un’importanza sempre maggiore rispetto a quella del carbon fossile. Alcuni dati elaborati da Silvana Bartoletto mostrano la crescita straordinaria del numero di vetture circolanti nelle principali province italiane tra il 1961 e il 1995, con particolare riguardo a Roma, che manteneva il primato acquisito, a Milano, Torino e Napoli. Se si guarda poi al numero delle autovetture circolanti ogni 100 abitanti, si nota che esso crebbe, sempre negli stessi anni, di circa sei volte nelle prime tre province e addirittura più di undici volte a Napoli. Con l’incremento del numero delle autovetture aumentò anche il consumo pro capite annuo di benzina. Tra il 1979 e il 2000, la percentuale aumentò di nove punti a Milano e Roma, di sette punti a Torino e di cinque a Napoli. In generale, si ebbe un’impennata del consumo tra il 1985 e il 1995, e una crescita, ma con incrementi decrescenti, negli anni successivi (Bartoletto 2005).

Il ruolo centrale che l’industria automobilistica italiana ha avuto nel più generale processo di sviluppo economico nazionale spiega in gran parte la crescita dell’uso dell’automobile anche oltre la media europea. Tuttavia, il modo caotico e disordinato con cui si sono sviluppate le periferie e le conurbazioni intorno alle città e le difficoltà di realizzare infrastrutture adeguate di trasporto pubblico hanno indubbiamente favorito questo trend. Trainato dalla speculazione edilizia e dai meccanismi di regolazione della rendita fondiaria, lo sviluppo delle aree urbane dagli anni Cinquanta in poi, nella maggior parte dei casi, si è realizzato privilegiando il trasporto privato. Secondo le statistiche relative alla percentuale del numero di autovetture su 100 abitanti, l’Italia presentava, fino agli anni Ottanta, un dato di poco superiore alla media europea, che è andato crescendo con un’accentuazione dello scarto negli anni successivi: 48,3% e 39,3% nel 1990, 53% e 43,4% nel 1996, 55,5% e 45,4% nel 1999 e 56,3% e 45,7% nel 2000 (Bartoletto 2005).

Se, infatti, nella prima metà del 20º sec. è stata la combustione del carbone la principale responsabile dello sprigionarsi di fumo, caligine e biossido di carbonio espulso da camini e ciminiere, da industrie e da abitazioni, a partire dagli anni Sessanta il petrolio ha iniziato a competere con il carbon fossile come causa di insalubrità dell’aria. Infatti, il traffico stradale in pochi decenni è diventato la maggior fonte di inquinamento atmosferico a livello mondiale. Tra il 1950 e il 1973 le emissioni di anidride carbonica sono aumentate da 46 a 400 milioni di tonnellate, con un tasso di crescita medio annuo dell’11%. Negli anni successivi le emissioni, pur crescendo, hanno conosciuto incrementi minori. Le implicazioni dell’uso di massa del trasporto privato non si limitano agli effetti ambientali e inquinanti in senso stretto. Il gigantesco processo di espansione del trasporto privato ha prodotto una riorganizzazione del territorio e una nuova gerarchia degli spazi urbani, processo nell’ambito del quale l’Italia ha svolto un ruolo di leadership in Europa, risultando ai primi posti per la consistenza delle infrastrutture stradali. I dati rivelano invece una scarsa estensione delle reti metropolitane urbane su ferro (Bartoletto 2011).

Consumo di suolo

Il mutato ruolo del suolo in quanto elemento naturale dell’ecosistema urbano è stato uno degli effetti più importanti del cambiamento che le città italiane hanno conosciuto dalla seconda metà del 20º sec., accanto al forte impatto prodotto dall’accentuarsi della pressione antropica sulle risorse idriche. Esso, infatti, era coinvolto in vario modo, nella più generale riorganizzazione territoriale delle realtà urbane. Al loro interno – fatta eccezione per i parchi e per le aree di agricoltura urbana – oltre a perdere il suo carattere di risorsa e la sua funzione di rigeneratore della fertilità agricola, il suolo si andava trasformando in supporto fondamentale nei processi di infrastrutturazione igienico-sanitaria, stradale, ferroviaria ed elettrica.

Oltre a ciò, l’uso edilizio del territorio ha rappresentato uno dei motori dello sviluppo italiano negli anni del ‘miracolo economico’ e uno dei principali fattori di squilibrio territoriale. In conseguenza di questo nell’Italia del secondo dopoguerra le realtà urbane sono cresciute trascurando i bisogni collettivi, il rapporto tra territorio e densità demografica, la funzione sociale del territorio nelle sue parti più squisitamente naturali. Le città del miracolo economico si sono sviluppate ‘a macchia d’olio’, cioè in tutte le direzioni, espandendosi nella campagna senza preservare, soprattutto nelle periferie e nella are di nuova edificazione, al proprio interno le aree indispensabili per i giardini pubblici e per i servizi. Il fallimento della riforma urbanistica presentata nel 1962 dal ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo, che prevedeva una riduzione del carattere privato dei suoli a favore di una pianificazione comunale, aveva lasciato privo di una soddisfacente regolazione e in balia di usi distorti e dannosi per la collettività proprio un bene fondamentale come il suolo. Una mancanza che sarebbe stata solo in parte colmata dalla l. 28 genn. 1977 nr. 10, nota come legge Bucalossi (De Lucia 1989, 20053).

L’espansione edilizia a fini sia civili sia industriali, molto spesso abusiva e priva di una corretta pianificazione, ha finito con l’accentuare la pressione antropica su aree già esposte al rischio idrogeologico, in un territorio nazionale che storicamente presenta caratteri originari di fragilità naturale. Inoltre, l’impermeabilizzazione dei suoli, la cementificazione degli alvei e dei valloni, l’estrazione di materiali dal letto dei torrenti, la deviazione dei corsi dei fiumi, le non sempre adeguate opere di captazione hanno ridotto la sicurezza idraulica di ampie zone rendendo più violenti i fenomeni franosi e alluvionali. La casistica è estremamente ampia: basti ricordare la frana di Agrigento del 1966 e l’alluvione di Genova del 1970, le cui cause sono state fatte risalire alla speculazione edilizia e a una crescita urbana scarsamente pianificata in zone particolarmente vulnerabili (Palmieri, in Economia e ambiente in Italia, 2012).

Secondo dati forniti da un rapporto di Legambiente (Ecosistema a rischio 2010), circa l’82% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico: in particolare tale rischio interessa la totalità dei comuni di Calabria, Marche, Basilicata, Umbria e Valle d’Aosta (100%), mentre per altre otto regioni, situate prevalentemente al centro della penisola, la percentuale oscilla tra il 92 e il 99%. A ciò si aggiunga che da un raffronto con dati precedenti, risulta non solo che la percentuale non è diminuita, ma in alcuni casi è addirittura aumentata.

Dagli anni Cinquanta in poi, inoltre, il consumo del suolo, ovvero la quantità di terreno sottratto a superfici naturali e agricole, ha subito un’accelerazione maggiore rispetto a quello che l’incremento della variabile demografica avrebbe richiesto, dando vita allo sprawl, inteso come diffusione e dispersione abitativa. Nel trentennio 1951-1981, nelle 25 aree di studio considerate dal Rapporto sullo stato dell’urbanizzazione in Italia, a fronte di un incremento demografico del 34%, la superficie urbanizzata è aumentata del 114% e il consumo medio per abitante è cresciuto da 92 a 144 metri quadrati. La superficie urbanizzata è aumentata da 757.000 ha nel 1951 a 1.554.000 nel 1980, con una crescita del 105,3% (Corona, Neri Serneri 2007).

Tra il 1990 e il 2006 i cambiamenti di uso del suolo hanno interessato nel loro complesso un territorio di circa 552.000 ha, cioè una porzione di territorio grande circa quanto la Liguria. Si è poi registrato un incremento di 131.300 ha di aree urbanizzate e di 84.800 ha di superfici forestali, pari nel loro complesso a 216.000 ha. L’incremento del consumo del suolo destinato a urbanizzazioni è del 18% in montagna (dove il 68% delle conversioni è destinato a forestazioni) e dell’88% in pianura. Nelle aree collinari, invece, il 40% è destinato a forestazioni e il 44% a urbanizzazioni. Il contributo maggiore all’incremento di aree urbane è localizzato in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Calabria e Sardegna (Di Gennaro, Innamorato, Filippi et al., 2011).

