EGITTO

Enciclopedia Italiana (1932)

EGITTO (A. T., 109-111)

Attilio MORI
Giuseppe STEFANINI
Fabrizio CORTESI
Mario SALFI
Arthur HABERLANDT
Pino FORTINI
Gabriele GABBRIELLI
Luigi GRAMATICA
Luigi CHATRIAN
Carlo DE ANGELIS
Anna Maria RATTI
Giulio FARINA
Renato BIASUTTI
Evaristo BRECCIA
Vincenzo ARANGIO-RUIZ
Giorgio LEVI DELLA VIDA
Gaspare CAMPAGNA
*
Francesco Vatielli
Giovanni Pietro KIRSCH

Il nome di Egitto, con cui già i Greci e i Romani designarono la regione del Basso Nilo, e che è divenuta la denominazione comune del paese, è tratto da quello dell'antica città di Menfi, reso in babilonese con Ḫikuptah, divenuto in greco Αἴγυπτος (lat. Aegyptus). Gli Arabi lo denominarono Miṣr (ora dialettalmente Maṣr) da un'antica denominazione semitica. Con esso s'indicò tutta quella parte dell'Africa Mediterranea tra la Marmarica a oriente della Cirenaica e l'Istmo di Suez e comprendente storicamente la valle inferiore del Nilo sino alla prima cateratta. Politicamente l'Egitto s'estende oggi più a sud, sino a raggiungere la seconda cateratta al 22° parallelo, con in più la penisola del Sinai.

Sommario. - Il Regno D'Egitto: Delimitazione ed estensione (p. 538); Geologia (p. 538); Struttura fisica e configurazione del suolo (p. 539ì; Clima (p. 540); Idrografia (p. 541); Flora e fauna (p. 542): Suddivisioi naturali (p. 542), Dati statistici generali sulla popolazione (p. 542); Antropologia (p. 543); Etnologia (p. 545); Condizioni economiche (p. 546); Comunicazioni (p. 549); Suddivisioni storiche e amministrative (p. 550); Densità della popolazione e centri abitati (p. 550); Ordinamento dello stato (p. 551); Forze armate (p. 552), Finanze (p. 552); Istruzione (p. 553). - Egitto Faraonico: Geografia storica (p. 553); Storia (p. 554); Lingua (p. 557); Letteratura (p. 558); Religione (p. 562); Arte (p. 565); Musica (p. 570); Diritto (p. 571). - L'Egitto ellenistico-romano: Storia (p. 572); Diritto (p. 584). - L'egitto musulmano: Dalla conquista araba all'occupazione britannica (p. 586); Dal 1882 in poi (p. 588).

Il Regno d'Egitto.

Delimitazione ed estensione. - I confini politici del Regno d'Egitto sono stati definiti da regolari trattati internazionali. Quello a ponente, stabilito con l'accordo italo-egiziano del 6 dicembre 1925, parte da un punto della costa del Mediterraneo a 10 km. a nord di Sollum (es-Sallūm), e seguendo un andamento alquanto tortuoso che ha per asse il 25° meridiano passa per l'oasi di Melfa a oriente di Giaghbúb (che rimane alla Cirenaica); quindi, raggiunto il 25° meridiano, lo segue sino al 22° parallelo. A sud il confine anglo-egiziano è segnato dall'anzidetto 22° parallelo sino all'incontro del 33° meridiano, facendo solo una rientranza di 25 km. a nord del punto ove il 22° parallelo taglia la valle del Nilo. Quindi dal 33° meridiano una linea spezzata convenzionale, passando per punti ben definiti, raggiunge il Mar Rosso a 30 km. a sud del tropico. A oriente il confine fisico segnato dal Mar Rosso e dal Canale di Suez si trova spostato verso est sino a un tracciato quasi rettilineo stabilito con l'accordo del 1° Ottobre 1906, che dal fondo del Golfo di el-‛Aqabah raggiunge il Mediterraneo presso Rafaḥ a 30 km. a sud di Ghazzah, lasciando quindi politicamente aggregata all'Egitto la penisola del Sinai. Compresa detta penisola, l'area totale del regno si estenderebbe su 994.300 kmq., di cui circa 65.000 per la penisola del Sinai. Tale estensione comprende in larga misura le regioni desertiche ai due lati della valle del Nilo: il Deserto Arabico a oriente, il Libico a ponente; le statistiche, all'indicazione dell'area totale, fanno seguire quella dell'area coltivata, la quale va ampliandosi con l'estendersi dell'irrigazione. I più recenti accertamenti le assegnano 35.159 kmq.

Storia dell'esplorazione. - Prescindendo dalle notizie che ne poterono avere gli antichi e che ci furono tramandate dagli storici e dai geografi dell'antichità classica, ci limiteremo a ricordare come la sistematica esplorazione dell'Egitto procedesse nei tempi moderni. Già nel Medioevo mercanti, missionarî e pellegrini che attraversavano l'Egitto per accedere ai Luoghi Santi ce ne lasciarono descrizioni più o meno succinte e veridiche, fra le quali sono specialmente notevoli quelle dei Fiorentini Simone Sigoli, Renato Frescobaldi e Andrea di Maria Francesco Rinuccini. Tutte peraltro si limitano a parlare della regione del Delta e del Cairo e non si spingono oltre le Piramidi. Solo Luigi Roncinotto nella sua relazione dà anche qualche notizia sull'Alto Egitto, dove non è d'altronde sicuro che egli penetrasse. Copiose informazioni si trovano nella descrizione dell'Africa di Leone Africano, alle quali attinsero Livio Sanuto e il Gastaldi per le loro opere descrittive e cartografiche. Dobbiamo però arrivare alla fine del sec. XVIII per avere una rappresentazione generale dell'Egitto basata su personali osservazioni raccolte in un lungo soggiorno nel paese, quale fu la carta che nel 1722 ne costruì il missionario Sicard, che visse in Egitto tra il 1697 e il 1724 raccogliendone nuovi materiali illustrativi, rimasti per la maggior parte inediti. Sui dati del Sicard, J.-B. d Anville costruì la carta che correda l'opera Mémoire sur l'Ègypte ancienne et moderne ecc. Parigi 1766, che contiene l'esame critico di tutto il materiale descrittivo dell'Egitto di cui si poteva disporre al suo tempo. Per il periodo che precede la spedizione francese, la letteratura geografica dell'Egitto conta ancora alcune opere, quali le relazioni di viaggio di F. Norden, di Carsten Niebuhr, che faceva parte della grande spedizione danese in Arabia (1761-1767) e che rilevò su determinazioni astronomiche l'itinerario Alessandria-Suez; di F. Volney, il quale percorse negli anni 1783-85 l'Egitto e la Siria, dandone un'ampia relazione, sebbene di limitato interesse geografico. Ma specialmente alla grande spedizione del Bonaparte e all'occupazione militare francese dell'Egitto (1798-1801) dobbiamo una prima e generale descrizione sistematica del paese (Description de l'Égypte, 1809-1822) e una rappresentazione cartografica, basata su regolari operazioni astronomico-geodetiche e topografiche, in 50 fogli alla scala di 1 : 100.000. Durante l'occupazione francese fu compiuto anche il viaggio dal Cairo al Fezzān del tedesco Hornemann, che ci diede le prime notizie moderne sull'oasi di Sīwah. Sotto il governo di Moḥammed ‛Alī che estese verso sud il dominio dell'Egitto, riprese l'esplorazione del paese con intenti prevalentemente archeologici. Ricordiamo i fruttiferi viaggi dell'orientalista svizzero J. L. Burckhardt (v.) nel 1812-14, lungo il Nilo sino a Dongola; quelli di F. Caillaud (1815-1822), che perlustro le oasi a oriente e occidente della Tebaide e fu nel Sennār e a Sīwah; degl'Italiani G. B. Belzoni (v.), B. Drovetti (v.) e G. Segato (v.), ai quali si debbono ricognizioni sempre prevalentemente a scopo archeologico, ma non prive d'interesse geografico, nel Deserto Libico e in quello Arabico; del generale prussiano E. Minutoli, che fu all'oasi di Sīwah a capo di una grande spedizione alla quale partecipò l'ingegnere italiano Gruoc, incaricato specialmente delle osservazioni astronomiche e topografiche. Nei tempi più moderni e limitandosi all'Egitto proprio, sono da ricordarsi la fruttifera spedizione condotta da G. Rohlfs e della quale faceva parte l'astronomo Jordan alle oasi del Deserto Libico e quella di G. Schweinfurth nelle regioni ancora inesplorate del Deserto Arabico.

Dopo l'occupazione inglese i lavori compiuti per la migliore utilizzazione delle acque del Nilo a scopo irriguo fruttarono ricognizioni e determinazioni delle quali si giovò la conoscenza geografica del territorio egiziano. In questi ultimi anni sono particolarmente da segnalare i viaggi nel Deserto Libico di Moḥammed Ḥasanein Bey, di Kemāl ed-Dīn Ḥusein (1923-1926) e di altri, che hanno portato nuova luce sulle oasi di quella parte del deserto compresa nei limiti amministrativi dell'Egitto.

Per quanto riguarda la cartografia, l'ufficio topografico di el-Gīzah (Survey of Egypt) ha iniziato e conduce avanti la pubblicazione di carte topografiche dell'Egitto alla scala di 1 : 25.000, di 1 : 50.000, di 1 : 100.000 e 1 : 250.000 condotte secondo i metodi più progrediti e che soddisfano a ogni esigenza. Gli elementi topografici e fisici, climatici e statistici dell'Egitto, sono stati elaborati per la costruzione di un Atlas of Egypt, in 31 grandi tavole e testo esplicativo, pubblicato nel 1928. Una società reale di geografia fondata nel 1875, un Institut d'Égypte, la cui origine risale all'occupazione francese nel 1798, e altre istituzioni scientifiche ed economiche, provvedono con la loro opera al progresso della conoscenza e del. l'illustrazione del paese sotto i suoi varî aspetti.

Geologia. - La costituzione geologica dell'Egitto è assai semplice. Nella catena dell'Etbāi, le cui propaggini settentrionali si spingono, tra il Nilo e il Mar Rosso, fin oltre il 28° lat., affiorano i terreni più antichi, precambrici, formanti l'ossatura della regione: gneiss e scisti cristallini, con intrusioni di graniti normali e graniti rossi anfibolici, dioriti, sieniti - le quali derivano il nome appunto da Siene, l'attuale Assuan (Aswān) - e grosse concentrazioni di quarzo talora aurifero. Vi furono segnalati anche minerali di rame, piombo e zinco e gemme.

Questa formazione si estende anche nel Sinai (v.), di cui forma il massiccio principale, e si allarga verso sud; quivi è incisa dal Nilo a Kalābshah e poi ad Assuan, ove determina la formazione di una rapida: la prima cateratta (v. assuan). I depositi paleozoici sono rappresentati solo da arenarie e marne con intercalazione di calcari fossiliferi del Carbonico, che affiorano solo nella parte inferiore dell'W. el-‛Arabah, ma si continuano dal lato opposto del Golfo di Suez, nel Sinai. Sul Paleozoico, o sulle rocce più antiche, riposa direttamente una formazione arenaceo-marnosa assai monotona, nota come arenaria nubiana, la cui parte inferiore presenta intercalazioni di calcari e marne con fossili marini del Liassico (segnalate già dall'italiano Figari nel 1864) e dell'Oolitico, riconosciute di recente dal Sadek nel G. el-Qallālah el-Baḥarīyah (valle el-‛Arabah; la grafia esatta del nome sarebbe el-Baḥariyyah, e così analogamente per i nomi con la stessa finale; tuttavia per considerazioni pratiche si è adottata in questa trattazione una trascrizione semplificata).

Più a sud però le arenarie variegate, rosse, grigie ecc., intercalate a marne, talora con impronte vegetali poco decifrabili, si appoggiano direttamente sul substrato arcaico e rappresentano tutta la serie fino al Cretacico medio. Queste arenarie nubiane affiorano largamente sul versante nilotico dell'Etbāi e nella valle stessa del Nilo fino a es-Sebā‛īyan, e si estendono nel Deserto Libico su una vastissima area a sud delle oasi el-Khārǵah e di ed-Dākhlah (v.), ricomparendo di sotto il Cretacico all'oasi el-Baḥarīyah (v.): le acque sotterranee di queste oasi circolano negli strati porosi dell'arenaria. Un'invasione del mare prodottasi da nord durante il Cretacico medio, ed estesasi fin verso il 23° lat., determinò la formazione di calcari e marne fossilifere non molto diffuse a E. del Nilo, dove tuttavia compaiono, a lembi, dal Wādī el-‛Arabah fin presso Edfū; assai estese invece nel Deserto Libico, specialmente al margine della depressione di el-Khārǵah, ed-Dākhlah, el-Farāfrah ed el-Baḥarīyah e nelle vicinanze stesse del Cairo, ad Abū Ra‛āsh. Tutti i livelli cretacei medî e superiori sono rappresentati da strati fossiliferi: il Vraconniano, il Cenomaniano, il Turoniano, il Senoniano, il Daniano.

I fossili cretacei dell'Egitto sono forse i primi fossili conosciuti: il corno di ammone (ammonite o come altri pretende una conchiglia di gasteropodo) è citato da Plinio come un simbolo sacro dell'Egitto, che nell'oasi di Sīwah (v.) venerava Giove Ammone.

Il Senoniano medio (Campaniano) contiene spesso banchi ricchi di fosfati così nelle oasi di ed-Dākhlah e di el-Khārǵah, come nel Deserto Occidentale e nella regione di el-Qoṣeir, dove il giacimento è sfruttato con successo da una società italiana (v. el-qoṣeir). Dal Cretacico all'Eocenico si ha un graduale passaggio, rappresentato dagli scisti di Isnā (v.) che nei dintorni di quella città forniscono la "ṭafla" usata come concime. Il Terziario inferiore con i suoi varî livelli ricchissimi di fossili, forma una gran parte del suolo dell'Egitto: per la sua natura calcarea, più resistente degli scisti e delle arenarie sottostanti, rimane in rilievo su di essi, e i suoi banchi orizzontali formano altipiani che si vedono fiancheggiare da ambo i lati la valle nilotica. Nel Deserto Occidentale esso si spinge sin verso il confine, di qui estendendosi in modo continuo a NO., obliquamente, fino a Sīwah, a N. fino ai dintorni immediati del Cairo: la piattaforma dove sorgono le piramidi di el-Gīzah è piena di grandi nummuliti (Nummulites gizehensis). Nel Deserto Orientale l'Eocenico si spinge con lembi isolati fino a Luxor e forma il grande altipiano degli el-Ma‛āzah che da Qinā si estende a nord fino alle alture del Gebel Atāqa presso Suez e a quelle el-Muqaṭṭam che sovrastano il Cairo. I livelli più elevati del Nummulitico (Oligocenico) sono rappresentati nel Deserto Libico da depositi almeno in gran parte salmastri e continentali, arenacei, che fornirono al Geb. el-Qaṭrānī (Fayyūm settentrionale) avanzi di legni silicizzati (Nicolia), di pesci, testuggini e coccodrilli, scimmie (Propliopithecus), antracoteri, protocarnivori (Hyaenodon) e interessantissimi avanzi di pachidermi primitivi (Moeritherium, Palaeomastodon). Alla stessa età si attribuiscono dai più i legni fossili che in gran copia giacciono al suolo nelle colline a ovest del Cairo: le cosiddette "foreste pietrificate". Nel Miocenico il mare tornò a invadere l'Egitto spingendosi fino oltre l'oasi di Sīwah a el-Qaṭṭārah, el-Maghārah, Wādī en-Naṭrūn, el-Qallālah el-Baḥarīyah a sud di Suez, e abbandonandovi depositi calcarei ricchi di conchiglie; ma il Miocenico superiore è di nuovo continentale, con faune d'acqua dolce appunto a el-Qallālah. Una nuova ma più ristretta invasione marina si ebbe nel Pliocenico, e a questa età si debbono ascrivere certi depositi arenaceo-calcarei, che affiorano anche nei pressi del Cairo spingendosi fino a el-Fashn tra Benī Suéf ed el-Minyā, e dai quali provengono i bei Clypeaster aegyptiacus, che i beduini offrono ai turisti che visitano le piramidi di el-Gīzah. Il Wādī en-Naṭrūn era emerso e popolato d'ippopotami e mastodonti.

Durante il Terziario, e più specialmente (si crede) nell'Oligocenico, una notevole attività vulcanica si manifestò in varî punti dell'Egitto, lasciando colate basaltiche nell'oasi di el-Baḥarīyah, al Geb. el-Qaṭrānī, al W. Natash nell'Etbāi e anche nella regione tra Cairo e Suez, dove il vulcanismo spento si manifesta tuttora con sorgenti termali (Heliopolis); e ad acque termali è dovuta anche la formazione delle quarziti del Gebel el-Aḥmar. Dopo la fine del Pliocenico successe un periodo di maggiore piovosità (Pluviale), le cui tracce si riscontrano specialmente nel Deserto Arabico e nelle oasi libiche: il Mar Rosso comunicò allora per breve tempo con il Mediterraneo. Poscia nuovi movimenti determinarono l'emersione dell'istmo e sollevarono i depositi litoranei e le scogliere coralligene del Mar Rosso in una serie di terrazze, che orlano il Golfo di Suez e il resto della costa egiziana e sinaitica, e i cui depositi contengono conchiglie ormai in parte scomparse dal vicino mare, ma sopravvissute nell'Oceano lndiano e nel Pacifico.

Da questi depositi coralligeni recenti pensa taluno possano provenire i petrolì che sgorgano in qualche punto del litorale, specialmente al Gebel ez-Zeit, Rās Gimsah e un po' a nord di Safāgiah; i più però li ritengono connessi a formazioni più antiche. Quanto alle formazioni continentali, i più antichi depositi del Nilo sarebbero i ciottolami e le sabbie dell'Oligocenico, che ricoprono per grandi tratti le piattaforme calcaree. I depositi alluvionali recenti, che formano una lunga e stretta striscia sulle due sponde del fiume e si dilatano a ventaglio nel Delta, sono costituiti da stratì ripetutamente alternanti di sabbia e argilla; e di questi i primi corrispondono ad alcuni livelli acquiferi, mentre le argille superficiali rappresentano il substrato di un terreno vegetale fertilissimo.

Lungo mare il Delta è orlato da dune arenaceo-calcaree, in parte cementate e oolitiche, come a el-Maks presso Alessandria, in parte ancora mobili; nel Deserto Arabico abbondano dune mobili di non grande estensione; il Deserto Libico è invece ingombro su vaste aree da dune, che si vogliono in parte riconnettere con le antichissime alluvioni del primitivo Nilo, riprese ora dal vento.

L'architettura della regione è delle più semplici. Solo le rocce precambriche dell'Etbāi sono intensamente ripiegate e sollevate; i depositi più recenti presentano generalmente, come in quasi tutto il rimanente dell'Africa, una struttura tabulare: sono stati sollevati in blocco più o meno notevolmente, ma non ripiegati; le sole accidentalità tettoniche che vi si osservano (all'infuori di tre ampie pieghe nella regione settentrionale, ultime ripercussioni del ripiegamento siriaco) sono fratture più o meno estese e profonde.

La fossa del Mar Rosso, quella del Golfo di el-‛Aqabah e della Palestina, sarebbero dovute al più grandioso, forse, tra i fenomeni di questo genere e fenomeni analoghi avrebbero influito anche nella formazione delle depressioni delle oasi (v. africa: Geologia).

Struttura fisica e configurazione del suolo. - Il territorio dell'Egitto può scindersi in quattro principali tipi di paesaggio: i monti dell'Etbāi, i tavolati desertici, le depressioni delle oasi, la valle del Nilo con il suo Delta. I primi, formati da rocce eruttive e scisti cristallini antichi, rappresentano la parte N. dello zoccolo cristallino dell'Africa orientale, e costituiscono un fascio di brevi catene, che è l'unico complesso montuoso dell'Egitto. Questo si inizia un po' a S. del W. el-‛Arabah e orla il Mar Rosso con una serie di cime: principali, il G. Ghārib (m. 1750), il G. ed-Dukhān (il Porphyrites mons dei Romani; m. 1670), il G. esh-Shāyib che è la più alta montagna dell'Egitto (m. 2184) e il G. Ḥamatah (m. 1978). Più a S. il fascio si dilata e lo spartiacque si allontana dal mare; le cime più alte sono el Gerf, 1258 m., e il Korabkamsi, 1230 m., sul versante eritreo, e il G. el-‛Iṣ (1736 m.) sullo spartiacque. La regione costituisce un dedalo di rilievi aspri, scoscesi, bruciati dal sole: un deserto pietroso dei più impervî, salvo nelle valli nelle quali i pastori trovano un po' d'acqua subalvea e magri pascoli. Verso il Mar Rosso la catena cade generalmente a picco su una stretta striscia litorale.

I tavolati desertici sono costituiti essenzialmente dai banchi prevalentemente calcarei e orizzontali del Terziario e del Cretacico, e sono attraversati e separati in due parti dalla valle del Nilo. Sulla destra di questo si estende, dal Cairo fino a Qinā, l'altipiano detto el-M‛āzah, alto in media da 300 a 400 m. s. m., coperto di cerie e nudo di vegetazione, separato dall'Etbāi dal solco longitudinale del W. Qinā. Nei solchi vallivi, che ne intaccano il margine, verdeggia una magra vegetazione arbustiva. Sulla sinistra del Nilo il tavolato calcareo desertico forma come un enorme triangolo, di cui un vertice corrisponde press'a poco al Cairo, un secondo si appoggia sul confine, il terzo si spinge verso l'oasi di Sīwāh; il lato compreso fra Wādī Ḥalfā e Sīwāh è reso grandemente frastagliato e irregolare dalle depressioni delle grandi oasi. L'altipiano ha in parte carattere di ḥamādah, o deserto petroso aspro e aridissimo; ma non vi mancano importanti depositi di sabbia, a volte estesissimi, come a OSO. di el-Farāfrah e di ed-Dākhlah, dove formano un ostacolo insormontabile alla viabilità. a volte invece disposti in lunghissime strette catene, orientate secondo il vento dominante (N. o NO.) come quella di Abü Muḥarrik, che si estende a N. dell'oasi di el-Khārǵah, tra questa e Moghara per 670 km.

Nel tavolato libico si aprono le vaste depressioni in cui sorgono le oasi: quelle marginali (el-Khȧrǵah, ed-Dākhlah, el-Farāfrah) più o meno aperte verso S., dove il terreno è formato dalle arenarie nubiane; le altre (el-Baḥarīyah, Sīwah) completamente o quasi completamente contornate da pareti rocciose calcaree. In queste oasi (per la genesi e i caratteri v. le singole trattazioni) e in poche altre minori, oltre che nel Wādī en-Naṭrūn e nel Wādī Baḥr bi-lā mā' ("mare senz'acqua"), si concentra tutta la vita del Deserto Occidentale.

La valle del Nilo (v. nilo) è una stretta striscia di suolo coltivata e abitata intensamente, prodotto delle deposizioni alluvionali del fiume, sulle cui sponde si adagia. Superata ad Assuan la prima cateratta, la valle corre fra due ripide pareti, alte talora più di 300 metri sul fondo, le quali sono poi le fronti dei due altipiani laterali: il piano coltivabile ha una media larghezza di 15 km. e si estende specialmente sulla destra, mentre tra esso e il piede delle pareti sale dolcemente una fascia ciottolosa o arenacea larga da qualche centinaio di metri a 5 o 6 km., dovuta ai materiali rocciosi caduti dalle pareti e alle conoidi dei wādī affluenti. All'altezza di Benī Suéf la valle si allarga e le pareti laterali si abbassano gradatamente, finché a partire dal Cairo esse divergono nettamente e la pianura si espande a ventaglio, formando il Delta.

Il Delta del Nilo misura 160 km. da S. a N. e 250 km. di larghezza massima: è un vasto piano alluvionale, che discende dolcissimamente da 9 m. s. m., all'estremità S., fino al livello del mare. La pianura è percorsa da due rami del Nilo e da una complicata rete di canali che solcano in ogni senso un suolo ora finemente arenaceo, ora addirittura argilloso, sempre però sostanzioso e profondo (16-20 m.) e sovrapposto a un potente materasso di ghiaia o di sabbia gialla quarzosa abbastanza ricca di acqua dolce. Verso N. la regione è occupata per vastissimi tratti da lagune salmastre, limitate da stretti lembi di sabbia litorale (v. appresso: Idrografia).

Le coste dell'Egitto si estendono lungo il Mediterraneo per oltre 965 km. Rocciose ma debolmente frastagliate e importuose nella Marmarica, cioè tra il Golfo di Sollum e il margine occidentale del Delta (nel quale tratto corrono con direzione ONO.- ESE.), assumono il carattere di spiaggia sottile in corrispondenza dell'ampia convessità di questo, interrotta solo dalle sporgenze dovute alla foce dei due rami nilotici, le quali determinano così due larghe baie: quella di Abukir (v. abukir) a O. della foce di Rosetta e un'altra a O. della foce di Damietta. Tra il margine orientale del Delta e Rafah, al confine della Palestina, la costa si fa di nuovo nuda e importuosa. Le coste del Mar Rosso corrono da NNO. a SSE. e sono dappertutto montuose, orlate di frangenti e di scogliere coralligene: le due sole sporgenze un po' ragguardevoli sono il Rās ez-Zeit verso la bocca del Golfo di Suez, cui fa seguito una catena d'isolette, e Rās Banās presso il luogo dove sorgeva l'antica città di Berenice.

Clima. - L'Egitto ha nel suo complesso un clima desertico: la pressione atmosferica decresce regolarmente, durante tutto l'anno, da N. a S. o da NO. a SE., poiché la regione del Deserto Libico corrisponde a un'area di alta pressione assai costante; né molto si risente degli spostamenti stagionali dell'area ciclonica meridionale, che dal Sūdān migra nei mesi estivi verso il Golfo Persico, generando così i monsoni. Questi pertanto non raggiungono l'Egitto dove, specialmente nell'Alto Egitto, i venti di gran lunga dominanti in tutte le stagioni sono quelli di N. e di NE. (gli etesî di cui parla Erodoto), che rendono possibile ai velieri di risalire il Nilo agevolando così i traffici.

Perturbazioni bariche derivano, specialmente in inverno e primavera, da aree cicloniche che si spostano sul Mediterraneo da O. verso E., determinando precipitazioni e producendo, in primavera soprattutto, quando questi cicloni corrono più a S. rasente la costa della Marmarica, forti venti di S. (khamsīn) generalmente molto caldi (38°-41° C.) e carichi di finissima polvere desertica, i cui effetti estenuanti sull'organismo umano e animale sono insufficientemente compensati dai vantaggi recati a certe colture (datteri). Appena lontani dalla costa, dove essa subisce l'influenza diretta del mare, ma soprattutto nel Medio e Alto Egitto, l'aria diviene calma, estremamente asciutta e pura, e così assai adatta alla cura delle malattie reumatiche, polmonari e cardiache, onde già il Cairo e più Luxor e Assuan sono fra le stazioni climatiche invernali più accreditate.

Le piogge, quasi esclusivamente concentrate nei mesi di dicembre e gennaio, raggiungono valori di 150 a 200 mm. lungo il litorale mediterraneo, dove in grazia ad esse è possibile la coltura dell'orzo; ma decrescono rapidamente sul Delta, e già al Cairo abbiamo una media di 30 mm. in 27 anni, la massima essendo stata di 73 mm. e la minima di 7 mm., mentre a S. del Fayyüm esse sono praticamente nulle. Ciò non toglie che eccezionalmente si possano osservare anche al Cairo, e perfino nel deserto, piogge torrenziali della durata di diverse ore, le quali sono nocive al cotone e recano talora danni gravì non solo alle case dei villaggi, ma anche alle città, prive di fognature: così nel 1919 certi quartieri del Cairo furono allagati da una pioggia violenta, che in 4 ore raggiunse 43 mm. concentrandosi in città anche dalle prossime colline. Il Mar Rosso esercita un'influenza scarsa sulle precipitazioni e sulla temperatura: modifica assai nelle vicinanze della costa l'umidità dell'aria, e può avere influenza sulle precipitazioni nelle regioni montuose che lo fiancheggiano, la cui piovosità, alta relativamente a quella del Deserto Libico, è però attribuita di preferenza ai venti di provenienza mediterranea.

La temperatura, moderata alquanto dall'influenza delle brezze e dalla vicinanza stessa del mare sul Delta e specialmente nel suo lembo settentrionale, presenta ad Alessandria medie invernali di 15° (min. + 5°); al Cairo la media invernale (gennaio) è 13° (min. + 20), primaverile 25°,3 (con massimi assoluti di 46° durante il khamsīn), l'estiva 28°, 2 (mass. 35°), l'autunnale 18°,8. Nell'Alto Egitto la media annua si aggira intorno a 26°: d'inverno la temperatura oscilla fra 12° e 30° (min. + 5°), d'estate sale fino a 43° all'ombra. Fortissima è l'escursione giornaliera specialmente nel deserto, dove la nudità del suolo facilita un'intensissima irradiazione notturna, cosicché al torrido calore del pomeriggio estivo (fin quasi 50°) succedono bruscamente notti fresche o addirittura fredde. Da questo estremo riscaldamento del suolo dipende, come è noto, il fenomeno del miraggio, frequente e intenso in Egitto, e ad esso si legano le intense azioni di diffissione (frattura spontanea delle rocce). Nell'inverno la temperatura scende anche a 4° e 5° sotto lo zero, determinando il congelamento dell'acqua negli stagni e molto raramente la brina, data la scarsa umidità dell'atmosfera.

Non rari i fulmini; grandine, ghiaccio, brinate sono rari come dicemmo, ma quando si producono determinano danni gravi alle colture; non infrequenti le nebbie, specialmente autunnali, nei luoghi bassi acquitrinosi e sul fiume. La neve cade d'inverno sul Sinai.

L'Egitto possiede una rete di 24 stazioni meteorologiche, di cui una di prim'ordine a Helwān, in funzione dal 1904.

Idrografia. - Le condizioni climatiche dell'Egitto non sono tali da permettere la formazione di corsi d'acqua perenni. Il Nilo, il solo fiume che attraversa il paese, non è alimentato dalle piogge cadute localmente ma trae le sue acque dai grandi laghi dell'Africa centrale e dalle montagne dell'Etiopia, e le sue portate diminuiscono da monte a valle per effetto dell'evaporazione e delle infiltrazioni, accresciute a dismisura dalla pratica dell'irrigazione, che è diffusa si può dire lungo tutto il suo corso attraverso l'Egitto, corso che dalla frontiera sudanese, posta 46 km. a N. di Wādī Ḥalfā, fino a Rosetta misura 1508 km. (v. nilo).

Questa aridità fa sì che tutti i laghi e gli stagni, che si trovano in buon numero nel paese, abbiano acque salmastre o salate. I più sono, del resto, lagune litorali del Delta, poco profonde e separate dal mare da una striscia di terra non più larga di una quindicina di km., talora molto meno, fino a poche centinaia di metri. Sono tutti ricchi di pescagione e di caccia. ll primo a ponente è il lago Maryūṭ (la Palus Maraeotis degli antichi), posto a S. di Alessandria (v.), vario di estensione e d'altezza secondo il livello delle acque nel Nilo. Le acque durante le piene assumono un'estensione di oltre 250 kmq. e vengono abbassate a mezzo di potenti pompe, poiché il lago è ormai privo di comunicazione con il mare. Navigabile nell'antichità e congiunto allora con canali al Nilo, divenne nel Medioevo una pianura salata; questa fu inondata artificialmente dall'esercito inglese accampato ad Abukir nel 1801 tagliando un canale nella spiaggia e sommergendo cosi vaste aree coltivate. La regione attorno in tempi romani era largamente coltivata e fertile di vigne e adorna di ville. A E. del lago Maryūt, tra questo e il Nilo di Rosetta, è il lago Edkū, lungo 35 km. e largo, a tratti, fino 26 km., comunicante con il mare nella baia di Abukir. Tra il Nilo di Rosetta e quello di Damietta è il lago el-Burullus lungo 100 km. e largo 26, orlato a S. e SE. da terreni paludosi e alimentato da canali e bracci secondarî del Nilo, tra cui il Baḥr-Mīt-Yazid che sfocia in faccia allo sbocco del lago nel Mediterraneo, sbocco corrispondente all'antico braccio Sebenitico del Nilo.

L'el-Manzalah, il maggiore dei laghi del Delta (lungo km. 64, largo km. 24, area kmq. 2000), si estende tra il ramo di Damietta e Porto Said, separato dal mare per una stretta lingua di terra che le onde sorpassano nelle mareggiate, rendendone salate le acque. Vi sboccano numerosi canali, uno dei quali corrisponde al ramo Mendesio, un altro al ramo Tanitico del Nilo: ambedue importanti nell'antichità; parecchie le isole, in parte abitate da pescatori, al pari delle sponde ove vive ancora qualche mandria di bufali; numerosi anche gli scogli, gremiti di uccelli acquatici: pellicani, aironi, fenicotteri. Lungo il margine orientale del lago fu scavato, per una lunghezza di 32 km., il Canale di Suez; oltre questo il lago si riduce a una pianura paludosa, in cui sono state create delle saline e attraverso la quale sfociava il ramo Pelusiaco, oggi asciutto.

Fra Tell el-Faramah, ove sorgeva l'antica Pelusio, ed el-‛Arīsh, lungo la costa settentrionale della penisola del Sinai (v.), si estende, su una lunghezza di 85 km. e con una larghezza massima di oltre 20 km., un'altra grande laguna litoranea, la Sabkhet el-Bardawīl, orlata a S. da vaste aree dunose e delimitata a N. da uno stretto cordone litorale su cui corre la strada da Porto Said a el-‛Arīsh.

I laghi dell'Istmo di Suez sono più piccoli, ed erano molto salati prima che il Canale di Suez (v.) li congiungesse da un lato al Mediterraneo, dall'altro al Mar Rosso. Sono il lago el-Ballāḥ, separato dall'el-Manzalah da una stretta striscia di terra detta el-Qanṭarah (il ponte), il lago et-Timsāḥ, sulla cui riva settentrionale è Ismailia (v.), e i cosiddetti Laghi Amari (forse il "Mara" della Bibbia), il cui fondo è a 8-12 metri sotto il livello del mare. Questi costituiscono in realtà un unico bacino strozzato al terzo meridionale, così da formare il Grande Lago Amaro a N. e il Piccolo Lago Amaro a S.

Una serie di 10 laghi ricchi di natron (carbonato di sodio) si trova nel Wādī en-Naṭrūn, 110 a 150 km. a O. del Cairo, a una cinquantina di km. dalla ferrovia, cui è collegata da una linea privata della compagnia che sfrutta i depositi salini della valle. Questa è nota anche per i conventi copti e per gli strati ricchi di fossíli e tronchi pietrificati. Più a S., nella provincia del Fayyūm, è il Birket Qārūn, lago di acqua salmastra, in comunicazione col Nilo (v. fayyūm).