Con il termine sprawl si definiscono determinati fenomeni di espansione delle città, che possono assumere diverse caratteristiche. Lo sprawl si manifesta innanzitutto con la diffusione delle aree periferiche intorno a un centro, determinata dalle innovazioni dei sistemi di trasporto e dalla necessità di allontanarsi dalla congestione dei centri urbani. Si tratta di un fenomeno fisiologico della contemporaneità che ha interessato le città europee a partire dagli anni Sessanta ed è stato in molti casi governato da interventi di pianificazione volti al contenimento di un’espansione incontrollata e caotica. Esso può anche manifestarsi come estensione delle fasce esterne che danno vita a zone insediative policentriche. In questo caso si tratta di dispersione vera e propria, fenomeno interpretato dagli urbanisti come una ‘patologia’ urbana, una frammentazione casuale di nuovi insediamenti abitativi e produttivi che accentua forme di emarginazione e di ghettizzazione funzionale e sociale. Essa si lega a un’assenza di regolazione pianificatoria e più della diffusione evidenzia quella mancata corrispondenza tra crescita demografica e accelerazione del consumo del suolo che rappresenta uno dei caratteri distintivi con cui si è venuto configurando il processo di trasformazione del territorio in Italia nel corso degli ultimi sessant’anni.

La sottrazione di terreni produttivi e naturali non costituisce l’unica implicazione ambientale dello sprawl. Un’altra evidente conseguenza è visibile nell’incremento della mobilità basato esclusivamente sul trasporto su gomma delle merci e delle persone e nell’impossibilità di fornire a interi quartieri un adeguato servizio di trasporto pubblico. Un fenomeno che non è dovuto solo alla costruzione caotica e priva di un ordine pianificatorio dell’edilizia abitativa, ma anche allo sviluppo disordinato, all’interno delle conurbazioni, di outlet e grandi centri commerciali, di aeroporti e interporti, di nuove città universitarie e agglomerati sia industriali sia turistici (Gibelli 2006).

La mancanza di confini netti e precisi tra rurale e urbano, città e campagna di cui lo sprawl costituisce un’importante manifestazione, si spiega storicamente con il modo fragile con cui è stato recepito in Italia il principio di tutela delle cinture verdi della città sul quale, per es., si era fondata l’ampia legislazione inglese sulle green-belt cities del secondo dopoguerra. Si tratta di quel principio secondo il quale la pianificazione è sollecitata a definire i rapporti tra urbano e rurale, a stabilire i limiti all’attività dei privati nel processo di espansione della città, proprio in nome del benessere e della salute dei cittadini. Esso aveva ispirato l’azione del Garden city movement fin dagli inizi del Novecento in Germania, Francia, Olanda, Belgio, Spagna, Polonia, Cecoslovacchia, Russia e Stati Uniti. Solo in rari casi, le politiche urbanistiche nel nostro Paese sono riuscite a imporre il mantenimento di aree verdi volte a ostacolare fenomeni di degenerazione urbana e a rallentare i ritmi frenetici di accelerazione del consumo del suolo.

La formazione di ampie zone densamente abitate intorno alle più grandi città italiane è dunque un aspetto importante del processo di urbanizzazione che ha interessato l’Italia negli ultimi sei-sette decenni. Le aree metropolitane sono quelle ampie conurbazioni che molto spesso travalicano i confini provinciali, per le quali si prevede la costituzione di organi autonomi di governo non ancora realizzati, e che vedono le loro massime estensioni intorno a Milano, a Napoli, a Roma e a Venezia. Nel 2010 la popolazione residente in queste aree ammontava nel suo complesso a 17.832.326. Se, infatti, la popolazione residente nel territorio comunale di Milano, sempre nel 2010, era di 1.582.421, quella della sua area metropolitana, che rappresenta il 64,65% del territorio regionale era di 6.352.564. Analogamente per Napoli la cui area metropolitana, pari al 62% del territorio regionale, accoglie 3.611.369 persone, mentre il comune 962.940. La consistenza di queste aree era già evidente al 1961, quando quella di Milano era di 4.630.878, e cioè il 62,53% del territorio regionale, e quella di Napoli era di 3.254.111, e cioè il 68,35% dell’intera popolazione della Campania. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, dunque, la variazione non è molto significativa. Se si guarda infatti alla fase successiva al secondo dopoguerra si noterà che la massima variazione della popolazione urbana si ha nel decennio 1951-1961 ed è pari al 20,38% (SVIMEZ 2011).

I rifiuti

Accanto all’inquinamento atmosferico e all’accelerazione del consumo del suolo, anche la questione dei rifiuti urbani si veniva configurando, nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, come uno tra i più gravi problemi ambientali. Per un lungo periodo, l’industrializzazione si era accompagnata a pratiche attente di riuso e riciclo dei materiali. La produzione di una quantità crescente di rifiuti nelle aree urbane e le difficoltà di smaltimento appartengono a quella fase della storia italiana – e occidentale in generale – che prende avvio dagli anni Cinquanta del Novecento. Sono infatti fenomeni legati all’avvento della società dei consumi fondata sulla rapida obsolescenza di beni e prodotti e all’affermazione di un modello di crescita economica continua e senza limiti.

Le modalità di smaltimento adottate con la rivoluzione igienica fin dalla seconda metà del 19º sec., si rivelarono ben presto obsolete e inadatte alle forme di organizzazione urbana e territoriale dei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Il principio dell’allontanamento dei rifiuti dalle città e la risoluzione del problema direzionando i flussi di uscita verso aree lontane iniziarono a costituire un fattore di grave crisi ambientale. I ritmi frenetici dello sviluppo urbano non sempre si accompagnarono alla capacità delle amministrazioni di farvi fronte attraverso una gestione sostenibile delle difficili relazioni metaboliche con i territori circostanti. L’intensificarsi dell’urbanizzazione, sia accentrata sia diffusa, e dell’industrializzazione, sia localizzata nelle grandi aree sia distribuita in distretti, sia polarizzata nel Centro-Sud, ha imposto un cambiamento talmente rapido degli assetti territoriali che i gruppi dirigenti locali lo hanno governato con fatica e con insuccessi sempre più frequenti. Dagli anni Settanta a oggi la produzione nazionale di rifiuti urbani è quasi triplicata, passando da 13 milioni di tonnellate a 36. Ma è a partire dagli anni Ottanta che la produzione media pro capite conosce un’impennata senza precedenti passando da 248 kg pro capite nel 1980 a 466 nel 1998 con una crescita il cui allineamento incrementale corrisponde a quello del PIL aggregato e pro capite. Dopo il 1998 l’incremento pro capite è più basso e la produzione annua passa da 466 a 532 nel 2009 (ISPRA 2012).

Tra gli anni Cinquanta e Settanta l’aumento della produzione di rifiuti era collegato a una ‘grande trasformazione’ dell’economia e della società italiana. Gli anni compresi tra il 1957 e il 1963 furono per l’Italia il periodo più significativo di una transizione da Paese rurale a potenza industriale. Ma fu il cambiamento del sistema distributivo che determinò quasi un raddoppiamento della produzione dei rifiuti, verificatosi in Italia a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Tutta la fase del confezionamento dei prodotti richiedeva una trasformazione profonda in seguito al declino delle merci sfuse a favore della produzione di marca, e al diffondersi della pubblicità e del marketing. Il ruolo sempre più importante delle confezioni e degli imballaggi per consentire alle merci di percorrere sempre più lunghi itinerari e le innovazioni nel packaging imponevano la nascita di un’apposita industria, determinando un aumento dei rifiuti mai conosciuto nel passato. Negli Stati Uniti, per es., le confezioni rappresentano più di un terzo dell’intero flusso dei rifiuti solidi espulsi dalle città (Quel che resta di un bene, 2011).

Molto diverse si presentano le situazioni all’interno della penisola, con differenze soprattutto tra Centro-Nord e Italia meridionale. La Lombardia arriva in ritardo a realizzare un sistema efficiente rispetto a regioni come l’Emilia-Romagna, pur avendo come la Toscana, il Piemonte e la Liguria un tessuto organizzativo dei servizi pubblici e delle municipalizzate già diffuso e radicato che risaliva, come si è riscontrato a proposito delle risorse idriche, in alcuni casi all’inizio del secolo. Nel Mezzogiorno, invece, la situazione delle città capoluogo di regione è molto diversa da quella delle campagne: in generale nel Sud c’è carenza di apparati industriali, di impianti di compostaggio, di imprese pubbliche forti, mentre le discariche, quasi interamente in mano ai privati, sono il sistema prevalente di smaltimento.

Proprio nel corso degli ultimi trent’anni, le difficoltà di smaltimento dei rifiuti o gli inceppamenti nel ciclo hanno prodotto situazioni critiche diffuse e gravi emergenze come quella di Milano negli anni Ottanta, di Firenze negli anni Novanta e di Napoli nel 2007-2008 con strascichi anche nel 2009 e 2010. L’accumulo di rifiuti per le strade delle città ha rappresentato l’espressione estrema delle difficoltà con cui le amministrazioni locali hanno governato gli effetti metabolici dei processi di urbanizzazione e industrializzazione.

Questo grave problema evidenzia come l’Italia non sia riuscita a dotarsi di sistemi di smaltimento in grado di sostenere i ritmi di crescita della produzione dei rifiuti non solo urbani, ma anche e soprattutto speciali, pari a 100 milioni circa di tonnellate all’anno. A confronto di Paesi come la Francia con 128 impianti di recupero di energia dai rifiuti con una taglia media di 90.000 tonnellate lavorabili all’anno, e la Germania, che ne possiede 94 con una portata tripla rispetto a quella francese, l’Italia ne conta 51 con una taglia media di 80.000 tonnellate. Il ricorso alle discariche è ancora molto frequente, tanto che la percentuale della produzione di rifiuti che vi è destinata ammontava al 48% nel biennio 2007-2009. Se il ricorso alle discariche continuava a essere ancora altissimo, la media nazionale della raccolta differenziata si attestava intorno al 33,6% nel 2009; un dato che, tuttavia, nasconde profonde differenziazioni territoriali. Se si guarda alle città nel 2009, le più virtuose tra quelle con un numero di abitanti superiore a 150.000 sono le emiliane: Reggio Emilia con 49,9%, Modena con 47,4%, Parma con 45,2% e Ravenna con 45,2%. Si tratta di città che non superano i duecentomila abitanti e dunque il dato percentuale può trarre in inganno. Se, infatti, prendiamo in considerazione le città grandi, il cui numero di abitanti si attesta intorno al milione e in alcuni casi lo supera, la percentuale più bassa può, tuttavia, indicare un numero maggiore di abitanti che ricorrono alla differenziata. È il caso di Torino che raggiunge il 41,7%, di Milano con 34,2%, di Roma con il 20,2% e di Napoli con il 18,3% (ISPRA 2012).

La città e l’ambiente nel dibattito pubblico sulla pianificazione

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, all’interno di un filone di studi urbanistici definito riformista veniva ideato un nuovo approccio all’elaborazione delle politiche di pianificazione che avrebbe rappresentato un profondo cambiamento nel modo di concepire lo sviluppo urbano e il modo di governarlo e gestirlo. Se fino a quel momento l’urbanistica si era proposta di regolare l’uso del territorio urbano senza intervenire sulle cause strutturali che ne avrebbero provocato danni e distorsioni, il nuovo approccio si proponeva di sorvegliare il processo di espansione delle città per evitarne le implicazioni negative attraverso un controllo del mercato fondiario e dei meccanismi di formazione della rendita. Considerata fino a quel momento disciplina tecnica, l’urbanistica iniziava ad aprirsi alle problematiche sociali e ambientali assumendo una più decisa funzione politica. Attraverso i forti legami che si venivano a creare con le amministrazioni pubbliche e i partiti di sinistra alcuni esponenti di questo filone di studi (Pier Luigi Cervellati, Giuseppe Campos Venuti, Edoardo Detti, Vezio De Lucia, Edoardo Salzano e molti altri) tra la seconda metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta divennero i protagonisti del dibattito pubblico sulla città e di molte delle scelte istituzionali adottate in questo periodo, sia a livello nazionale sia locale.

A partire dagli anni Settanta, tra gli urbanisti dell’Istituto nazionale di urbanistica maturava la consapevolezza che i piani di ricostruzione adottati soprattutto nelle grandi città dopo la fine della Seconda guerra mondiale avevano prodotto gli sventramenti dei centri storici, la privatizzazione delle zone panoramiche, l’espansione delle periferie, la costruzione di reti viarie per il trasporto su gomma a danno di quello su ferro. L’uso edilizio del territorio aveva rappresentato uno dei principali motori dello sviluppo economico italiano nel secondo dopoguerra e, al contempo, uno dei più gravi fattori di squilibrio territoriale. Nell’Italia di questi decenni, infatti, le città erano cresciute senza tenere in alcun conto i bisogni collettivi, il rapporto tra suoli urbani e densità demografica, la funzione sociale del territorio nelle sue parti più squisitamente naturali.

La ‘questione ambientale’, intesa come la necessità di contenere gli effetti distruttivi di un’urbanizzazione che non ha tenuto conto degli equilibri naturali e dei valori del paesaggio, entrava in questo dibattito prevalentemente attraverso la discussione sul carattere pubblico della pianificazione e sulla riqualificazione urbana. Il fallimento della riforma urbanistica presentata nel 1962 dal ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo, oltre a provocare lacerazioni in partiti come la Democrazia cristiana e il Partito socialista, all’interno dei quali non vi era a proposito della legge un’unanimità di vedute, ha inciso profondamente sulla vita pubblica italiana. La sua mancata approvazione ha inoltre contribuito al rafforzamento di quei modelli acquisitivi individuali e familiari sui quali si sarebbe fondata la società italiana contemporanea, a fronte dell’indebolimento di un potere statale incapace di soddisfare e regolare i bisogni collettivi (De Lucia 1989, 20053).

Nel dibattito pubblico nazionale la questione della riforma urbanistica è rimasta centrale per tutti gli anni Sessanta e Settanta. L’intreccio tra le problematiche del territorio urbano e quelle della casa travalicava, infatti, l’ambito ristretto della discussione interna agli urbanisti, per coinvolgere settori importanti del mondo politico e sindacale, delle istituzioni e della società civile, come il Partito comunista e quello socialista, le tre confederazioni sindacali e l’Associazione dei comuni italiani. In questo contesto emergeva con forza l’esigenza di sancire sul piano legislativo la separazione tra diritto di proprietà e diritto di edificabilità, delegando al contempo al settore pubblico – cioè allo Stato, alle regioni e ai comuni – la facoltà esclusiva di regolarlo attraverso la pianificazione.

Oltre a ciò, la questione di una nuova professionalità più legata al tema della pianificazione pubblica e alle esigenze degli enti locali era posta con forza dagli studenti nelle università italiane fin dalla fine degli anni Sessanta. Nella temperie dei movimenti del Sessantotto emergevano nuove istanze culturali legate all’esigenza di adeguare i saperi e le conoscenze alle nuove esigenze del territorio e al mutamento profondo che stava interessando le realtà urbane. Occorreva formare figure in grado di operare all’interno delle strutture pubbliche. E, d’altra parte, questo cambiamento era prodotto non solo dalle esigenze di attuazione dei nuovi ordinamenti regionali e dai processi di rinnovamento e di riforma delle amministrazioni comunali, ma anche e soprattutto da una nuova consapevolezza dei problemi che interessavano con sempre maggiore forza il territorio e l’ambiente. Una consapevolezza che nasceva dall’avvio di una riflessione culturale sulle implicazioni ambientali dell’avvento dei moderni sistemi urbano-industriali e dell’affermazione della società dei consumi, oltre che sulla divaricazione profonda tra crescita economica e miglioramento delle condizioni sociali.