L'effetto delle piogge locali, trascurabile rispetto al Nilo e alle acque stagnanti, è tuttavia sensibile nel modellamento del suolo e nell'alimentazione delle falde acquifere sotterranee. Le catene montuose che costituiscono nel suo complesso il Deserto Arabico, e più ancora le montagne del Sinai, sono infatti soggette a precipitazioni non del tutto insignificanti, almeno a giudicarne dalle valli, normalmente asciutte, ma attive in occasione di quelle. Quasi ogni anno infatti, l'acqua corre per qualche ora, talvolta per qualche giorno, nei profondi e tortuosi solchi dei wādī che, ingombri di blocchi e di sabbia, scendono dagli altipiani el-Ma‛azah o dai monti dell'Etbāi verso la sponda destra del Nilo, quali il Wādī eṭ-Ṭīh, il W. Ḥōf presso Ḥelwān, il W. ẹt-Ṭarfeh a N. di Minyā, il W. Shetun e il W. el-Miyāh nell'altipiano a SE. di Asyūṭ, il lunghissimo e importante Wādī Qinā, il Wādī el-Kharīṭ con i suoi numerosi affluenti, il Wādī el-‛Allāqī a S. di Assuan e molti altri minori.

Sul rovescio di questi rilievi verso il Mar Rosso, le valli sono in generale più brevi, poiché lo spartiacque corre prevalentemente più vicino a questo che al Nilo: importanti sono, a N. il W. er-Ramlīyah, il W. Batat e il Wādī el-‛Arabah; più a S. ricorderemo il W. ed-Dīb sboccante nella baia di ez-Zeit, il W. Abū Marwah con i suoi molti tributarî nella baia di Gimsah, il W. Ambagi a el-Qoṣeir; di qui fin oltre Rās Banās i wādī si fanno anche più brevi e più semplici per la vicinanza dei monti alla costa; tra Rās Banās e il 22° N. citiamo il Wādī el-Ḥōdein, il W. Ibib e il W. Kiraf, che ha origine nel territorio sudanese.

Analoghi sono i wādī della penisola del Sinai: più lunghi e più ramificati quelli del versante settentrionale che volgono al Mediterraneo, più brevi, ma più attivi per la maggiore elevazione delle montagne quelli che dal Gebel Mūsà e dal G. Kātherīnā scendono al Golfo di Suez o al Golfo di el-‛Aqabah (v. Sinal).

In tutte queste singolari valli, attive pochissimi giorni dell'anno, più spesso un giorno ogni tanti anni, la piena (che gli Arabi chiamano sail) giunge talvolta a sboccare nel Nilo o al mare, più spesso però si limitano a spazzar via le povere colture e i sentieri fondovalle: giunte al piano le acque si perdono nella sabbia o si raccolgono in qualche depressione. In ogni modo il paesaggio del Deserto Arabico, come quello del Sinai, mostra all'evidenza l'azione modellatrice delle acque correnti, in contrasto con quello del Deserto Occidentale, dove predominano in modo assoluto le azioni di erosione e di sedimentazione eolica, e le valli sono insignificanti.

Queste piogge, per quanto scarse e saltuarie, determinano la formazione di falde freatiche, che nutrono nei fondovalle una magra vegetazione arbustiva e alimentano numerosi pozzi, preziosi per i pastori nomadi, la cui vita dipende molto da queste precipitazioni. Sorgenti come quelle di Abū Sa‛fah e di Abraq presso il Mar Rosso a S. di Rās Banās, e quelle del Wādī el-‛Arabah nella Tebaide, a cui attingono i monasteri di S. Paolo e di S. Antonio, sono alimentate dalle precipitazioni e corrispondono a un determinato livello geologico del Cretacico medio (arenarie nubiane). Generalmente però nella regione litorale del Mar Rosso le acque freatiche e sorgive sono scarse e ricche di sali (selenitose, salate ecc.).

Nel Deserto Libico le sorgenti sono assai più rare, tuttavia non mancano interamente: un livello acquifero, corrispondente a terreni del Cretacico superiore, ha determinato la posizione di alcune oasi minori (el-Kurkūr, ed-Dunqul). Però la maggior parte delle acque sotterranee è fornita dalle infiltrazioni del Nilo o dalle precipitazioni che le arenarie nubiane assorbono nel Sūdān e convogliano nel sottosuolo dell'Egitto. Alla prima categoria appartengono le acque dei numerosi pozzi aperti nelle alluvioni della pianura nilotica, generalmente a circa 40 m. di profondità. Il fiume cede acqua agli strati permeabili del suolo nei mesi di piena, dal luglio al novembre, e ne riassorbe una parte da dicembre a giugno. L'acqua è dura, ricca di ossidi di ferro e di manganese, ma in generale potabile e abbondante, talché centri importanti come Ṭanṭā e fino a qualche tempo addietro anche lo stesso Cairo, ne dipendono interamente. L'acqua del Nilo tuttavia, convenientemente filtrata, è preferibile; e il Cairo oggi beve di quella. Nella parte settentrionale del Delta, dove predominano le grandi paludi salmastre, l'acqua scarseggia a piccola profondità o è ricca di sali, ma pare esista acqua discreta a profondità maggiore. Qui all'alimentazione dei pozzi contribuiscono sensibilmente le precipitazioni locali, quando siano raccolte dalla sabbia delle dune litorali. Le copiose acque sotterranee che sgorgano naturalmente o sono raggiunte artificialmente mediante profondi pozzi artesiani, nelle grandi oasi del Deserto Libico, come el-Khārǵah, ed-Dākhlah e el-Baharīyah, che debbono a esse la loro esistenza, derivano dalle piogge del Südān - più abbondanti che nell'Egitto - e forse da acque del Nilo assorbite e convogliate nel sottosuolo alla profondità di decine di metri dagli strati permeabili dell'arenaria nubiana.

Flora e fauna. - La flora egiziana è povera, perché non conta che 2000 specie, all'incirca, di fanerogame: questo è dovuto all'aspetto fisico della regione, alle inondazioni periodiche della valle del Nilo e all'aridità dei deserti circostanti. Nella vegetazione dell'Egitto si possono distinguere varie zone. Anzitutto una zona costiera mediterranea ove esiste una vegetazione di piccoli arbusti, senza però quelli caratteristici della macchia mediterranea e di piante erbacee annue o perenni in cui sono largamente rappresentate le specie litoranee, le psammofile e quelle che vivono sulle rocce costiere. Poi vi è la zona desertica in cui si possono distinguere: la regione libica, l'arabica settentrionale e l'arabica meridionale: in questa zona troviamo abbondanti Graminacee, Chenopodiacee, dei Tamarix, Borraginacee, Leguminose (specialmente Acacia tortilis, A. Ehrenbergiana, A. arabica var. nilotica, A. seyal, A. albida, dal portamento cespitoso-spinoso; alcuni Astragalus), parecchie Plantaginacee, la Salvadora persica soprattutto nella regione arabica settentrionale, varie Composte. Sui margini delle oasi si trovano: Tamarix nilotica e T. amplexicaulis, Citrullus colocynthis o coloquintide, la gigantesca Calotropis procera oltre a una vegetazione erbacea di Graminacee, Ciperacee, Chenopodiacee ecc. La zona coltivata del Nilo presenta un aspetto molto interessante: nel Delta si coltivano il trifoglio alessandrino, la fava, il riso, i cereali, la canna da zucchero, il cotone, per quanto tale coltura sia insidiata da molti parassiti. La vegetazione spontanea consta di Tamarix, Salix safsaf ecc.; fra i gruppi di palme vi sono giganteschi Ficus sycomorus e poi Zizyphus spina Christi, Acacia arabica var. nilotica. Vicino alle città si coltivano Albizzia lebbek e Farnesiana, Zizyphus lotus, Lawsonia inermis, Opuntia ficus indica, gelsi, aranci, limoni, granati, fichi, ecc. Nelle acque si trova il famoso papiro, ma in quantità molto ridotte, poi Nymphaea lotus dai fiori bianchi, N. caerulea a fiori azzurri, l'Idrocaritacea a vistosi fiori bianchi, Ottelia alismoides, indi Najas, Ceratophyllum, Utricularia inflexa e stellaris, Lemna gibba e numerose altre idrofite.

La vegetazione arborea è scarsissima perché da tempo immemorabile gli abitanti distrussero le foreste: come tali non si considerano le superficie disseminate di sunt (Acacia nilotica). Le piante delle oasi sono per lo più d'origine europea; le altre appartengono alla flora africana.

Il carattere della fauna è essenzialmente mediterraneo, ma la presenza della vallata del Nilo ha permesso una notevole immigrazione, specie nell'Alto Egitto, di elementi etiopici. Tra i Mammiferi, scarsi, le scimmie mancano nel Basso e Medio Egitto, nell'Alto Egitto sono rappresentate da qualche specie etiopica. Tra i Carnivori, la iena striata, gli sciacalli, la volpe del Nilo, la lince di palude, varie genette. Caratteristici gli icneumoni. Tra le antilopi, l'Antilope dorcas è frequente in tutta la valle del Nilo. Caratteristici della zona desertica sono molti roditori fra i quali il dipo o topo delle piramidi e varî altri topi saltatori. Non rari i ricci e l'istrice. Gli Uccelli sono rappresentati da moltissime specie; tra queste citeremo l'ibis, un tempo abbondante in tutto l'Egitto dove era considerata sacra, e ora abitante le regioni dell'Alto Nilo dove nidifica, varî trampolieri, passeracei, palmipedi tra cui l'oca d'Egitto, rapaci tra i quali il grifone, il nibbio egiziano, aquile, falchi. Fra i Rettili il coccodrillo del Nilo (Crocodilus niloticus), lucertole, varani (Varanus niloticus), testuggini e varî camaleonti; importanti i serpenti velenosi tra i quali l'aspide di Cleopatra (Naja haie) e il ceraste (Cerastes cornutus). Varî gli Anfibî e i Pesci d'acqua dolce fra i quali meritano di essere ricordati il malapteruro elettrico e il poliptero.

Fra gl'Insetti il classico scarabeo sacro (Atheucus sacer) venerato dagli antichi Egizî, la cavalletta migratrice, nota fin dall'antichità per i danni che arreca, e un'enorme schiera di specie rappresentanti il caratteristico mondo degli entomati. Interessante anche la notevole fauna de; molluschi terrestri e d'acqua dolce della regione.

Suddivisioni naturali. - Si può contrapporre l'Egitto propriamente detto, formato da terreni alluvionali direttamente o indirettamente irrigati dal Nilo, e quindi coltivati e abitati, alle zone desertiche circostanti costituite di roccia in gran parte nuda e di arida sabbia. L'Egitto deve alla sua volta essere distinto in Basso Egitto (Delta nilotico), sul cui clima si fa sentire più o meno intensamente l'influenza del prossimo Mediterraneo, e Alto Egitto (eṣ-Sa‛īd), corrispondente al tratto della valle nilotica che corre dal principio del Delta, subito a S. del Cairo, fino ad Assuan, a S. del quale si estende la bassa Nubia politicamente inclusa nell'Egitto fino presso Wādī Halfā. A O. dell'Egitto si estende il Deserto Libico o Deserto Occidentale, con carattere di altipiano poco elevato, a rilievo dipendente in prevalenza da fenomeni di erosione e sedimentazione eolica (ḥamādah, dune mobili): sole aree coltivabili e abitabili, in grazia delle acque del sottosuolo, sono le oasi grandi (el- Khārǵah, ed-Dākhlah, el-Farāfrah, el-Baharīyah e Sīwah) e piccole (el-Kurkūr, ed-Dunqul); mentre la zona marginale, sotto l'influenza del Mediterraneo, assume vegetazione e clima di steppa e forma l'altipiano marmarico. A est dell'Egitto, tra questo e il Mar Rosso, si estende il Deserto Arabico o Orientale, con carattere in parte di altipiano (el-Ma‛azah), in parte di catene montuose e rilievi dipendenti in prevalenza dall'azione dell'acqua corrente (valli d'erosione, delta torrentizî). La scarsa vegetazione e le misere colture sono localizzate nei fondovalle. La regione dell'Istmo di Suez, a rigore, fa parte di questa zona orientale, ma se ne distingue per la frequenza della popolazione legata al traffico del canale e a quello delle carovaniere: essa fa passaggio a un'ultima regione naturale, la penisola del Sinai (v. sinai), limitata dal Golfo di Suez e dal Golfo di el-‛Aqabah e caratterizzata a S. da un elevato massiccio montuoso con precipitazioni relativamente abbondanti d'acqua e di neve; nel centro da vasti e aridi altipiani desertici solcati da valli, a N. da un'ampia fascia di dune che si spingono fino alle lagune litorali.

Dati statistici generali sulla popolazione. - La popolazione egiziana, secondo il censimento del febbraio 1927, ascendeva a 14.217.864 ab., dei quali 40.000 in cifra tonda sono beduini nomadi viventi nelle zone desertiche che fiancheggiano la valle del Nilo. Ragguagliata all'estensione totale del territorio, la densità sarebbe di soli 14 ab. per kmq.; se si tien conto della sola area coltivata, ascenderebbe a 404 ab. per kmq., superiore a quella di tutte le provincie italiane, fatta eccezione per Milano, Napoli e Genova.

Nell'ultimo secolo, a datare cioè dall'avvento al potere di Moḥammed-‛Alī, l'accrescimento della popolazione è stato straordinario. Un computo fatto durante l'occupazione francese dava per la popolazione dell'Egitto, all'inizio del sec. XIX, la cifra di 2.460.200 ab. e tale sarebbe rimasta per un ventennio. Una stima del 1846 ne fa salire la cifra a 4.476.440 abitanti. Il primo censimento regolare si compì al tempo dell'occupazione inglese (1882); diede 6.813.919 ab. Il progresso sensibilissimo verificatosi nei 60 anni precedenti determinandone quasi il triplicamento, continuò dopo l'occupazione inglese, onde il censimento del 1897 diede una popolazione di 9.734.405 ab., salita a 11.287.359 nel 1907 e finalmente a 14.217.864 nel 1927. Per tal modo dal 1882 a oggi la popolazione si sarebbe più che raddoppiata, laddove quella italiana nello stesso periodo si accrebbe solo di circa 1/3. Tale accrescimento è dato quasi esclusivamente dall'eccedenza delle nascite sulle morti che in questi ultimi anni si aggira intorno alla cifra annua di 250.000, poiché la natalità raggiunge l'alta proporzione del 43,3‰ (26,2‰ in Italia nel 1929), cui si contrappone una mortalità pur sempre elevata del 24,6‰ (15,4‰ in Italia). La differenza, ossia l'eccedenza dei nati, si ragguaglia a 18,7‰, mentre in Italia è di circa la metà (10,4‰). I movimenti migratorî non contribuiscono ad alterare questo ritmo di accrescimento: nulla può ritenersi infatti l'emigrazione e di assai scarsa importanza l'immigrazione; il censimento del 1882 dava presenti 90.886 stranieri, quello del 1897 112.974, quello del 1907 231.139, che ridiscesero a 205.149 nel 1917. Ma gli aumenti sono dovuti più all'eccedenza dei nati, anche per gli stranieri, che a nuove immigrazioni. Fra le colonie straniere domiciliate in Egitto le più numerose sono: la greca, che con 56.731 censiti nel 1917 rappresentava il 27,6% dell'intera popolazione straniera, e l'italiana, che con 40.198 censiti ne rappresentava il 15,9%; quindi la turca con 30.797 (15,0%). Seguivano la britannica, in gran parte costituita di Maltesi, con 24.354 (11,8%) e la francese con 21.270 (10,3%).

La colonia italiana risale ai primi decennî del sec. XIX, quando funzionarî, professionisti, commercianti, artigiani vi furono chiamati - spinti anche da ragioni politiche - nel periodo del Risorgimento e dal nuovo impulso dato alla vita egiziana da Mohammed ‛Alī e dai suoi successori. L'occupazione inglese non arrestò l'aumentare degl'Italiani, dovuto principalmente all'eccedenza dei nati, onde il numero ne salì a 24.454 nel 1897, a 34.926 nel 1907, a 40.198 nel 1917. Il censimento consolare degl'Italiani all'estero portava la cifra dei regnicoli stabiliti in Egitto alla metà del 1927 a 49.107, dei quali 33.457 erano nati nel paese dove, in virtù delle capitolazioni, conservavano la cittadinanza italiana. Dopo quella della Tunisia, la colonia in Egitto è la colonia italiana più numerosa nel continente africano, ed è certo quella che proporzionalmente vi occupa posizioni economiche e sociali più elevate.

La religione della grandissima maggioranza della popolazione indigena è la musulmana; solo una parte degli abitanti di alcuni centri urbani, specialmente dell'Alto Egitto, ha conservato l'antica fede cristiana monofisita. Secondo il censimento del 1927 il totale della popolazione egiziana era dal punto di vista religioso così suddiviso: 12.969.260 musulmani, 946.393 cristiani copti, 52.777 greci ortodossi, 116.660 cattolici, 66.080 protestanti, 63.550 israeliti e 3144 di altre religioni. Gli ortodossi sono quasi esclusivamente quelli di nazionalità greca, i cattolici sono specialmente italiani, maltesi, francesi; i protestanti sono inglesi e tedeschi; gl'israeliti appartengono in parte alle varie colonie europee, compresa l'italiana e in parte alla popolazione indigena.

Antropologia. - Nei popoli che abitano l'Egitto si distinguono un gruppo di origine africana e un gruppo di origine asiatica (Chantre); al primo appartengono gli Egiziani propriamente detti: Copti, Fellāḥ, gli abitanti dell'oasi di el-Khārǵāh e i gruppi provenienti dal sud: Begia, Sudanesi, ecc. (v. etiopici negri); al gruppo asiatico appartengono gli Arabi beduini e altre popolazioni immigrate dall'Asia: Ebrei, Turchi, Armeni, Siriani, ecc. (v. alle voci corrispondenti). I popoli comunemente noti con il nome di Egiziani occupano in gran parte la valle del Nilo dalla prima cateratta al mare e si sogliono distinguere in Copti e Fellāḥ.

I Copti sono considerati (insieme con la maggioranza dei Fellāh) come i veri discendenti e rappresentanti degli autoctoni dell'Egitto. Hanno il loro centro di abitazione nell'Alto Egitto e le loro città principali sono presentemente Medīnet el-Fayyūm e Asyūt. Tutti gli autori sono tuttavia d'accordo nel ritenere il tipo fisico dei Copti molto somigliante a quello degli Egiziani antichi, qual è riprodotto nei monumenti dell'antichità. Il colore della pelle è assai variabile dal bianco opaco o giallo pallido fino al colore bronzo più scuro, i capelli neri grossolani sono prevalentemente ricciuti o ondulati; gli occhi bruni hanno l'apertura palpebrale piuttosto allungata e spesso rialzata all'angolo esterno; il naso ha il profilo diritto. La fisionomia facciale è, in complesso, a parte il colore della pelle, rassomigliante a quella del tipo caucasico a rostro non molto prominente (4° tipo del Sera). La statura è di poco superiore alla media (166 in 150 ♂ e ♀ dello Chantre); un gruppo di 44 uomini scelti per il servizio militare (Myers) ha dato però una media assai più alta (172); la grande apertura delle braccia risulta eguale alla statura (media della misura diretta in 150 ♂ e ♀: 171). Mancano misure della statura a sedere, quindi nulla si sa intomo allo sviluppo delle gambe in rapporto a quello del torace (indice scelico). I Copti sono nettamente dolicocefali (150 ♂ e ♀ dello Chantre dànno una media di 75,4, i 44 scelti del Myers 74,0), a cranio alto (ortoipsicefali) (150 ♂ e ♀ dello Chantre media dell'ind. vert. long. 65,0): le forme faciali e nasali sono medie (mesoprosopi, ind. fac. del Broca su 49 ♂ e ♀ dello Chantre, media 102,34), mesorrini (media 150 ♂ e ♀ dello Chantre 76,8, su 42 del Myers 75,8). Non si hanno notizie craniologiche di serie sicuramente copte.

I Fellāḥ (v.), rappresentano la parte più considerevole della popolazione veramente egiziana (circa 34). Il colore della pelle è molto variabile: dal giallastro quasi bianco nel Delta, fino al color cioccolata cupo nel Medio e Alto Egitto e anche più scuro nelle regioni più meridionali. I capelli sono di colore bruno più o meno scuro, ricciuti o ondulati, mai lanosi; anche gli occhi hanno un colore molto bruno; il profilo del dorso nasale è diritto, talvolta aquilino o leggermente abbassato, mai schiacciato o concavo. Fisionomia faciale del tipo caucasico a rostro non molto prominente (4° tipo del Sera). La statura è inferiore alla media (138 ♂ e ♀ dello Chantre 163), la grande apertura delle braccia è superiore alla statura (su 138 ♂ e ♀, 70 oltrepassano la misura diretta di 170); anche per i Fellāh, come per i Copti, mancano misure della statura a sedere. L'indice cefalico del vivente dà una media nettamente dolicocefala (138 ♂ e ♀ dello Chantre 75,5), a cranio alto (ortoipsicefala, 138 ♂ e ♀, ind. vert. longit. 64,4); la faccia e il naso hanno uno sviluppo medio (mesoprosopia, media dell'indice facciale del Broca su 138 ♂ e ♀ dello Chantre 104,0; mesorrinia, media di 81 ♂ e ♀ dello Chantre 76,1), però nelle donne sembrano prevalere nasi alti e stretti (leptorrinia); nei Fellāḥ di Luxor si constatò invece una certa tendenza a forme nasali larghe e basse (platirrinia; Chantre).

Nove cranî di un cimitero moderno di Suez provenienti da tombe che non si sa se fossero di Copti o di Fellāḥ sono dolicocefali (75,4), a faccia lunga (leptoprosopi, ind. fac. Broca 69,9), mesorrini (48,6) e a orbite di media altezza (mesosemi, 86,8). Sui cranî Fellāḥ. abbiamo i seguenti dati:

Le serie risultano assai meno dolicocefale di quelle dei Fellāh viventi, a cranio alto, faccia lunga, forme nasali ben profilate (ortoipsicefale, leptoprosope, lepto platirrine), con nasi bassi e larghi soltanto nella serie del Cairo dello Schmidt, orbite di media altezza con tendenza però verso forme alte (meso-megaseme).

Nell'oasi di el-Khārǵah un terzo degli abitanti mostra tracce più o meno evidenti d'incrocio con il tipo negro, tolte le quali la popolazione presenta una grande somiglianza con i Fellāh della valle del Nilo. Il colore della pelle oscilla da un tono assai chiaro fino a toni molto scuri, ma prevalgono le intonazioni medie; i capelli sono neri, diritti con variazioni verso le forme ricciute e ondulate, gti occhi scuri; la fisionomia faciale è quella degli altri abitanti della valle del Nilo. La statura media tende a essere piuttosto piccola (150 ♂ misurati dal Hrdlička: 1638), con medio sviluppo dell'arto inferiore rispetto al torace (mesatiscelia: 150 ♂ media 51,3); sono nettamente dolicocefali (media di 150 ♂ 74,8), a cranio alto (ipsicefali, ind. vert. long. media di 150 ♂: 69,6), laccia allungata (leptoprosopi; media di 150 ♂: 86,3), naso medio (mesorrini: media di 150 ♂ 76,6). Mancano notizie di serie craniche moderne. Il gruppo fu considerato come un incrocio di Africani nord-orientali con Asiatici sud-occidentali e classificato come una propaggine meridionale della suddivisione mediterranea della razza bianca: è lo stesso tipo che abitava l'oasi durante il primo periodo dell'era cristiana (Hrdlička).

I Beduini, comunemente chiamati anche Arabi, sono la parte preponderante di tutta la popolazione dell'Egitto; vivono specialmente tra il Nilo e le montagne, estendendosi fino all'alta valle del Nilo (el-Gia‛liyyīn ed el-Kabābīsh). Il colore della pelle è piuttosto chiaro; i capelli, spesso diritti, sono neri, come neri sono generalmente gli occhi; soltanto in alcuni gruppi di el-Manzalah e del Cairo si notano occhi chiari. Il profilo del dorso nasale è o diritto o aquilino, la fisionomia faciale è nettamente caucasica a rostro non molto prominente (4° tipo del Sera). La statura è al disopra della media e diviene molto alta nei gruppi che abitano il Fayyūm, la dolicocefalia è notevole, associata a un evidente sviluppo del cranio in altezza (ortoipsicefalia) e la faccia tende a essere larga e bassa (brachiprosopia), le forme nasali medie (mesorrinia), ma vi sono individui con naso alto e stretto (leptorrini) e anche forme nasali larghe e basse (platirrini).

I due gruppi, l'egiziano propriamente detto (Copto e Fellāḥ) e il beduino, presentano in sostanza differenze ben nette: il primo, a statura più bassa, ha forme faciali e nasali medie, nel secondo, a statura più alta, si hanno facce basse e larghe con forme nasali che oscillano dalle fini, a naso ben profilato, fino alle rozze a naso basso e schiacciato; il cranio è nei due tipi allungato e alto (dolicoipsicefalo), forma prevalente in tutta l'Africa settentrionale.

Etnologia. - La vita della popolazione indigena dell'Egitto è oggi regolata, come per il passato, dal crescere e dal decrescere delle acque del Nilo, per quanto l'ingegneria moderna abbia trasformato le inondazioni d'una volta in afflussi periodici che permettono in alcune località anche una triplice raccolta annua, e sebbene la vecchia agricoltura sia stata già da un secolo arricchita, specialmente nel Delta, dall'introduzione della pianta del cotone. Le condizioni fisiche, morali ed economiche dell'agricoltore fellāḥ sono di poco mutate da quelle che erano alcune migliaia di anni fa. Tuttora egli vive in villaggi assai compatti coltivando intensamente la terra e pagando forti tasse all'amministrazione dello stato e alle fondazioni pie (waqf), ai quali appartiene la maggior parte del terreno coltivabile. Egli irriga i suoi campi tirando su l'acqua dai fiumi, dai canali e dai pozzi. Come strumenti di lavoro vengono tuttora usati zappe e aratri di legno muniti di vomere, tregge e rozzi carri per la trebbiatura. Il nutrimento è costituito principalmente da pane d'orzo, di sorgo, di mais, raramente di frumento, carne di montone, erbaggi, cipolle, meloni, fave, latte acido e formaggi di capra, pecora e bufala. Durante le feste si mangia anche riso, miele, uva. La popolazione rurale vive in case di mattoni di fango seccati al sole; verso l'Alto Egitto esse diventano più grandi e sono talvolta dipinte con terra rossa. Tutte hanno un cortile interno sul quale si aprono le camere fornite di finestre piccolissime. Il tetto, piatto, è formato di rami e foglie di palma ed è ricoperto da uno strato di fango frammisto a paglia. D'estate si dorme sopra di esso; d'inverno, specie nella regione deltizia, in una piccola stanza costruita sopra al forno. Piccole costruzioni di forma rotonda o conica servono da granai o da colombaie. Degli utensili domestici i vasi porosi di terracotta e i panieri conservano ancora le antiche forme. Quando lavora, il contadino egiziano non porta che una fascia di cotonata girata intorno ai fianchi, altrimenti il suo abbigliamento consiste di calzoni corti e camicia di cotone blu d'estate, di lana marrone d'inverno, un mantello di pelle di capra o una semplice coperta e un cappello di feltro rotondo, più raramente un fez o un turbante. Le donne, oltre ai lunghi pantaloni, portano un ampio camice di cotonata blu e sul capo un drappo che scende sulle spalle e con il quale in presenza dei forestieri coprono il viso. Nelle città, uomini e donne portano ampî soprabiti a forma di caffetani, panciotti e giacchette; le donne poi avvolgono i capelli in ampî fazzoletti e appuntano il velo per la faccia a un cerchio di metallo che passa sulla fronte. Nelle classi più basse le donne sogliono inoltre tatuarsi o dipingersi le braccia, la fronte e il petto.

La vita sociale, dove ha abbandonato l'antica organizzazione patriarcale, è regolata principalmente dall'islamismo. All'età di 5-6 anni i ragazzi vengono circoncisi; la cerimonia è accompagnata da una processione alla quale il ragazzo prende parte a cavallo, vestito di abiti femminili; talvolta la cerimonia della circoncisione coincide con quella del fidanzamento, e allora alla processione prende parte anche la fidanzata. In caso di morte vengono chiamate le prefiche che accompagnano il feretro, piangendo e lamentandosi, fino all'estrema dimora (cosa vietata nelle città dal 1926). Sono permesse le feste di tutte le religioni: così i cristiani solennizzano il Natale e la Pasqua. Al Cairo si festeggia in piena estate la prima inondazione del Nilo. Nella moschea di Ḥusain, al Cairo, gli sciiti organizzano il 10 del mese di muḥarram delle processioni accompagnate, sino a qualche tempo fa, da flagellazioni. Il ramaḍān (il mese delle astinenze e delle veglie), si chiude con la festa del Bāiram, nella quale, fra l'altro, si sogliono visitare le tombe; l'uso di pernottarvi nelle casette o recinti che le contengono è stato vietato al Cairo con ordinanza del 4 marzo 1926. Durante i grandi mercati annuali si hanno gare, giuochi, danze. Mentre nelle città del Delta la vita va divenendo sempre più internazionale, nell'Alto Egitto i costumi tradizionali sono meglio conservati. I monasteri copti e, una volta, i numerosi anacoreti, sono stati per molto tempo una nota dominante della valle del Wādī en-Naṭrūn e delle oasi occidentali. Nella Grande Oasi erano in uso fino a poco tempo fa le antiche dimore in caverne e la popolazione islamica (senussita) conserva ancora vecchie usanze cristiane. I Barābrah o Barberini, negroidi della Nubia, vivono in Egitto in condizione sociale di inferiorità, quali portinai e domestici.

Condizioni economiche. - Agricoltura. - L'Egitto è soprattutto un paese agricolo, e alle risorse delle sue coltivazioni, rese possibili dall'irrigazione derivata dalle acque del Nilo, deve la sua floridezza. Questa ha potuto grandemente svilupparsi negli ultimi decennî. Il suolo agrario egiziano è costituito da materiali di trasporto provenienti specialmente dagli altipiani abissini. Essi formano delle sabbie argillose calcaree che vanno sempre più riducendosi in argille impalpabili a mano a mano che la valle degrada a nord. La sua disposizione pianeggiante, che l'opera dell'agricoltore seconda con appositi lavori, rende possibile l'irrigazione, dalla quale dipende lo sviluppo dell'agricoltura. Un ostacolo è opposto dalla salsedine naturale, che depositata dalle acque del Nilo e infiltrata nel suolo, risale per capillarità, onde si rende necessario provvedere a eliminarla.

I prodotti principali dell'agricoltura egiziana, che un tempo furono i cereali, più tardi la canna da zucchero, sono oggi in larga misura costituiti dal cotone, che ha preso senza confronto il primo posto nella produzione agricola del paese. La sua coltivazione pare si praticasse sino da tempo antichissimo; ma fu sotto il governo di Moḥammed ‛Alī, e particolarmente poi durante la guerra di secessione americana, che andò acquistando un'importanza sempre maggiore. Alla fine del sec. XIX l'estensione delle terre coltivate a cotone si aggirava intorno ai 400.000 ettari; oggi essa è raddoppiata (773.568 ha. nel 1929), onde, per evitare i pericoli di un'eccessiva monocoltura, ne fu, con provvedimento del 1925, limitata l'estensione a un terzo delle terre coltivate. La produzione del cotone della pregiata varietà "Sakellaridis" (dal nome del Greco che ne introdusse la coltivazione) fu nel 1929 di 362.500 tonn. e rappresenta circa il 7% della produzione mondiale. La cerealicoltura tiene tuttavia sempre un posto considerevole nell'agricoltura egiziana, sebbene i suoi prodotti siano insufficienti al consumo locale. Il mais, che forma la base dell'alimentazione degl'indigeni, si raccoglie in ragione di circa 20 milioni di q., il frumento in ragione di 12 milioni (circa 1/5 della produzione italiana), il miglio di 3 milioni di q., l'orzo di 2,3, il riso di 2,2. La canna da zucchero, coltivata un tempo per l'alimentazione indigena, sviluppatasi grandemente verso la metà del sec. XIX e più ancora durante la guerra ispano-americana, occupa il secondo posto nella produzione agricola egiziana: nel 1929 se ne ottennero 17 milioni e mezzo di q., che dettero 1.189.520 q. di zucchero.

Importanza notevole vi hanno le coltivazioni delle piante orticole, specialmente delle cipolle, di cui nel 1929 si raccolsero quintali 4.200.000. La coltivazione del tabacco, che ebbe un tempo importanza notevole, è ora proibita per misure fiscali. Molto decaduta è la coltivazione del lino. L'arboricoltura è limitatissima e si riduce a poche palme dattilifere e a banani. Mancano le colture forestali.

Allevamento del bestiame. - L'allevamento del bestiame non ha ancora assunto l'importanza che potrebbe avere e che pure ebbe nell'antichità. Nel secolo XIX il patrimonio zootecnico dell'Egitto soffrì una vera decimazione prodotta da malattie. Sebbene le condizioni determinate dal frazionamento grande della proprietà terriera e la scarsa educazione degli agricoltori non consentano grandi progressi, i recenti censimenti, peraltro di dubbia attendibilità, mostrerebbero tuttavia un qualche miglioramento. Secondo i più recenti dati (1929) si avrebbero 800.853 bovini, 822.594 bufali, 1.002.596 ovini, 731.081 caprini, 759.000 asini, 38.369 cavalli, 21.743 muli e 172.385 cammelli. Il bufalo è tenuto in gran conto dagli agricoltori, non tanto per la sua, del resto limitata, attitudine al lavoro, quanto per la considerevole produzione del latte. L'asino è, come in tutta l'Africa settentrionale, usato come animale da trasporto assai più largamente del mulo e del cavallo. Così si dica del cammello, specialmente nelle regioni desertiche e nelle oasi. Largamente praticato da antico tempo è l'allevamento del pollame. Di limitata importanza la pesca marittima e quella fluviale nelle acque del Nilo.

Prodotti minerarî. - Il suolo dell'Egitto fu celebrato in antico per le ricchezze d'oro, di rame, di pietre preziose (smeraldi), di pietre da costruzione (graniti rossi di Assuan, porfidi e arenarie). La ricchezza mineraria attuale dell'Egitto consiste nei fosfati, che si rinvengono nei calcari cretacei tra el-Qoṣeir e Safāgiah sul Mar Rosso, oggetto d'intenso sfruttamento; nel petrolio, di cui esistono ricchi giacimenti nelle regioni costiere dello stesso mare adiacente a Gimsah; nel ferro manganesifero, che si rinviene nelle miniere del Sinai. La produzione di fosfati, nel 1929, fu di 200.000 tonn.; di tonn. 268.300 quella del petrolio; di 137.500 quella del ferro manganesifero. Da aggiungersi, tra i prodotti minerarî, oltre i materiali da costruzione, lo zolfo, il gesso, il sale, il carbonato di sodio, i nitrati, che trovano largo impiego nel consumo interno del paese.

Industria e commercio. - Scarsa importanza ebbe in Egitto sino a questi ultimi tempi l'industria. La produzione principale del paese, quella del cotone, salvo una grandiosa fabbrica modernamente sorta ad Alessandria e alcuni stabilimenti minori per soddisfare parzialmente i bisogni locali, si può dire che alimenti soltanto il lavoro della sgranatura e della pressatura. La prima si fa in stabilimenti modernamente attrezzati sorti a el-Manṣürah e a Kafr ez-Zayyāt che impiegano operai indigeni sotto la direzione di tecnici europei. La pressatura si fa ad Alessandria, dove sono impiantati grandi stabilimenti idraulici o a vapore. Notevole importanza ha preso invece la fabbricazione e la raffinazione dello zucchero di canna, per le quali sono sorti stabilimenti grandiosi. Lavorazioni minori per la tessitura della seta o della lana, per la concia delle pelli e la confezione delle scarpe, la fabbricazione delle ceramiche ecc., sono più o meno diffuse tanto nel Basso quanto nell'Alto Egitto. Ma in complesso si può dire che l'industria egiziana sia ancora alla prima fase del suo sviluppo, per la concorrenza, non frenata da tariffe doganali, che le fanno specialmente i prodotti dell'industria europea.

L'attività della grandissima maggioranza delle popolazioni è dedita all'agricoltura. Secondo i dati del 1917, dei censiti che avevano dichiarato la loro professione (5.100.000 in tutto) i 4/5 erano agricoltori, 677.000 erano addetti alla industria (di cui 150.000 addetti ai trasporti), 280.000 al commercio e 143.000 alle arti liberali. Bisogna poi tener conto che la grande maggioranza degli addetti all'industria sono artigiani (muratori, fabbri, sarti, cucitrici, calzolai) più che veri e proprî operai. Alla grande industria appartengono gli zuccherifici (29.000 operai) che assorbono il maggior numero di addetti. Dei censiti come agricoltori, la metà e forse più sono proprietarî della terra che lavorano. Piccoli proprietarî possidenti un campicello di poche are, il cui numero va crescendo; onde l'eccessivo frazionamento della proprietà terriera, che, con l'estensione sempre maggiore assunta dai beni waqf, vale ad accrescere il valore fondiario e quello locativo della terra, è considerato una delle cause che limitano il progredire dell'industria agricola.

Il commercio esterno egiziano, in via di costante aumento, si è quintuplicato dalla data dell'occupazione inglese. Le prime statistiche regolari, che risalgono al 1885, davano un traffico complessivo di 21.600.000 lire egiziane, salito a 110 milioni nel 1929 con una quasi completa corrispondenza tra le importazioni e le esportazioni. Esse furono rispettivamente di 56,9 e di 53,4 milioni nel 1929; ma nel triennio precedente le esportazioni avevano di poco superato le importazioni. Fra le prime si può dire che il cotone figuri per i quattro quinti, mentre il resto è rappresentato dai prodotti agricoli (cipolle, riso). Nelle importazioni, per meno di un terzo stanno i filati e i tessuti di lana, di cotone e di seta, poi gli oggetti in ferro, le farine, il frumento e altre derrate agricole, il carbone, il legname, i prodotti dell'industria europea in genere. In complesso si può dire che l'Egitto esporta materie prime per l'industria e importa prodotti lavorati. A questo stato di cose, dannoso per l'economia nazionale, hanno cercato di riparare in parte le modificazioni recentemente introdotte nelle tariffe doganali rimaste finora invariate da quelle che già erano state imposte dalla Turchia. Per esse viene portato dal 10 al 15% ad valorem il dazio doganale sulla maggior parte dei prodotti manufatti importati; e, salvo pochi articoli di cui l'Egitto ha interesse a incoraggiare il consumo locale, abolito il diritto dell'i a 2% che già gravava le merci esportate.

I paesi con i quali l'Egitto esercita il traffico sono - secondo le statistiche del 1929 -: in primo luogo l'Inghilterra, che assorbe un quinto delle importazioni e un terzo delle esportazioni; seguono a parità di condizioni, per l'importazione: la Francia e l'Italia con un decimo ciascuna del totale, mentre gli Stati Uniti tengono il 2° posto nelle esportazioni e l'Italia vi occupa il 4° posto dopo la Francia. La Germania segue l'Italia, tanto per le importazioni, quanto per le esportazioni. Seguono quindi il Belgio, il Giappone, ecc. Le importazioni inglesi tendono a diminuire considerevolmente, mentre si accrescono le tedesche e specialmente le italiane.

Il sistema metrico decimale, introdotto sino dal 1875 facoltativamente in Egitto e reso obbligatorio, all'infuori delle misure agrarie e di capacità, per le amministrazioni pubbliche a partire dal 1° gennaio 1892 (cfr. inoltre la legge n. 9 del 26 settembre 1914), va sempre più diffondendosi, specialmente nelle relazioni esterne. Per le misure agrarie v. feddān.

Comunicazioni. - L'Egitto fu tra i primi paesi del mondo che costruirono vie ferrate, in ciò favorito dalle condizioni naturali del suolo nelle regioni abitate, ovunque pianeggiante. Sino dal 1852 il khedive accordava allo stesso R. Stephenson la concessione per la costruzione della linea Alessandria-Cairo, cui varie altre seguirono nel trentennio successivo. Nel 1882, al momento dell'occupazione inglese, si contavano in Egitto 1519 km. di ferrovie: dopo di allora le costruzioni s'intensificarono grandemente, cosicché oggi se ne contano 4625 km. (di cui 1376 a scartamento ridotto, a scopo specialmente agricolo) e la rete egiziana si stende a fitte maglie sul Delta, risale il Nilo sino alla 1ª cateratta a monte di Assuan, si collega, attraverso l'Istmo di Suez e costeggiando il litorale mediterraneo del Sinai, alla rete palestinese, manda diramazioni al Fayyūm, alle oasi di el-Khārǵah e di Bīr Hooker (Wādī en-Naṭrūn), mentre una altra linea costiera occidentale mira a raggiungere Sollum e a collegarsi a suo tempo con la rete italiana della Cirenaica. Altri lavori di raccordo e di prolungamento delle linee esistenti sono in corso, per renderne la rete sempre più corrispondente alle crescenti esigenze del traffico. A queste risponde una sempre maggiore sistemazione delle vie rotabili, asfaltate, adatte per il traffico automobilistico per il quale si contavano in Egitto 24.997 autoveicoli (1929).

La navigazione fluviale, esercitata da navi a vela e da piroscafi in servizio turistico sul Nilo da Assuan a Wādī Ḥalfā, donde parte la ferrovia del Sūdān, ha limitata importanza dal punto di vista commerciale. Quanto alla navigazione marittima essa fa capo principalmente ai grandi porti di Alessandria e di Porto Said sul Mediterraneo; a quelli di Suez, di el-Qoseir, di eṭ-Tōr sul Mar Rosso per i quali si rimanda alle voci relative; così si dica per quanto si riferisce alla grande via del commercio mondiale che è il Canale di Suez. Nel 1929 il movimento complessivo dei porti marittimi egiziani fu di 12.913 approdi, rappresentanti un tonnellaggio netto di 34.258.631 tonn.; e transitarono il canale 6274 navi, per un tonnellaggio di 33.466.044 tonn., fra cui 319 navi italiane, per un complessivo tonnellaggio di 1.524.890 tonn.

La maggior compagnia di navigazione è la New Egypt and Levant Shipping Co., con sede ad Alessandria (4 piroscafi per tonn. lorde 20.836). In questi ultimi anni si considerò l'opportunità di creare una marina di stato, ed è stata stipulata una convenzione con la Alexandria Navigation Co., alla quale è stato assicurato, da parte del governo, il trasporto annuo di 10.000 tonn. di materiali varî e 10.000 tonn. di carbone occorrenti alle ferrovie di stato egiziane. L'erario s'è impegnato a corrispondere percentuali variabili sulla quantità di merce trasportata. La compagnia si obbliga ad acquistare subito due piroscafi e ad aumentare la lotta portandola in nove anni a sei unità per stazza complessiva non inferiore a 30.000 tonn. Dopo nove anni tutti gli equipaggi saranno egiziani, gli allievi ufficiali saranno gratuitamente istruiti, ecc.

Il traffico aereo egiziano è affidato alla compagnia inglese Imperial Airways. Dall'aeroporto del Cairo ogni settimana transitano gli apparecchi delle linee: a) Inghilterra-Egitto-India; scali intermedî: Atene, Cairo, Gaza, Baghdād, Karachi, Delhi; b) Inghilterra-Egitto-Africa Orientale; scali intermedî: Atene, Cairo, Kharṭūm, Kisumu, Mwanza; col 1931 questa linea ha raggiunto la Città del Capo; c) Genova-Napoli-Corfù-Atene-Candia-Alessandria.

Le basi aeree egiziane sono sotto il controllo dell'aviazione militare inglese. Fra le principali sono: Cairo (Heliopolis), a 9 km. nord-est della città, dimensioni m. 1230 × 630; Alessandria (Abukir), sulla penisola di Abukir, a 18 km. nord-est di Alessandria; Mersà Maṭrūh a 120 km. est di Sīdī Barrānī, a circa 300 m. sud dalla costa; Sollum, a 400 km. ovest di Alessandria, a 2 km. sud dal posto di confine con la Cirenaica: dimensioni m. 460 × 230.

Sviluppatissime le reti telegrafica e telefonica, entrambe di proprietà ed esercite dallo stato e collegate alla rete internazionale. La prima si estende per 19.035 km. di fili, la seconda per 297.677 km. con 41.927 stazioni. Una stazione radiotelegrafica è ad Alessandria.

Suddivisioni storiche e amministrative. - L'Egitto sin0 da tempo antichissimo venne distinto in Alto e Basso Egitto, comprendendo nel primo la valle del Nilo a monte del Cairo e nel secondo la regione del Delta. Le divisioni amministrative comprendono cinque governatorati, limitati alla capitale, il Cairo, e ai porti di Alessandria, Damietta, Porto Said (Canale) e Suez, un distretto di frontiera e 14 provincie, di cui 6 nel Basso e 8 nell'Alto Egitto. Quasi tutte le provincie prendono il nome dalla rispettiva città capoluogo.

Ecco il quadro dei singoli governi, distretto e provincie con l'indicazione del nome della città capoluogo, quando questo sia diverso da quello della provincia, dell'area rispettiva (limitatamente al territorio coltivato), e della popolazione (1927):

Densità della popolazione. Centri abitati. - La popolazione totale dell'Egitto ascendente nel 1927 a 14.217.864 ab., distribuiti in 35.159 kmq. di terre coltivate, darebbe una densità media di 404 ab. per kmq. A questa fa riscontro la totalità dei deserti arabici e libici che rappresentano oltre i 9/10 della totale estensione per i quali la densità si ridurrebbe a meno di un abitante per ogni 2 kmq. Ma anche nei limiti della zona coltivata è molto irregolarmente distribuita; escludendo i governatorati maggiori del Delta, si andrebbe ad un massimo di 686 ab. per kmq. nella provincia di el-Menūfīyah, ad un minimo di 503 in quella di esh-Sharqīyah, entrambi nel Basso Egitto. Nell'Alto Egitto i valori estremi si mantengono sensibilmente eguali e cioè di 614 ab. per la provincia di Girǵā (157 kmq.) e di 274 per quella di Assuan (940 kmq.). La popolazione egiziana è, come si è detto, una popolazione essenzialmente agricola e solo 1/3 circa abita le città, mentre la maggioranza vive in modesti villaggi e casali. Il censimento del 1927 dava per l'Egitto solo 20 comuni con più di 20.000 abitanti, dei quali comuni 3 superavano i 100.000 e 6 stavano tra i 50 e i 100.000 abitanti. Il Cairo, la capitale dello stato con oltre un milione di ab., è una grande metropoli, la maggiore di tutto il mondo musulmano, che, pur conservando il suo carattere originario di città araba con monumenti cospicui di alto valore artistico, si è arricchita negli ultimi decennî di nuovi e grandiosi quartieri di tipo europeo. Così si dica anche d'Alessandria che annovera 573.000 ab. e che specialmente dopo l'occupazione inglese ha quasi totalmente perduto il carattere arabo e si è trasformata compiutamente in città di tipo europeo. Porto Said con i suoi 105.000 abitanti, sorta in seguito all'apertura del Canale di Suez, deve al traffico del canale e al movimento del porto il suo rapido sviluppo di città cosmopolita. Delle città tra i 50 e i 100.000 ab. due sole, Medīnet el-Fayyūm e Asyūṭ, sono nell'Alto Egitto e le altre 4 (Damanhūr, el-Manṣūrah, Tanṭā ed ez-Zaqāzīq) tutte nella regione del Delta. Così quelle con popolazione inferiore ai 50.000 sono sei nel Basso Egitto (Benhā, Shibīn el-Kōm, Damietta, el-Maḥallah el-Kubrà, Rosetta e Suez) e quattro (Beni Suēf, Qinā, el-Minyā e Sōhāǵ) nell'Alto Egitto. Medīnet el-Fayyūm la capitale della vasta depressione, antico lago Moeris, che le acque del Baḥr Yūsuf copiosamente irrigano e convertono in feracissimi campi, è una città di oltre 50.000 ab. (52.863), di cui molti Greci, capoluogo di provincia e considerevole centro di attività economica. Asyūṭ a 375 km. a monte del Cairo (57.000 ab.) è il più considerevole centro dell'Alto Egitto, capoluogo di provincia e mercato importante, nel punto ove convergono le vie per le grandi oasi del Deserto Libico, e frequentata dai visitatori per le reliquie del passato che vi si conservano. Delle città del Delta, Tantā coi suoi 90.000 ab. è per popolazione la quarta città dell'Egitto, capoluogo della provincia di el-Gharbīyah, bella e grande città, con grandiosi edifici e cospicuo centro culturale e religioso. El-Mansūrah (abitanti 63.700), ez-Zaqāzīq (ab. 52.800) e Damanhūr (51.700) sono grandi centri agricoli e cotonieri di tipo misto arabo-europeo. Altrettanto può dirsi dei centri minori: el-Maḥallah el-Kubrà (45 .600 ab.) capitale della provincia di el-Qalyūbīyah, Benhā (28.400), Shibīn el-Kōm (27.400) capoluogo della provincia di el-Menūfīya. Invece i porti costieri di Damietta, capoluogo d'un governatorato autonomo (34.900), e di Rosetta (23.000) sono centri esclusivamente arabi, abitati da pescatori e commercianti. Suez, l'antico miserabile porticciuolo del Mar Rosso, onde trasse il nome l'istmo e il canale che lo attraversa, deve alla costruzione del canale il suo rapido incremento, pur non offrendo niente di speciale interesse. Altre città dell'Alto Egitto: Benī Suēf (39.600 ab.) sulla riva sinistra del Nilo a 124 km. a monte del Cairo, capoluogo della provincia omonima; el-Minyā (44.300 ab.) città fiorente; Sōhāǵ (25.300 ab.) capitale della provincia di Girǵā, cittadina prospera e civile; Qinā a 608 km. a monte del Cairo (27.600 ab.) rinomata per le fabbriche di vasellame; e più a sud di tutte, a 886 km. dal Cairo, Assuan, l'antica Siene, sulla riva destra del Nilo (16.400 abitanti).

Ordinamento dello stato. - Costituzione e amministrazione. - Monarchia ereditaria della dinastia di Moḥammed ‛Alī. In mancanza di successione al trono, il re può nominare il suo successore col consenso del Congresso (due terzi dei membri di ciascuna camera). Nell'interregno, il consiglio dei ministri esercita il potere regio. Il re è il capo supremo dello stato e comandante in capo delle forze armate. Nomina e revoca i ministri, responsabili di fronte al parlamento; dichiara la guerra e conclude i trattati. Ministeri costituiti: interni, finanze, affari esteri, guerra e marina, giustizia, waqf, agricoltura, comunicazioni, lavori pubblici, istruzione.

Costituzione: elargita dal re il 19 aprile 1923 e modificata il 22 ottobre 1930, insieme con la nuova legge elettorale. Hanno diritto al voto tutti i cittadini egiziani che abbiano compiuto il 25° anno di età (salvo gl'interdetti, i falliti, gli alienati e, durante 5 anni, i militari in servizio). Elezioni a doppio grado con scrutinio segreto. Eleggibilità: 30 anni, per la camera dei deputati; 40 anni per il senato. Non sono eleggibili a deputato: i giudici e i magistrati del pubblico ministero, i militari e i funzionarî dello stato. Possono essere eletti al senato: i ministri, i consiglieri di corte d'appello, gli alti funzionarî e membri del clero, i deputati con dieci anni di mandato o cinque legislature, i tassati per un minimo di 150 lire egiziane. Nell'intervallo delle sessioni parlamentari o in caso di scioglimento delle camere, il re può firmare dei decreti-legge, che devono però essere sottoposti all'approvazione del parlamento nel primo mese della riconvocazione.

L'Egitto è diviso in 14 provincie (mudīrīyah) e 5 governatorati (muḥāfaẓah). Ogni provincia è retta da un mudīr, dipendente dal Ministero dell'interno, ed è suddivisa in markaz sotto l'autorità di un ma'mūr. Le giunte provinciali sono presiedute dal mudīr e formate di due delegati per ogni markaz. I centri abitati sono forniti di commissioni municipali, di commissioni locali o di consigli di villaggio. Le provincie e i governatorati sono dotati di corpi di polizia: gli ufficiali vengono dall'esercito o dalla scuola di polizia del Cairo.

La giustizia è amministrata dai tribunali indigeni (civili e penali), dai tribunali misti, dai tribunali dello statuto personale, dai tribunali consolari. I tribunali misti (3 e 1 corte d'appello), istituiti nel 1875, sono competenti per cause civili e commerciali fra stranieri di diverse nazionalità, stranieri e indigeni, stranieri di eguale nazionalità per cause di beni immobili. I tribunali consolari conoscono le cause tra connazionali non di competenza della giurisdizione mista e i processi penali contro sudditi dei rispettivi governi. I tribunali indigeni sono: 245 tribunali cantonali, 93 tribunali sommarî, 5 tribunali governatoriali, 8 tribunali di markaz; oltre la giurisdizione delle 2 corti d'appello (Cairo e Asyūṭ), delle 8 corti d'assise e della corte di cassazione. I tribunali dello statuto personale comprendono: tribunali della Scería (ufficialmente in francese mehkéme, per musulmani, riordinati con decreto-legge n. 78, 12 maggio 1931, distinti in: sommarî, di prima istanza, supremo), máglis ḥasbī (comuni a tutte le confessioni indigene dopo il decreto-legge del 13 ottobre 1925) e tribunali di comunità religiose indigene non musulmane (patriarcali, rabbinici, ecc.). Esistono poi alcune giurisdizioni speciali, come quella del tribunale speciale dell'esercito di occupazione, della repressione della schiavitù, del contrabbando, ecc.

Il vessillo nazionale è una mezzaluna e tre stelle bianche in campo verde.

Ordinamento ecclesiastico. - Le comunità cristiane dell'Egitto si possono dividere in orientali e occidentali. Le orientali si possono ancora dividere in dissidenti o unite con Roma. Le occidentali sono il cattolicismo e il protestantesimo.

Tra le dissidenti occupa il primo posto la Chiesa copta, costituita per lo più da indigeni e soggetta a un patriarca assistito da undici metropoliti e da due vescovi. I fedeli ascendono a 950.000. Seconda per importanza storica è la Chiesa ortodossa melchita, costituita per lo più di gente originaria della Grecia e della Siria. Fino al 1846 il loro patriarca era nominato da Costantinopoli; ora viene eletto dagli stessi ortodossi d'Egitto, che sono distribuiti in otto eparchie. Il monastero del Monte Sinai, pure essendo nella circoscrizione del patriarcato alessandrino ortodosso è autocefalo e conta 100 fedeli. Si contano inoltre piccole comunità di Armenogregoriani (circa 1500) e di Sirogiacobiti (circa 300).

Tra le comunità orientali unite con Roma viene in primo luogo quella dei Copto-cattolici (circa 20.000) per i quali fu creato nel 1895 il patriarcato di Alessandria con i due vescovi di el-Minyā e di Ṭahṭā. Vanno inoltre ricordate la comunità religiosa dei Grecomelchiti, amministrata da un vescovo vicario del patriarca di Antiochia, e le comunità dei Maroniti, dei Sirî e degli Armeni, che assommano a poche migliaia di fedeli.

I protestanti che, come altrove, sono anche in Egitto suddivisi in molte confessioni, esercitano la propria propaganda principalmente fra i Copti. Forte del prestigio inglese la Chiesa anglicana è la più estesa delle varie confessioni. I cattolici latini appartengono in gran parte all'elemento straniero e sono di nazionalità italiana, francese, austriaca, ungherese e irlandese. Sono organizzati in tre vicariati apostolici: quello dell'Egitto, quello del Canale di Suez e quello del Delta. Quest'ultimo è affidato ai padri delle missioni africane di Lione; il primo ai padri francescani di Terra Santa ai quali sono pure affidate le grosse parrocchie di Alessandria e del Cairo; quello del Canale ai francescani francesi. Alessandria poi dal 1839 al 1928 fu anche residenza del delegato apostolico dell'Egitto e dell'Arabia. La delegazione, allargata alla Palestina, alla Trasgiordanica e all'isola di Cipro, ha ora la sua residenza al Cairo.

Forze armate. - a) Esercito. - Il bilancio della guerra ammontava nel 1930 a lire egiz. 1.785.000, pari a lire it. 169.500.000 ed al 4,6% del bilancio generale. Forza bilanciata 22.000 uomini, di cui circa 1000 ufficiali. Comandante supremo dell'esercito è il, re, che esercita il suo potere per mezzo del ministro della guerra, assistito da un organo consultivo, il "Consiglio superiore di guerra".

L'esercito si compone di: truppe (fanteria, cavalleria, artiglieria, genio, corpo meharisti, corpi arabi irregolari) e servizî (trasporti, sanitario, veterinario, commissariato, artiglieria, comunicazioni, distretti di reclutamento, stabilimenti militari di pena, scuole militari). Le truppe comprendono: fanteria 10 battaglioni egiziani (di cui 1 della guardia reale), 6 battaglioni sudanesi, 1 battaglione equatoriale, 3 compagnie montate (2 su muletti, 1 su cavalli), i compagnia mitraglieri montati, 1 compagnia autocarri armati. Cavalleria: 3 squadroni (2 egiziani, di cui 1 della guardia reale, e i sudanese). Artiglieria: 3 batterie someggiate (con cannoni da montagna da 10 libbre), 1 compagnia da fortezza (con cannoni, da 12 libbre e 1/2, a tiro rapido), 1 batteria mitraglieri sudanesi. Genio: 2 compagnie zappatori egiziani, 1 compagnia zappatori sudanesi, i sezione lavori. Corpo meharisti: 3 compagnie meharisti e 1 compagnia di fanteria montata. I corpi arabi irregolari sono due: uno dell'est (4 compagnie di fanteria, 1 compagnia meharisti, 1 sezione artiglieria someggiata, 1 sezione artiglieria da posizione); uno dell'ovest (3 compagnie di fanteria, 2 compagnie di fanteria montate su cavalli, 1 compagnia meharisti, 1 sezione artiglieria montata, i sezione artiglieria da posizione); essi sono adibiti alla sorveglianza delle frontiere. Le unità delle varie armi sono riunite in 2 brigate miste e in raggruppamenti misti autonomi, di diversa composizione, questi ultimi incaricati della sorveglianza delle zone delicate. Ai servizî attendono circa 2200 uomini, di cui 300 ufficiali

Il servizio militare è obbligatorio, ma attenuato da varî temperamenti (esenzioni, anche a titolo di privilegio, previo riscatto in denaro; attenuazioni per ragioni sociali, di famiglia e di studî). Del contingente annuo egiziano (il cui gettito è pari a circa 140.000 uomini) vengono incorporati annualmente, mediante estrazione a sorte, non più di 3000 uomini. La ferma di leva per gli egiziani è di 3 anni; i volontarî sudanesi si vincolano alla ferma di 10 anni; ferme speciali hanno i componenti del battaglione equatoriale, del corpo meharisti e dei corpi arabi irregolari. I sottufficiali sono tratti dai militari di truppa, in seguito a corsi compiuti presso i corpi. Gli ufficiali sono indigeni e britannici. I primi provengono, per la maggior parte, dalle due scuole di reclutamento del Cairo e di el-Kharṭūm (corsi della durata di 2 anni); alcuni dei migliori sono poi inviati a perfezionarsi nelle scuole d'applicazione e di guerra britanniche. I secondi provengono dall'esercito inglese; debbono possedere determinati requisiti fisici e conoscere la lingua araba; sono ammessi nell'esercito egiziano per un primo periodo di esperimento di due anni; possono poscia rimanervi per altri 10 anni, conseguendo nella gerarchia gradi superiori a quello che rivestivano nell'esercito inglese. Il numero degli ufficiali britannici (esclusivamente superiori e generali) va sempre più diminuendo, grazie alla formazione di quadri indigeni provvisti di adeguate capacità professionali.

Oltre all'esercito egiziano, esiste nell'Egitto e nel Sūdān, un corpo di truppe inglesi, per la sicurezza delle zone limitrofe al Canale di Suez e per la repressione di eventuali torbidi nel Sūdān (amministrato, in comune, dall'Inghilterra e dall'Egitto) di 8 battaglioni di fanteria di linea, 1 corpo di carri d'assalto, 6 batterie d'artiglieria, 3 reggimenti di cavalleria (circa 10.000 uomini).

b) Marina militare. - L'Egitto possiede solo delle unità per il servizio di sorveglianza costiera e doganale, tra cui sono da notare: el-‛Amīr Fārūq, varato nel 1926, di 950 tonn. e 18 nodi; Raqīb (comprato dall'Inghilterra), varato nel 1917, di 613 tonn. e 22 nodi; ‛Abd ul-Munim, varato nel 1902, di 610 tonn. e 13 nodi; el-Amīrah Fawziyyah, varato nel 1929 e in allestimento (1931); es-Sollūm (comprato dall'Inghilterra), addetto al servizio fari, varato nel 1917, di 1290 tonn. e 16 nodi; il yacht reale el-Maḥrūsah (1865), rimodernato nel 1905 e recentemente, di 4560 tonn. e 16 nodi.

Aviazione militare. - Esistono varî progetti allo studio per la creazione d'una flotta aerea militare egiziana. L'Inghilterra cercherà in ogni caso di assicurarsi il controllo deil'attività aerea, sia attraverso il personale sia attraverso forniture di materiale. Ora essa vi tiene 4 squadriglie, dislocate nei principali aerodromi.

Finanze. - Da uno stato di completa bancarotta, che indusse le grandi potenze europee ad assumere il controllo del bilancio e del debito pubblico egiziano (legge di liquidazione del 1880 e convenzione di Londra del 1885), l'Egitto è passato per gradi all'autonomia finanziaria (accordo franco-inglese del 1904) e alla prosperità sia per l'emancipazione dalla disastrosa amministrazione turca, sia per i continui progressi economici dovuti alla produzione e al commercio del cotone. E nonostante le numerose oscillazioni verificatesi nei prezzi del cotone durante gli anni della guerra e del dopoguerra, la situazione generale del paese è in complesso buona e il bilancio dello stato notevolmente in avanzo.

Le entrate principali sono fornite dalle dogane, dai tabacchi, dalle imposte dirette, specie dall'imposta fondiaria e dalle ferrovie. I principali capitoli di spesa sono quelli per l'amministrazione e, a distanza, per le ferrovie e il servizio del debito pubblico.

L'unità monetaria è, dal 14 novembre 1885, la lira egiziana d'oro, divisa in 100 piastre ed equivalente a 1 lira sterlina e 61/4 pence; per alcuni anni però non si ebbero effettive emissioni di monete d'oro egiziane e la circolazione aurea in Egitto e nel Sūdān, sino alla guerra mondiale (1914-1918) che la fece praticamente scomparire, fu quasi esclusivamente composta di lire sterline che hanno corso legale al tasso di 971/2 piastre.

I biglietti emessi dalla Banca Nazionale hanno, dall'epoca della guerra, corso legale e sono inconvertibili. I biglietti in circolazione alla fine del 1929 ammontavano a 26,7 milioni di lire egiziane e le riserve, alla stessa data, consistevano in 3,8 milioni in oro e in 28,1 milioni in divise estere.

L'ammontare complessivo del debito pubblico estero dell'Egitto era nell'aprile 1930 di 89.878 milioni di lire egiziane (di cui 3994 di debito garantito 3%, 30.634 di debito privilegiato 31/2% e 55.250 di debito unificato 4%).

Istruzione. - L'istruzione pubblica indigena è impartita in 337 scuole elementari facoltative e in 1233 scuole obbligatorie. Esistono inoltre 10 scuole complementari femminili, 60 scuole primarie (di cui 14 femminili), 19 scuole secondarie (di cui 2 femminili), 42 scuole di reclutamento per maestri e maestre elementari, alcuni istituti superiori per materie tecniche e l'università egiziana del Cairo definitivamente costituita con decreto-legge 11 marzo 1925.

Particolarmente fiorenti sono le scuole delle colonie europee italiane, francesi ed inglesi.

Bibl.: La bibliografia dell'Egitto in ogni campo è straodinariamente ricca. Per quanto riguarda specialmente la parte geografica un recente e copioso indice si può trovare nella Bibliographie géographique de l'Égypte pubblicata a cura di Henry Lorin ed edita dalla R. Società geografica del Cairo; un primo volume Géographie physique et géographie humaine, compilato da H. Agrel, G. Hug, J. Lozac e R. Morin, fu pubblicato nel 1928 e un secondo volume Géographie Historique, compilato da H. Munier, apparve nel 1929. Nel Bollettino dell'anzidetta società la bibliografia viene tenuta al corrente per cura di H. Gauthier. Particolarmente ricco di riferimenti bibliografici per la parte che spetta all'opera degli'Italiani è il vol. Contributo degli italiani per la conoscenza dell'Egitto, pubblicato in occasione del Congresso geografico internazionale del Cairo 1925 (Roma 1926). Per la parte economica: R. Maunier, Bibliographie économique, juridique et sociale de l'Égypte moderne 1798-1916, Cairo 1918.

Qui ci limitamo a ricordare alcune delle principali opere più recenti: Lord Cromer, Egypt 1902-1907. Reports by His Mayesty's Agent..., Londra 1901-1907; W. C. Garstin, Report upon the Administration of the public Works Department, for 1901, Cairo 1901 segg.; J. Barois, Les irrigations en Égypte, Parigi 1911; W. Willcocks e J. F. Craig, Egyptian irrigation, 3ª ed., Londra 1913; G. Lecarpentier, L'Égypte moderne, Parigi 1920; H. Lorin, L'Égypte d'aujourd'hui. Le pays et les hommes, Cairo 1926; J. Cattaui Pacha, Égypte. Aperçu historique et géographique, Cairo 1926 (in occasione del Congresso internazionale di navigazione); K. Baedeker, Ägypten und der Sudan, 8ª ed., Lipsia 1928; ed. inglese, Lipsia 1929. - Per la cartografia vedi al capitolo "Storia dell'Esplorazione". Vedi altresì le bibliografie speciali delle voci: nilo; fayyūm; sinai, ecc. - Per la geologia v.: M. Blanckenhorn, Aegypten, in Handb. d. regionalen Geol., Heidelberg 1921; W. F. Hume, Revised Geolog. Map of Egypt 1: 2.000.000; id., Geology of Egypt, I, Cairo 1925; Survey of Egypt, Map of Egipt 1 : 1.000.000, in 6 fogli; Climatological Normals for Egypt and the Sudan, Candia, Cyprus and Abyssinia. Phys. Dept. Ministry of the Public Works Egypt, Cairo 1922. - Per l'antropologia, v.: E. Chantre, Recherches anthropologiques en Égypte, Lione 1904; V. Giuffrida Ruggeri, Autoctoni immigrati ed ibridi nella etnologia africana, in Archivio per l'Antropologia e la Etnologia, XLIII, Firenze 1913, p. 279 segg.; A. Hrdlicka, The natives of Kharga oasis, in Smithsonian Miscellaneous Collection, Washington 1912, LIX, n. 1°; C. S. Myers, Contributions to Egyptian anthropology, in Journal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, XXXIII, Londra 1903, p. 82 segg.; XXXV (1905), p. 80 segg.; XXXVI (1906), p. 237 segg.; XXXVII (1907), p. 99 segg.; A. Quatrefages e E. T. Hamy, Crania ethnica. Les crânes des races humaines, Parigi 1882; G. Sergi, Africa, antropologia della stirpe camitica, Torino 1897. (V. anche berberi). - Per l'etnografia, v.: E. W. Lane, An account of the manners and customs of the modern Egyptians, Londra 1863 (nuova ed. 1923); Earl of Cromer, Modern Egypt, Londra 1908; J. Lozath e G. Huz, L'habitat rural en Égypte, Cairo 1930.

L'Egitto faraonico.

Col progredire della conoscenza della lingua egiziana s'è modificato il sistema di trascrizione dei geroglifici e delle altre scritture usate anticamente in Egitto, essendosi potute assodare alcune particolarità fonetiche. Ciò valga a spiegare perché la grafia adottata in questo articolo differisca dalle erronee grafie anteriori. Alcune di queste sono elencate qui sotto; precedono le forme scorrette, seguono le forme scientificamente esatte: Kêmet invece di Kême "Egitto"; Hapi invece di Ḥórpe, Ḥó'pe "Nilo"; hesp per śepe "nomo"; Abu per Jeb "Elefantina"; Zoser per Ṣôser; Snofru: Śenfôre; Userkaf: Weśrka'ef; Ṣahurā: Śaḥwrîe; Userrê: Weśrrîe; Pepi: Pjôpe; Una, Uni: Wenej; Cheti: Aġtój; Usertesen: Zenwŏśre (Sesostri); Punt, Puanît: Pwêne "Somalia"; Hatšepsut: Hatšepśówe; Hequ-Šasu: Ḥeq'ew-ḫe'śôwe; Seti: Śetôḫe; Ramses: Rameśśêśe (Ramsete); Setnacht: Naḫtśêtḫ; Ani: Enej; Chons-Hotep: Ḫenzhq̂tpe; Apuuêr: Jepwêr; Duat, Deet: Ṭê'e; Ṭeṭ, Ded: il Éaṭ; Heršef: Ḥrišajjef; Chnûm: Ġnûm; Bennu: Bq̂jnew "la fenice"; Bastet: B'aśtêje; Pechet: Pa'ḫe; Wepwawet, Upuat: Wepjew-w'q̂jwe; Chenti-Amentiu: Ḫentamentêje; Salqet: Śerqet; Uazit: l'aspide Wa'ṣôje; Maat: Mé'e "la Rettitudine", , ‛: il dio Sole e, ecc.

Geografia Storica. - Divisioni e confini. - L'Egitto è il paese che il Nilo bagna al disotto di Elefantina (Erodoto, II, 18). Il suo nome, come si è visto, è tratto da quello dell'antica città di Menfi (babilonese Ḫikuptah, divenuto in greco Αἴγυπτος). Gl'indigeni lo chiamavano Kême "Nera", in opposizione a Ṭošre "Rossa" epiteto del deserto, e anche Ti-mûre "Terra zappata", nome conservatoci, con l'articolo p-, nella forma Ptimyris ricordata da Stefano Bizantino. L'etimo di "Nilo" è dubbio. Era detto Ḥórpe > Ḥópe, ovvero Jetr-ó "Grande fiume" (copto ier-ó).