Nel più generale dibattito istituzionale degli anni Settanta i problemi della città erano affrontati dal punto di vista dell’azione delle amministrazioni centrali e periferiche propria della tradizione riformista socialdemocratica. Erano anni in cui era forte la fiducia nelle politiche pubbliche come strumento per contrastare e regolare le spinte distruttive derivanti dai processi spontanei di trasformazione del territorio provenienti dalla società e dall’economia. Le politiche di programmazione economica adottate in questo decennio – si pensi al Rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-1975 o Progetto 80 – si proponevano di correggere gli squilibri interni alla penisola non solo in termini economici, ma anche territoriali e cioè attraverso l’individuazione di ‘sistemi di città’ per fronteggiare le implicazioni più gravi dell’espansione urbana.

Oltre alla forte attenzione dedicata al ruolo della pianificazione pubblica come elemento di regolazione dei rapporti tra espansione urbana ed equilibri ambientali, anche un altro importante aspetto caratterizzava il filone cosiddetto riformista. A una concezione dello sviluppo urbano inteso come crescita a oltranza se ne sostituiva una fondata sulla riqualificazione e il recupero. Si guardava, per es., con crescente attenzione alla questione dei centri storici. Le operazioni di demolizione e di sventramento erano state fino alla prima metà del Novecento il modo privilegiato per adattare l’espansione edilizia alle esigenze della modernizzazione e dell’espansione urbana. Grazie all’opera dell’Associazione nazionale dei centri storico-artistici e al pensiero di Antonio Cederna e Mario Manieri Elia si affermava un principio ampio di tutela dei centri storici. Secondo tale principio la loro salvaguardia significava proteggerli non solo dal punto di vista edilizio bensì anche sociale, riguardando anche coloro che vi abitavano e lavoravano: il piano di risanamento avrebbe dovuto operare in modo da garantire il permanere della struttura sociale e consentire agli abitanti di un quartiere di rioccupare gli edifici risanati dopo un periodo di allontanamento temporaneo. I meccanismi di intervento previsti da questa concezione della tutela dei centri storici hanno incontrato indubbie difficoltà soprattutto per i problemi legati al trasferimento temporaneo della popolazione. Tuttavia rimangono una espressione importante di una tradizione di tutela delle parti più antiche dei centri urbani che ha rappresentato un carattere distintivo del modo in cui in Italia si è concepita la modernizzazione urbana. Vari sono gli esempi risalenti agli anni Sessanta e Settanta in cui risulta evidente una particolare attenzione delle politiche urbanistiche alla qualità del territorio sia nelle sue parti naturali sia in quelle di più antico insediamento. A tale proposito basti ricordare le battaglie contro gli sventramenti dei centri storici, la pianificazione del centro storico di Siena e delle sue pendici naturali a opera di Ranuccio Bianchi Bandinelli e Luigi Piccinato; la difesa delle colline di Firenze e Bologna con i piani, rispettivamente, di Edoardo Detti, urbanista e assessore, e di Giuseppe Campos Venuti; il piano regolatore di Assisi di Giovanni Astengo. A ciò si aggiungano il piano di recupero del centro storico di Matera, il piano comprensoriale di Venezia, il progetto Fori a Roma (De Lucia 1989, 20053).

Ma il principale modello concreto di riferimento di questa cultura della tutela fu nel corso degli anni Settanta il progetto di recupero del centro storico di Bologna portato avanti da Pier Luigi Cervellati, dal 1970 assessore all’edilizia. Il piano per il centro storico di Bologna venne adottato nel 1969 come variante rispetto al piano regolatore generale del 1958. Redatto interamente all’interno degli uffici comunali da Cervellati, Roberto Scannavini e Felicia Bottino, fu approvato nel 1971. Questo piano si fondava sull’idea di uno sviluppo urbano che non necessariamente doveva coincidere con l’aumento di consumo di spazio e di suolo. Il centro storico era visto come ciò che resta della città preindustriale, e il suo recupero si fondava su un’esigenza di stabilità e di continuità storica del rapporto tra la società e l’ambiente urbano.

Secondo questo filone culturale sulla pianificazione urbana, le politiche non potevano azzerare la storia dei luoghi poiché essi non erano il frutto di un ordine casuale né di interventi individuali. I piani dovevano tenere conto del tessuto urbano in quanto risultato di una stratificazione antica e di un processo storico di lungo periodo. Inoltre il problema dei centri storici aveva travalicato l’ambito un po’ ristretto degli addetti ai lavori per assumere un significato politico e culturale più ampio. Questo approccio, infatti, rappresentava anche un modo per contrastare la speculazione e controllare il mercato edilizio. Parlare di centri storici voleva dire anche affrontare il tema della qualità della vita nei contesti urbani e delle politiche per la casa.

Non bisogna, infatti, dimenticare che alla fine degli anni Sessanta intorno al problema degli affitti, dell’edilizia pubblica, dei servizi, della qualità dell’ambiente era profondo l’intreccio tra urbanistica, politica e lotte sociali. Un intreccio che caratterizzò una stagione di grande mobilitazione popolare volta a ottenere, attraverso forme più o meno violente di conflitto, una più forte partecipazione alle scelte politiche delle amministrazioni comunali relative all’organizzazione del territorio e all’uso delle risorse locali. Le lotte urbane che scoppiarono in varie città italiane – come Milano, Torino, Roma e Napoli – erano dirette a migliorare le condizioni abitative e a garantire un più equo accesso ai beni collettivi. I problemi e i disagi derivavano proprio dalle modalità con le quali si erano configurati i processi di sviluppo economico a partire dal secondo dopoguerra: la polarizzazione industriale, la concentrazione dei flussi migratori, l’elevata domanda di abitazioni medie e medio-popolari, l’incompleta realizzazione di infrastrutture igienico-sanitarie. Oltre al ricorso alle forme più violente di lotta urbana come l’occupazione di case o l’autoriduzione degli affitti, il movimento sollecitava l’impiego degli strumenti urbanistici vigenti e la loro applicazione. Sotto la forte spinta di questa mobilitazione molte amministrazioni comunali applicarono le leggi per la realizzazione degli interventi di edilizia economica e popolare e dei servizi sociali previsti. Il movimento studentesco e sindacale che conosceva in questa fase momenti di forte tensione non si mostrò estraneo alle istanze per la casa avanzate nel corso delle lotte urbane. In città come Torino, per es., questa mobilitazione aveva avuto importanti legami con le lotte operaie durante le proteste dei baraccati e l’occupazione degli alloggi. E, d’altra parte, il Sessantotto italiano e l’avvio dell’autunno caldo nel 1969 erano stati contraddistinti da un’attenzione forte delle organizzazioni sindacali ai problemi della casa: la questione degli affitti, la lotta contro la speculazione edilizia e fondiaria, l’intervento dello Stato per la costruzione di nuovi alloggi, una politica urbanistica più efficiente (De Lucia 1989, 20053).

In questi anni vennero approvati interventi legislativi importanti per la soluzione di questi problemi. La legge per la casa 22 ott. 1971 nr. 865 sviluppava e consolidava una riforma già avviata nel decennio precedente con la l. 18 apr. 1962 nr. 167, regolando la programmazione dell’intervento pubblico e l’espropriazione per pubblica utilità. Provvedimenti che, d’altra parte, non potevano da soli eliminare le cause profonde dei gravi squilibri sociali e territoriali denunciati dai movimenti di lotta per la casa. Esisteva, infatti, una forte divaricazione tra domanda e offerta di case per cui i 200.000 alloggi circa costruiti mediamente ogni anno rappresentavano in larga misura seconde case o abitazioni di lusso e non si localizzavano nelle aree dove il fabbisogno era più urgente.

La battaglia contro l’espansione degli abitati incrociava quella per il recupero del patrimonio edilizio esistente e tutto il filone dell’urbanistica dell’austerità che si ispirava alla proposta politica di Enrico Berlinguer. Si tratta dell’elaborazione più alta e convincente di un modello di sviluppo alternativo fondato sull’esigenza di far fronte alla crisi – provocata dall’ingresso sulla scena mondiale di popoli e Paesi ex coloniali – di un sistema basato sull’aumento senza limiti dei consumi individuali. Nonostante ciò, esso sarebbe rimasto privo di un consenso forte all’interno del partito. Berlinguer sosteneva che la politica dell’austerità poteva recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano sulla crescita del solo consumo privato e doveva condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni quali la cultura, l’istruzione, la salute e un libero e sano rapporto con la natura (De Lucia 1989, 20053).

Erano gli anni della crisi energetica provocata dal rialzo dei prezzi del petrolio che investì tra il 1974 e il 1975 in maniera sincronica tutti i principali Paesi industrializzati, tra cui l’Italia, provocando una acuta fase recessiva. Questo, d’altra parte, si collegava allo sforzo di legittimazione politica, profuso dal leader comunista negli anni precedenti, volto a costruire i presupposti culturali del compromesso storico, favorendo l’incontro tra i contenuti della cultura del Sessantotto e quelli riconducibili alle componenti popolari dei due grandi partiti di massa, sul terreno della critica agli aspetti degenerativi del capitalismo. La linea berlingueriana, infatti, elaborava una critica profonda di un modello di sviluppo che, basato sull’espansione e sul consolidamento del capitalismo, era ritenuto incapace di migliorare le condizioni di vita delle classi meno abbienti e di colmare le profonde diseguaglianze sociali e territoriali che il capitalismo stesso aveva accentuato, quando non addirittura provocato. Essa si configurava così come un indirizzo e una strategia che intrecciavano nel profondo le questioni della moralità pubblica.

È in questo senso che l’impostazione berlingueriana trovava consenso politico e sostegno scientifico in una parte della tradizione urbanistica. Da tempo, infatti, il tema dell’austerità era vivo e presente nel dibattito urbanistico italiano e nell’analisi degli effetti della rendita fondiaria: la difesa dei centri storici e dei beni naturali, il sostegno al trasporto pubblico contro lo sviluppo di quello privato, la lotta contro l’emarginazione dei ceti popolari all’interno dello spazio urbano, l’opposizione agli sperperi per i palazzi di lusso e le seconde case. Ma se questi avevano costituito fin dagli anni successivi alla Seconda guerra mondiale i temi di fondo della letteratura territorialista italiana, l’incontro tra la politica berlingueriana dell’austerità e l’urbanistica favoriva l’approfondimento e la definizione di aspetti strettamente legati alla questione dei costi sociali ed economici che uno sviluppo fondato sullo spreco delle risorse ambientali e territoriali stava imponendo alla collettività. Fu così che si venne definendo con chiarezza e maturità il profilo più alto della riflessione ambientalista in Italia, non più legata unicamente a una logica meramente conservazionista, ma calata in una concezione più ampia e generale di un rapporto equilibrato tra attività umane e risorse naturali. Ed è Giuseppe Campos Venuti l’autore che più degli altri avrebbe elaborato una serie di riflessioni, all’interno delle quali questo legame giocava un ruolo centrale, nel suo testo Urbanistica e austerità pubblicato nel 1978 (De Lucia 1989, 20053).

Un esempio di città come ecosistema nelle politiche urbanistiche: Napoli

Quello di Napoli rappresenta l’esempio più significativo di una concezione ecosistemica della città nell’ambito delle politiche urbanistiche. Infatti, in controtendenza con i casi di altre grandi città, a Napoli è stato approvato nel 2004 un piano regolatore non più ispirato a un principio di espansione urbana, bensì alla tutela dell’integrità fisica del territorio. Il piano rappresenta l’esito finale di un processo più lungo e complesso che ha preso avvio nei decenni precedenti con una serie di interventi fondati su una concezione della città che attribuiva una grande importanza al carattere produttivo della natura e alla sua intima e profonda attività sinergica con la società. Fin dagli anni Settanta la questione ambientale si era venuta configurando in una maniera più drammatica rispetto ad altre città italiane, per l’alto livello di inquinamento atmosferico e marino, per la scarsa quantità di aree verdi, per la quasi totale copertura e cementificazione del territorio comunale, per i frequenti fenomeni di dissesto idrogeologico e così via.

La fase storica che ha condotto all’adozione del piano regolatore prende le mosse dall’elaborazione del Piano delle periferie (1978-1980) che ha trovato attuazione durante i primi anni della ricostruzione seguita al terremoto del novembre del 1980. Il percorso avviato dalla fine degli anni Settanta e giunto fino a oggi è essenzialmente caratterizzato da una continuità di gruppo: molti sono i protagonisti dei precedenti interventi ancora presenti nel pool degli urbanisti che prestano la loro opera per il comune. Grazie all’attuazione di questo piano, nel corso degli anni Ottanta furono ricostruiti e riqualificati più di 13.000 alloggi situati in dieci comuni dell’hinterland napoletano. Questa vasta opera di recupero consisteva sia nella ristrutturazione dei centri storici, sia nel mantenimento delle comunità preesistenti nei luoghi di nascita, sia nell’istituzione di parchi, asili e scuole. Essa si ispirava ai principi elaborati nel corso dei decenni precedenti per stabilire una serie di interventi in grado di risolvere non solo il problema della casa in senso stretto, ma di una più generale esigenza di miglioramento delle condizioni abitative e della qualità della vita.

Ma se durante la seconda metà degli anni Ottanta si determinò un restringimento degli spazi politici che avevano consentito la realizzazione del piano delle periferie, tali spazi si riaprirono durante i primi anni del decennio successivo. I valori e i principi che avevano ispirato il piano delle periferie e la sua attuazione vennero ripresi e rafforzati in una modello di intervento urbanistico che trovò la sua compiuta espressione negli Indirizzi di pianificazione redatti nel 1993 dall’allora assessore all’urbanistica De Lucia nella fase iniziale della prima giunta diretta dal sindaco Antonio Bassolino. Nel loro complesso gli Indirizzi predisponevano una riorganizzazione ecologica della città che si proponeva di affrontare non solamente il problema della riabilitazione e della riqualificazione urbana, ma anche più in generale, quello della qualità dell’ambiente e dell’integrità fisica del territorio: l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, dei suoli, la gestione delle risorse, il trattamento dei rifiuti, il controllo del dissesto idrogeologico.

La Variante di salvaguardia (1995) e la Variante alla zona nord-occidentale (o Variante per Bagnoli del 1996) al piano regolatore del 1972 rappresentano le due concrete realizzazioni rispetto alle linee di intervento immaginate e previste negli Indirizzi.

Per ciò che riguarda gli aspetti più propriamente ambientali ambedue le politiche predisponevano l’adozione di provvedimenti volti da una parte a ridurre il consumo del suolo e la cementificazione del territorio comunale, e dall’altra a favorire la mobilità interna per abbassare il tasso di motorizzazione e l’uso del trasporto urbano. La vera innovazione consisteva nel vincolare i residui del territorio rimasti inedificati: 4000 ha di aree agricole, incolte a naturali. Nel vincolare queste aree si prevedeva la costituzione di una serie di parchi. Tra i principali si ricordi l’istituzione del Parco metropolitano delle colline di Napoli che copre un’area di 2215 ha e costituisce il 20% del territorio cittadino. Le finalità dell’istituzione del parco non sono solo volte a preservare i valori ambientali, naturalistici e paesaggistici di queste zone, ma anche a garantire un regolare funzionamento dei meccanismi ecologici per l’intera area metropolitana. Nell’ambito di una concezione di riabilitazione della città diretta a garantire le condizioni di sostenibilità urbana senza accrescere le parti costruite rientra anche quanto predisposto per le sue zone più antiche. Per ciò che riguarda, invece, gli interventi sulla mobilità, nel 1997 fu adottato il Piano comunale dei trasporti, come era previsto e predisposto dalla Variante di salvaguardia, volto a incrementare un sistema di trasporti su ferro. In questa fase, infatti, i problemi della mobilità a Napoli sono concepiti come una questione fondamentalmente urbanistica, poiché riguardano le insufficienze strutturali relative alla dotazione delle reti di trasporto pubblico con particolare riguardo a quelle su ferro. Il traffico veicolare, infatti, nel corso degli ultimi vent’anni ha rappresentato a Napoli una delle cause percentualmente più incisive dell’inquinamento atmosferico in ambito urbano.