Per ragioni storiche e geografiche era diviso in due parti: la regione meridionale, alta, da Elefantina fin circa a Menfi, detta Šemew; la regione settentrionale, il Delta, chiamata Aṭḥŏjew "Terra bassa" (trascritto N-atḫu in assiro, Nathō in greco), oppure Meḥew "Paese delle paludi". Alla prima dinastia risale la suddivisione in provincie (o nomi, come diciamo con i Greci). La parola egizia śep'e anticamente designava soltanto le due grandi regioni sopra indicate; poi venne riferita a una metropoli con varie borgate. Il numero dei nomi è fissato a quarantadue, dei quali ventidue spettano all'Alto Egitto, venti al Basso.

La prima provincia, Ti-zete "Nubia", deve il nome al paese finitimo. La capitale era Jêb "Elefantina" (nell'isola ora detta Gezīret Aswān), la cui fortezza sbarrava il transito del fiume. Formava un sistema con Śwêne (gr. Syene, copto Suán, ora Assuan), collocata sulla riva orientale, che andò famosa anche per il granito detto sienite. Le vicine isole di Sehēl, Bīge, File non ebbero importanza in antico. Circa 40 km. più a nord, Enbôje (Ombos, ora Kōm Ombō); nel tempo recente anche capoluogo di un distretto, l'ombite. Forse il nome significa "Fonderia" ed è in relazione con le vicine miniere. Poco oltre, a Gebel Silsila, era la città di Ġenjew "Luogo del remare, perché nella preistoria là si levava una cataratta, come testimoniano pure le feste del Nilo in quella celebrate. Il secondo nomo si estende a monte e a valle di Eṣbó' (copto Atbo, Apollinopolis Magna, ora Edfu). Il terzo, come mostra l'insegna, aveva prima per centro Nḫen "Corte" o sim. (Hieraconpolis, ora Kōm el-Aḥmar), un dì capitale del regno dell'Alto Egitto. Dopo, questa formò una circoscrizione a sé e cedette il posto a Nḫab (Eileithyiaspolis, ora el-Kāb), sita quasi di faccia sull'altra sponda, che era stata per i Ieraconpolitani una specie di città santa. Poi, per l'importanza economica sempre maggiore di Śnêje o Jewneje, (copto Snê, Latopolis, ora Isnā) si trasferì sin là il capoluogo (nomo latopolite). Al terzo appartenne anche Per-ḥatḥor "Tempio di Hathor" (Pathyris o Aphroditopolis, ora el-Gebelein) che pur essa un tempo formò un distretto pathyrite. Il quarto era intorno a Jewnej, assimilata poi a Eliopoli e chiamata "On dell'Alto Egitto" ovvero "On del dio Mont" (En-mónt > Ermont, Hermonthis, ora Armant) e abbracciava anche Tuphion sull'altra sponda. Quando dopo il 2000 Tebe fiorì, qui venne portata la capitale (Diospolis Magna). Il nomo che ha per insegna "Due dei" è il quinto, quello di Coptos (v.), a capo delle vie per le cave e per il Mar Rosso. Ne facevano parte un'altra Enbôje (Naqāda) e Qó'śe (Apollinopolis Parva, ora Qūṣ). Nell'ansa del fiume è il sesto nomo, di Tentyra (Dendera, v.); verso occidente si estende il settimo, metropoli Ḥô (copto Hô, ora Hū), divenuta Diospolis Parva allorché vi si diffuse il culto di Ammone Tebano dalla vicina Per-ṣó'ṣe'. Sull'altra ansa è l'ottavo nomo, la cui capitale era Sîne (copto Tin, greco This, ora el-Birbā presso Girǵā) sede delle due prime dinastie; Abido (v.), in origine necropoli dei suoi principi, la soppiantò. Sulla riva orientale sta il nono, di Panopolis (ora Akhmīm, v.). Il capoluogo del decimo è Sebew "La città dei sandali" presso Abū Tīǵ; ma in antico dovette essere Per-wa'ṣôje "Tempio dell'Aspide" (Aphroditopolis, ora Kōm Ishqāw). Sull'opposta riva è Ṣu-qó'j "La montagna alta" (copto Tkow, ora Qāw el-kebīr). Il culto di una coppia di falchi "unghiuti" venne scambiato con quello di Anteo dai Greci e le valse il nome di Antaeopolis. Insieme col dodicesimo costituì poi l'anteopolite. L'undecimo è intorno a Še'ḥŏtep (copto Šôteb, gr. Hypselis, ora Shuṭb); il dodicesimo, "Monte delle vipere" intorno a Per-‛ente "Tempio dell'Unghiuto" (Hieracon dell'Itinerario Antonino). In origine il tredicesimo e il quattordicesimo erano uniti; poi si scissero in meridionale e settentrionale. Di quello era metropoli Zjówte "Posto di guardia" (Lycopolis, ora Asyūṭ; di questo invece, Qó'śe (Cusae, el-Qūṣīyah). Ai tempi greci si aggiunse all'ermopolite. Questo, quindicesimo, è posto a cavallo del fiume. Qualche volta assorbì anche il seguente. N'è capo Šmûn "Gli Otto" (copto Šmûn, Hermopolis Magna, el-Ashmūnein). Anche il sedicesimo abbraccia due lati. Sull'orientale c'è Ḥebnew (Zāwiyet el-Meyyitîn), suo centro, e inoltre Ḥer-wêr (Antinoë, esh-Sheikh ‛Abādah) e Speos Artemidos (Benī Ḥasan esh-Shurūq). Cynopolis (el-Qeis) è la metropoli del decimosettimo; presso l'odierna Shārūnah era quella del decimottavo; Per-emṣéṭ (gr. Pemptē, copto Pemğe, Oxyrhinchus, ora el-Bahnasā) è del decimonono. Anche il ventesimo e il ventunesimo, già uniti, furono poi distinti in meridionale e settentrionale. Del primo è antichissimo capoluogo la ricca Ḥenénśe (copto Hnês, Heracleopolis Magna, Ahnāsīyah el-Medīnah); del secondo, Śémnḥôr "L'oca di Hor" (Kafr ‛Ammār). Il ventiduesimo, che chiude la lista, è sull'opposta sponda, a Tep-eḥq̂we (copto Petpeh, Aphroditopolis, Aṭfīḥ).

Mentre la successione si svolge facile nell'Alto Egitto, nel Delta essa è complicata e quindi non sempre l'ordine rimane uguale su tutte le liste. Il primo nomo del basso Egitto è nei pressi di quella che fu poi Menfi. La sua designazione "Fortezza bianca" (gr. Leukon teichos) quasi certamente si riferisce al colore simbolico dei re di Hieraconpolis, che l'edificarono contro i loro nemici del Delta. Poco oltre il Cairo, verso occidente, era la metropoli del secondo, Ḫêm (Letopolis, copto Bušêm, ora Awsīm). Il terzo si stendeva ad arco lungo il margine del deserto e n'era centro Je'mew (Momemphis, ora Kōm el-Ḥiṣn); il limite interno è incerto. Il quarto e il quinto furono già un solo, poi diviso in meridionale e settentrionale. Quello faceva forse capo a Prosopis (attuale Ṭūkh Dálakah); questo invece a Zá'j (Sais, copto Sai, ora Ṣā el-Ḥaǵar), la primitiva metropoli comune. Lungo la laguna el-Burullus si estendeva il sesto, capitale Ḫó'śew (Chois, copto Sḫôw, ora Sakhā), con due appendici: Butô (Tell el-Farā‛īn) e Ṭîmienḥôr (copto Timienhôr, Hermopolis Parva, Damanhūr). Il settimo corrisponde all'incirca alla Mareotide; l'ottavo è presso Per-atûm "Tempio del dio Atûm" (Pithom, Tell el-Maskhūṭah), alla parte opposta dunque, e probabilmente a causa dell'identità del nome vennero uniti. Le provincie che seguono sono tutte nella zona orientale. La nona, Per-uśîre "Tempio del dio Osiride" (Busiris, Abū Ṣīr), quasi al centro del Delta, ha a sud la decima, Ḥatteḥerjîbe "Castello della regione centrale" (Athribis, copto Atrêpe, ora rovine di Kōm Atrīb). Tra questo e il duodecimo, Sebennûser (Sebennytos, copto Gemnûti, ora Mīt Samannūd) va posto l'undecimo. Si torna di nuovo all'apice del Delta, sul deserto orientale, col tredicesimo, Ōn (Heliopolis, copto Ōn, oggi el-Maṭariyyah) che comprende a sud Babylon, a nord Leontopolis. Il nomo quattordicesimo, "Principio dell'oriente", sta a Sele sul margine dei laghi el-Ballāḥ, ove aveva inizio la via per la Siria. Un'altra Hermopolis Parva (eg. Baḥ, ora el-Baqliyyah) presso el-Manṣūrah era capoluogo del quindicesimo; Per-ba-neb-ṣêṭe "Tempio dell'ariete signore di Ṣêṭe" (ass. Pinṭêṭi, gr. Mendes, ora Timayy el-Amdīd), quello del decimosesto; il decimosettimo andava tra il lago el-Burullus e la foce di Damietta. Il decimottavo e il decimonono, prima unico, si dividevano in meridionale, capitale Per-b'aśtêje "Tempio della dea Bubaste" (gr. Bubastis, copto Pubasti, ora Tell Basṭah); settentrionale, capitale Jeme (Tell Nebeshe). Il ventesimo, detto Arabia, in antico ebbe per capo Per-śópṭe "Tempio del dio Śópṭe" (ora Ṣafṭ el-Ḥinnā), nel periodo romano Phacussa (ora Fāqūs).

Antropologia. - Lo studio dei resti scheletrici conservati, sin dalla fine del Neolitico, nelle tombe della valle del Nilo, hanno mostrato che la popolazione dell'antico Egitto non presentava un tipo unico e omogeneo e nemmeno inalterato nel tempo. Appaiono invece differenze somatiche da luogo a luogo e in tempi diversi e i caratteri medî della popolazione risultano dalla fusione di tipi che avevano probabilmente provenienza geografica ed etnica diversa.

Un elemento, tuttavia, molto importante e assai costante di quelle miscele è costituito dal tipo che l'Elliot Smith ha chiamato proto-egiziano, perché compare fin nelle più antiche tombe di inumati. Esso era piuttosto piccolo di statura (per la serie predinastica di Naǵ‛ ed-Dēr si è calcolata, dalle ossa lunghe, la statura media dei maschi a m. 1,63, quella delle donne a m. 1,51), più piccolo della popolazione moderna, delicato di ossatura e di fattezze, con aspetto fisionomico che possiamo dire, nel complesso, mediterraneo. Il cranio era allungato e stretto, assai alto. I capelli erano lisci, ondulati o ricciuti, di colore, come gli occhi, castano scuro o nero; la pelle, per quel che possiamo giudicare dalle pitture, bianco-brunetta con la tinta abbronzata comune a gente che vive molto all'aperto e ha vesti succinte.

Nelle più antiche necropoli gli elementi con affinità meridionali sono molto scarsi. Negl'inumati predinastici di Abūṣir el-Malaq, nel Basso Egitto, lo studio del Müller mostra due tipi principali: uno piccolo a ossa delicate, con testa stretta e viso lungo, naso non molto prominente; un altro con forme più grandi e robuste e faccia più energicamente profilata. Forme chiaramente negroidi mancano, ma non sono assenti tratti isolati di tipo inferiore. E questi sembrano leggermente più frequenti nei resti dati dalle più antiche tombe finora esplorate (fine del Neolitico) d' el Badārī, sopra Asyūṭ. Per certi caratteri, è sembrato a varî osservatori (Duckworth, Biasutti, Shrubsall) che taluni degli elementi inferiori, che si rinvengono poi sporadicamente in tombe di tutte le età, presentino qualche affinità con i gruppi austro-africani (Boscimani e Ottentotti). La questione può essere però decisa soltanto con un'analisi molto accurata dei materiali più antichi. Anche nelle tombe pre- e proto-dinastiche di esh-Shallāl e altri luoghi vicini, presso la prima cataratta, dove ora abitano i negroidi Barābrah, s'incontra in prevalenza il tipo proto-egiziano: l'indice nasale medio, 46,1, è più basso, cioè meno negroide, di quello dato dalle tombe più settentrionali (Abūṣīr el-Malaq 50,6, Naǵ‛ ed-Dēr 48,8). I capelli erano neri e lisci. Le necropoli proto-dinastiche mostrano la diffusione dal Basso al Medio e Alto Egitto del tipo a statura più alta, forme più robuste, naso più stretto e prominente: particolarmente numeroso esso appare a Nagādah e a el-Kawāmil. Nella necropoli di Saqqārah (Basso Egitto) l'Elliot Smith ha trovato un terzo elemento raziale, a cranio più corto con affinità armenoidi. Sono i segni di un rinnovamento somatico che muove dalle regioni del Delta e sembra aver avuto una parte importante nello sviluppo della civiltà egiziana, recando in seno a questa una mentalità più costruttiva e volitiva. Ma il tipo proto-egiziano non ne viene soverchiato, rimanendo dovunque il più numeroso.

Nuove infiltrazioni di elementi alieni avvengono nelle fasi storiche più recenti. Mentre dall'Asia giungono, ma in piccolo numero, i brachicefali, dal Sud si affacciano negri e negroidi (esh- Shallāl, medio impero) e il loro influsso sembra farsi con il tempo più forte (esh- Shallāl, nuovo impero). In seguito, nell'età tolemaica e romana e soprattutto con la diffusione dell'islamismo, rotto il millenario isolamento della stirpe egizia e la relativa immunità del suo composto raziale, il sangue negro ha potuto diffondersi sottilmente in tutta la regione, dando alla popolazione moderna dell'Egitto un tipo medio assai più "africano" che non fosse quello degli antichi abitanti.

Storia. - Preistoria (sino al 3238 a. C.). - Le notizie circa i primissimi tempi non sono troppo abbondanti, ma grazie a ricerche sistematiche sono divenute in questi ultimi anni più precise. Parrebbe che, sino al Pleistocene, il Nilo equatoriale fosse trattenuto da forti sbarramenti rocciosi, formando un altro sistema con i grandi laghi. I frequenti sommovimenti del suolo, che sono caratteristici di quel periodo geologico, e l'aumentata precipitazione atmosferica ruppero l'equilibrio, una o più volte; e le acque si versarono impetuose per la china, spazzando i laghetti formati a valle e scavando un letto profondo. Venuta meno la piena e la velocità, il fiume cominciò a ritrarsi, lasciando varie successive terrazze prima di fissare l'attuale suo corso. Le testimonianze più antiche degli uomini sono anche in Egitto, quelle rudimentali schegge di selce intaccate che si designano col nome di eoliti; e se ne trovarono all'imbocco dei valloni a el-Wādiyein (el-Qurnah di Tebe), a Wādī Abū Girwah (tra Armant ed esh-Shaghab), a ‛Izbet el-Wus (presso esh-Shaghab), ad el-Khawī (presso el-Kāb) e varie volte all'‛Abbāsiyyah, sobborgo del Cairo, ove di recente vennero rilevati negli strati più profondi. In questo luogo si è potuta pure stabilire la successione delle tre industrie del Paleolitico inferiore: chelléano, acheuleano, mousteriano, che furono poi rintracciate nelle terrazze: lo chelléano a circa 30 m., l'acheuleano a 15, un primo tipo mousteriano fra i 9-7 m., un altro, fra i 4,50-3 m. Questi manufatti si attribuiscono all'interglaciale Riss-Wurm e alla glaciazione Wurm (mousteriano) del medio Quaternario. Il Paleolitico superiore, affine a quello dell'Africa settentrionale "capsiano", venne studiato a Sabīl (a nord di Kōm Ombō); l'ultima fase è costituita dai microliti, le cui stazioni principali sono Ḥelwān e Abū Ghālib (nel margine del Delta occidentale). Nulla possiamo intuire della vita associata di quei tempi; i laboratorî e lo sviluppo delle industrie nello stesso sito dicono chiaro che non esistono individui randagi, ma gruppi sedentarî. Il Neolitico più antico è per ora el-‛Omarī (a nord di Ḥelwān), accampamento di pastori con il loro laboratorio e una necropoli; possedevano ceramica, seghe, falci, raspe, raschiatoi per lavorare le pelli. Alquanto posteriore è quello del Fayyūm, che mostra uno strato uniforme di civiltà, i cui abitanti vivevano di caccia, di pesca, ma erano insieme agricoltori (il grano non è il preteso Triticum dicoccoides) e possedevano animali domestici (bue, capra, pecora, maiale). Anche Benī Salāmah (Merinde) nel Delta occidentale va riconnessa a questa età. A una data posteriore son ascritti gli oggetti rinvenuti sporadicamente all'apice del Delta Turah ed el-Gīzah.

La scoperta dei metalli segna un punto miliare nella sequela archeologica; il periodo che con essi s'inizia porta il nome di "predinastico". Esso pare abbracci non meno di duemila anni. Le numerose necropoli e le tracce dei villaggi risalenti a questo periodo (esplorati in specie nell'Alto Egitto) ci hanno dato una particolareggiata visione dell'elevato grado di sviluppo a cui allora era giunto il paese. La ceramica e la suppellettile di pietra fanno stupire per la loro insuperata perfezione. A questa età risale la scrittura, la quale ha già passato lo stadio ideografico e rappresenta i suoni elementari della lingua, l'alfabeto. Allora venne pure elaborato il calendario solare di 365 giorni, ripartito in mesi e stagioni. L'unità di questa cultura, dal Paleolitico al tempo storico, la peculiarità di ogni suo aspetto, escludono che altre civiltà estranee abbiano minimamente influito su quella della valle del Nilo. La presunta conquista dell'Egitto da parte dei Semiti, che nessuna tradizione e nessun documento avvalora, è da considerare come una ipotesi frettolosa fatta da filologi per spiegare la presenza di parole semitiche nella più antica lingua egiziana. Poiché queste parole sono (molto più di quanto si pensava), non già prestiti culturali, ma fondo stesso del patrimonio linguistico, se ne deve dedurre che Camiti e Semiti nella preistoria hanno formato un'unità, la quale solo in Africa poteva trovare la sua sede.

Il moto politico dal quale sorse la nazione egiziana è tracciabile solo per l'età più vicina alla storia. Nell'Alto Egitto si era costituito un regno con capitale Nḫen (Hieraconpolis, odierno Kōm el-Ahmar) e un re dominava pure sul Delta da Ṣebéwe (Tell el-Farā‛īn) presso il lago el-Burullus. È pretta fantasia che tra i due stati corressero differenze di civiltà; ma certo il Basso Egitto godeva di maggiore fertilità e quindi di maggiore ricchezza. Questa potrebbe essere una delle ragioni per le quali sollecitò le cupidigie dei meridionali. Dopo varie alternative la vittoria finale rimase a questi. I due regni non si confusero mai, si unirono soltanto nella persona del faraone; se ne deve dedurre che un lungo corso di tempo aveva creato nei due stati sentimenti e interessi in così forte contrasto che il vincitore non riuscì a distruggere la tradizione del vinto e questi non fu in grado di assimilare il dominatore.

L'antico regno (dinastie I-VIII, 3238-2239 a. C.). - Per la cronologia le cifre fornite da Manetone (v.), almeno quali ci vennero tramandate, non resistono al più tenue esame critico; ogni correzione è cervellotica. Alcuni testi egiziani alludono all'apparire della stella Sothis in determinati anni di regno e grazie a quelli si fissa astronomicamente la XII, la XVIII e la XIX dinastia. La Pietra di Palermo e il Papiro dei re conservato a Torino dànno modo di valutare con molta approssimazione, intorno al 3200, l'inizio della prima dinastia. Il tentativo del Borchardt di riportarlo al 4200 si è dimostrato elevato su falsi fondamenti. Anche così la storia egizia non comincia più tardi di quella babilonese, perché Urninā, il più antico re di Lagaš, ha regnato, secondo i moderni studiosi di cronologia, verso il 2875 a. C. (v. Ed. Meyer, Die ältere Chronologie, Stoccarda e Berlino 1925, p 39).

Mêne (Mēnēs dei Greci) è, secondo i monumenti e secondo la tradizione, il primo sovrano del regno unito. A lui si fa risalire, forse a torto, la fondazione della "Fortezza bianca" ove poi fu Menfi; è probabile che da questa sua residenza egli abbia sorvegliato l'ancora infido Basso Egitto. Nei cinquecento anni circa che durano le due prime dinastie, della città di Tini (3238-2990, 2989-2701 a. C.), non solo la potenza delle armi egiziane si è fatta sentire più volte sui vicini, ma si è compiuta la fusione spirituale della nazione e ne è uscito uno stato mirabilmente organizzato. In realtà esso non è uno dei monumenti meno grandiosi eretti dagli Egiziani.

In teoria il sovrano, come altrove, è il padrone assoluto; ma di fatto consigli di grandi funzionarî e persone elette che per il loro senno hanno acquistato il favore del principe influiscono sull'andamento dello stato. Come accade tuttora in Oriente, il regicidio toglieva via gl'inetti e i violenti. D'ordinario però il governo ci appare impregnato di un profondo senso d'umanità; il monarca ama credersi il sostegno provvidenziale dei deboli. La rettitudine è dichiarata la norma che deve regolare ogni azione e non la si viola impunemente. Primo sotto il re è il "visir" (come, con titolo tratto dalla storia musulmana, comunemente lo si designa) il quale, impartisce pure la giustizia; uffici distinti, anche se talvolta riuniti nella stessa persona, sono: il tesoriere, che invigila sui grandi magazzini statali, il preposto ai lavori pubblici, il comandante delle spedizioni. Un governatore dell'Alto Egitto regge questa regione, quando la capitale è a Menfi. Il cospicuo numero di funzionari era ripartito tra l'amministrazione centrale e la provinciale con sapiente gerarchia. Tutte le ordinanze governative, ogni atto privato, dovevano essere messi in scritto, sigillati, spesso copiati in appositi registri, quasi sempre conservati negli archivî. Distinto da quello del sovrano è il patrimonio dello stato. I proventi erano svariatissimi. Oltre il bottino di guerra, le confische, i donativi, la parte se non maggiore tuttavia ordinaria è costituita dalle imposte. Esse erano pagate in natura e grandiosi depositi erano sparsi per tutto il paese onde raccoglierle e renderle poi come salario a quanti lo stato manteneva. Frequenti censimenti informavano intorno alle risorse dei cittadini; le tasse sui raccolti erano in relazione alle piene del Nilo. Oltre questi gravami vigeva l'obbligo di dare opera e sostanze per prestazioni a vantaggio collettivo. Contro quelli che abusassero nell'esercizio dei loro poteri, la legge sanciva gravi pene.

I Menfiti (dinastie III-VI) rappresentano uno dei periodi più splendidi della storia umana. Le meraviglie costruite a Saqqārah da Imḥôtep, architetto del faraone Ṣôśer (2700-2678) sono indizio chiaro del potente genio creativo degli Egiziani. Sotto Śenfôre (Soris), della IV dinastia che dura dal 2644 al 2541, sempre intensa è l'attività. A lui appartengono la cosiddetta falsa piramide di Meidūm e quella di Dahshūr. Gli annali ricordano una spedizione in Nubia con ricco bottino di animali e di schiavi; e anche nel Sinai venne riaffermato il dominio. A Cheope, a Chefren, a Micerino, spettano le costruzioni delle piramidi presso el-Gīzah, le quali testimoniano di floridi e pacifici tempi. L'opera di questi governi illuminati favorisce la formazione di grandi ricchezze.

La quinta dinastia (2540-2421 a. C.) segna il primo culmine della civiltà egiziana. Secondo una leggenda i re Weśrka'ef, Śaḥwrîe, Nefrerka'rîe-Ka'ke'j sarebbero tre fratelli, nati in un sol parto al dio-Sole Rîe dalla moglie di un sacerdote Weśrrîe. Sotto questi faraoni il culto solare riceve grande incremento e presso il villaggio di Abū Ṣīr si vedono ancora i superbi templi elevati al dio, nel mezzo dei quali torreggia un tozzo obelisco. L'espansione esterna, sia militare sia commerciale, prosegue intensa in Siria, in Libia, in Nubia, in Somalia. Alla piramide del re Pjôpe I (dinastia VI, circa il 2400) Mennófrew "Durevole di bellezza [è Pjôpe]" si ricollega il nome della città di Menfi (v.). Anch'egli è un sovrano di grande energia. Un suo dignitario, Wenej, ci ha tramandato notizia di campagne per terra e per mare contro gli abitanti della Palestina meridionale. Sotto il regno quasi centenario di un suo successore, Pjôpe II (2360-2270) si continua il traffico con l'Alta Nubia (Berber) per opera dei principi di Elefantina, tra i quali è famoso Hawwefhôr (erroneamente da alcuni studiosi detto Ḫarcḥuf). La breve durata dei regni successivi, che costituiscono l'effimera VII dinastia di Manetone e l'VIII, mostrano lo sgretolamento della millenaria monarchia. Le cause di questo fenomeno appaiono chiare: lo sperpero della ricchezza nazionale in costruzioni di nessun utile economico; il soverchio crescere della burocrazia parassitaria; l'ereditarietà delle cariche, che impedì la circolazione dei migliori; l'aumento dei poteri ai capi delle provincie, che si trasformano in principi feudali, con grandi proprietà terriere ed eserciti autonomi; l'affievolirsi del potere centrale e della monarchia (la carica di "visir" passa dai principi del sangue ai grandi funzionarî); la menomazione del governo per le immunità sempre più frequenti concesse ai templi con la loro vasta manomorta. Un moto religioso accompagnò questi avvenimenti. Le piramidi dei faraoni della VI dinastia sono ricoperte di lunghe formule magiche e numerosi capitoli del "Libro dei Morti" risalgono a questo tempo.

Il medio regno (dinastie IX-XVII, 2238-1575 a. C.). - Dei re della IX dinastia e della X rimangono appena i nomi. Con la virtù militare e con l'arte politica i principi di Eracleopoli hanno sopraffatto i loro competitori; Aġtój I ('Αχϑόης) impone la sua supremazia a quasi tutto il paese, procacciandosi fama di violento e di pazzo. Famiglie feudali come quella di Asyūṭ furono guadagnate alla causa; altre si mantennero irriducibili. Una nel IV nomo dell'Alto Egitto, presso Ermonti, aveva elevato identiche pretese al trono; e, dopo lunga guerriglia, riuscì a Mentḥótpe IV (2054-2008 a. C., dinastia XI) di riunire di nuovo l'Egitto sotto un solo scettro. Asiatici e Nubiani furono battuti; spedizioni alle cave e alle miniere attestano la rinata vita del paese. Ma la nuova dinastia non godé a lungo il frutto delle sue imprese; un ministro chiamato Amenemḥê'e si impadronì del potere (XII dinastia). Egli fu principe glorioso (1996-1970); sotto la sua guida si riebbero la prosperità e la tranquillità lungamente agognate. I nomarchi cessarono di essere veri stati nello stato; in gran parte, poi, furono scelti tra i fedeli. Si rinnovò l'amministrazione interna. All'estero, le tribù nubiane subirono varie sconfitte; fortilizî lungo il deserto orientale resero impossibile l'infiltrazione clandestina dei nomadi semitici. Suo figlio Zenwq̂śre I (1976-1932) proseguì la medesima politica di espansione. Oltre le oasi libiche fu padrone della Nubia fino alla seconda cateratta e stabilì anche qui un sistema di fortezze. Le miniere d'oro vennero esclusivamente lavorate per il tesoro egiziano. Sotto i faraoni Amenemḥê'e II (1934-1899) e Zenwq̂śre II (1902-1884) anche il Pwêne (Somalia) e il Sinai vennero di continuo frequentati dagli Egiziani. A Zenwq̂śre III (1883-1846) spetta il merito di aver dato solidità alla conquista nubiana; costruì i forti di cui rimangono gli avanzi a Kummah e a Semnah, regolò l'accesso degl'indigeni di qua dalla frontiera. Anche in Palestina tenne alto il prestigio nazionale e probabilmente Sichem (? egiziano Skmm) venne presa. Il figlio suo, Amenemḥê'e III (1845-1797), godé un lungo e pacifico regno; a lui, dal suo prenome detto Lamares, è attribuito il bacino del Fayyūm, il Lago Moeris. Questa famiglia faraonica che aveva ridato all'Egitto tanto benessere e tanta gloria si estingueva dopo la breve apparizione di una regina, Śebknofrewrîe (1787-1784). Soprattutto negli ultimi duecento anni il medio regno appare il tempo dei subiti guadagni; ed è molto probabile che la classe governante non sia riuscita ad assimilare bene, attraverso la burocrazia e la milizia, tutti gli elementi che salivano dal basso. Comincia la corsa al potere; il paese resta in balia del primo occupante e dagli stessi nomi regi si rileva la bassezza dell'origine. Questo sfacelo interno apre le porte ai nemici esterni. A sud i Cusciti di Napata ritolgono le faticate conquiste di Nubia; nel Delta orientale, ad Avaris, s'insediano emigrati dal deserto siro-arabico e fanno incursioni. Sono questi gli Hyksos (v.) di Manetone, Ḥeq'ew-ḫe'śôwe "Principi delle Montagne", come suona il loro nome.

L'Impero (dinastie XVIII-XXV, 1571-663 a. C.). - Per la terza volta fu merito dell'Alto Egitto di aver composto il paese a unità. Il principe tebano Kamóśe (circa il 1575) prende audace l'offensiva a nord e a sud; ma, deceduto in questo mentre, la sua eroica impresa fu continuata dal fratello Aḥmóśe I (1571-1549 a. C.). Dopo vario combattere, Avaris fu espugnata e rasa al suolo. Il grosso dell'esercito nemico sfuggì all'accerchiamento, si riordinò a Šaruḥen nella bassa Palestina, tra Beerseba e Rimmōn, e capitolò solo dopo un lungo assedio di tre anni. In Nubia le operazioni vennero svolte sotto la seconda cateratta e la fortezza di Buhen (Wādī Ḥalfā) guardò il nuovo confine egiziano. Nell'interno l'amministrazione statale e la milizia furono oggetto di assidue cure; in questi tempi si trova adoperato il carro da guerra tirato dal cavallo. I successori di Aḥmóśe ampliarono ancora il dominio nubiano e saggiamente lo trasformarono in un vicereame; ma i loro sguardi furono volti soprattutto alla Siria. Tḥutmóśe I (1528-1498) si spinse sino alle rive dell'Eufrate ed eresse colà a suo ricordo una stele. Il breve regno del figlio Tḥutmóśe II (1498-1496) fece correre all'Egitto un grave rischio per una questione di successione al trono. Egli aveva sposato la sorella Ḥatšepśówe, di stirpe regia anche per lato materno; ma solo erede era rimasto un terzo Tḥutmóśe, natogli da una concubina per nome Ēse. Essendo l'erede ancora giovanetto, alla morte del faraone il governo venne nelle mani della regina vedova. Sia che fosse mossa da grande ambizione, sia che alti dignitarî cercassero di comandare attraverso questa donna, ella mise in seconda linea o eliminò del tutto l'erede e assunse i titoli del protocollo reale. Una spedizione commerciale in Somalia e la costruzione del mirabile tempio di Deir el-Baḥrī sono le opere maggiori di questa regina (1496-1476). Considerata come usurpatrice, la memoria di lei venne dannata. Tḥutmóśe III (1496-1442) è senza dubbio il più glorioso dei sovrani egiziani. Al suo avvento al trono, l'impero asiatico si trovava ridotto a Gaza e, appena solo, il primo pensiero ch'ebbe fu quello di riconquistarlo. La Siria era allora sminuzzata in numerosissime signorie di città e queste di fronte al pericolo comune si coalizzarono, sotto la direttiva del principe di Qidša (Qadēsh sull'Oronte). Tḥutmóśe, verso la fine del suo 22° anno di regno, che corrisponde al 1475, nel mese di aprile iniziò la sua prima campagna contro Megiddo, sita nella pianura di Esdraelon, la quale comandava la via dall'Egitto verso la Siria. Postosi di persona alla testa delle truppe, sfilando intrepido attraverso un angusto passo del Carmelo, riesce a sorprendere il nemico e lo sconfigge in campo. Per disgrazia gli Egiziani si abbandonano al saccheggio del ricco accampamento, sicché i Siri hanno modo di fuggire nella città e di asserragliarvisi. In poche settimane di assedio però si ebbe ragione di loro. La Palestina venne occupata sino al Libano e alla pianura di Damasco; il faraone tornò in patria carico di gloria e di preda. Occorsero però ben diciassette campagne, durate 19 anni, prima che la supremazia egizia fosse riconosciuta. Le città vinte, alla prima occasione si ribellavano e si dovette reprimere senza pietà. Per la penetrazione nell'alta Siria il re scelse come base la costa fenicia; l'incontrastato dominio del mare lo manteneva in contatto con l'Egitto lungi da ogni tradimento. L'anno 30 Qidša fu presa e saccheggiata. Nella primavera dell'anno 33, l'ottava campagna: il re combatte contro Nahrīn sulle rive dell'Eufrate e si spinge sino a Nî. Nel 35 il principe di quel paese e i suoi alleati ritornano all'attacco e sono sconfitti ad Arnê nell'alta Siria. L'ultima spedizione è del 42; presidî nelle città e fortezze opportunamente elevate, riducono alla pace gli avversarî. Ufficiali del faraone furono incaricati di amministrare e vigilare i luoghi di maggiore importanza; ma anche i principi che avevano reso omaggio rimasero ai loro posti. I figli però vennero condotti in Egitto e mentre garantivano come ostaggi la fedeltà dei padri, essi, educati alla civiltà egiziana, erano messi in grado di amarla e di servirla, tornati che fossero ai loro paesi. Anche in Nubia i confini vennero spinti a" a quarta cataratta. Dalla lontana Lidia (Azûje), dai Hittiti, da Cipro, dalla Cilicia, dall'Assiria, da Babilonia si ricevettero tributi; tutta la politica dell'Oriente fu diretta dai faraoni. Sotto i regni di Amenḥótpe II (1442-1416), di Tḥutmóśe IV (1416-1408), del magnifico Amenḥótpe III (1408-1372; v. Amenothês; il Memnone dei Greci), il paese ha goduto a sazietà i benefici dell'impero; le ricchezze immense, affluite da ogni parte, vi hanno elevato il tenore della vita a una finezza mai veduta. Si disse che sin la polvere delle vie egiziane era d'oro. La folle lotta religiosa in cui si cacciò Amenḥótpe IV quasi sommerse ogni cosa. Un po' tardi, ma ancora in tempo, Ḥaremḥábe ('Αρμαΐς), generalissimo delle truppe di Siria, afferrò le redini del potere e da Menfi restituì ordine e tranquillità (1343-1315). Contro i Libî, gli Arabi, gli Amorriti e il regno hittita di Karkemiš lottò con pieno successo Śetôḫe I (Sethōsis) e l'alta sovranità dell'Egitto sulla Palestina e la Fenicia venne riaffermata (1318-1300). Un grande pericolo incombeva: la minacciosa avanzata dei Hittiti. L'urto avvenne poco dopo. L'anno 5 di Rameśśêśe II (circa il 1294) il loro re Muwattal, forte di un esercito di 25 o 30 mila uomini che egli aveva raccolto da Gašgaš, Araowanna (entrambe in Paflagonia), da Kizwadna (Ponto), Lukki (Licaonia), Pîtaśśa (a nord-est della Cilicia), da Qête e Arzawa (parti della Cilicia), da Maša (presso Elaeusa), Karkiśa (Coracesium), dalla Siria presso l'Eufrate (Nahrīn), Karkemiš, Ugarita (Seleucis), Aleppo, Nuḫaśśe (Chalcis), Qidša, Arvad e dagli ancora ignoti paesi di Mešenes (? Miššuwanzaš) e Terṭenje (tra Pîtaśśa e Maša?), si scontra col faraone a Qidša e solo dopo un sanguinoso combattimento riconosce la sua sconfitta. Sedici anni di aspra guerra e la minaccia assira rappresentata dagl'intraprendenti Adad-nirâri I e Salmanassar I, indussero i Hittiti alla pace. Essa fu stipulata nel 1278 da Ḥattusil; suggellata più tardi con il matrimonio della sua figlia primogenita col faraone. Il lungo regno di Rameśśêśe II (1299-1233) ha fatto di nuovo vivere all'Egitto i tempi felici della gloria. Monumenti superbi e numerosissimi tramandano ai posteri il nome di lui, quasi circonfuso di leggenda. Nei primi anni di Merneptáḥ (1233-1223) insorti compaiono ancora in Canaan; gl'Israeliti erano tra quelli e videro saccheggiate le loro campagne. Nell'anno quinto un capo libico, attraverso la Marmarica, piombò sui dorati raccolti del Delta. Egli aveva con sé numerosi avventurieri di Asia Minore, i Lukki, gli Šerdani, i Tereš, gli Šekereš, gli Eqejweš delle regioni del mare (che non possono essere gli Aḫḫijawa di Pamfilia); ma fu punito a dovere e, per il momento almeno, si ebbe pace da questo lato. Verso il 1215 ignote cause promuovono una lunga anarchia, seguita dal regno di un avventuriero siro. Tale ignominia venne troncata nel 1201 da Naḫtśêtḫ (XX dinastia); e suo figlio Rameśśêśe III (1200-1168), ispirandosi all'opera del suo grande predecessore omonimo, restituisce all'Egitto benessere e autorità. A metterlo a prova furono i soliti predoni dell'Egeo e dell'Asia Minore, i Filistei, i Šeker, i Ṭenen, i Wešeše i Tereš, che, assalite Cipro, la Cilicia e fin Karkemiš, si erano rivolti verso Amur e minacciavano i possessi egizî. Il faraone mobilitò l'esercito in Fenicia, diede loro la caccia per mare con la flotta e li sbaragliò. I Filistei s'infiltrarono più tardi nella bassa Siria e il paese da loro occupato ebbe il nome di Palestina. Successive campagne in Libia, in Nubia, contro i Hittiti, rialzavano la fortuna dell'Egitto. Grave torto di Rameśśêśe fu quello di avere eccessivamente aumentato la manomorta dei templi. Accanto ai suoi imbelli successori (1168-1085), il potere dei sacerdoti tebani del dio Ammon cresce ogni giorno. La XXI dinastia è composta di essi (1035-935); nel Delta qualche governatore si mantiene più o meno indipendente. Le lunghe lotte sostenute per il primato durante cinquecento anni avevano largamente mietuto quanti c'erano di forti e di arditi nel popolo egiziano. Razza vigorosa di contadini, essa non tarderà a rifarsi; ma, nel momento in cui siamo, sembra quasi esausta. Secondo una triste abitudine, che si manifesta in altri periodi della storia umana, la sicurezza propria viene confidata alle armi di stranieri; tribù di mercenarî sono chiamate nel paese, vi acquistano potere, divengono gli arbitri della nazione. Da Libî residenti in Eracleopoli uscì Šešonk (934-913), che iniziò la XXII dinastia a Bubasti. Almeno in apparenza egli ristabilisce l'unità e s'intromette anche negli affari di Siria. L'anno quinto di Roboamo invade la Palestina e saccheggia Gerusalemme (circa 927). Ma ancora per tutta la XXIII dinastia (745-718) inetti sovrani lasciano sminuzzare l'Egitto fra numerosi regoli. Tra questi, verso il 726, un principe del Delta occidentale, Tefnáḫte, era giunto a estendere la sua supremazia sino a Ermopoli. I suoi avversarî, gelosi, si erano rivolti per aiuti al re di Nubia, Pi‛ánḫe, che regnava a Napata (741-717). Un esercito spedito di là in Egitto e rinforzi condotti dallo stesso re ebbero ragione di Tefnáhte. Egli però, al ritrarsi dei Nubiani, riuscì a svolgere i suoi piani e assunse i titoli faraonici. Il figlio suo, il saggio Bocchoris (v.), costituisce la XXIV dinastia (718-712 circa); venne fatto perire da Šabako, successo a Pi‛ánḫe, che ristabilì l'egemonia etiope in Egitto (XXV dinastia). Il nuovo faraone (712-700) doveva porre riparo alla minaccia assira di Sennacheribbo e appoggiò l'alleanza di Giuda, Tiro, Edom, Moab e Amur contro Ninive. Ad Altaqu gli Egiziani non ebbero fortuna; ma Gerusalemme, assediata, divenne libera (701). Dopo Šabataka (700-688) Tahraq, il biblico Tirhāqāh, figlio di Pi‛ánḫe divenuto sovrano (688-663) proseguì la stessa politica in Siria; ma nel 671 si attirò l'aperta ostilità del re assiro Asarhaddon. Presa da questo Menfi, fu costretto a ritirarsi a Tebe. Come il grosso dell'esercito assiro fu partito, Tahraq fece di nuovo insorgere l'Egitto; un'altra spedizione assira condotta da Assurbanipal (667) arrivò sino a Tebe. Tantamôn (663-655), figlio di Šabako, riprese le ostilità, ma gli Assiri saccheggiarono Tebe (663).

La rinascenza (dinastie XXVI-XXX, 663-332 a. C.). - Nel 667 alcuni principi del Delta avevano riconosciuto la supremazia assira. Quello di Sais, Neko, era stato fatto viceré e suo figlio Psammêtek, governatore di Athribis. Questi, essendo perito il padre nell'ultima insurrezione, era successo a lui nell'ufficio. Forte dell'aiuto di mercenarî carî e greci, Psammêtek I si sentì presto libero sovrano di tutto il paese e sbaragliò i signori locali. Mente geniale e abile uomo di stato, le sue cure precipue furono quelle di dare incremento all'economia nazionale e garantirla con la forza delle armi. Tre campi trincerati, a Daphnae, a Marea ed a Elefantina chiusero le porte di casa. A pervadere l'Egitto di nuovi fremiti di vita, i ricordi mirabili del passato vennero rievocati; la città di Sais fu resa degna sede dei sovrani. Con l'estero il commercio, favorito, s'intensificò. Così questa aristocrazia militare-mercantile seppe creare per il paese un'invidiata prosperità. Anche in Siria Psammêtek riprese il duello con gli Assiri; ma un'incursione di Sciti lo richiamò in patria (663-610). Nekô, che gli successe (609-595), costruì una flotta sul Mediterraneo e una sul Mar Rosso e riprese l'espansione asiatica. Batté Giosia a Megiddo, riconquistò la Siria; un esercito babilonese mosse contro di lui nel 605 e lo sconfisse a Karkemiš sull'Eufrate. Rientrato in Egitto, lo tentò l'impresa di unire il Nilo con il Mar Rosso, ma non ebbe buon successo. Gli attribuirono anche il periplo dell'Africa. Psammêtek II (594-589) si volse alla Nubia. Apriês (589-570, v.) e Amasis (570-526, v.), se giovarono allo sviluppo interno dell'Egitto, non gli riconquistarono più il predominio militare. Morto Amasis, suo figlio Psammêtek III (525), abbandonato dagli alleati ciprioti e samî, fu solo a sostenere l'impeto di tutta l'Asia che Cambise dirigeva contro di lui. Fu battuto a Pelusio, si sostenne in Menfi per dieci giorni; dopo di che dovette arrendersi e non sappiamo come finisse. Stabilitisi in Egitto, i Persiani si considerarono come successori dei faraoni e ne assunsero il protocollo (dinastia XXVII); Dario I (521-486) fu annoverato tra i grandi legislatori del paese. Ma gl'indigeni mal si adattarono a essere una satrapia (la VI) del grande impero. Alla morte di Dario, scoppiò una ribellione e occorsero alcuni anni a Serse I per domarla (482). Inaro, principe di Marea, valendosi di aiuti libici e ateniesi, tentò di nuovo la sorte nel 463, ma, dopo un primo successo, dovette rinchiudersi in Prosopis, dove sostenne 18 mesi di assedio (458-456). Altri tentativi, come quello di Elefantina nel 410, andarono frustrati. Riuscì ad Amyrtaios (v.) di proclamare l'indipendenza (XXVIII dinastia saitica, 404-399). I suoi successori (XXIX dinastia da Mendes), Nepherites I (398-393) e Hagor (Achoris, 392-380), destreggiandosi abilmente, mantennero libero il paese. Fu respinto un attacco persiano tra il 385 e il 383. Ma con Psammuthis e Nepherites II (379) riapparvero agitazioni interne per la corona. Un principe di Sebennito, Naḫtenbôwef (Nectanebo) venne portato al trono (dinastia XXX, 378-361) e anch'egli tenne testa ai Persiani (373). Teḥo (Tachos), forse suo figlio (360-359), alleato degli Spartani (ebbe Agesilao e Cabria al suo servizio) assalì persino i nemici; ma tradito, dovette rifugiarsi a Sidone e di lì in Persia. Gli successe il nipote, Naḫtḥareḥbê (Nectanabis) che ebbe a domare la ribellione d'un pretendente nel 360. Venuto alle prese con Artaserse III Oco già nel 351, fu sconfitto nel 342 dopo accanita lotta a Pelusio e si ritrasse in Nubia. Dieci anni dopo, Alessandro il Macedone conquistava l'Egitto, quasi indifeso, e apriva il secondo grande periodo della sua storia.

Lingua. - Sotto l'aspetto comparativo la lingua egiziana presenta analogie con le lingue camitiche (berbere e cuscite) e con le semitiche. Con le prime, a noi note soltanto nelle loro forme recenti, i raffronti sono ancora generali e vaghi, perché occorre superare la gravissima disparità cronologica delle fonti; con le seconde, invece, più particolareggiati e sicuri. L'etimologia mostra che l'egiziano possedeva queste consonanti (secondo la trascrizione dei semitisti): ', j, ‛, w, b, p, f, m, n, r, h, , , ġ, z (anche derivata da ), ś (anche 〈 ), š, q, k, g, t, s, (anche 〈 d), (anche 〈 , ). È in sostanza il fonetismo cananeo-ebraico; però nella rotazione delle dentali alla ś del semitico primitivo corrisponde l'eg. š, come in arabo, etiopico, accadico; alla š l'eg. ś, alla l'eg. ś. Numerose voci si presentano identiche nei due gruppi, come ad es.: eg. 'bj "bramare" sem. 'bj "volere"; 'fr "bollire" arabo 'fr; jqr "prezioso", sem. wqr; ‛b' "risplendere", sem. ‛bb (‛bw); wṣj "ordinare, lasciare", sem. wṣj; mwt "morire", sem. mwt; nhzj "levarsi dal sonno", ar. nhz; rmj "piangere", accadico rmm "gridare"; ḫbś "vestire", sem. ḫbš; ḫtm "chiudere", sem. ḫtm; ġnw "residenza", ar. ġnj "dimorare"; z'b "sciacallo", sem. ḏ'b; šwj "divenire secco", ar. šwj "arrostire"; spḥ.t "scaturigine", sem. sfḥ "effondere". In altre voci, invece, variano le consonanti nel grado e nella qualità. Uno dei perturbamenti più gravi è prodotto da r, n, (l), j, w, che anche nell'egiziano storico sono molto instabili. Diamo qualche esempio, senza accennare alle complesse ragioni: eg. jzj "andare; perdersi", sem. 'zl "andare, divenire consunto"; jbj "cuore", sem. lbb; eg. j'k "divenire longevo" (j) rk.w "tempo", sem. 'rk "vivere a lungo"; bk' "il far del giorno, domani", sem. bkr; jtj.w "re", jtr.t "reggia" sem. jtr "eccellere"; j.zkn "anziano", sem. ḏqn; j.m'ḫ "vertebre", sem. mḫḫ; nhpj "fare cordoglio", ar. lhf "dolere, gemere"; nmś "abbigliarsi", sem. lbš; śnb "divenire sano", sem. šlm.

Le vocali non appaiono nella scrittura geroglifica; ma si possono approssimativamente restituire, quando i vocaboli sopravvivono nel copto o li troviamo trascritti in babilonese-assiro, in ebraico, in aramaico, in greco. Forse già nel periodo dell'impero egiziano qualità e quantità erano combinate così: ă aperta (talvolta tinta di palatalizzazione, ä), ě, ŏ aperte (> å velarizzata); ē, ī, o, ū chiuse e una vocale brevissima ə(con coloriture varie). Nelle trascrizioni cuneiformi (sec. XIV-XIII a. C.), come suole accadere per i nomi stranieri (Delitzsch, Assyrische Grammatik, 2ª ed., § 40) in luogo dell'eg. ō troviamo ā o ū; es. amāna e amūna per amōn, come troviamo mū'aba e mā'aba per mō'ab; similmente nel medio babilonese āna "Eliopoli" la ā sta solo per ō, cfr. assiro (sec. VIII-VII a. C.) ūnu, greco ōn, copto ōn. Mancano dati per stabilire quando siano avvenute nell'egiziano le variazioni dei tre suoni semitici a, i, u primitivi.

Dei confronti che si possono stabilire tra la morfologia dei due gruppi egiziano e semitico citeremo i più importanti. I pronomi personali sono identici; al posto della 2ª pers. femm. sing. -ki e del pl. -kun -kina, l'eg. ha -s, -sn, perché l'intacco della velare si è risolto in un'assimilazione (cfr. eg. *eśkq̂j "odore" > *eśsq̂j, copto stoj). Anche le forme pronominali accentuate in -t dell'egiziano hanno l'equivalente nel -tu, -ti dell'accadico e dell'arabo meridionale. Nei pronomi separati è analoga la formazione. Nei pronomi dimostrativi il tema maschile eg. p- corrisponde all'avverbio can.-ebr. "qui"; il femm. t- e il neu. n- si trovano come elementi formativi; il pronome jmj "questo" e la forma rafforzata pl. f. jm.wt-nn "queste qui" (Pir. 550) è l'acc. ammû "questo" e sim. Tra gl'interrogativi, mj, jzj sono gli stessi che il sem. , 'ēzē. Capitale è pure il trilitterismo dominante nei due gruppi. Per quanto riguarda le formazioni nominali il confronto deve procedere cauto, perché l'accento e il prolungamento della sillaba aperta introduce varietà in eg. Ad esempio il sem. ḥŭrr "falco" passa in eg. ḥûrew, sem. răbb "signore" eg. nêbew, la forma degli astratti qatalat diviene eg. qḡtlet. Se si confronta eg. gbq̂j "braccio" con etiop. *gabaw, si potrebbe supporre che i nomi di membra come eg. ḥq̂r "faccia, ejnq̂h "sopracciglia", ejnq̂m "pelle", znq̂f "sangue" e simili derivino da una forma qatál. La parola eg. j.enbq̂ "muto" metatesi di 'lm, corrisponde al sem. 'afḡl; we '.et "verde (delle piante)" al tipo qatlal per i colori; ‛šš "gola", ‛nn "gola", ṣq̂'ṣe' "testa" a quello qulqul. Qualche volta l'eg. aumenta la radice con una desinenza, j o w che fosse jq̂zrej "tamarisco" sem. ăṯl; jq̂hje.w "tenda", sem. ăhl: jq̂ḥe.j "luna", sem. jărḫ; eġôme.w "aquila", sem. răḥm; eiô'.ew "asino", sem. ‛ăjr; ġnûme.w "montone", sem. ġanam. Le forme nominali in m-, l'aggettivo relativo in -j, il diminutivo in -j, i nomi astratti in -ôwet, sem. -ūt, sono pure comuni. Come in semitico, sono distinti in eg. due generi e tre numeri, con identiche desinenze. Come in semitico, il genitivo diretto è espresso con lo stato costrutto del nome reggente. Analogamente il genitivo indiretto è espresso con una particella relativa, eg. *nḡj "colui che appartiene a". Per i numerali, le unità concordano; wj.w "uno" è anche in eg. connesso a una radice wj "raccogliere"; "cinque" ṭj.w è metatesi di j.ṭ "mano"; ḥfn "centomila" è l'ar. ḥăfl "molto". Le analogie tra le coniugazioni egiziane e le semitiche sono più note. Non è però esatto che si siano trovate forme in n-: infatti nftft "curvarsi" è reduplicazione di nft "contorcere" (sem. lft "inflettere") e non deriva da ftft "saltare". Il cosiddetto "pseudo-participio" corrisponde in tutto, per forma e per significato, al permansivo accadico, e va tenuto distinto dal perfetto semitico. Gli aaltri modi in egiziano sono di formazione speciale. L'imperfetto ha per base una proposizione nominale del tipo qatíla-fej "uccidente (è) egli". Per la legge dell'accento esso si riduce a eqtîl.ef (cfr. Pir. 457) e eqtḡl-śen: questo è il modo enfatico. Nell'indicativo, di tono lento, si ha invece qeil.q̂f. L'imperfetto ha pure una forma energica, la quale appare lampante solo nei verbi di terza consonante j oppure w, che presentano l'assimilazione della semivocale alla precedente: da mrw "amare" si ha mrref. Il perfetto presenta una particella -n dopo il tema. Con l'analogia del siriaco šemīlan "noi abbiamo udito" (letteralmente: "udito a noi") si è voluto spiegare come un participio passivo anche la forma egiziana śṣm-n-f, quindi "udito (è) a lui"; ma contro tale teoria sta il fatto che la particella n si stacca dal suo complemento: śṣm-n św nsr "Dio lo udì", ciò che in siriaco non avviene; quindi la -n non può essere una preposizione. Il confronto con gli altri modi egizî, formati con le postposizioni -jn, -ḫr, -k', fa concludere che quella -n è una particella con il valore di "già, in passato" (cfr. in bedauya -, galla -). Anche i modi relativi hanno un confronto. Come in egiziano si accresce della desinenza masch. -w, femm. -t la radice verbale, nell'imperfetto e nel perfetto, in beḍauya il modo relativo è formato con le desinenze masi.h. -ē, femm. -ēt (cfr. la desinenza -u del relativo accadico).

Analogie sintattiche fondamentali: la distinzione eguale in proposizioni nominali e verbali, l'uso della circostanziale, l'uso del relativo dopo il nome determinato, e della 3ª persona nella clausola relativa dopo il vocativo, l'enfasi del soggetto con jn (lar. inna) e simili.

I più antichi documenti scritti dell'antico egiziano risalgono all'alba della storia, verso il 3250 a. C., gli ultimi sono del regno di Zenone (474-491 d. C.). Come tutte le lingue del mondo, anche la lingua egiziana ha subito due mutamenti, uno nello spazio (di città in città, magari di gruppo in gruppo) e uno nel tempo. Delle varietà dialettali, se avessimo bisogno di prove, ci fa sicuri un testo del sec. XIII a. C., il quale, forse con un po' di esagerazione, dice che un abitante di Elefantina non comprendeva uno del Delta (P. An., I, 28, 6). A tale riguardo finora nulla abbiamo potuto arguire. Meglio conosciamo come la lingua cambiasse, nella fonetica, nella morfologia, nella sintassi, durante la sua lunga vita di circa quaranta secoli. Certo, come dicemmo, la scrittura egiziana, esprimendo le parole senza vocali (perché la conoscenza della morfologia spesso era bastevole a restituirle) ci fa ignorare la varietà di esse, sia nello spazio, sia nel tempo. Invece, nonostante predomini l'ortografia storica, sorprendiamo il mutare delle consonanti, più o meno presto. Conosciamo ad es. la caduta della desinenza -t del femminile già nell'antico regno, la caduta della r finale di nûser dio" (co. nûte) nello stesso tempo; il passaggio di s a t, di z a ś, di a , di ġ a nel medio regno; di q a g nell'impero; di a t, di a š nei bassi tempi. Le variazioni morfologiche, sintattiche, lessicali permettono d'introdurre alcune grandi divisioni nella storia della lingua. Quale fosse il parlare corrente che usarono gli Egiziani, si ignora. Amiamo supporre che qualche frase messa in bocca a gente del popolo, nelle scene di vita scolpite sulle pareti delle tombe, e talune canzoni esprimano la viva lingua del loro tempo; ma non si può escludere che, riproducendole, lo scriba non si sia lasciato influenzare dalla retorica tradizionale. Quindi, in sostanza, ci restano solo le lingue letterarie, che saranno più o meno ricercate, ma ad ogni modo rappresentano un tipo ideale, stilizzato. In genere esse sfuggono alle innovazioni, si mantengono arcaicizzanti; i volgarismi che vi si rinvengono sono dovuti alla conoscenza linguistica poco profonda dello scrittore, non sono intenzionali. I documenti importanti più antichi sono i cosiddetti testi delle Piramidi. Alcuni brani possono risalire al periodo predinastico, e rendono la forma arcaica dell'egiziano. Accanto a essi va posto un trattato di teologia menfitica, che si dimostra della prima dinastia, e alcune leggende sulla nascita e l'intronizzamento del re, trascritti in tempi posteriori. Le biografie dell'antico regno (III-VIII dinastia), qualche lettera, qualche testo giuridico, ordinanze reali conservano la lingua scritta dell'"antico egiziano". La catastrofe politica che termina quel periodo storico può avere rotta anche la tradizione letteraria. Nel medio regno (IX-XVII dinastia) si notano due tipi. Taluni racconti, le biografie, i contratti, le lettere, di stile schietto e piano, costituiscono il "medio egiziano". Alcuni resti religiosi, inni, composizioni di tono elevato o poetico sono espresse in una lingua più castigata che ricorda "l'antico egiziano" religioso. Sul principio della XVIII dinastia perdura il medioegiziano, ma con l'andar del tempo la sua conoscenza scade ognora più e viene sostituito dal coetaneo "neoegiziano". Il racconto della guerra di Kamóśe contro gli Hyksos ("Tavoletta Carnarvon"), vi appartiene; ma in tutti gli scritti che pretendono di essere letterarî sovrabbondano i neoegizianismi. Il trionfo è segnato dalla fine della XVIII dinastia. Dal neoegiziano si sono sviluppati il demotico (v.) e il copto. La differenza tra lo stile letterario e il neoegiziano si coglie benissimo in un papiro del British Museum (n. 10.282, 3, 1-12) il quale ci dà un testo magico nelle due lingue. Nel tempo saitico o tolemaico-romano lo studio della lingua sacra, come la chiamano, s'intensificò molto e le opere di quel periodo presentano, soprattutto nel dizionario, gran quantità di parole arcaiche.

Letteratura. - La letteratura egiziana ha soprattutto valore documentario storico. Essa venne tramandata da due generi di documenti: iscrizioni dipinte o incise sulle pareti delle tombe, dei templi, sulle stele, statue, su obelischi, ecc.; testi per lo più scritti su fogli di papiro (che raggiungono anche la lunghezza di quaranta metri), o sopra i suoi sostituti, cocci di vasi, schegge di calcare (ostraca), legno, pelli. Una parte dei monumenti sono in sito, ancora in Egitto; un'altra parte si conserva nei musei, dei quali i principali sono quello del Cairo, di Torino, il British Museum, quello di Berlino, il Louvre, il Metropolitan di New-York, quello di Boston, di Firenze, di Bologna, il Vaticano e il Capitolino in Roma. Secondo Diodoro (I, 49) le biblioteche portavano il bel titolo Ψυχῆς ἰατρεῖον "medicina dell'anima"; ma non ce n'è pervenuta alcuna e neppure alcun archivio. Erano sotto la protezione della dea Śeš'e e avevano impiegati speciali. I rotoli di papiro o di pelle erano custoditi in cassette di legno, che all'esterno portavano l'indicazione del contenuto. Nel tempio di Edfu si legge ancora il catalogo dei libri liturgici, magici, amministrativi che la biblioteca sacerdotale possedeva.

Le composizioni sono in prosa, più o meno ricercata, e in versi. Questi erano regolati dagli accenti delle varie parti; ma ciò rimane ancora un soggetto oscuro per noi. Il parallelismo delle frasi è il segno esteriore che spesso ci fa accorti trattarsi di poesia.

La prima opera dell'antica letteratura che l'egittologia ci restituì fu un racconto popolare, con grande meraviglia degli studiosi d'allora. Di composizioni amene se ne rinvennero molte; esse non mancano di spigliatezza e di vivacità. Un piccolo gioiello letterario è il "racconto di Sinûhe". Vi si narrano le avventure di un cortigiano di quel nome, che se ne fugge in Siria alla morte di Amenemḥê'e I; ma ciò è un pretesto per mostrare la superiorità materiale e morale della civiltà degli Egiziani su quella dei vicini asiatici, il loro valore personale (Sinûhe abbatte in duello il campione che aveva vinti tutti gli eroi siri) e per intrecciare inni all'onnipotenza del faraone. Di fronte alla ricercatezza dello stile, quale conveniva alla materia trattata in verso, il "racconto del naufrago", conservatoci da un papiro di Pietroburgo, è d'una sorprendente semplicità. Pare manchi del principio. A consolare un principe del poco successo d'una spedizione, uno del seguito racconta un'avventura toccatagli durante un viaggio alle miniere, il naufragio fatto all'isola del serpente, il ritorno in patria. Nel cosiddetta papiro Westcar, del museo di Berlino, è stata copiata una serie di racconti, che i figli del re Cheops narrano per svago al loro padre, su prodigi operati da antichi maghi famosi. L'ultimo concerne un vecchio mago potente che vive in quel tempo e, introdotto al faraone, predice la nascita divina dei re della V dinastia. Frammentario è il racconto delle avventure d'un pastore che s'imbatte con una misteriosa dea del fiume; un altro sulla venuta della dea asiatica Astarte in Egitto; l'avventura di un sacerdote di Ammon con uno spirito. Uno dei più freschi, dell'impero, il "racconto dei due fratelli", è molto famoso. Il giovane Biti viene perseguitato dalla moglie di suo fratello Anûp per non aver voluto condiscendere alle voglie di lei, e, dopo molte peripezie, s'incarna figlio del re e sale sul trono di Egitto. Si può credere che le gesta gloriose della conquista asiatica abbiano fatto fiorire un ciclo di racconti popolari intorno a esse. Ci resta infatti la narrazione fantasiosa del modo astuto col quale il generale Thute, al tempo del faraone Thutmóse III, riuscì a impadronirsi della città di Joppe (ora Giaffa), il noto porto della Fenicia. Anche il lontanissimo paese di Nahrīn sull'Eufrate, col quale si erano stabiliti contatti più frequenti, diviene un luogo di avventure. A un re era nato un figlio, predestinato a essere ucciso o da un coccodrillo, o da un serpente, o da un cane. Divenuto grande, se ne parte per Nahrīn, conquista in una gara la principessa e riesce a sfuggire a due dei suoi destini; ma probabilmente (il resto manca) muore per opera del suo proprio cane. Romanzeschi sono pure i guai capitati (sotto la XXI dinastia) a Wenamôn, quando si recò al Libano per procacciarsi il cedro necessario al restauro della barca di Ammon di el-Karnak. Rimane pure l'inizio d'una disputa che un Apôpe dimorante in Avaris iniizia col re tebano Śeqnejwenrîe, non si comprende bene se a causa d'un canale spettante all'Hyksos o perché il frastuono degl'ippopotami che vi guazzavano dentro arrivava sino ad Avaris. Di favole egiziane antiche solo una tavoletta del museo di Torino ce ne offre una. È la lite tra corpo e testa intorno alla loro importanza, che richiama il famoso apologo di Menenio Agrippa.

Parte importantissima nell'educazione egiziana è stata la letteratura sapienziale, la quale conteneva gli ammaestramenti (śbq̂'je) che una persona di grave autorità impartiva a un pupillo. I più antichi dovrebbero essere gli "insegnamenti di Ptahḥq̂tpe", trovati a Tebe e venuti alla Biblioteca Nazionale di Parigi mediante il Prisse d'Avennes. Il manoscritto, in caratteri ieratici, è del principio della XII dinastia; altri esemplari rendono il testo con forti varianti. La persona a cui l'opera è attribuita, il principe e visir Ptahḥq̂tpe, visse al tempo del faraone Azôze della V dinastia (circa 2479-2451 a. C.) e ne esiste a Saqqārah la tomba. Però la lingua si dimostra quella letteraria del medio regno, per quanto molto scelta, quale il tema richiede. Le massime sono certo in versi. Secondo la consuetudine egizia l'operetta ha un prologo. Il ministro, acciaccato dagli anni, si presenta al faraone per avere la facoltà di prendere un aiuto e ottiene di educarlo, così che divenga il modello dei figli dei dignitarî; giacché nessuno nasce saggio. La prima massima concerne la stessa sapienza: "non insuperbire per il tuo sapere - [ma] informati con l'indotto come col dotto; - [poiché] non si tocca il termine di un'arte, - [e] non c'è artista il cui profitto sia esuberante. - Rara è la sapienza più dello smeraldo, - tuttavia si trova [magari] presso le schiave alla mola". I consigli proseguono intorno a molti punti di morale e di condotta: come contenersi verso la famiglia, i superiori, gl'inferiori, o nelle varie incombenze. Peccato che la stringatezza della forma renda difficile a noi, come del resto era agli antichi, la penetrazione di questo testo. Nello stesso papiro Prisse era stata copiata la finale di un'opera dello stesso genere pur essa falsamente attribuita al cosiddetto Kagemni (K'-j gmj.w-n-j "il mio ko è che ho trovato", s'intende nel neonato), ministro anch'egli sotto il faraone Śenfôre (verso il 2644), ma che avrebbe scritto sotto il precedente faraone. Parte della paginetta rimasta potrebbe convenire al nostro detto: "in chiesa co' santi e in taverna co' ghiottoni". Diffuso molto nelle scuole dell'Impero era l'ammaestramento del cosiddetto Duauf (Ṭew'ejwef "[egli sarà] il suo adoratore"), il cui padre fu un tal Aġtq̂j, rivolto al figlio Pjôpe. Come appare anche dai nomi personali, l'opera è del medio regno. Pjôpe era stato ammesso alla scuola di corte tra i figli dei grandi e si coglie questa occasione per tessere l'elogio della condizione del letterato, lo scriba, si mette in vista la superiorità di questo su ogni altro lavoratore e viene fatta una pittura satirica degl'inconvenienti che capitano nei varî mestieri. Accanto al padre che ammonisce il figlio, possiamo collocare il re che trasmette la sua esperienza al successore. Nel ventesimo anno di regno, Amenemḥê'e I si pose a fianco quale reggente il figlio, Zenwq̂śre I. Il provvedimento pare fosse consigliato, oltre tutto, da un grave attentato al quale il vecchio re era stato esposto a corte. In tale circostanza il suo dire non poteva non essere accorato, e forte egli si lamenta dell'ingratitudine umana: "Non amare alcun fratello - non riconoscere amico. - Non ti fare confidenti". Autentiche o no queste sentenze, anche ad altri re sono state riferite massime di buon governo. Ne troviamo citata qualcuna del re eracleopolitano Aġtq̂i; e un papiro della XVIII dinastia conserva elevate parole scritte per il re Merekarîe, uno dei suoi successori. All'impero appartengono gl'insegnamenti di Enej al figlio Henzḥq̂tpe. Il manoscritto posseduto risale alla XXI-XXII dinastia ed è di uno scriba poco intelligente. La lingua è schietto neoegiziano. Concerne sempre gli stessi argomenti di morale pratica e non manca di riflessioni molto profonde. Sulla fine il pupillo viene assimilato a un bambino che sta fra le braccia della madre; finché è piccolo, ama suggere il latte, ma come si sente cresciuto, non vuol più e apre la bocca per dire: "dammi il pane". Di recente ha suscitato vivo interesse la pubblicazione d'un altro libro sapienziale (Br. Museum, n. 10474) quello di Amenemq̂pe al figlio Haremmaḥrq̂w, che sembra posteriore alla XXI dinastia. L'operetta è divisa in trenta capitoli ed è stata in parte incorporata nei Proverbî di Salomone. Di contenuto filosofico sono pure i lamenti che eleva un abitante di Wādī en-Naṭrūn, al tempo degli Eracleopolitani. Questo contadino era venuto in Egitto con gli asini carichi di mercanzie ed era stato spogliato da un dipendente del maggiordomo della real casa. Questi, avvedutosi dell'acume del contadino, anche per consiglio del faraone, finge di non prestare ascolto al supplicante, sicché per nove volte il contadino, ignaro del giuoco, si lamenta per la parzialità di quelli preposti a impartire la giustizia. Allo stesso periodo eracleopolitano poniamo un gruppo di operette notevoli per il loro colorito pessimistico e scettico, carattere che riflette le turbolente condizioni di allora. Il più interessante, molto oscuro, pervenuto mutilo, è il dialogo tra uno stanco di vivere e l'anima sua. Egli, amareggiato dell'esistenza, vorrebbe uccidersi e descrive la tomba come luogo di riposo; ma l'anima ribatte che la morte è annientamento e inutile la sepoltura, poiché anche quelli che si costruiscono piramidi, come i faraoni, sono divenuti eguali ai morti abbandonati sulla riva del fiume, che parte ha portato via il flutto, parte ha dileguato il sole. Quindi val meglio godere e dimenticare la preoccupazione. Lo stanco πεισιϑάνατος si dilunga ancora a descrivere la bruttezza del mondo e come appaia dolce il trapasso. Pare che l'anima lo convinca a mettere da parte il lamento e ad attendere sereno la fine naturale. Le cosiddette "profezie di Jepwêr" descrivono in tutti i particolari i fatti accaduti alla fine del regno di Pjôpe II; la società egiziana fu sconvolta e quelli che erano in basso salirono in alto, quelli che erano in alto scesero in basso. È impossibile che tutto ciò sia inventato. Manca principio e fine; ma è dato intuire che si promettono giorni migliori quando la religione verrà restaurata. Un colloquio con il cuore, forse sullo stesso tono, intavola il sacerdote eliopolitano Ḫa‛ḫperrîeśq̂nbe, del principio della XII dinastia, intorno alla nequizia dei tempi; ma pur esso ci rimane tronco. Altre profezie sono attribuite a un preteso sacerdote della dea Baste, di nome Nefrréhwew, nientemeno sotto Śenfôre, per elogiare il fondatore della XII dinastia, Amenemḥê'e I; ma, non occorre dirlo, appartengono a tale periodo.