I caratteri specifici delle politiche pubbliche per la città adottate dalla fine degli anni Settanta a oggi derivano dalla presenza di una combinazione di fattori che ha consentito il configurarsi di un contesto favorevole all’adozione di interventi per il territorio che si possono definire sostenibili. Tra i fattori determinanti, l’esistenza di un gruppo di professionisti legati a quel filone della cultura nazionale che fin dagli anni Sessanta si era andata opponendo a una concezione della crescita urbana a oltranza e il consolidarsi di un movimento di lotta per la casa che fondava le proprie istanze sulla qualità della vita e del territorio. Si sono così venuti definendo i caratteri peculiari delle politiche pubbliche per la città adottate nella capitale partenopea già dalla fine degli anni Settanta cui si è affiancato l’imporsi, nell’ambito del dibattito culturale e politico nazionale, di una ‘questione ambientale’ a Napoli e l’apertura di spazi politici all’interno dei quali trovare sostegno nella realizzazione di un controllo pubblico delle trasformazioni territoriali.

Ecosistema città e politiche regionali

Con la costituzione delle regioni e l’elezione dei primi consigli regionali prendeva avvio all’inizio degli anni Settanta un processo di decentramento istituzionale volto a trasferire ai nuovi organismi una serie di funzioni di intervento sui territori al fine di realizzare una regolazione più equilibrata dei rapporti tra attività umane e risorse naturali, tra città e ambiente. Nella seconda metà degli anni Settanta con il d. legisl. 24 luglio 1977 nr. 616 erano divenute di competenza regionale funzioni amministrative su materie che riguardavano la regolamentazione dei rapporti tra contesti urbani e ambiente. Oltre a una serie di competenze riguardanti l’istituzione di parchi e riserve, e la protezione delle bellezze naturali, venivano trasferite alle regioni le funzioni dello Stato per quanto riguarda l’urbanistica intesa come regolamentazione delle trasformazione degli usi del territorio congiuntamente alla protezione dell’ambiente. Un passaggio consistente dunque che sarebbe stato poi rafforzato da ulteriori provvedimenti come il d. legisl. 5 febbr. 1997 nr. 22 che ha trasferito alle regioni il processo decisionale in tema di rifiuti (dalla pianificazione del ciclo all’autorizzazione degli impianti di smaltimento, dal trasferimento fuori regione alla promozione delle più avanzate forme di riuso). Successivamente la l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3 contenente la riforma del titolo V che regolamenta gli ambiti di competenza tra lo Stato e le regioni ha finito con il sancire un potenziamento delle competenze di queste ultime in tema di governo del territorio e cioè di definizione di politiche organiche e coerenti relative all’utilizzo delle risorse naturali, nell’ambito del rapporto tra aree urbane e aree rurali in una prospettiva di salvaguardia dell’ambiente e della salute dei cittadini. Si è trattato di un trasferimento di funzioni e competenze dalla realizzazione complessa e che non ha smesso, soprattutto in sede giuridica e istituzionale, di sollevare dubbi e proporre chiarimenti. Ne è risultato un rapporto tra strutture statali e regionali tale che alle prime si fa risalire la competenza nel fissare con norme di legge requisiti comuni di qualità del territorio e alle seconde è delegato il compito di coordinare la trasformazione degli usi ed elevare i livelli di protezione ambientale.

Ma se il dibattito politico e culturale nazionale ha avuto un ruolo fondamentale nell’elaborazione di una concezione della città come sistema complesso di relazioni ecosistemiche, occorre guardare all’evoluzione normativa che ha introdotto in quegli anni fattori fortemente innovativi in materia di rapporti tra città e ambiente. È stato, infatti, messo in evidenza il ruolo marginale che le tematiche ambientali hanno svolto nell’ambito della pratica urbanistica almeno fino ai primi anni Ottanta in Italia. E, d’altra parte, è la legislazione stessa che non è sembrata essersi evoluta rispetto alle norme previste dalla l. 29 giugno 1939 nr. 1497 per la protezione delle bellezze naturali e l’art. 9 della Costituzione italiana che include tra i Principi fondamentali la tutela del paesaggio e del patrimonio storico della nazione.

Fu con la seconda metà degli anni Ottanta che l’evoluzione legislativa mise a disposizione dei pianificatori il supporto normativo adatto a prevedere forme di protezione e di uso sostenibile delle porzioni non costruite del territorio nell’ambito delle realtà urbane. Per ciò che riguarda in particolare i provvedimenti che hanno incentivato l’ingresso delle problematiche ambientali nella pratica pianificatoria, si ricordi la l. 18 maggio 1989 nr. 183 sulle norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo che, oltre a definire il bacino idrografico come unità territoriale fondamentale, affida alle autorità di bacino il compito di elaborare piani che prevalgono sugli strumenti di pianificazione almeno per gli aspetti di competenza della legge. A essa si aggiunga la l. 9 genn. 1991 nr. 10 per la quale i piani regolatori generali dei comuni con popolazioni superiori a 50.000 abitanti devono prevedere uno specifico piano a livello comunale relativo all’uso delle fonti rinnovabili di energia.

Ma se questi provvedimenti ebbero un ruolo importante dal punto di vista della pianificazione delle realtà urbane, la vera svolta fu l’approvazione della l. 8 agosto 1985 nr. 431 (legge Galasso) che riconosceva all’ambiente il carattere di bene di interesse pubblico. La novità fu che per la prima volta, si cominciarono a vincolare parti di territorio in quanto di per sé e globalmente portatrici di valori intrinseci. La legge Galasso, infatti, non solo prevede che le regioni approvino i piani paesistici, ma sottopone a un vincolo di tutela di carattere generale porzioni di territorio come le rive del mare e dei laghi, dei fiumi e dei torrenti, i ghiacciai e i vulcani, le zone di interesse archeologico e forestale. Ma oltre a ciò, uno degli aspetti più rilevanti è che fa riferimento non solo ai piani paesistici approvati dalle regioni, ma anche a quei piani urbanistico-territoriali particolarmente attenti ai valori ambientali. Questo aspetto della legge è l’esito di un orientamento istituzionale che prende avvio già a partire dagli anni Sessanta con alcune iniziative legislative e parlamentari in cui appare con forza l’esigenza di raccordare la tutela dei beni e dei valori culturali con l’attività pianificatoria di tipo urbanistico. La legge, d’altra parte, ha rappresentato una svolta non solo per gli effetti che ha prodotto e per gli strumenti di tutela che ha fornito, ma anche per la lunga fase di discussioni giuridiche e istituzionali che ha aperto e avviato sui temi dell’ambiente e del suo rapporto con le realtà urbane. La legge Galasso introduce, infatti, una tutela del paesaggio improntata a criteri di globalità che implica una riconsiderazione del territorio nazionale alla luce del valore estetico-culturale, e fa emergere un carattere della tutela non più «conservativo e statico», ma «gestionale e dinamico». Si riconosce, dunque, a diversi soggetti istituzionali – comune, provincia e regione – la legittimità di svolgere un’attività pianificatoria volta a tutelare l’integrità fisica e culturale del territorio, attraverso provvedimenti di efficacia immediata e senza la previsione di indennizzo.

Il caso della Campania

La Regione Campania iniziò a elaborare politiche per il territorio fin dal 1971 quando la giunta regionale approvò lo Schema di assetto territoriale regionale, già approvato dal Comitato regionale per la programmazione economica l’anno precedente, al quale faceva seguito la Proposta di indirizzi politico-operativi per la programmazione economica approvata con delibera del Consiglio regionale del 1974. Queste politiche si fondavano su una visione del territorio campano composto da parti fortemente differenziate. Si tratta, innanzitutto, dell’area metropolitana di Napoli costituita dalla conurbazione napoletana, composta dal capoluogo partenopeo, dalla piana campana e da quella nocerino-sarnese, dalla penisola sorrentino-amalfitana. La seconda, invece, che coincide con il resto della regione, è composta da un’area intermedia incentrata sulle città capoluogo di Benevento e Avellino e da una zona più interna, montuosa e caratterizzata da una agricoltura estensiva (Regione Campania 2006).