Della poesia popolare si può vedere un saggio, come dicemmo, nelle brevi canzoni con cui i lavoranti accompagnavano la loro fatica; come, ad esempio, quella del pastore, quando spinge il gregge sui campi molli per affondare la sementa, o dei trebbiatori che esortano i buoi, o di quelli che sollevano la portantina. Dell'età dell'Impero ci sono pervenute ricche raccolte di poesie amorose; ai dolci colloquî che tengono gli amanti prendono talora parte gli alberi e i fiori del giardino ove s'intrattengono. Alla grande epopea appartiene il poema che un ignoto autore ha composto sull'eroica gesta del giovane Rameśśêśe II nella sanguinosa battaglia di Qidša contro i Hittiti: il re si è trovato solo solo in faccia ai nemici e ha operato prodigi di valore; dopo due giorni quelli vennero sbaragliati. In molti passi del poema è raggiunta la sublimità. La gloria di Tḥutmóśe III è celebrata dallo stesso dio Ammon. Una composizione in cinque canzoni esalta la potenza del faraone Zenwq̂śre III, il consolidatore della conquista nubiana; ma è piuttosto un'immagine ideale di sovrano che essa ci dà, priva di accenni personali. Per l'elevazione al trono di Merneptáh e di Rameśśêśe IV della XX dinastia si scrissero pure belle poesie. Anche limitandoci a un semplice elenco, ci dilungheremmo troppo. Curioso un inno al carro di guerra del faraone, ove si menzionano tutte le parti e di ognuna si dice l'elogio. Un papiro di Leida della XIX dinastia canta Tebe e il suo dio; altri ancora, la città di Rameśśêśe all'estremità del Delta, quella di cui è menzione nel libro dell'Esodo. A mensa, tra allegre brigate forse, si modulava sull'arpa una canzone che sollecitava a gioire, a metter da banda l'ambascia. Di simili ne leggiamo anche nelle tombe, richiamo giocondo ai visitatori. Una, piena di scetticismo sull'al di là, sull'utilità dei sepolcri, predicante la gioia pazza, si leggeva presso l'arpista raffigurato nella tomba di un faraone dell'XI dinastia. Ci sono, al contrario, alcuni pii che inneggiano alla terra ove tutti debbono andare.

Al genere didattico, diciamo così, dobbiamo ascrivere varie composizioni. Pur sapendo poco sull'organismo scolastico egiziano, è naturale pensare che i giovani scribi, nei loro primi anni, si limitassero ad apprendere la scrittura e ad esercitarsi nella calligrafia. Forse dovevano mandare a memoria quante parole potevano: c'è una specie di nomenclatore, composto da un tal Amenemq̂pe figlio di Amenemq̂pe, in cui per ordine sono elencati le parti dell'universo, la gerarchia sociale, nomi di città, nomi di pani, di carni, di pesci, ecc. (papiro Hood, papiro Golenišev a Mosca, papiro Gardiner dalla scuola del Ramesseo); ci sono ostraca con esercizî su nomi stranieri, la conoscenza dei quali era necessaria agl'impiegati statali. Poi, nella classe di retorica, per forbire lo stile e formarsi la cultura, si applicavano allo studio delle grandi opere letterarie. Assai coltivato era il genere epistolare. Venivano poste a modello lettere ove si elogia la scuola o l'ufficio di scriba, ove si spiegano gl'inconvenienti del correre dietro alle ragazze e alla birra, ove si eccita al lavoro di giorno e di notte, si dipinge perché sia dannoso divenire ufficiale, sacerdote, contadino. Ci sono inoltre lettere che concernono soggetti di amministrazione e servono a foggiare lo stile burocratico. Alcuni quaderni di scolari, come li potremmo chiamare, ci offrono interessanti raccolte di tali scritti. Abbiamo pure in un papiro di Londra del regno di Rameśśêśe II l'eco d'una battaglia d'inchiostro tra lo scriba Ḥôr e il suo collega Amenemq̂pe. Questi, in una o più lettere indirizzate al primo, lo aveva trattato da asino e aveva impugnato il suo titolo accademico. Quello gli risponde, in ventotto pagine, che l'asino è lui, che non sa neppur scrivere, ignora i calcoli, non conosce la geografia della Siria, provando tutto ciò con abbondanti esempî; una vera stroncatura! Di lettere autentiche ne pervennero molte d'ogni età; un bel gruppo ne venne scoperto a Illāhūn nel Fayyūm, un altro a Tebe. Ce n'è una diecina rivolte a defunti. Per quel forte istinto che fa sussistere anche dopo la morte le relazioni annodate in vita, i trapassati sono interpellati in caso di malattie o di difficoltà, perché soccorrano chi si rivolge loro.

Il tempio di Eliopoli possedeva probabilmente l'iscrizione recante gli annali, dal periodo preistorico sino alla V dinastia, di cui un largo frammento è conservato nel museo di Palermo. Gli avvenimenti sono indicati anno per anno (solo i più importanti), ed è notata pure l'altezza dell'inondazione, d'interesse fiscale. Nel museo di Torino si hanno i resti d'un preziosissimo papiro cronologico, che dava l'elenco dei sovrani egizî, dal mitico dio-Sole sino almeno alla XVII dinastia. V'erano riportati gli anni di regno dei singoli, talvolta anche la durata della vita; somme parziali computavano gli anni complessivi d'una o più dinastie. Sopra una parte del tempio di el-Karnak si conserva un compendio del diario che il re Tḥutmóse III aveva fatto scrivere durante le sue campagne asiatiche. Lo stesso tempio di el-Karnak e quello di Luxor sono miniere di notizie storiche intorno ai faraoni della XVIII e XIX dinastia; quello di Medīnet Habu invece celebra Rameśśêśe III. Di questo sovrano abbiamo pure una biografia e un lunghissimo elenco delle donazioni da lui fatte agli dei nel grande papiro Harris, che forse proviene dagli archivî di quel tempio. In Napata sono stati trovati importanti documenti che illuminano le vicende di quei monarchi nubiani; tra tutti, di grande valore il racconto della spedizione di Pi‛anḫe in Egitto. Ricche pure di notizie, spesso curiose, sono le iscrizioni di Hatnūb, di el-Ḥammāmāt e del Sinai, lasciate in quelle cave come ricordo dalle missioni andatevi in ogni età. Inoltre tombe e statue forniscono altri dati interessanti intorno ai privati cittadini. Le mastabe di Menfi e le tombe rupestri di Tebe sono ben note a tale riguardo. Tra i documenti che hanno maggior pregio citeremo la biografia di Wenej e di Ḫawwefḥôr dell'antico regno; le iscrizioni dei principi di Benī Ḥasan e di Asyūṭ per il medio regno; la biografia di Aḥmóśe di el-Kāb per la guerra degli Hyksos; quella di Amenemhábe, compagno di armi di Tḥutmóśe III; l'iscrizione di Mentemḥê'e, al tempo di Tahraq; la biografia di Uṣiḥarreśne, del tempo di Cambise e di Dario. Un manoscritto su pelle, nel museo di Berlino, racconta i lavori compiuti nel santuario di Eliopoli da Zenwq̂śre I e dei quali l'obelisco ergentesi tra i campi è ancora testimone. Di colorito storico sembra la lotta tra il principe tebano Kamóśe e gli Asiatici in Avaris, descritta nella "Tavoletta Carnarvon".

Finora i più antichi decreti che abbiamo risalgono alla V e VI dinastia. Essi si rinvennero nel tempio di Osiride in Abido, in quello di Min a Copto (Qifṭ) e in una città presso la piramide di Dahshūr; sono copie su pietra di ordini faraonici a vantaggio dei luoghi e dei loro abitanti, che essi esentano per l'eternità dai gravami fiscali e dalle servitù. Due stele di confine a Semnah del tempo di Zenwq̂śre III riportano una fiera allocuzione di questo re; l'altra, l'inibizione ai Nubiani di varcare il confine, a piedi o in barca, a meno che non si rechino per il mercato ad Acina. Concerne l'amministrazione della Nubia un lungo decreto dell'anno IV di Sethosis I (1316). Possediamo ancora l'editto col quale il faraone Ḥaremḥábe reprime le ruberie che i funzionarî compivano a danno della povera gente e attua altre savie riforme. Di molto valore per la conoscenza dell'amministrazione statale sono due documenti nella tomba del visir Rḫemirîe a Tebe, uno dei quali indica le funzioni che spettano a questo ministro; il secondo, il discorso d'investitura da parte del sovrano: "Chi sopra tutti deve praticare la rettitudine è il visir". Sappiamo dalla biografia di Wenej che, al tempo di Pjôpe I ci fu un processo a corte contro una regina; ma, tolto il cenno alla parte ch'egli ebbe qual giudice, non aggiunge particolari. Un magnifico papiro del museo di Torino offre una relazione compendiosa, scritta forse per l'archivio reale, d'un processo intentato a dame e ufficiali della corte, al tempo di Rameśśêśe III, per aver tentato di fare insorgere il paese e sostituire il regnante con un principe del sangue. Numerosi sono i documenti che riguardano le ruberie commesse nella necropoli tebana sul finire della XX dinastia; con la connivenza di venali funzionarî, gli stessi lavoranti delle tombe reali penetravano in esse e asportavano la preziosa suppellettile che v'era racchiusa. Dalla tomba di un tal Mq̂śe, sotto Rameśśêśe II, si hanno notizie d'una causa per eredità tra parenti, trascinatasi circa trent'anni. Gli atti di vendita del periodo faraonico sono più rari. Della IV dinastia è quello della cessione di una casa, che fu valutata una certa quantità di rame non precisabile. Altri della XVIII trattano dell'affitto di schiavi per un periodo di determinati giorni. Spesso si trovano contratti che venivano stipulati con sacerdoti onde assicurare il servizio funerario per mezzo d'una fondazione pia. I più caratteristici sono quelli che, regnando Zenwq̂śre I, il principe di Asyūṭ, Ṣef'ewejḥq̂p concluse con i sacerdoti della sua città; erano dieci e vennero ricopiati sulle pareti della sua tomba. Clausole speciali regolano la trasmissione del legato nel futuro. Inoltre possediamo testamenti, atti di adozione, inventarî, documenti contabili, tra l'altro quello della corte del faraone Śebkḥq̂pe (XIII dinastia). Preziose, in specie per la vita operaia della XIX-XX dinastia, un buon numero soprattutto d'ostraca, indicanti i giorni di lavoro, i nomi dei lavoranti, le loro assenze e talora i motivi di esse. Questi appunti servivano poi a compilare i diarî della necropoli tebana, che contenevano cenno di altre notiziole. Quelli conservati a Torino, della XX dinastia, mostrano che sovente agli operai era trattenuta la paga in natura e veniva data dopo molto tumultuare.

Il numero dei testi di medicina è estremamente piccolo; ma uno almeno di essi ha sommo pregio perché ci fa conoscere il pensiero egiziano. È un papiro acquistato a Tebe nel 1862 da Edwin Smith, ora a New-York. La copia si riporta alla XIII dinastia; la lingua, però, sembra risalire al regno antico. Le 17 colonne del dritto (è lungo più di m. 4,50) dànno un trattato di chirurgia. Sono casi riguardanti il sistema osseo e si succedono con metodo dall'alto in basso. Dieci si riferiscono al cranio, sette al naso, dieci all'orecchio, alla mascella, alle labbra, cinque alla spalla, nove al torace, altri alla colonna vertebrale (con cui si arresta). Ogni caso ha un titolo generale: "Istruzioni per (la tal malattia)". Viene poi la sintomatica: "Se tu esamini uno che ha (questi sintomi)"; poi la diagnosi: "Di'quindi a suo riguardo: è uno che soffre di...". Il prognostico viene sotto tre forme: 1. "È un male che posso curare"; 2. "È un male col quale posso combattere" (aleatorio); 3. "È un male che non si può curare". Segue anche il trattamento: "Allora tu (applica questo e questo)". Infine alcune glosse (circa 70) spiegano i termini o le frasi usate. La descrizione anatomica desta davvero stupore per la sua esattezza; la sintomatica è bene esposta; la terapeutica va elogiata per la mancanza di rimedî magici o comunque stravaganti. Se aggiungiamo l'uso del linguaggio tecnico, la terminologia scientifica, non possiamo fare a meno di concludere che la medicina già prima del 2000 a. C. aveva raggiunto in Egitto il grado di vera scienza positiva, sperimentale. Confrontate con questo mirabile monumento, le altre quattro raccolte mediche che abbiamo, il papiro Ebers a Lipsia, quello di Berlino (n. 3032), quello di Londra (n. 10.059) e il papiro Hearst nell'università di California sono zibaldoni di ricette mediche talvolta sudicie, di formule magiche di nessun valore per la scienza, benché utili per la psicologia popolare. Mancano d'ordine e di discussione; non s'imbattono in prognostici sfavorevoli, perché alla magia tutto è possibile. Non appartengono alla scienza, ma all'empirismo volgare. Più notevoli sono i trattati di veterinaria e ginecologia scoperti a Illāhūn (XII dinastia).

Per la matematica i documenti sono ancora più scarsi. I frammenti di Illāhūn, conservati a Berlino, un papiro a Mosca, pare siano resti di manuali per calcolatori, con moltiplicazioni e divisioni di numeri e frazioni, misure di capacità, problemi di geometria. Il papiro Rhind, acquistato nel 1858 a Tebe e scoperto, parrebbe, nelle rovine del Ramesseo col papiro Smith, è una copia eseguita al tempo degli Hyksos di un trattato composto sotto Amenemḥê'e III (1845-1797 a. C.). L'introduzione si occupa delle frazioni con numeratore 2; seguono aritmetica, misure (volumi, cubi, aree, angoli d'inclinazione), problemi di aritmetica. Destinato forse a bisogni pratici degli scribi contabili, il papiro ci mostra i risultati di una riflessione scientifica piü volte secolare.

Papiri e ostraca ci riportano rilievi planimetrici di edifici; un papiro di Torino dà il piano della tomba di Rameśśêśe IV nella Valle dei re ch'è stato riscontrato esattissimo. Che in Egitto si sapessero rilevare anche carte geografiche ce lo provano i preziosissimi frammenti dello stesso museo riproducenti una zona aurifera di Wādī el-Ḥammāmāt, esplorata da Sethosis I. Vi sono tracciati i monti, le valli, le costruzioni, i pozzi, le vie che portavano al mare, variando la colorazione secondo le circostanze.

Anche relativairente all'astronomia è rimasto poco. Le liste dei 36 decani (zone di 10° nello zodiaco) appaiono già sui sarcofagi della X dinastia. Nelle tombe della XVIII, XIX, XX sono raffigurate costellazioni e tavole per il calcolo delle ore secondo l'apparizione delle stelle. Un'iscrizione di Tebe ci fa noto un tal Amenemḥê'e che costruì un orologio solare per il faraone Amenḥq̂tpe I. Poiché egli dice di avere studiato su libri, certo solo per caso queste opere, come tante altre, non sono finora pervenute a noi. Abbiamo un magro compenso in alcuni testi astrologici che indicano la qualità fausta o nefasta dei giorni (papiro di Illāhūn, papiro del British Museum n. 10.474), dando talora il motivo mitologico (pap. Sallier IV, altro a Torino). Anche prognostici intorno alla vita secondo il giorno della nascita si conservano in un papiro in Torino.

Abbondano gl'inni a tutte le divinità e neppur essi sono inutili per conoscere i sentimenti di chi li scrisse. Dei più noti, anche in antico, era l'inno al Nilo, tramandato da due manoscritti del British Museum e uno migliore del museo di Torino, parzialmente da ostraca. Si ringrazia il dio per tutti i doni che largisce al paese. Un altro, pieno di sentimento e di lirismo, è quello al dio sole Aton venerato a Tell el-‛Amārnah e riprodotto nelle tombe di quella città. Molti ne furono rivolti al dio Ammon. Uno molto lungo, del tempo di Amenḥq̂tpe II, si trova al Cairo. In un papiro scritto per il tempio del dio Sobek nel Fayyūm è rimasta una raccolta di versi arcaici con i quali si pregavano le corone del faraone, considerate come dee. Molti testi religiosi ci trasmettono le stele, alcuni di carattere popolare, importanti per la devozione personale.

Probabilmente la mitologia egizia era una delle più ricche del mondo; ma ne rimangono per ora quasi solo allusioni nei testi. Degno di menzione il mito, conservato in tre tombe reali tebane, che si riferisce alla distruzione degli uomini, rei di avere offeso gli dei, e al ritiro di questi in cielo. Un altro, su un papiro di Torino, narra come la scaltra dea Ese, essendo il dio-sole Rîe dolorante per il morso di un serpente, riuscisse a farsi rivelare il vero nome divino, che era dotato di molta potenza magica. Un altro ancora (copiato nel 310 a. C.) concerne l'origine del mondo e la lotta contro il serpente Apôpe. Nel tempio di Edfu era raccontata la guerra del sole contro i suoi nemici; pretesto per interpretare i riti e i templi a gloria del dio locale. Il santuario di Per-śq̂pṭe era messo da una leggenda in relazione con i primordî e con gli dei Šôw e Gêbb, l'ultimo dei quali avrebbe regnato là. Un mito diceva le avventure dell'occhio solare, una dea, uscito in terra straniera per distruggere i ribelli al dio. Anche della letteratura teologica, probabilmente copiosa, rimane un solo esempio, un trattato contenuto in una pietra di granito nero nel British Museum. Il testo arcaico risale alla I dinastia e, copiato ai tempi di Šabako da un manoscritto su pelle roso da vermi, è composto in onore del dio menfita Ptah, detto creatore del mondo. Un saggio dello stesso genere offre il capitolo XVII del Libro dei morti. Il testo, in cui il defunto viene assimilato al dio eliopolitano Atûm, è commentato passo passo in modi varî, introducendo le glosse con la domanda: "Chi è questo?".

Della liturgia si è salvato qualcosa. Il cosiddetto "Rituale del culto giornaliero" concerne le cerimonie compiute al mattino davanti al tabernacolo delle divinità; il "Rituale delle offerte", in parte copiato nelle piramidi di Saqqārah, offre la liturgia con la quale si provvedeva al nutrimento del re defunto, assimilato al dio Osiride. Il "Libro dell'apertura della bocca" è la raccolta delle formule recitate sul morto (e in assenza sua ripetute sulla sua statua) per ridare al corpo l'uso dei sensi. Il "Rituale dell'imbalsamazione" è connesso al fasciamento del cadavere. Altri rituali sono in relazione con il culto di Osiride. Ci è stato anche tramandato il lamento funebre che si faceva per la morte di quel dio e che somiglia alle nenie delle prefiche. Un papiro trovato al Ramesseo riporta le cerimonie mimate (il dramma, come è stato detto), che si facevano per l'elevazione al trono del faraone. Al Cairo e a Torino si conserva un papiro con la liturgia funeraria per il re Amenḥq̂tpe I.

Molti documenti nelle tombe e spesso le stele, manifestano le diverse idee sull'al di là e sulle speranze nutrite. Una parte grandiosa dell'attività letteraria degli Egizî si è rivolta alla magia. I musei sono pieni di testi magici, specialmente dalla XIX dinastia in poi; anche una parte dei papiri di medicina, si è detto, rigurgita di formule. Alcuni almeno meritano di essere ricordati. Uno, a Berlino (n. 3027), è una raccolta di scongiuri per combattere le malattie dei bambini e delle madri. Un grosso nucleo d'incantesimi contro i coccodrilli e a beneficio dei campi ce l'ha tramandato il papiro Harris n. 501 (British Museum, n. 10.042). Contro i morsi dei serpenti e degli scorpioni, così frequenti e letali in Egitto, c'era una raccolta di formule (antica per la lingua) che spesso si vede in parte o in tutto riprodotta su stele dei bassi tempi, ove appunto è rappresentato il dio Ḥôr che calpesta i coccodrilli e afferra i rettili in mano. Di recente il museo di Berlino è entrato in possesso di numerosi cocci appartenuti a vasi, sui quali si erano ripetute maledizioni contro i nemici di un re egiziano (Nubiani, Asiatici, Libî, Egiziani) e che per magia imitativa erano stati fracassati poi. Dovrebbero appartenere alla fine dell'XI dinastia. Vanno ascritti al genere magico-religioso i cosiddetti "Testi delle Piramidi" trovati nelle piramidi dell'ultimo re della V dinastia e dei primi quattro della VI a Saqqārah. In gran parte arcaici, come dicemmo, essi sono una cospicua collezione di formule, più di 700, con le quali si deve procurare il benessere del defunto, provvedere ai suoi bisogni, principalissimo il vitto, farlo salire in cielo, procurargli posto tra gli dei, combattere ogni ostacolo. Alcuni brani vennero copiati anche più tardi in papiri saitico-tolemaici (Berlino, Londra, Torino). Identici sono i cosiddetti "Testi dei Sarcofagi",, che vennero disegnati sulle casse della IX-XII dinastia. Più tardi sorse l'abitudine di trascriverli su tela e su papiro per deporli accanto al cadavere. In questo caso si chiamano dagli egittologi, con nome poco felice, "Libro dei morti". Il numero dei capitoli, o per meglio dire delle formule, varia da manoscritto a manoscritto e così pure l'ordine. Nell'Impero fu di moda ornare i testi con vignette, che sono spesso veri capolavori d'arte. Nel tempo saitico-tolemaico si formò una redazione canonica di cui l'esemplare più completo è il papiro di Ef'onh nel museo di Torino (n. 1791), lungo 19 metri e contenente 165 capitoli, di età tolemaica. In questi tempi col rifiorire delle cose arcaiche compaiono altre composizioni che, in parte almeno, risalgono all'antichità, come quella chiamata "Divenga saldo il mio nome", che era già nei testi delle Piramidi. Compaiono pure di frequente il "Libro per respirare" e il "Libro per trascorrere l'eternità". Con la topografia dell'al di là sono connessi: il "Libro delle due vie" (già nei testi dei sarcofagi), il "Libro di ciò che è nel Tê'e", il quale è una guida talora illustrata delle dodici spelonche che il sole traversa la notte per passare dall'occidente all'oriente. I nomi di esse, le misure, gli abitanti, le diverse ciurme che guidano la barca solare, dovevano essere conosciute dal morto. Anche il "Libro delle porte", scritto come il precedente specie sulle pareti delle tombe reali tebane, fa conoscere i genî che sono posti a guardia dei 12 piloni del mondo sotterraneo. Lo accompagnano spesso "La discesa del Sole nel Tê'e", che illustra lo stesso viaggio, e le "Litanie del sole", elenco dei 75 nomi del dio che la sera il morto deve invocare.

Religione. - La religione degli Egiziani rimane sempre uno dei soggetti più complessi di quella civiltà. Le fonti abbondano, come abbiamo detto, ma sinora anche di documenti fondamentali, quali i testi dei sarcofagi, il Libro dei morti e altri, mancano edizioni critiche. Se s'incomincia a fare un po' di luce nell'intricata congerie degli dei e dei miti che il sincretismo posteriore ha amalgamati, regna tuttora piena tenebra circa le profonde modificazioni occorse in sì lungo tempo. Per esaminare i sentimenti che in Egitto hanno spinto gli uomini ad adorare taluni oggetti, conviene distribuire le divinità in due categorie: 1. gli dei che hanno una rappresentazione naturale, quali i feticci, le piante, gli animali, gli uomini; 2. gli dei che hanno una rappresentazione ideale. Esaminiamo il primo gruppo. Uno dei feticci più notevoli era costituito da uno scudo e due frecce incrociate, issate sopra un palo, più tardi sostituito dalle sole frecce in croce, ovvero da due archi racchiusi entro una custodia di pelle. Era venerato già al tempo di Mêne a Sais (Šā el-Ḥaǵar) nel Delta occidentale; ma per l'importanza politica della città si era diffuso altrove. Un tempio durante l'antico regno sorgeva nella parte settentrionale di Menfi, donde l'epiteto alla dea: "La settentrionale del Muro". Aveva per nome Nḡrte, divenuto poi Nḡjte, che i Greci hanno trascritto secondo il dialetto locale Neith. Il carattere bellicoso della dea è rilevato anche da un altro epiteto che le viene dato: "La battistrada". Parallelo al culto delle armi è quello delle corone regie nelle tre forme: la bianca, la rossa e la doppia. Erano venerate nelle cappelle della reggia, avevano sacerdoti e ne possediamo una liturgia. Una colonna ornata di piume e di fasce è il dio Wéḫej "Colonna" a Cusae (el-Qūṣiyyah). Un teschio di vacca infisso a un palo, detto Bá'je "Potente" è il feticcio di Diospolis Parva, forse anche di Denderah. Esso si è poi mutato in sistro, quello composto di due corna che circondano un portale; così lo si vede anche sulla testa della dea Neḥmet-e‛we'je "Che soccorre il derubato" in Ermopoli. Nel tempio di Eliopoli si conservava una pietra acuta, Ben "Pietra" ovvero Bénben "Puntuto", della quale l'estremità superiore degli obelischi e i tozzi simulacri dei templi solari del regno antico erano la riproduzione. Forse è qualcosa di simile il dio primitivo di Per-śópṭe (Ṣaft el-ḥinnā), a giudicare dal suo nome Šópte "Acuto". Anche i quattro mattoni su cui le donne egizie solevano sgravarsi si reputano una dea, Meśhenje. Nella città di Wet, non bene localizzata, forse nel XII nomo dell'Alto Egitto, si adorava una pelle di animale appesa a un bastone, chiamata Em-Wet "Colui ch'è in Wet"; un palo sormontato da una testa, adorna di bende e di piume, due braccia pendenti, delle quali la destra stringe il pastorale, la sinistra il flagello, è dio nel nomo di Busiri, ‛Enṣete "Busiridiano". Un feticcio di incerta natura, probabilmente una pietra, è Min, dio di Panopoli (Akhmīm); potrebbe essere stato un pilastro quello di Copto, Rḥeśe, avanti di assumere la rozza forma umana dei primi tempi storici. Tracce del culto dello scettro si possono rilevare nei nomi ufficiali di alcune provincie, l'eliopolitana: "Lo scettro Ḥaqe' sta bene", l'ossirinchite: "I due scettri We'bew", la tebana: "Lo scettro We'śe"; con l'ideogramma dello scettro si scrivono pure i nomi divini Jeg'ej, Je'e, Je'tet, per l'ultimo dei quali si conosce un sacerdote. Misterioso è l'emblema di un dio Śeš'ew e di una dea Śeš'e, formato da un oggetto con sette punte infisso a un palo e sormontato da due corna capovolte. Uno stendardo divino si chiama Ġenw-śewe. Diffuso il culto degli alberi: a Menfi si venerava un tronco dai rami mozzi, il Ṣaṭ, qualificato di "augusto"; a Momenfi, una selva di je'em, pianta non ancora identificata; nella parte meridionale di Menfi c'era pure un sicomoro sacro; ad Eliopoli era santissima la ješeṭ (Balanites aegyptiaca), sulla quale più tardi si scrivevano i nomi dei re. A Per-śópṭe si onorava il nûbeś (giuggiolo), dal quale prendeva anche il nome "Castello del giuggiolo", e la pianta keśbe, identificata al dio cittadino: "Śópṭe che sta sotto i suoi keśbe". Per la moringa si rinviene un'espressione simile: "Colui che sta sotto la sua moringa", la quale spiega in certo modo la divinizzazione della pianta come se si pensasse abitata da un ente; ma sono questi sviluppi secondarî, come appare chiaro dalla varietà degli dei con i quali il feticcio si assimila. Per l'Egiziano è la pianta stessa qualcosa di personale, come appare quando essa serve in cambio di un morto o curva il capo o lo volge. Citiamo ancora il tamarisco, l'acacia spinosa, l'albero ‛erew, il fiore di loto detto Nefrtême "Del tutto bello" in Menfi, il ne‛re nel XX-XXI nomo, il neṣfe nel XIII-XIV, la ze're. Numerosissimi erano gli animali adorati. L'ariete ha un tempio antichissimo, menzionato su monumenti della I dinastia, a Eracleopoli nel Fayyūm con l'epiteto Ḥrišajjef "Capo del suo lago" (alliterazione con šefj "becco" simile all'accadico šapparu?); lo venerano a Mende come Ba' "Ariete" (sem. jobel); nella regione della prima cataratta come Gnûm "ariete" (sem. ġanam), col nome Gerte nella città di Nez'e ed in Letopoli. Più tardi lo troviamo ad Antinoe, a Śemn-ḥûr capitale del XXI nomo dell'Alto Egitto, a Latopoli, a Hypselis, a Panopoli, a Copto; forse per aggregazione al dio Ammone appare a Tebe e nell'oasi di Sīwah. Un avvoltoio è la dea di Eileithyiaspolis (el-Kāb), e dal nome egizio della città, che era Nḫab, viene designata come Neḫbıjie "Quella di Nḫab"; assurse a protettrice del regno per la fortuna dei principi della vicina Ieraconpoli. Una sorte simile toccò a Mût "Avvoltoio", adorata nei pressi del laghetto 'Ešrew a Tebe, che protesse i destini dell'Egitto come moglie di Ammone. Il culto del coccodrillo, Sóbek, è diffuso un po' da per tutto. Un tempio è a Šéṭe (Crocodilopolis) nel Fayyūm, sin dagli albori della storia. A Sais è considerato figlio di Neit, si venera nel III, IV, V nomo del Basso Egitto; originariamente anche nel VI dell'alto, Denderah. Crocodilopolis (el-Gebelein) e Ombos (Kōm Ombō) ne sono altri centri; mummie dell'animale ritrovate nelle necropoli e le testimonianze dei classici lo attestano a Tebe, a Eileithyiaspolis, a Thuphium (et-Tōd), a Copto, a Chenoboskion (Qaṣr eṣ-Ṣayyād), a Diosspolis Parva (Hū), Anteopoli. Pur nella preistoria risale il culto di Ḥûr "Falcone" (semitico ḥurr) nella città di Ieraconpoli (Kōm el-Aḥmar). Esso s'incarnava nel principe del luogo e divenne il dio per eccellenza col cui ideogramma sono determinati i nomi degli dei nei geroglifici. Anche Ḥebnew (presso el-Minyā), Sele, capitale del XIV nomo del Basso Egitto, sono adoratrici del falcone. Ad Athribis potrebbe essersi assimilato ad un dio locale Ḥenteġtḡj. Gli troviamo dati varî epiteti: Ḥar-wêr ('Αρούηρυς "il gran falco") a Ombos, ad Apollinopolis Parva (Qūṣ), a Letopoli; Ṭewn‛enwej "colui che stende le ali" nel XVII nomo dell'Alto Egitto; ‛Entei "unghiuto" a Hieracon; Menṣewej da un'ignota Menṣew. Probabilmente anche Ḥemen di Asphynis (Aṣfūn el-Maṭā‛nah) è un epiteto del falcone. A Menfi è concepito viaggiante nella barca solare, donde il suo nome Zôker "Viaggiante" (eg. zkr, copto sgêr "navigare"). A Buto nel Delta occidentale il dio più antico era l'airone Ṣeb‛ewte "quello di Buto", sostituito poi da Ḥôr quando vennero i conquistatori dall'Alto Egitto; un altro col nome Bq̂jnew (che ha dato origine al greco "fenice") era adorato nel XIV del Basso. L'ibis parrebbe avere avuto culto, oltre che nel XV del Basso (Hermopolis Parva), ad Hermopolis Magna (el-Ashmūnein), e se ne trovarono a Saqqārah, Abūṣīr el-Maleq, Tell el-‛Amārnah, Abido, Tebe, Kōm Ombō. Santa era la gatta nella città di Bubasti (Tell Basṭah), dalla quale aveva il nome B'aśtêje "quella di Bubasti", necropoli si rinvennero a Sais, a Tani, a Saqqārah, a Benī Ḥasan, a Gebel Abū Fōdah (presso el-Qūsiyyah), a Tebe. Il dio ‛Enṣew adorato ad Eliopoli e a Per-śópṭe era un icneumone, così il Ha'tulew di Eracleopoli; aveva pure culto a Buto, a Tani e a Bubasti, nelle due ultime delle quali si trovarono persino mummie. Forse una iena striata era il dio descritto dalle orecchie rosse, dal dorso striato, e chiamato Be'bû'e "quello della tana"; la caratteristica corona dell'Alto Egitto con cui è scritto il suo nome ce lo fa supporre in relazione con quella regione. Così una dea-ippopotamo dovrebbe essere Jpjej dell'antico regno, giacché sotto questo nome sarà poi adorata a Tebe, come il maschio nelle provincie IX e XI del Delta. Il leone è dio a Sele e a Bubasti, ove lo chiamano Miḥûze' "Leone dallo sguardo feroce"; la dea-leonessa ha l'epiteto Śáḫme "Dominatrice" a Menfi; Pa'ḫe "Graffiante" a Speos Artemidos (Iṣṭabl ‛Antar); Meḥje "Piena" a This (el-Birbā), perché identificata all'occhio solare; Me'teie a Ieraconpoli (vicino a Deir el-Giabrāwī), Menheje "Macellaia" a Esnā. Una coppia leonina, Rewte, si venerava a Leontopoli (Tell el-Yahūdiyyeh). Il gattopardo, Ma'feṭe, appare sin dalla prima dinastia; non si sa dove venisse adorato, è in relazione con un "Castello del vivere". Il centro del culto del lupo era Licopoli (Asyūṭ) sotto il nome bellicoso Wepiew-w'q̂jwe "Battistrada", perché la sua immagine marciava in testa alle milizie. Ma accanto a questo "Lupo dell'Alto Egitto" (eg. zê'eb come in semitico dhi'b) se ne trova un altro del Basso Egitto, che non sappiamo ove collocare; nei tempi tardi una Licopoli esisteva pure nella provincia di Sebennito. Il dio Anubi sembrerebbe un cane, sebbene il nome egizio A'nûpew sia lo stesso che l'etiopico u̯alp, u̯ulûp "sciacallo". È rappresentato sempre giacente, quindi lo dicono: "Quello che sta sul suo ventre". Originariamente la sede principale del suo culto era il XVII nomo dell'Alto Egitto, il quale ha appunto conservata l'immagine di lui come emblema; la capitale si chiamava Cinopoli (el-Qeis). Di là passò, già nella VI dinastia, nel vicino XVIII. A Rifa, poco a sud di Asyūṭ, egli era "Signore della bocca dell'antro" e molto probabilmente anche ad Abido Ḥentamentêje "Primo degli occidentali", in origine era un dio cane o sciacallo. Anubi s'intitola appunto: "Capo dell'altura occidentale". A Turah, secondo ogni apparenza va localizzato l'Anubi di Śepe'. Anche a el-Gīzah c'era un luogo santo chiamato Re-śes'ew "Bocca degli antri" col quale sta in relazione il falco Zôker; questo poteva avervi sostituito un cane, al quale meglio converrebbe il carattere funerario preso dal dio di Menfi. Un'oca è la dea Śerwe, come mostra l'ideogramma del nome; ma null'altro sappiamo. L'alzavola pare essere il dio Gêbb, per ignoti motivi divenuto dio della terra. La capitale della XXI provincia alto-egiziana si chiama Śemn-ḥûr "Oca di Hor" (Kafr-‛Ammār) certo in relazione a un culto locale. Lo stesso animale e la rondine sono adorati a Tebe. Signore della città di Letopoli è il cieco toporagno ‛Am‛īmew, il quale porta anche il nome Mḫentenjḡrte "Senza occhi". Come il dio toporagno d'acqua, Ejfêfe, egli è identificato a Hor. Sacro era il toro ad Ermonti e nella prossima Tuphium ove uno bianco, pare, si chiamava Bôġew "Fecondatore" (greco Buchis); un altro, Ḥa'pe "Corridore" (greco ῟Ακις, v. apis), lo era a Menfi e nel III nomo del Basso Egitto; un terzo, Mrewêre (greco Μνεῦις), ad Eliopoli, tutti famosi. Un culto simile è testimoniato per il VI nomo del Delta, "Il toro della montagna" (Chois); nel X, "Il toro nero" (Athribis); nel XI, Ḥeśeb. Nella vicina Pharbaetus (Hurbeiṭ) c'è un toro, "signore di Šeṭnew"; un altro, Merḥew, ad Abido. Il vitello è adorato nel XII nomo del Basso Egitto, "Il vitello del dio", Sebennûser, greco Sebennytos; nell'Alto Egitto un luogo presso Esnā a nord di essa, porta il nome di ‛Egnej "Vitello" (semitico ‛iǵl). Un centro importante per il culto della vacca, bianca secondo Strabone, è Afroditopoli; essa ha gli epiteti Tepeḥq̂we "La prima dei bovini" e Senjetjet-eḥq̂we "La più eccelsa dei bovini". Nel III nomo del Delta c'era la vacca sacra Śeḫ'etḥûr "Colei che si ricorda di Hor"; nel X, Athribis, naturalmente era detta Tkême "La nera". Un animale era certo in origine la dea Śḡsje (gr. Satis) dell'isola di Sehel, come mostrano le due lunghe corna che porta ai lati della corona; l'orice Miḥḡṣje, dava nome al XVI nomo dell'Alto Egitto. La lepre, Wenwe, era adorata in Hermopolis Magna, forse accanto al dio cinocefalo identificato col dio Thout. Lo scorpione sacro va sotto il nome Śerqet-ḥetew "Che fa respirare la gola", adorato poi ad Iseum nel Delta e a Pselchis "il santuario di Sérqe" in Nubia (Dakkah). L'aspide, Wa'ṣôje "La verde" era adorata a Ṭep (Buto), presso la capitale del regno preistorico del Basso Egitto; la troviamo pure nel Delta orientale a Jéme (Nebeše) col nome Jemteje "Quella di Jéme"; con quello di Qerḥe, forse "Genio", a Pithom nell'VIII nomo del Basso Egitto. La rana, Ḥeqe, si venera ad Antinoe ed anche ad Abido. Per il culto dei pesci le notizie sono scarse. A Mende il delfino era la dea Ḥat-meḥjeje "La prima dei pesci", nell'età classica il mormyrus è sacro a Ossirinco (el-Báhasā), una specie di barbio (Cyprinus lepidotus) a Lepidopoli, il pesce persico (Perca nilotica) a Esnā, il phagrus ad Assuan donde Phagroriopolis, il siluro ad Elefantina. Da ultimo citeremo l'animale immagine di Sêth intorno al quale gli Egiziani stessi mancavano di notizie precise. Tra le molte identificazioni la più confacente è l'okapi, rinvenuto dal Johnston nelle selve congolesi. La sede principale del culto è Ombos (Typhonia) presso Qūṣ, donde il suo nome Ombita.