Gli obiettivi di queste politiche consistevano nell’invertire la forte tendenza a concentrare i processi di urbanizzazione e di industrializzazione per orientare l’insediamento e potenziare lo sviluppo economico verso le aree interne della regione. Si consideravano come direttrici strategiche quelle che dalla Valle del Volturno attraverso la Valle del Calore e attraverso Benevento giungono fino alla Valle del Tanagro e al Vallo di Diano. Tuttavia un’impostazione delle politiche pubbliche regionali fondata sullo spostamento verso l’interno delle attività urbano-industriali era presente nei documenti istituzionali che riguardavano la Campania prodotti dal Ministero dei Lavori pubblici ancora prima dell’istituzione della regione. Già nello studio redatto nell’ambito del lavoro svolto su incarico del Ministero dei Lavori pubblici in collaborazione con la SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), da Nino Novacco e Manlio Rossi Doria, pubblicato tra il 1961 e il 1962, l’attenzione al territorio si coniugava con le esigenze di compensare gli squilibri economici e sociali prodotti dalle differenti condizioni all’interno della Penisola (Regione Campania 2006). Ed è in questo studio che si imposta un modo di guardare allo sviluppo economico campano tenendo conto delle più generali caratteristiche storiche e geografiche del territorio regionale e di una più intima e funzionale integrazione tra le diverse parti. In questo studio la regione viene suddivisa in una zona costiera urbano-industriale e agricolo intensiva, in una intermedia prevalentemente agricola e in una montana caratterizzata da una agricoltura estensiva. Fortemente correlato con questo studio, il Piano urbanistico intercomunale del comprensorio di Napoli realizzato nel 1964 proponeva la decompressione e riqualificazione della fascia costiera napoletana.

La ‘questione meridionale’ si era sempre più venuta configurando dal secondo dopoguerra come ‘questione territoriale’, cioè come insieme di problematiche economiche, sociali e ambientali legate alla crisi di un sistema secolare di relazioni tra la società rurale e quella urbana, tra la città e la campagna. Il degrado ambientale delle grandi aree urbane era visto come uno dei principali problemi dell’Italia meridionale. Se infatti la svolta epocale che interessava tutto il mondo occidentale a partire dagli anni Cinquanta del Novecento con l’affermazione della città metropolitana e la fine della società contadina riguardava l’intera Italia, nelle regioni meridionali essa produceva un impatto sociale e ambientale più forte rispetto ad altre aree della Penisola a causa degli squilibri e dei ritardi che avevano caratterizzato nel lungo periodo la storia del Mezzogiorno contemporaneo. La discesa dalle montagne e l’abbandono dell’agricoltura collinare, la carenza infrastrutturale e la problematica di gestione delle risorse idriche, i fenomeni migratori e la crescita, nonché la nascita di nuove aggregazioni urbane nella maggior parte dei casi in maniera spontanea e senza un ordine pianificatorio, producevano effetti fortemente distruttivi sulla società e sull’ambiente. Il terremoto del 1980, poi, avrebbe accentuato questa situazione, ponendo con sempre più forza il binomio territorio-sviluppo al centro non solo del dibattito politico e culturale, ma anche delle politiche pubbliche.

Ed è proprio l’osservazione dei tragici effetti del sisma (che aveva distrutto numerosi centri abitati e ne aveva sconvolto l’assetto economico e sociale in un’ampia area dell’Appennino campano e lucano) che avrebbe favorito in quegli anni una nuova e più lucida analisi del Mezzogiorno e soprattutto delle sue aree interne da parte di intellettuali e studiosi autorevoli come Rossi Doria, Giuseppe Galasso, Giuseppe De Rita e vari altri. I progetti di ricostruzione avrebbero dovuto essere incentrati su una ‘razionale sistemazione del territorio’, vale a dire su un rafforzamento del rapporto tra popolazioni locali e contesti ambientali in cui esse operavano, poiché solo una simile sistemazione avrebbe potuto mettere gli abitanti di quei luoghi al riparo dagli effetti non solo del sottosviluppo, ma anche dei ricorrenti terremoti e dei disastri idrogeologici. Un disegno che si sarebbe dovuto fondare su un’incentivazione dell’economia locale, su programmi irrigui, su una valorizzazione del patrimonio boschivo, su un più stretto rapporto tra agricoltura e industria. Si trattava in gran parte di quegli aspetti e di quelle tematiche che avevano caratterizzato fin dagli anni Sessanta le proposte politiche elaborate da Rossi Doria per risolvere i problemi dell’‘osso’ delle regioni meridionali e in questa occasione riprese e approfondite (Rossi Doria 1982).

La Giunta regionale nell’agosto del 1981 approvava gli indirizzi elaborati dal Comitato tecnico scientifico istituito dopo il terremoto che aveva il compito di realizzare un piano per utilizzare le risorse messe a disposizione dalla l. 14 maggio 1981 nr. 219. Anche gli indirizzi si fondavano sulla visione di una regione divisa in tre zone: area metropolitana, zona intermedia e sistema montano. Oltre ad attività di ricostruzione, gli obiettivi del piano ancora una volta prevedevano la riqualificazione del sistema urbano e il riequilibrio tra sviluppo economico e territoriale. Ma è con il Piano di assetto territoriale approvato con una delibera del 1986 che, oltre a prevedere strumenti tali da favorire un’espansione del sistema insediativo e delle attività produttive nell’interno della regione, si affermava per la prima volta con chiarezza l’esigenza di coniugare lo sviluppo economico e il miglioramento della qualità dell’ambiente. Sulla necessità di coniugare sviluppo e ambiente si fondava anche il Piano regionale di sviluppo approvato nel marzo del 1990 (Regione Campania 2006).

D’altra parte, l’area metropolitana intorno a Napoli si era venuta estendendo a partire soprattutto dalla fine degli anni Settanta con una tale intensità e velocità da formare nel corso di poco più di trent’anni una immensa conurbazione cresciuta in maniera spontanea e con ritmi rapidi di consumo del suolo che copre il 15% circa della superficie regionale. In essa, che comprende, oltre all’intera provincia di Napoli, anche la parte meridionale di quella di Caserta e la parte settentrionale di quella di Salerno, vive attualmente circa l’80% della popolazione campana. Uno sviluppo del territorio così caratterizzato ha esasperato i danni all’ambiente e alla salute per l’elevato consumo di suolo fertile, per la bassissima dotazione di verde, per l’inquinamento delle acque superficiali e delle coste, per la contiguità tra aree residenziali e industriali, per la presenza di discariche abusive di rifiuti abbandonati e bruciati illegalmente, per la congestione del traffico veicolare e così via.

Negli anni Novanta le istituzioni regionali hanno percorso la strada che condurrà all’adozione nel 2006 del Piano territoriale regionale approvato definitivamente con la l. 13 ott. 2008 nr. 13, ossia lo strumento più ampio e completo con cui si è tentato di coniugare le esigenze delle città con le istanze di salvaguardia dell’ambiente. Il Piano si fonda su una concezione dello sviluppo urbano fortemente critica nei confronti di una crescita a oltranza e basata sul tentativo di coniugare recupero dell’edilizia esistente e tutela degli spazi ancora non costruiti. Il ripristino e la conservazione dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio legate a una sua valorizzazione produttiva rappresentano dunque la finalità di queste politiche. Il Piano trova la sua giustificazione non solo nei valori paesaggistici e naturalistici delle aree di cui esso si occupa, ma anche in quelli ecologici e cioè, più in generale, nella tutela delle aree urbane contro gli effetti distruttivi che un’urbanizzazione non regolata potrebbe produrre. Esso prevede la riqualificazione dell’armatura urbana regionale evitando ulteriori consumi di territorio rurale e aperto e privilegiando il recupero delle aree già urbanizzate. Un obiettivo che si prefigge di raggiungere attraverso la stretta integrazione tra la pianificazione urbanistica e l’allargamento delle reti di trasporto. Le strategie messe in atto prevedono la disincentivazione del ricorso all’automobile privata e il rallentamento dei frenetici consumi di suolo innescati dalla spirale urbanizzazione/infrastrutturazione stradale (Regione Campania 2006). Si tratta di un piano senza dubbio innovativo proprio per questa sua capacità di tenere insieme l’esigenza di fronteggiare problemi sociali, come quello abitativo, e problemi di sostenibilità, come la salvaguardia dell’ambiente e della salute. In questo senso si avvale di un quadro normativo che ha recepito tutte le innovazioni apportate in ambiti diversi nel corso degli ultimi decenni.

Se il Piano territoriale regionale risente con forza delle grandi innovazioni giuridiche e istituzionali messe in atto sul piano nazionale dalla legge Galasso e dal Codice dei beni culturali e del paesaggio che, approvato nel 2004, accentua il valore identitario e culturale anche dei beni ambientali, dal punto di vista internazionale recepisce il forte impulso dato dall’Unione Europea attraverso lo Schema spaziale di sviluppo (SSSE) nelle sue due elaborazioni di Noordwijk del 1997 e di Postdam del 1999, in cui si sostiene l’esigenza di politiche coese e integrate in grado di stimolare buone pratiche di sostenibilità. A esso si aggiunga, poi, la Convenzione europea del paesaggio, approvata nel 2000, sulla base della quale gli Stati che vi aderiscono devono impegnarsi a riconoscere giuridicamente il paesaggio quale componente essenziale e identitaria dell’ambiente in cui vivono le popolazioni, oltre che elemento di un patrimonio comune, culturale e naturale a un tempo (Regione Campania 2006).

Non bisogna poi dimenticare che, pur risentendo degli impulsi innovativi provenienti dal dibattito istituzionale nazionale e internazionale, esso si colloca nel solco di quella tradizione di politiche pubbliche molto attenta alle tematiche ambientali urbane che si era andata affermando a Napoli fin dalla fine degli anni Settanta. Una tradizione che si era nutrita di quel filone culturale formatosi in Italia fin dagli anni Sessanta, all’interno del quale era andata maturando un’idea di intervento nel territorio urbano non più inteso come governo di un processo espansivo della città, ma come ricerca di un equilibrio il più possibile sostenibile tra attività umane e risorse naturali. Si tratta di quell’insieme di provvedimenti che avrebbe portato all’adozione del Piano regolatore generale nel 2004 e agli interventi per l’ampliamento delle reti su ferro. In questi provvedimenti i valori dell’ambientalismo sembrano innestarsi su quelli dell’urbanizzazione pubblica e del recupero urbano, e si fondano sul riconoscimento del territorio come bene sociale e collettivo. Essi, tuttavia, non si esprimevano in una mera esigenza di conservazione, ma in una definizione di regole in grado di contenere le spinte distruttive del mercato, orientandole invece verso usi compatibili dello spazio urbano inteso come attività sinergica tra natura e società.

Dal punto di vista regionale, poi, il Piano territoriale si colloca all’interno di un orientamento ispirato a una particolare attenzione nei confronti degli aspetti ambientali delle realtà urbane che il governo regionale aveva già iniziato a manifestare alcuni anni prima. Con la l. 18 ott. 2002 nr. 26 sui centri storici, con la l. 10 dic. 2003 nr. 21 sui comuni rientranti nelle zone a rischio vulcanico dell’area vesuviana, con la l. 7 ott. 2003 nr. 17 sull’istituzione del sistema dei parchi urbani di interesse regionale, con la l. 22 dic. 2004 nr. 16 sul governo del territorio, la Regione Campania metteva in atto un pacchetto consistente di politiche per il territorio fondate su una visione ecosistemica della città e cioè sul tentativo di contenere le gravi implicazioni ambientali prodotte da una crescita urbana sregolata e distruttiva nei confronti degli equilibri dell’habitat.

Una serie di delibere approvate dalla Giunta regionale a partire da quella del 15 giugno 2001 e la legge regionale 16 del 2004 avevano definito gli orientamenti che avrebbero dovuto essere seguiti dal Piano territoriale regionale. Oltre a ribadire il superamento della semplice prospettiva urbanistica intesa come organizzazione dei processi di trasformazione territoriale, il Piano recepiva gli indirizzi di tutela paesaggistica e ambientale negli strumenti di pianificazione così come venivano definiti dall’Accordo Stato-Regioni, e doveva svolgere la funzione di garantire la coerenza degli strumenti di pianificazione territoriale provinciale (Regione Campania 2006).

Il risultato più importante del Piano territoriale regionale è senza dubbio l’adozione nel 2012 dei piani provinciali da parte delle provincie di Salerno, Benevento e Caserta. Tutti e tre i piani recepiscono quelle innovazioni elaborate dal dibattito e dalla tradizione di studi sulla pianificazione pubblica di cui si è trattato sin qui: la tutela degli ecosistemi naturali dall’espansioni urbana incontrollata, la salvaguardia del patrimonio storico-culturale e paesaggistico, il riequilibrio dei carichi insediativi, l’incremento delle aree verdi, lo sviluppo della mobilità sostenibile e delle infrastrutture igienico-sanitarie e così via. Il piano di Caserta, in particolare, introduce un ulteriore elemento volto a contrastare gli effetti della storia criminale del territorio di questa provincia. Esso prevede che la nuova edificazione, coerentemente con i parametri fissati dal piano provinciale, debba riguardare le zone particolarmente colpite dalle attività illegali legate al traffico di rifiuti tossici e alle diverse forme di smaltimento selvaggio, per colmare il deficit di abitazioni e di infrastrutture senza sottrarre suoli alle agricolture pregiate di cui la provincia è ancora ricca.

Conclusioni

Sotto la spinta di una quantità sempre crescente di popolazione, allargando smisuratamente i propri confini nelle aree circostanti ed estendendo il loro sistema di relazioni con l’esterno per il drenaggio di risorse e di energia, le realtà urbane, dalla seconda metà del 20º sec., si sono rivelate sia in Italia sia in tutti i Paesi del mondo occidentale uno dei principali motori del cambiamento ambientale, oltre che uno dei maggiori produttori di inquinamento. Esse hanno accentuato la loro dipendenza nei confronti dei territori circostanti: consumano infatti sempre più suolo, drenano acque in quantità crescente e aumenta la loro produzione di rifiuti, reflui e gas inquinanti.

È con gli anni Settanta che iniziarono a manifestarsi con forza ed evidenza, anche per i rifiuti e per il consumo di suolo così come per l’inquinamento idrico e atmosferico, le implicazioni ambientali di un processo di cambiamento economico e sociale che aveva un impatto senza precedenti sulle risorse naturali e sugli equilibri dell’habitat. Si accrebbero le difficoltà di adattare le modalità di gestione delle risorse ambientali alle nuove richieste di infrastrutture pubbliche, adeguate ai cambiamenti e alla nascita di nuovi bisogni e di nuove domande da parte della popolazione. Il modo attraverso il quale si è realizzato questo processo di riorganizzazione territoriale da parte delle istituzioni nel corso degli ultimi quarant’anni, rappresenta una delle chiavi interpretative del rapporto tra città e ambiente in Italia. Le capacità di governo del territorio da parte delle amministrazioni pubbliche locali sono state messe a dura prova dalla velocità e dalla intensità di trasformazione dei processi metabolici urbani e dalla diffusione di quelle aree metropolitane e di quelle abnormi conurbazioni che sono alla base delle più gravi implicazioni ambientali. E l’inadeguatezza – pur con differenze regionali e provinciali – con cui le istituzioni hanno governato e gestito gli effetti metabolici derivanti dall’espansione dei processi di urbanizzazione e di industrializzazione che hanno accompagnato la transizione dell’Italia da Paese rurale a Paese industriale, nonché la debolezza con cui è stato regolato il diritto di edificazione, rappresentano alcuni tra i caratteri originali dei processi attraverso i quali il nostro Paese ha costruito il rapporto con il suo territorio. Un rapporto difficile, sul quale ancora molto c’è da indagare e che costituisce sicuramente un criterio importante di interpretazione delle vicende che hanno caratterizzato la storia dell’intero arco di vita dell’Italia repubblicana.

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