Nei tempi più antichi non sembra che gli uomini abbiano ricevuti onori divini. Lo stesso culto dei re defunti non è una vera divinizzazione. Già da vivo è il "dio buono", ma questa espressione rimane una formula di rispetto, non lo innalza agli altari, neppure quando è pensato figlio carnale del Sole. Qualcuno poté essere più tardi fatto dio per sue virtù, come avvenne di Imḥotep, architetto del re Ṣośer, di Amenḥq̂tpe, figlio di Ḥa'pew sacerdote della fine della XVIII dinastia, e di un tale Teô. Personificazione del nano è certo il dio Bês.

Quanto agli enti che presentano una forma ideale, un primo gruppo comprende le personificazioni di astrazioni o di complessi di sentimenti. Una delle principali è la Rettitudine, Mé‛e, della quale il supremo giudice è sacerdote. Non sappiamo perché, qualche volta viene considerata come doppia. Personificate sono pure la sapienza e la parola divina. La prima si chiama Śje' "Conoscenza" ed è collocata alla destra di Rîe con il libro del dio in mano. La parola Ḥewej "Ordine" (ebr. ḥwj "annunciare"), è quella che evocò dal caos primitivo le cose; anch'essa sta presso il Sole. Divinità è pure la Magia, Ḥîke', e ha sacerdoti tra i medici. Abbiamo un dio Śôneb "Salute", Wṣḡj "Sanità"; un dio e una dea Morte, Môwet e Mewte; Jô'er "Vista", Śôṣem "Udito", anche fusi in un solo Jô'er-śôṣem; più dei-abbondanza Ṣef'ew, Ba‛ḥew, 'egeb; un dio-vitto Ḥq̂w (sem. ḥwy, ḥyy "vivere"). Un'altra entità connessa all'alimentazione è il Ko' "Cibo" (sem. 'kl "mangiare"). Un testo teologico relativo alle origini del mondo fa creare da lui le abbondanze e gli alimenti; in passi dei testi delle piramidi il Ko' è in relazione col mangiare del defunto. Un capocuoco si vanta di aver provveduto con il nutrimento il "Ko' vivente" del re e un dio ordina di nutrire una regina insieme col suo Ko'. Il sacerdote che provvede all'alimentazione di un morto si chiama "Schiavo del Ko'" e già nei primordî la preghiera delle offerte è pronunciata per il Ko'. La vita è in certo modo dipendente da esso; alimentando il Ko', viene alimentato l'individuo. Anche il Fato è un dio, Šq̂'jew "Colui che stabilisce", e ha sacerdoti. È connesso con la dea dell'allevamento Rnêne, che rappresenta insieme la ricchezza e la buona sorte. Per l'etimologia non si può scindere dalla dea Rnenwûṭe, presiedente alla raccolta e quindi anche ai granai, ai cibi, alle vesti che da quella dipendono. Ha forma di serpente. La fertilità è la dea Méwje "Semenza"; la fecondità, la dea Neḫbéwe. Il dio-grano si chiama Néper ed ha pure una compagna, Nápre. Il torchio dell'olio e del vino è personificato in Šĕ́zmew; i filati hanno la loro dea, Te'je. La buona presa di pesca o caccia è il dio Ḥe'bew; il dio della toletta, raffigurato dalla barba o da un sacchetto in cima a un bastone, è Ṭew'éwej "Mattiniero", né gli mancano sacerdoti.

Un secondo gruppo può essere formato dalle personificazioni del tempo e dei luoghi. L'anno, le tre stagioni, i dodici mesi, le ore sono altrettante divinità. Anche la mattina, Ṭew'éje, è una dea che partorisce gli astri ed è figlia della dea-cielo. L'occidente, connesso con i morti, è dea, Jemne, spesso qualificata "buona"; più rara la menzione di Je'be "Oriente". Śôḫe "Campagna" è la madre del dio-caccia sopra nominato. Il deserto, Ḥe', signoreggia naturalmente l'occidente ove in specie si trova; lo adorano nel VII nomo del Basso Egitto e in Asyūṭ, dove cercano di propiziarselo i carovanieri prima d'iniziare la pericolosa traversata. Nell'impero Tebe è dea coi nomi Wq̂'śe-nḫq̂tte "Tebe rimarrà vittoriosa" e Oppe "Gineceo" riferito al tempio di Luxor. Forse connessa a luogo è la dea Jewtŏś-‛a'jq̂ś, detta a settentrione di Eliopoli. Anche le necropoli e le cime delle montagne sono divinizzate.

Nel terzo gruppo si collocano le personificazioni degli elementi cosmici. La terra la rappresenta un uomo, Gêbb, sul cui dorso crescono le piante. Forse il dio Ptah ha un simile valore; certo, nella sua forma Ti-sûnen "Terra elevata" è quella emersa dall'oceano primordiale. Il cielo è creduto un soffitto di metallo, Bḡ'jej, da cui pendono le stelle; quattro sostegni forcuti o quattro montagne, personificate poi da quattro donne, lo sostengono ai quattro punti cardinali. È anche una donna poggiante sulla terra le mani e i piedi, il corpo arcuato, la testa verso occidente; ha nome Pĕ, che può dire "Elevazione" (cfr. sem. wpj "elevarsi al di sopra"); l'altro, Nûte, è d'ignoto significato. Il Nilo è un uomo grasso, cinte le reni dal perizoma dei pescatori, un ciuffo di piante acquatiche sul capo. Con il corpo segnato da linee ondulate si personifica invece il Mare, We'ṣ-wêr. Anche il terremoto, Newr-tq̂', che alcuni mettono in relazione con Seth scuotentesi sotto Osiride, è divino. L'aria che tiene sollevati il cielo, le nubi, il sole, è Ḥeḥ o Šôw "Colui che solleva", ritratto appunto a braccia levate; l'umidità, la dea Tfêne. I quattro venti hanno spesso quattro teste e sono indicati: quello del nord come toro o ariete; quello dell'est come uno sparviero; quello del sud come un leone; quello dell'ovest come un serpente; e portano pure le ali. Forse sono eguali ai cherubini veduti da Ezechiele sostenenti il trono di Jahvè. Il sole è una palla che vola sotto il cielo. Per altri è una grossa pallottola tra le antenne di uno scarabeo stercorario, Ḫéprer. Qualche volta le pallottole sono due, una raffigura il sole di oggi, un'altra quello di domani; perché dapprima si credeva che ogni giorno si formasse un nuovo sole. Anche la luna era dio, Jq̂‛ḥe, venerata sotto il nome di Ṣhq̂wte, in greco trascritto Θωύϑ, che significa "Chiaro" (cfr. in sem. ḍaḥaḥ, waḍeḥ "essere chiaro"). Tra gli astri avevano attratto la maggiore attenzione le circumpolari, Eḫmejew-śek "Quelle che non possono tramontare". Opposto al loro cielo settentrionale, era il meridionale ove si trovavano gli Eḫmejjew-wôreṣ "Quelli che non possono stancarsi", che cioè non si arrestano mai nel tramontare e risorgere. Tra essi c'era la dea Sirio, Śq̂pṭe "Acuta" (Σώϑις); Orione, Śe'ḥew, e numerosi altri dei-stelle.

Per spiegare gli dei dell'Egitto, come del resto quelli di altri popoli, furono pensate varie teorie, di cui due rimangono: il totemismo e l'animismo. La prima, ora meno seguita, afferma un rapporto di fratellanza, di discendenza, di protezione tra certe classi di oggetti materiali (per lo più animali e piante) e chi l'adora. Per quanto si sia indagato, tali rapporti non si sono trovati in Egitto. Per molte entità ideali, come la dea Rettitudine e simili, sarebbe assurdo parlarne. Quindi la teoria ignora una parte del fenomeno. L'animismo a sua volta afferma che il primitivo dà agli oggetti materiali, agli animali, alle piante, un'anima simile a quella degli uomini. Questo, anche se esatto, renderebbe ragione dell'antropomorfismo, non della divinizzazione; proprio gli uomini sono i meno adorati. Non basta l'"anima" per spiegare la dea Rettitudine; ma se pensiamo quanto fossero forti presso gli Egiziani i sentimenti che si oppongono all'alterazione dell'equilibrio sociale e che si chiamano di giustizia, non possiamo non scorgervi una connessione. Tebe vittoriosa, come a suo tempo Roma, non viene divinizzata perché persona, ma perché la sua potenza suscita forte negli animi un complesso oscuro di sentimenti. Perdurando tali azioni, per l'istinto che spinge a dare personalità a ciò che ha nome, si sono creati enti che in certi casi finiscono magari con lo staccarsi dalla cosa che ha dato loro origine.

Quando incomincia la storia, come si vede, queste divinità sono adorate in più luoghi e ogni luogo ha più dei. Quanto all'animale e alla pianta basta quasi sempre un solo individuo al culto, pur mantenendo in una certa venerazione tutta la specie; si suppone ch'esso venga distinto dagli altri per speciali caratteri. Vediamo poi spesso sostituita alla cosa reale l'immagine, ancora di aspetto rozzo; gli animali vengono resi senza gambe e accovacciati, come mostrano le riproduzioni di età storica. Per ragioni psicologiche impossibili a indagare, già qualche dio è salito in maggiore considerazione di altri, è divenuto il "dio cittadino" per eccellenza. Egli è il signore del tempio e del luogo e sorge l'abitudine di chiamare questo dal santuario, come Per-Ḥatḥûr "Tempio di Hathor" (el-Gebelein) e simili. Sino al tempo greco si trovano formati da divinità o animali sacri i nomi: Antaiupolis, Aphroditespolis, Apollonospolis, Eileithyiaspolis, Heliupolis, Herakleuspolis, Hieraconpolis, Kynonpolis, Krokodeilonpolis, Latonpolis, Leontonpolis, ecc. Molte volte le divinità sono state ravvicinate in un legame di parentela. Così al dio-creatore Ptah di Menfi viene data come moglie la dea-leonessa Śáḫme e come figlio il dio-loto Nefrtêm; al dio-ariete Gnûm sono date come paredre Satis di Sehel e Anûqe di Elefantina; altrove invece ha in moglie la dea-rana Ḥeqe; ad Hathor di Denderah per figli Eḥe e Zem'-tó'we; Śobek, coccodrillo, è figlio di Neith. Già nelle due prime dinastie si è fatto un passo avanti: i monumenti di allora mostrano la vacca, assunta a divinità celeste, identificata a Sothis; l'animale sacro 'Eš è diventato uomo e si rappresenta con corpo umano e capo di animale o del tutto uomo; la dea-serpente Buto è ritratta come donna. È chiaro dunque che, pur conservando la forma, la sostanza delle cose è già cambiata, almeno per certe classi sociali. Siamo all'antropomorfismo. L'animale, la pianta, il feticcio (che è dio per sé) vengono spiegati o come forma che il dio ama assumere, o come qualcosa miticamente in relazione con lui. Per il feticcio-pietra di Eliopoli si dice che da esso uscì il dio-sole. I sicomori, come quello meridionale in Eliopoli, divengono sedi delle dee-celesti Hathor e Nûte; il torello Mnevis è "Ripetizione di Rîe", Apis invece "Ripetizione di Ptah"; le vacche sacre s'identificano ad Hathor, quindi il cielo viene concepito come una vacca sulla quale naviga il sole e sono trapunte le stelle; la palma è il dio Thout; l'icneumone, il dio eliopolitano Atum; il falcone, il gatto, il leone, l'ariete sono il dio Sole; l'ossirinco, il coccodrillo, l'ippopotamo, il maiale, l'asino, il dio Seth; ecc. Ciò promuove un ampio sincretismo: le divinità si associano, si scambiano epiteti ettributi, si fondono. A Ieraconpoli il falcone bellicoso Hor si fonde col dio-sole adorato a Edfu un disco con l'ureo: il falcone prende il disco sul capo e identificato al sole diviene Ḥar-aḥte "Hor dell'orizzonte"; il dio di Edfu prende le ali del falco con le quali ora vola in cielo e diviene "Ḥür di Edfu" ovvero "Quello di Edfu, il dio elevato, dalle penne variegate, il signore del Luogo-del-fiocinare (tempio in Edfu)". La dea-serpente Buto, assimilata alla corona del Basso Egitto, si confonde con la dea avvoltoio Neḫbîje, assimilata alla corona dell'Alto Egitto, divengono o due serpenti, o due avvoltoi, o due corone. Il dio-torchio e il dio-colonna, raffigurati come leoni e leonesse, diventano varie divinità femminili.

La sintesi avviene anche tra i miti. Non c'è dubbio che quello di Osiride sia di origine solare. Il nome Usire (eg. Wśjr.t) significa per K. Sethe qualcosa come "Gioia dell'occhio". Della sua morte si diceva ch'egli era abbattuto (nṭj, sem. ndw) nel luogo chiamato "Le due gazzelle" ovvero Neṭie "Luogo dell'abbattimento"; secondo un'altra versione ch'egli affogava o era affogato (mhj). In un inno al sole dei testi delle Piramidi, netej "abbattuto" è un epiteto solare, e che esso stia in relazione al tramonto è detto in Pir. 209: "tramonti con Rîe come un immergentesi (śnk) con Neṭej". Nel capitolo 217 degli stessi testi, śenkew "Luogo dell'immersione" si trova in antitesi con 'aḫe, il punto della levata; śenkew è pure un epiteto del sole dell'altro mondo. La moglie del dio è Ise (eg. . jś.t, gr. ῏Ισις) che vale "sede" e personifica la residenza celeste, non il trono come è stato supposto. I suoi attributi nei testi delle Piramidi (1153-1154): "Colei che creò gli dei", "Colei che creò gli dei, creò Hor, creò Thout" ossia le stelle, il sole, la luna, convengono soltanto a una dea-cielo. Il nucleo primitivo della leggenda consisteva in ciò: al tramonto nel deserto occidentale il dio trovava la morte. Sua moglie lo ricerca, lo fa approdare se affogato, lo raccoglie se abbattuto, lo fa rivivere. La passione del dio che risorge ogni giorno, diventa certezza di vita per gli uomini che muoiono. Quasi di sicuro il dio è proprio dell'Alto Egitto: egli non ha mai abbandonato la lunga corona che portano in capo i principi della regione; a ogni modo dall'inizio del predinastico era adorato là poiché nelle necropoli il morto è volto con la faccia ad occidente. Là venne a contatto con Hor e Seth che non avevano attinenza con lui. Il dio di Ieraconpoli e quello di Ombos erano stati nemici a causa della lotta combattutasi tra le due città. Rimasta vincitrice la prima, il sovrano suo, che si riteneva incarnasse il falcone, ora impersonò anche l'okapi e nel protocollo, al primitivo titolo "Falcone N." aggiunse un altro, "Ḥûr-Sêth" ovvero "Ḥûr Ombita", o "I due padroni" che affermava la nuova combinazione. Associati così i due nemici, divennero compatroni del regno. Però nella mitologia popolare, forse perché freschi ancora i ricordi delle lotte, Seth fu considerato quale dio del male. Cosi entrò anche nella leggenda osiriana. Mentre innanzi era fratello di Hor, ne divenne zio paterno, fratello di Osiride; gli fu attribuita l'uccisione di questo e la persecuzione di quello. Il falcone Hor, intanto, mutatosi in sole, aveva trovata dimora in un castello celeste, personificato in una dea, Hathor; di essa, divenuta cielo, lo dissero anche figlio. Come sole venne attratto nel mito osiriano, che subì una forte variante: il padre andava a presiedere il regno dei morti, Hor era il nuovo sole. A Eliopoli egli venne portato dai conquistatori meridionali, che dopo qualche esitazione, lo dichiararono figlio di Atum e nella loro prima cosmogonia lo collocarono in coda: "...Gêbb, Nute, Osiride, Iside, Seth, Hor". Ma, dio del monarca, non poteva rimanere là. A Seth si diede per compagna Neith di Sais, poi Nebtḥô "Signora del Castello" che, se non è un epiteto della precedente, è doppione di Iside; e Hor fu assimilato al sole.

Durante le due prime dinastie a Eliopoli si mette al centro d'una più ampia teologia una nuova personificazione del sole Rî‛e (eg. rj "Risplendente". Questo Rı‛e si muta in un faraone vero e proprio, con una sua corte composta di dei, ministri, ambasciatori, scribi. Nel suo castello si odono le liti e si rende giustizia, che è la suprema aspirazione del popolo egizio. Anche i morti godevano in cielo i vantaggi di questo regno bene organizzato. Per quel che sembra, la terra era considerata galleggiante sull'oceano, Nûn, dal quale era emersa e a cui alcuni ricollegavano il Nilo. Sopra, si estendeva un cielo, Pe, con provincie, città, campi, laghi, canali; gli uomini viventi erano trattenuti lontani da porte inaccessibili. Il sole percorreva il suo stato in una nave di 770 cubiti, che accoglieva il seguito, la ciurma, il pilota. A sera scendeva in un altro mondo. Secondo alcuni sull'altra faccia del Nûn si stendeva un cielo opposto al nostro, il Náune, ove si camminava capovolti. Secondo un'altra concezione, sotto la terra c'era una galleria, 'Ekrew (sem. 'kr "fossa"), o Ṭê'e, munita di porte, per la quale gli astri si recavano da occidente a oriente. Il sole, giunto all'orizzonte, cambiava d'imbarcazione e faceva poi la traversata notturna. Naturalmente non si poté sgombrare il campo del tutto dalle vecchie deità e si cercò di venire a un accomodamento. Nella stessa Eliopoli c'era Atum, che fu ritenuto per un re-dio e a lui si tributò culto a parte sino al periodo etiopico. Nei testi si ama considerarli fusi in una sola forma: Atûm-Rîe, o Rîe-Atûm. Anche Harahte separato in principio, si fonde in un nuovo Rîe-Harahte, che più tardi diverrà anche Rîe-Harahte-Atûm o Atûm-Rîe-Harahte. Più felice fu forse la risoluzione di stimare queste divinità come nomi diversi dello stesso dio, o nella sua vita diurna o in quella annuale: Harahte, sole del mattino, o bambino; Rîe, sole del giorno, o nella pienezza dell'età; Atûm, sole della sera, o vecchio. Al posto del primo si trova anche il sole-scarabeo Ḫéprer che, riconnesso al verbo ḫôper "divenire" si prestava ad essere interpretato "sole che diviene", sia al mattino, sia nei primordî. Il sole notturno, talvolta pensato morto, venne identificato al dio Zôker di Menfi, o a Osiride. Seth, secondo il suo duplice aspetto, ora è amico di Rîe, ora si assimila al nemico il serpente ‛Apôpe, personificazione delle fosche nubi temporalesche (cfr. sem. ‛rp "oscuro, nube"). A mano a mano anche deità non solari, come Sobek, Min, Chum, subirono la sorte comune e si pervenne a un pretto enoteismo espresso dalla frase attribuita al dio: "Io sono quegli dai molti nomi e dalle molte figure". Neppure le dee sfuggirono alla solarizzazione, perché si fusero alla dea-ureo, dichiarata "occhio del sole" e figlia sua. Quando si propagò il culto di Ammone (v.), in sostanza non si fece che predicare per il nuovo quanto si predicava per l'eliopolitano, appena con una leggiera accentuazione panteistica. Il credo propugnato da Amenothes IV (v.) sulla fine della XVIII dinastia, non presenta novità. Aton è soltanto il nome volgare, neo-egiziano, del sole, e sia nella teoria sia nella pratica la sua teologia è quella di Eliopoli, compreso il torello sacro Mnevis che fu adorato a Tell el-‛Amārnah. È nuovo che quel re si creda l'unico interprete del dio e mentre largisce favori ai vili plaudenti alle sue follie, perseguiti da forsennato quanti non accettano i suoi dogmi; cosicché, invece d'un illuminato profeta, appare un tirannico persecutore religioso. La bufera passò rapida, per fortuna, e i templi, restituiti, seguitarono a consolare il mite popolo nei giorni della buona e della cattiva sorte. Di tutti gli dei il più vitale fu Osiride, manifestazione d'ogni naturale rinnovamento. La sua passione e i suoi misteri appagavano i semplici e piacevano agli spiriti avidi di misticismo. Anche gli stranieri s'inchinavano di fronte a questa arcana sapienza; il bagliore della vecchia millenaria civiltà, il segreto di una letteratura sacra scritta con caratteri ormai quasi indecifrabili rendono ancora più ricercata l'iniziazione a cui presiede il dio che impone il silenzio. Il velo d'Iside è il mistero della natura che gl'intellettuali dell'Impero romano s'illudono di sollevare. Per un momento par quasi che tutti i paesi mediterranei siano pronti ad accettare quest'ultima forma della religione egiziana.

Arte. - Le più antiche manifestazioni artistiche egiziane risalgono al principio del periodo preistorico. Le pitture con le quali vengono ornati i vasi o le mura delle tombe, le statuette di uomini e di animali lavorate in pietra e in osso, pur nella loro semplicità manifestano una perizia non comune. All'alba della storia, le mazze e le tavolette per belletto, scolpite in rilievo con scene di cacce, di battaglie e di trionfi, deposte nei templi (come quelle in Ieraconpoli) mostrano le più eminenti caratteristiche della futura arte egiziana. Nei cinquecento anni della I e II dinastia noi possiamo seguire, sia nella statuaria, sia nel rilievo, come l'artista vada divenendo padrone della materia spesso infida che è costretto a lavorare, come si liberi a poco a poco da certi convenzionalismi e da goffaggini e divenga maestro assoluto nell'espressione della fisionomia. La statua del faraone Ṣôśer proveniente da Saqqārah, con la sua faccia villosa piuttosto brutale, è un esempio cospicuo del progresso fatto in quel tempo. Da Ṣôser a Śenfôre corrono all'incirca sessant'anni e una perfezione senza pari ha raggiunto la statuaria con il gruppo di Rahótpe e Nófre (del museo del Cairo) che già freme di vita. Per tutta la quarta e la quinta dinastia gli artisti egiziani hanno creati tanti e tali capolavori, le statue di Chefren, quelle di Micerino, le due di Ranófer, il cosiddetto Sheikh el-balad, lo scriba del Louvre e quello del Cairo, il nano Gnemhótpe, l'altro Sôneb dignitoso presso la sua bella moglie, il gobbo e molti ancora, sparsi nei musei, da non temere confronti con qualsiasi altro periodo fortunato. Efficacissimi nel loro naturalismo e pieni di dignità, come si conveniva per ritratti funerarî, sono impregnati d'individualismo. La policromia e gli occhi di smalto ravvivano ancor più la faccia. Il rilievo, già introdotto sulla fine della III dinastia ad adornare le camere delle tombe, raggiunge nella mastaba di Sej (Ti) la perfezione assoluta. Lungo pareti e pareti, scenette vivaci, spesso con spunti faceti e lievemente ironici, ritraggono la zelante fatica dei servi nel seminare i campi, fare la raccolta, cacciare e pescare, allevare il bestiame, mungere le vacche, in tutte le manifestazioni più comuni della vita. Sono di modellatura delicata, quasi impercettibile soffio, morbidi e pastosi nelle forme, eleganti e agili nel disegno puro. Potremmo considerarli come tanti quadretti di genere. Delizioso quello del pastore che muove a sciogliere il vitellino in pastoie presso un arbusto. La tenue linea del piccolo animale saltante e invocante aiuto, l'espressione dolcemente canzonatoria del pastore, rivelano nell'artista un acuto senso di osservazione congiunta a una tecnica sapiente. Durante il medio regno, per quel poco finora rimastoci, la statua e il bassorilievo non possono gareggiare con quelli dell'antico; ma non mancano del tutto belle opere. Nei particolari sono assai elaborate, ma in genere meno vive, atteggiate a un'estrema gravità, quasi a preoccupazione. Predomina lo stile nervoso e scarno, con i pomelli sporgenti, il profilo acuto. Certe pitture paiono avere perduta la geometria modellatrice, ma non mancano del vigore per esprimersi vivaci. Parecchi ritratti di Amenemhê'e III, alcune statuette di privati, i rilievi ingenuamente realistici di Meir, il gatto di Benī Ḥasan, le principesse di el-Bershā s'impongono allo studioso. Nella fioritura dell'impero, ricco e potente, anche l'arte ha segnato una nuova pagina. Nella XVIII dinastia il crescendo è continuo. Sono figure ben modellate, provviste di delicata muscolatura se uomini, rotondette le carni se donne, ricoperte da vesti che lasciano intuire membra e movenze. Anche i bassorilievi si arricchiscono di nuovi temi per le imprese eroiche dei faraoni e le estese relazioni con i paesi stranieri. In tutti pulsa un sonante palpito di vita. La statua di Thutmóśe III al Cairo capolavoro di questo periodo, un po' idealizzata, più che l'eroe ci dà il dolce re giovinetto ancora in tutela della regina Hatšepsówe. Più forte nella modellatura è la statua dello stesso re che si conserva a Torino. La mirabile serie dei rilievi spesso policromi s'inizia con la finissima decorazione del tempio di Deir el-Baḥrī. Le tombe di Sheikh ‛Abd el-Qurnah, soprattutto quelle di Ḫaemhê'e, di Náhte, di Menéne, di Ramôse, i templi di Luxor e di el-Karnak offrono tesori artistici inestimabili. La riforma religiosa di Amenḥq̂tpe IV suscitò un mondo di energie fresche, desiderose di libertà e d'imprigionare nelle loro opere il fuoco della vita. Il realismo vi ha raggiunto il suo culmine, magari vi è divenuto un po' esagerato. Tuttavia l'arte ci ha dato in quel ventennio tali capolavori che siamo disposti a perdonare tutto. La mirabile testa dipinta della regina Nefrtête del museo di Berlino, il delicato virgineo torso di fanciulla dell'University College di Londra sono quanto di più cospicuo abbia prodotto l'arte egiziana. Sino a Sethosis I la statuaria e il rilievo sono venuti lentamente recedendo. Le sculture del tempio di Abido, pur delicate, mancano già di vita. La statua di Rameśśêśe II in Torino, modellata con aggraziata verità, nobile e dolce nell'espressione, è ancora un lavoro magistrale. Ma la decadenza si accentua, si finisce col perdere di nuovo il senso della proporzione e del disegno. Con i Saiti anche l'arte ha una rinascenza. Molto si copia dall'antico, ma la testa del sacerdote di Berlino, profondamente delineata e piena di personalità, mostra che qualcosa di nuovo si sapeva anche fare. Con i Tolomei all'arte indigena si sostituisce quella greca; le statue e le sculture che continuano la tradizione nazionale scadono sempre più e si riducono, al tempo romano, orrori di barbarie.

Della casa privata egiziana non ci sono rimasti che scarsi avanzi. Nei suoi elementi essenziali appare la stessa anche nei palazzi dei grandi e dei sovrani. Ma naturalmente le proporzioni aumentano, l'ornamentazione è moltiplicata. Così in sarcofagi del regno antico, riproducenti tali edifici, notiamo che invece della consueta facciata liscia ce n'è una movimentata con lesene e ricca di ornati. I palazzi reali di Tell el-‛Amārnah (XVIII dinastia) e di Medīnet Habu (XX) abbondano di decorazioni. Vivaci colori di pitture e di smalti nascondevano la nudità dei legni e dei mattoni; anche il pavimento si abbelliva di dipinti.

Si sono conservate parecchie fortezze, sia in Egitto (a el-Kāb, el-Aḥāywah, Illāhūn) sia in Nubia (a Wādī Ḥalfā, Kūbān, Kuri); anche alcuni palazzi reali, come quelli di Abido, Medīnet Habu, Kōm el-Aḥmar, arieggiano ad esse. Le mura erano spesse, la facciata a scannellature, le porte strette, coronate di merli. Magazzini come quelli del Ramesseo ci dànno un'idea di quelli usati dall'amministrazione statale per conservare le derrate ricavate dalle tassazioni.

Numerosissimi sono gli esempî di templi che sussistono in tutto il paese, ma appartengono principalmente all'impero e alle successive età. Del periodo che precede la storia qualche traccia persiste in disegni arcaici: erano capanne di fogge varie, ove il dio albergava, precedute da un'area limitata con pali. Dell'antico regno non è pervenuto nulla; ci possiamo fare un concetto chiaro soltanto di un tipo particolare, il tempio solare di Newserrîe ad Abū Gurāb, che forse imitava l'eliopolitano. Il santuario è collocato sull'asse est-ovest, in alto. Il feticcio del sole, che assomiglia a un tozzo obelisco di 32 metri elevato sopra un banco pure di 32 metri, si trova nel fondo di una corte rettangolare preceduto dall'altare. Un corridoio inclinato e coperto lo collega ad un'entrata, posta nella valle. Anch'esso era abbellito di rilievi in onore del sole. Nei pressi erano state riprodotte le barche solari, la diurna e la notturna.

Le tracce di quelli del medio regno sono sì poche che nulla possiamo affermare intorno ad essi. Un elemento nuovo parrebbe l'obelisco, eretto ai lati della porta. Invece per l'impero, specie la regione di Tebe e le sue adiacenze abbondano di numerosi edifici sontuosi, che permettono uno studio particolareggiato. Nel fatto non ce ne sono neppure due di cui uno sia copia dell'altro; si possono però ridurre a certi schemi. Un piccolo tipo, che molto piacque nella XVIII dinastia, è il cosiddetto periptero, che nulla cede per eleganza al compagno greco. Il santuario posava su un basamento guarnito di un parapetto, sul quale leggieri pilastri sostenevano il tetto. Una porta si apriva a occidente ed un'altra a oriente, fronteggiate da due colonne; una stretta gradinata in questo lato metteva a contatto col portico e con la cella. Un secondo tipo, con varianti più o meno grandi, è il tempio a piloni. Costituiscono la facciata due grandi torri a piani inclinati, tra le quali si apre la porta. Due obelischi e grandi pali su cui fluttuano bandiere ornano le loro mura. Si accedeva quindi alla corte, fiancheggiata a destra e a sinistra da portici, nel mezzo della quale si elevava l'altare. Si penetrava poi nel pronao, il cui colonnato era sbarrato per preservare il santuario. Seguiva la sala ipostila, che abbracciava la larghezza dell'edificio e aveva talora la navata centrale più alta per prendere una discreta luce. In fondo era il santuario dove si conservava l'immagine sacra, d'ordinario racchiusa nella barca processionale; intorno, piccole camere servivano per gli utensili del tempio o per i bisogni del culto. Del tutto diverso è il tempio che la regina Hatšepsówe eresse ad Ammon sul gigantesco scenario della vallata settentrionale di Deir el-Baḥrī. Sono tre terrazze, decrescenti nel livello e nella larghezza, riunite con due dolci rampe. Portici sostenuti da colonne e da pilastri la chiudevano a ovest. Nella terrazza superiore si trovava la sala ipostila che precedeva la cella della divinità. Parte delle sale del culto sono tagliate nella roccia. Un viale di sfingi conduceva al pilone, oggi distrutto. I templi rupestri, sprofondati nella montagna furono preferiti nella XVIII e XIX dinastia. Essi non sono dissimili da quelli all'aperto, se si eccettui qualche speciale variante dovuta all'ambiente.

Poco o nulla abbiamo dei lavori compiuti dai faraoni tiniti e bubastiti nelle loro capitali. Gli Etiopi, per quel che edificarono in Egitto, non si allontanano dalla precedente tradizione. Più barbari appaiono i templi di Napata, pur salvando la forma. Tra i Persiani solo Dario costruì nella grande oasi il tempio di el-Ḥībah. Le variazioni che si poterono introdurre vennero poi utilizzate nei templi greco-romani, che sono quelli da noi meglio conosciuti. Essi guardavano a mezzogiorno e si allungavano molto verso nord a rettangolo. Il portico della corte s'innesta alla faccia interna del pilone; la cella è isolata nel mezzo di un corridoio e contiene un naos in pietra. L'esempio classico è il santuario del dio Hor ad Edfu. Non lontano dall'edificio principale sta il mammisi, nel quale si credeva che le dee si recassero a partorire; talvolta riproduce il periptero della XVIII dinastia.

Nel più lontano periodo predinastico i cadaveri, avvolti in stuoie, in tele, in pelli, venivano sepolti entro tombe ovoidali scavate nella sabbia, con qualche corredo di oggetti e alimenti deposti accanto. Verso la fine, la sagoma diventa rettangolare e con assi di legno e muretti di mattoni si trattiene la sabbia circostante. Ai piedi del morto si delimita un reparto per le offerte. Un mucchio di pietre riesce a mala pena a preservarlo dalle ingiurie degli animali rapaci o erranti. All'inizio della storia una rozza stele recante scritto il nome, distingueva, almeno per i grandi, le ossa. Nel tempo tinite i sovrani hanno già edifici grandiosi che arieggiano ai castelli dei viventi. Le facciate presentano scanalature verticali e nell'interno c'è una grande sala centrale riservata al defunto e vani diversi destinati alla suppellettile. Solo sotto la II dinastia qualche elemento architettonico è di pietra. Nel periodo menfitico come tombe dei ricchi appaiono le maṣṭabah, così dette dagli Arabi perché somiglianti ai banchi per gli ospiti collocati alla porta delle loro case. Sono costruzioni rettangolari di pietra, con le facce lievemente inclinate. Un pozzo, che si apre nella sommità centrale, comunicava con la camera sotterranea contenente un sarcofago di pietra o di legno. Nell'angolo orientale, una falsaporta di pietra indicava l'ingresso dell'abitazione del morto. Davanti, una tavola di offerte, piatta, pur essa di pietra, serviva a deporre gli alimenti presentati al defunto. Con l'andare del tempo questa semplice pianta si complicò. Accanto alla falsaporta si sviluppò una cappella per il culto; nello spessore del muro venne ricavato un corridoio cieco (in arabo serdāb) per porvi a riparo le statue; nella parte interna vennero disposti varî ambienti riccamente decorati di rilievi. Come più mastabe sovrapposte possono essere considerate le piramidi a scaglioni, quali quelle di Meidūm e di Saqqārah, elevate per i faraoni della III dinastia. La prima vera piramide, espressione di maestà e di potenza, se la costruì Śenfôre a Dahshūr. In un lato si apriva il corridoio che conduceva alla camera del sarcofago. Per il culto v'era uno speciale tempio funerario posto ad oriente: quello di Ṣôser a Saqqārah, e quelli presso le piramidi di el-Gīzah e di Abū Ṣīr, sono gli esempî più completi. A Saqqārah venne trovato di recente anche un tempio per le feste del giubileo reale, che si lascia ravvicinare al tipo classico basilicale. In complesso nel regno antico l'architettura non solo ha risolto il problema di sostituire al legno scarseggiante e al fragile mattone l'eterna costruzione in pietra, ma è divenuta vera arte, disponendo ritmicamente i varî corpi, variandone le proporzioni e l'altezza, offrendo all'occhio la mirabile fuga dei vani, alleggerendo le linee col pilastro scanalato e con la svelta colonna. Nel medio regno i faraoni continuarono a costruirsi piramidi in mattoni a el-Lisht, a Dahshūr, a Illāhūn, male pervenute sino a noi. Caratteristiche quelle dei Mentḥótpe di Deir el-Baḥrī (XI dinastia), collocate sopra due terrazze con portici, che hanno ispirato il costruttore del vicino tempio di Hatšepsówe. Nella stessa età compaiono in provincia gl'ipogei, ossia tombe scavate nella montagna. Un declivio limitato da muri conduceva allo spiazzato all'aria aperta; nella roccia era tagliato un portico con pilastri e colonne; si accedeva a una grande sala e dietro questa era la cappella funeraria; un pozzo scendeva alla camera del sarcofago. Questo tipo di sepoltura ebbe gran voga nella XVIII dinastia e nelle seguenti. Anche i faraoni l'adottarono e la Valle dei re è piena di queste "siringhe" (come le dissero i Greci) ornate di disegni e di testi. Il tempio funerario, in questi casi, divenne indipendente dalla tomba ed elevato nel piano. Del periodo saitico è rimasto poco. A Tebe s'imitarono le costruzioni antecedenti con labirinti di sale e corridoi, quando non si utilizzarono le vecchie; a Saqqārah la tomba, costituita di piccoli blocchi calcari, era una camera a vòlta con le pareti decorate di testi religiosi.

Anche nelle arti minori rifulgono quelle qualità di eleganza, armonia, solidità che si rinvengono nelle maggiori. La ceramica è la prima che si affaccia alla nostra conoscenza, nel Neolitico. A partire da questo periodo sino all'era nostra, varî sono i cambiamenti subiti dalla materia, dalla forma, dalla decorazione; soltanto per il predinastico notiamo più d'un migliaio di tipi. In questo tempo i vasi sono ancora modellati a mano: pure hanno sagoma perfetta, spesso ornati di figure o, foggiati a fantasia, ritraggono donne, uccelli, pesci. Per imbattersi con altri tipi dipinti occorre arrivare alla seconda metà della XVIII dinastia, in cui i recipienti per il vino si adornano sulla pancia di ricchi motivi floreali e hanno magari impresse nel collo la faccia del dio Bês e della dea Hathor.

Dove meglio si estrinsecò il genio artistico fu nei vasi di pietra: i migliori, senza dubbio, vennero confezionati sulla fine del predinastico, veri capolavori di tale industria. Nel tempo storico l'uso delle pietre dure diminuisce e con la XII dinastia ha il sopravvento l'alabastro. Di strana foggia barocca sono i vasi di tal materia rinvenuti nella tomba di Tut‛anḫamôn, commisti a colonnine, a figure di uomini e di animali. Anche nei lavori di selce il predinastico egiziano supera quanto di simile hanno prodotto gli altri popoli. Accanto alle armi finissime, delicatamente ritoccate, si ammirano braccialetti di sorprendente sottigliezza.

La lavorazione del vetro, non soffiato ma tirato in pasta, è testimoniata al principio della XVIII dinastia, per ora. Lo smalto (faenza) risale alla preistoria ed ebbe sempre grande voga. Se ne fecero perle per collane, placchette, amuleti, statuine, scarabei e vasi a foggia di coppa o di bicchiere, spesso a diversi colori. L'industria continuò prospera anche sotto la dominazione araba.

Il legno in antico era meno raro d'oggi in Egitto. Molta parte della suppellettile funeraria, sarcofagi, cofani, poggiacapi, era di tal materia. Già nella V dinastia si hanno cassettine di buon gusto incrostate di smalti, d'avorio, d'ebano. Anche i mobili denotano eleganza e finezza. Quelli del tempo di Amenḥq̂tpe III e IV, scolpiti e dorati, leggieri nella forma, testimoniano una grande abilità tecnica. Allo stesso periodo appartengono numerose ciotole per toletta graziosamente decorate con figure di donne, schiavette nude, animali, opere delicate di cesello.

L'oreficeria ha avuto inizio nel periodo predinastico, ove non mancano grosse perle auree, resti di anelli e di orecchini. Nella I dinastia i braccialetti d'una regina mostrano che si sapeva lavorare e comporre con abilità. Un gruppo magnifico di gioielli è quello di Dahshūr e di Illāhūn (XII dinastia) ove la cornalina, il turchese, il lapislazzuli sono artisticamente applicati all'oro. I diademi e le collane delle principesse, lavorati a filo e a grani, sono quanto di più grazioso si possa eseguire.

Meno puri son quelli della regina Ahhótpe nella XVIII dinastia; ma che l'arte non fosse decaduta provano quasi un centinaio di gioielli della tomba di Tut‛anḫamôn, d'insuperabile perfezione e bellezza. Se qualcosa egregia si è anche in seguito fatta in Egitto non può reggere a questo confronto. In argento si lavorò meno, si hanno però cucchiai, coppe, vasi, piatti dalla XVIII dinastia; i migliori vengono da Mende. Eguale suppellettile fu allestita in bronzo e rame dalla I dinastia.

Musica. - Sull'arte musicale egiziana le notizie che possediamo sono assai scarse e molto generiche. Alcuni storici, come Erodoto e Plutarco, accennano a talune cantilene di carattere triste e lamentoso; un retore d'Alessandria ricorda un inno di andamento melismatico, altri infine parla di riferimenti che gli Egizî facevano fra musica e astronomia. Pitagora avrebbe dai sacerdoti egiziani desunto la sua dottrina musicale.

Possedevano gli Egiziani una grafia o un sistema di notazione musicale? I numerosi papiri venuti finora in luce sembrerebbero escluderlo e cosi pure le figurazioni, numerosissime, nelle quali sono frequenti scene di carattere musicale. Appare d'altronde strano che gli artisti egiziani, che hanno rappresentato così spesso figure di suonatori, abbiano sempre evitato di mostrarli in atto di leggere della musica. E tuttavia non sembra possibile che la musica fosse eseguita sempre senza sussidio di notazione.

Le conoscenze che abbiamo della musica egiziana si fondano al più su induzioni che potremmo fare sulle gamme di flauti egizî conservati nei nostri musei, e molti studiosi, a cominciare dal Fétis, hanno tentato siffatto metodo, senza però arrivare a conclusioni precise. Un passo di Platone, nel quale è detto che in Egitto era vietata qualunque innovazione in fatto di musica, ha fatto credere a taluni che una notazione e un sistema dovessero esserci, almeno per l'arte di carattere religioso e dotto, mentre per la musica comune e di carattere popolare non sarebbero occorsi segni grafici.

Ma poiché le induzioni e le supposizioni, allo stato delle conoscenze d'oggi, non possono soddisfare, vale meglio volgere piuttosto l'attenzione a quella parte della musica egiziana della quale si possa parlare con una certa cognizione, cioè, all'organologia. In questo campo le figurazioni conservate nei bassorilievi e le allusioni dei testi geroglifici sono assai copiose e istruttive.

In una civiltà che s'inizia cinquemila anni prima della nostra era e arriva a qualche secolo dopo Cristo si può intanto con una certa approssimazione determinare la comparsa dei varî strumenti musicali.

Prima di tutto apparvero gli strumenti a percussione. È spiegabile come, essendo il ritmo l'elemento primordiale della musica, i più antichi strumenti avessero l'ufficio precipuo di segnarne l'andamento. Del periodo preistorico della civiltà egizia e specialmente della fine di esso ci rimangono pitture vascolari in tinta rossa che rappresentano danzatrici in vario atteggiamento; nei periodi ulteriori queste danzatrici sono accompagnate da suonatori di crotali o sono in atto di suonarli da sé stesse. La forma assunta dal crotalo in queste figurazioni è assai varia. È evidente che il crotalo sostituì la percussione, che inizialmente veniva fatta battendo le mani. Anzi diversi crotali sono in forma di piccole braccia terminate dalle mani. Altri crotali sostituiscono alle mani teste d'animali o di mostri ed è verosimile che queste avessero una significazione magica o simbolica. Questi crotali (che erano sempre appaiati) furono prima di legno, poi d'avorio e infine di metallo e questi ultimi furono adoperati anche dalle milizie. Tutto fa credere che il crotalo fosse di origine libica.

A datare del secondo millennio a. C. troviamo crotali uniti alla base quasi in forma di molle da fuoco, mentre prima i crotali erano tenuti insieme da un nastro. Invece di portare all'estremità figure di mani o teste di animali portavano dei piccoli cembali.

Il sistro, strumento tipico, fu molto usato da questo popolo. Consisteva in una specie di cerchio ellittico che in fori laterali portava infilate asticelle metalliche le quali risuonavano quando lo strumento veniva scosso. Il cerchio era sostenuto da un manico.

Fra gli strumenti a percussione dobbiamo menzionare anche il tamburo che aveva forme assai diverse: o allungate, o circolari, o rettangolari.

Col nome di flauto s'indicano in generale diverse specie di strumenti egizî a fiato: il flauto vero e proprio, il flauto ad ancia doppia e il flauto doppio a tubi paralleli.

Il primo di essi era lungo e sottile e lo si suonava soffiando obliquamente in una delle estremità. Esso ha un'origine molto antica e frequenti sono le sue riproduzioni.

Il flauto ad ancia doppia appare più tardi. Era fatto di canna, e all'estremità il suonatore introduceva una paglia, tagliata nella sua lunghezza, che aveva l'ufficio stesso dell'ancia doppia.

Il flauto doppio a tubi paralleli si componeva di due canne strettamente legate l'una all'altra, ciascuna munita di un'imboccatura propria (ad ancia semplice o battente). Il suonatore, a quanto pare, non produceva due note differenti suonando i due flauti, ma raddoppiava il suono rendendolo più robusto e intenso.

Una varietà del flauto fu il flauto doppio ad angolo. Fu importato dall'Asia e nei monumenti è assai facile ritrovarlo e distinguerlo per l'angolo più o meno accentuato che i due tubi formavano. Mentre i flauti precedenti erano suonati da uomini, i flauti ad angolo erano sempre suonati da donne. Faremo finalmente un accenno alla tromba egiziana usata dalle milizie, di forma semplice, a tubo corto e diritto con un padiglione simile a quello dell'odierna tromba. Essa era per lo più in bronzo e doveva possedere una sonorità stridula e forte.

Gli strumenti a corda presso gli Egiziani furono senza dubbio posteriori a quelli a fiato: ma, se l'esame dei vari esemplari di questi ultimi hanno potuto dare qualche possibilità o offrire qualche supposizione sui suoni che essi rendevano, questo non si è potuto tentare, naturalmente, per gli strumenti a corda e specialmente per le arpe, che furono strumenti d'origine egiziana e certo i più usati. Nelle sculture e nelle pitture le corde sono invisibili. Per i particolari della costruzione dell'arpa egizia, v. arpa. In un periodo che va dal 3000 al 1100 a. C. (antico e medio regno, impero) si possono notare tre diversi modelli di arpe. Le più antiche sono non molto grandi e munite di poche corde; all'estremità un leggiero ingrossamento aveva lo scopo di formare la base con la quale lo strumento poggiava in terra. Le arpe che si usavano durante il periodo del medio regno, erano di modello più grande e la loro base era formata da un sostegno sul quale lo strumento veniva incastrato e tenuto fermo. Tanto per le arpe più antiche quanto per queste ultime l'esecutore stava inginocchiato o accosciato. Nel periodo più recente invece il numero delle corde era molto più grande (da quindici a venti), i modelli più ampî e alti, le decorazioni più accurate e ricche. L'esecutore stava in piedi e appoggiava lo strumento sulla spalla destra. L'arpa ha alla base una cassa armonica assai sviluppata e spesso ornata di sculture. Una varietà era l'arpa piccola, che aveva una leggera incurvatura e veniva appoggiata sulla spalla. La usavano danzatrici e sacerdotesse.

La citara a otto corde fu strumento d'importazione: solamente dopo molti secoli divenne di uso comune, ed era suonata per mezzo di plettri oppure con le dita. Nelle figurazioni egiziane si trovano citare armate fino a diciotto corde; esse erano tenute, per lo più, orizzontalmente.

Durante l'impero si trovano figurazioni di una specie di chitarra dalla cassa stretta e dal manico assai sottile, armata con poche corde non sostenute da cavicchi, ma tese in cima al manico e ornate all'estremità da un fiocco.

Nella stessa epoca appare anche la trigone, o meglio una specie di arpa assomigliante a tale strumento d'origine, con ogni probabilità, assira. Si tratta di due tavole connesse ad angolo retto, da una delle quali, in gradazione, partivano alcune corde ornate all'estremità da fiocchi e fermate nell'altra tavola. In tal modo lo strumento assomigliava a un triangolo.

All'organologia egiziana appartiene infine l'organo idraulico inventato da Ctesibio d'Alessandria due secoli prima della nostra era. Non si deve credere però che fosse un organo in cui per produrre il suono l'acqua agiva direttamente, ma in esso i tubi risuonavano pel fatto che la pressione dell'acqua compieva l'ufficio che hanno i mantici negli organi moderni. Sotto questa pressione, che è sempre costante, l'aria penetrava regolarmente nei tubi.

L'organo idraulico ottenne sino dalla sua apparizione uno straordinario successo. Se ne trova una descrizione anche in Vitruvio. Questi organi servivano a ricreare i banchetti e i festini.

Notizie più larghe circa la storia musicale egizia, che certo avrà avuto importanza degna di quella plurisecolare civiltà, per ora - come s'è detto - non è dato riferire.

Diritto.

Intorno al diritto quasi niente si è potuto stabilire, mancando le leggi; i documenti di per sé sono scarsi e permettono al più pericolose generalizzazioni. È dato tradizionale che esistessero leggi rimontanti sino agli dei e al faraone Mênês; un'iscrizione nella tomba del ministro Rehmirîe (che potrebbe risalire al medio regno) parla di 40 rotoli di pelle che dovevano trovarsi davanti al supremo giudice mentre esercitava le sue funzioni. Non vi sono accenni al loro contenuto.

Nei tempi storici il capo della famiglia è il padre. Di matriarcato non abbiamo tracce; con motivi magici si spiega l'uso di qualificare talvolta col nome materno un individuo. Il titolo "signora della casa" dato alle maritate, potrebbe indicare che la donna metteva su la casa mobiliata. La famiglia, à'béwe (eg. 'bw.t, sem. 'umma) comprende il padre, la madre, i figli, i fratelli, i dipendenti, gli amici, i compagni, le concubine; ossia accanto alla comunità del sangue altri motivi, a noi ignoti, ammettevano a fare parte del nucleo naturale. Il patrimonio familiare sembra essere in molti casi trasmesso al figlio anziano, chiamato spesso l'erede, il successore, il padrone di tutta la proprietà; ma anche altri figli e fratelli si vedono partecipare ad esso. Anche la moglie eredita e dispone poi a suo piacere. Nelle famiglie principesche del medio regno la successione segue il ramo femminile.

La posizione giuridica degli schiavi non è chiara. Nelle famiglie sono limitati; i santuarî e lo stato ne posseggono molti. Spesso, ma non sempre, sono stranieri specialmente prigionieri di guerra; non si esclude che Egiziani miserabili si vendessero (come è attestato per il sec. VI a. C.). Si bollavano in segno di proprietà. La morale imponeva che fossero trattati umanamente.

Giudice supremo era il faraone, i cui poteri venivano devoluti al ministro. Il giudizio pei reati maggiori spettava a lui; per piccole colpe i capi di villaggio decidevano e punivano. A Tebe, a Menfi, a Eliopoli, esistevano corti permanenti, composte di funzionari di varia specie. Non v'erano avvocati, ma i membri discutevano. Il denunziante sporgeva per iscritto la sua denunzia contro l'accusato. Ordinariamente bastavano i testimoni; ma anche i giudici facevano indagini suppletive. Il giuramento era prestato sulla vita del sovrano; gli spergiuri si punivano con le bastonate, oppure con il taglio del piede o della mano. Anche la tortura sino alla confessione veniva ammessa. Punizioni erano la bastonata, il taglio di una parte del corpo (orecchio o naso), il confino nelle oasi o in fortezza. La pena di morte s'infliggeva per impiccagione, per impalamento, per strangolamento, per decapitazione, per rogo.

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L'Egitto ellenistico-romano.

Storia. - Nel 332 a. C., dopo la capitolazione di Tiro, Alessandro Magno poté marciare verso la valle del Nilo con un esercito forte di circa 40.000 uomini e facilmente conquistarla. Egli fu salutato dagli Egiziani come un liberatore, poiché essi molto avevano sofferto e soffrivano per l'insultante e vessatorio dominio persiano. Con l'impresa d'Alessandro s'inizia per la valle del Nilo quel periodo della sua storia che potremmo caratterizzare come greco e la cui durata, non restringendo la definizione alla nazionalità dei dominatori politici, può esser calcolata, in cifra tonda, a un millennio: dal 332 a. C. al 639 d. C. Ma questi mille anni sono da suddividere in tre differenti età: la tolemaica sino al 30 a. C., quando Ottaviano annesse l'Egitto a Roma; l'età romana in senso stretto dal 30 a. C. fino a Diocleziano (284) e l'età bizantina, dal 284 alla conquista araba (639).

L'età tolemaica. - Due opposte concezioni sono attribuite dagli storici ai Tolomei, come direttive della loro politica. Secondo alcuni lo scopo precipuo del governo era di cavare dal paese quante più ricchezze fosse possibile, per poter mantener così un esercito e una flotta tanto forti da permettere ai regnanti di esercitare un incontrastabile predominio nella politica internazionale del Mediterraneo; l'Egitto non sarebbe stato che uno strumento per una politica i cui movimenti e le cui finalità erano fuori di esso, per un imperialismo invadente e aggressivo, rivolto a creare una potenza mondiale macedonico-ellenica. Secondo altri, invece, scopo precipuo dei Tolomei sarebbe stata la creazione di un regno forte, indipendente, al riparo d'ogni tentativo di sopraffazione nemica; il predominio del mare, il controllo delle vie marittime che all'Egitto conducono, non sarebbero stati che una necessità per garantire siffatta indipendenza e la sicurezza dei liberi commerci con l'estero; un imperialismo, dunque, difensivo e di carattere economico, strumento della prosperità dello stato egiziano. Secondo noi la politica dei Tolomei non fu tanto lo svolgimento di un programma fisso, preparato da lunga mano e applicato con logica rigorosa, quanto piuttosto un'azione mutevole, volta a volta mossa e determinata in parte dalla volontà propria, in parte anche maggiore dalle circostanze della politica degli altri paesi confinanti o rivali, e dallo stato d'animo dei sudditi. Non bisogna dimenticare che la valle del Nilo, sotto la nuova dinastia, costituisce qualcosa di ibrido e d'infinitamente complesso; non più uno stato esclusivamente egiziano, indipendente o soggetto a una potenza straniera, ma uno stato greco-egizio, uno stato ellenistico, inevitabilmente condotto a non isolarsi in una politica africana, ma costretto a mescolarsi anche in quella che gravitava intorno all'Egeo e al Mediterraneo. Tuttavia in questo nuovo organismo l'elemento Egitto è tutt'altro che accessorio; esso costituisce, per contro, il nucleo centrale del nuovo regno e degl'interessi dei governanti.

Alessandro Magno non trattò l'Egitto come un paese di conquista ma, pure preordinandone una salda organizzazione come provincia dell'impero che andava creando, seguì verso gl'indigeni una politica di conciliazione e d'avvicinamento. L'amministrazione e il controllo finanziario furono affidati a un greco, Cleomene di Naucratis, con l'incarico speciale di provvedere al rapido progredire della città nuovamente creata, Alessandria (v.); il potere militare l'ebbero due generali dell'esercito d'occupazione, ma a capo dei nomi furono lasciati nomarchi indigeni, Doloaspis e Petesis, e da indigeni furono pure occupati i posti inferiori. Non vi è dubbio che già vivo Alessandro l'effettivo potere s'era andato accentrando nelle mani del solo Cleomene. Anche quando nel 323, dopo la morte del conquistatore, il generale Tolomeo figlio di Lago, riuscì a farsi assegnare come satrapia l'Egitto, egli non si allontanò troppo dalla politica del grande Macedone. Un cambiamento notevole s'andò verificando a mano a mano che Alessandria assumeva l'aspetto e la funzione di nuova capitale, e l'attenzione di Tolomeo era attratta verso gli avvenimenti che si svolgevano nel Mediterraneo ed egli vi partecipava; a mano a mano, soprattutto, che attorno all'esercito d'occupazione cresceva il numero dei Greci venuti a stabilirsi nel paese. Per circa vent'anni il satrapo dell'Egitto non governò in nome proprio, ma in quello dell'autorità centrale, cercando tuttavia di rassodare la propria posizione: sbarazzandosi, per es., di Cleomene e creando una flotta e un esercito tanto forti da assicurargli l'indipendenza e da permettergli di far fronte ad ogni eventualità. Nel 321 la disastrosa spedizione di Perdicca contro l'Egitto lo liberò dal più temibile antagonista e trasformò la sua revocabile investitura in un diritto di conquista. Egli seppe quindi accoppiare grande prudenza e abilità negli eventi successivi, riuscendo a formarsi un vasto dominio marittimo nell'Egeo. Tuttavia, nel 306, una formidabile sconfitta inflittagli da Demetrio, figlio di Antigono Monoftalmo, a Salamina di Cipro, fece crollare il vasto edificio. Antigono e Demetrio furono proclamati βασιλεῖς. Lo stesso titolo non tardarono ad assumere i satrapi Seleuco e Cassandro. Nel 305 anche Tolomeo, ritirato in Egitto e già dal 321 indipendente di fatto, seguendo l'esempio degli altri diadochi, assunse ufficialmente il titolo di re, cominciando peraltro a computare gli anni della sua sovranità dal 324-23. Si compiva così in diritto e in fatto lo smembramento dell'impero d'Alessandro, e Tolomeo figlio di Lago fondava la dinastia tolemaica o dei Lagidi (v.; salendo al trono i successori assunsero tutti il nome Tolomeo, presto accompagnato dal cognome - Evergete, Filopatore, Sotere, ecc. - col quale erano venerati nel culto ufficiale), dinastia che si spense quasi esattamente tre secoli dopo, alla morte di Cleopatra VII. Fino al 301 le lotte fra i diadochi determinarono frequenti rovesciamenti di situazioni e mutamenti nei possessi territoriali, ma nessuna vicenda riuscì a mettere in pericolo la sicurezza di Tolomeo nella ricca e popolosa valle del Nilo. Fu probabilmente durante la lotta a cui egli fu costretto contro Antigono e Demetrio che i Rodî gli decretarono il cognome col quale fu poi venerato nel culto, di Sotere "Salvatore". Quando nel 301, dopo la battaglia di Ipso, si creò nel mondo ellenistico una specie di equilibrio, egli poté rientrare in possesso della Cirenaica e di Cipro e della Celesiria, che divenne peraltro il pomo della discordia quasi incessante tra la sua dinastia e quella dei Seleucidi. Nel 287 il re d'Egitto riusciva ad affermare ed estendere il suo protettorato sulle Cicladi. I suoi due primi successori aggiunsero altre conquiste sulle coste dell'Asia Minore e perfino in Tracia e nell'Ellesponto, ma se questo dimostra che essi tenevano in gran conto il predominio del Mediterraneo Orientale, non bisogna dimenticare che già Tolomeo II ha spinto i confini dell'Egitto a sud, oltre la prima cateratta, verso la Nubia, e che ha fondato molte fattorie sulle coste africane d'oriente, fino al Capo Guardafui. Nel 285 il fondatore della dinastia, preoccupato di assicurarne la stabilità, associò al trono il figlio natogli da Berenice (I) nel 308, a Cos, durante la spedizione nelle Cicladi. Morì lasciando al suo successore il regno più unito, più saldo e meglio governato che fosse sorto dalle rovine dell'impero d'Alessandro.

Il successore del primo Lagide, che ebbe pure un lunghissimo regno di 38 anni, è conosciuto con l'epiteto di Filadelfo, titolo invero spettante alla sorella Arsinoe II (v.) che ebbe parte notevolissima nelle faccende del regno e ch'egli sposò dopo aver ripudiato la prima moglie, ma potrebbe a ragione essere chiamato il Magnifico per l'impulso dato allo sviluppo edilizio della nuova capitale, alle arti, alle scienze, alle lettere, alle esplorazioni geografiche e commerciali, per la straordinaria passione ch'ebbe di organizzare grandiosi giuochi e fastose cerimonie. Né vanno d'altro lato taciuti la bonifica dell'Arsinoite (oasi di el-Fayyūm) e le strade aperte attraverso il deserto orientale, o il ripreso scavo del canale costruito da Neco e riattivato da Dario, tra l'apice del Delta e l'attuale golfo di Suez. Egli seppe inoltre condurre a un alto grado di splendore le istituzioni create da suo padre, prime fra tutte, il Museo e la Biblioteca (v. alessandria; cui si rimanda anche per l'arte nel periodo alessandrino). Gli avvenimenti militari più notevoli svoltisi durante il suo regno furono la guerra contro il fratellastro Magas, proclamatosi indipendente a Cirene (274), e la successiva guerra contro i Seleucidi. Entrambe si chiusero in suo favore. La Siria, la Caria e Mileto furono perduti per Antioco. Dopo la morte della sorella e moglie Arsinoe II nel 271-70, Tolomeo II non perseguì con lungimirante energia la politica d'alleanza con gli Ateniesi e gli altri Elleni, e la sua inazione fu causa che Atene cadesse in potere di Antigono. Questi fece poi subire alla flotta egiziana una grave sconfitta vicino a Cos, che però non scosse gravemente la potenza dell'Egitto. Con Cirene la controversia fu chiusa stabilendo che la piccola principessa Berenice sarebbe divenuta la sposa del principe ereditario d'Egitto. Anche la seconda guerra siriaca, provocata da Antioco II, succeduto al padre nel 261, si chiuse con un matrimonio (252). La figlia di Tolomeo II, Berenice, andò sposa ad Antioco, il quale ripudiò a tale scopo la prima moglie. Ma la pace tra le due dinastie non fu duratura. Infatti Tolomeo III Evergete che successe al padre nel 247, ricongiunta la Cirenaica all'Egitto per il matrimonio con la figlia di Magas, Berenice II (v.), quasi subito mosse contro la Siria per vendicare la sorella che la ripudiata prima moglie di Antioco, Laodice, aveva scacciato dal trono e fatta assassinare. Il risultato dell'impresa fu eccellente. Egli avrebbe potuto facilmente occupare tutto l'impero seleucidico se non fosse stato richiamato in Egitto da una rivolta dell'elemento indigeno. Le condizioni interne della dinastia seleucidica, data la lotta fraterna durata parecchi anni tra Seleuco II ed Antioco Ierace, consentirono a Tolomeo III di respingere i tentativi di rivincita (240) e di attendere alle opere di pace: edificazione e restauro di santuarî dedicati tanto a divinità elleniche quanto alle indigene, in Alessandria, a Canopo, lungo la valle del Nilo: a Edfu, a Tebe e altrove fino ad Assuan; provvedimenti in favore dei suoi veterani e lavori agricoli e persino, precedendo di oltre due secoli Giulio Cesare, la riforma del calendario egiziano. I 25 anni di regno di questo sovrano, guerriero coraggioso ma amante della pace e rispettoso dei trattati, segnano il più alto grado di potenza, di prosperità e di splendore raggiunto dall'Egitto ellenistico.

Un periodo assai meno brillante, anzi di vera decadenza s'inizia col figlio e successore Tolomeo IV Filopatore (221). La potenza all'estero comincia a diminuire; il governo si va indebolendo all'interno e inoltre i conflitti dinastici cominciano a dividere il paese in due campi avversi. Questo re, più propenso per natura agli ozî letterarî, alle feste e ai piaceri dei sensi che non alle cure del potere, circondato da depravati e furbi consiglieri, non tardò a macchiarsi dell'uccisione del fratello Magas preferito dall'energica madre Berenice II di Cirene, ch'egli fece pure o lasciò assassinare. Un tentativo di ribellione degli Alessandrini, capitanato dall'esule Cleomene, re di Sparta, vinto da Antigono e accolto ospite in Egitto da Tolomeo III che aveva promesso di rimetterlo sul trono, tentativo iniziato mentre la corte era in gita di piacere a Canopo, fu presto soffocato nel sangue (219). La quasi inevitabile guerra con la Siria pareva volgere a male, tanto che dopo due sconfitte, Tolomeo Filopatore (o meglio i suoi consiglieri Sosibio e Agatocle) s'indusse a creare accanto all'esercito greco-macedonico un corpo combattente di soldati egiziani forte di circa 20.000 uomini. Egli stesso si pose a capo dell'esercito guidando l'ala sinistra, secondato dalla sorella Arsinoe III che si mostrò fedele ed eroica incitatrice dei soldati sul campo di battaglia a Rafia (22 giugno). La vittoria fu splendida e decisiva. Ma le truppe egiziane se ne attribuirono il maggior merito e ciò contribuì a rafforzare in sempre più vasta misura il nazionalismo degl'indigeni. Se già sotto Tolomeo III una grave rivolta era scoppiata nell'Alto Egitto, nel 216 le ribellioni cominciarono a farsi sempre più frequenti e più gravi, e quanto più il governo di Tolomeo IV si mostrava debole e faceva concessioni, tanto più esigenti si facevano gli Egiziani, che forzavano a mano a mano la dinastia ad assumere un carattere sempre maggiormente egiziano, ad ammettere nelle cariche e negli onori un crescente numero d'indigeni e a rendere meno esclusivo, a vantaggio degli stranieri occupanti, lo sfruttamento delle ricchezze del paese. La gravità di tale situazione per l'avvenire della dinastia non preoccupava troppo l'esteta coronato, vanitoso di successi teatrali e letterarî, adoratore d'Omero, costruttore di navi da diporto sontuose come palazzi galleggianti (il famoso ϑαλαμηγόν) e soprattutto fanatico del culto dionisiaco. Questo fanatismo, se lo spinse a favorire i riti orgiastici non lo indusse però a trascurare la religione indigena, poiché egli eresse molti santuarî, sforzandosi di sviluppare e rafforzare il culto dinastico. Forse ciò avvenne nel breve periodo in cui la sorella Arsinoe, divenuta regina, lo tenne sotto la sua, pur troppo effimera, influenza. Assai presto egli ricadde sotto il dominio di cortigiane intriganti e senza scrupoli. Nel 204-203 Filopatore morì lasciando il trono al figlio Tolomeo V Epifane, e la camarilla che l'aveva dominato tentò di continuare a spadroneggiare, sopprimendo la regina Arsinoe, ma non tardò molto a essere spazzata via da una ribellione degli Alessandrini (202).

Il nuovo reggente Tlepolemo non si rivelò molto migliore di coloro che l'avevano preceduto. Intorno a questo tempo si andarono facendo più intimi i rapporti con Roma, vittoriosa di Annibale, e un'ambasceria guidata da M. Emilio Lepido giunse in Alessandria assumendo quasi la tutela del re. Durante la minore età del figlioletto erede gl'indigeni suscitarono torbidi sempre più frequenti e minacciosi, mentre l'elemento ellenico andava perdendo coscienza della propria forza e quindi lo stato appariva sempre meno peculiarmente greco. Soltanto nell'ottavo anno di regno di Tolomeo Epifane fu potuta domare la rivolta di Licopoli, nel nomo Busirite, centro principale dei rivoltosi che si erano organizzati sotto dinasti indigeni; né il movimento nazionalista fu con ciò interamente debellato. Anche più decisivi furono i successi dei rivoltosi nell'Alto Egitto, dove si ha traccia di due faraoni che tra il 207-06 e il 186 avrebbero regnato nella Tebaide. Per ovviare ai gravi pericoli fu creato un alto comando militare per questa parte del regno (epistrategia) e fu estesa la concessione di dignità e titoli di corte anche a funzionarî greco-macedoni che alla corte non prestavano servizio, ma contemporaneamente il re, divenuto maggiorenne, si fece o si lasciò incoronare a Menfi (27 marzo 196) con le forme del rito egiziano e proclamò una generale amnistia. La famosa pietra di Rosetta documenta sì la riconoscenza del sacerdozio egiziano, ma soprattutto dimostra quanto ormai fossero indebolite la politica della dinastia e la già prevalente posizione dei Greci. Tolomeo V assumeva il carattere di un faraone nazionale. Anch'egli ebbe da combattere contro nemici esterni e dovette sostenere con la Siria una guerra per lungo tempo disastrosa. Questa si chiuse con un'alleanza tra le due corti; il re d'Egitto sposò la figlia d'Antioco il Grande, Cleopatra I. È assai discussa la pretesa dei Lagidi secondo la quale Cleopatra avrebbe portato in dote la tanto contrastata provincia, la Celesiria (inverno 193-92), dove senza dubbio continuò l'amministrazione dei Seleucidi; forse Antioco aveva promesso soltanto di cedere una parte dei tributi che ne ricavava. Nonostante così gravi difficoltà, Tolomeo Epifane non perdette di vista gl'interessi che legavano l'Egitto al Mediterraneo e cercò di stringere i legami con gli Achei. Questa politica non ebbe il tempo di dare i suoi frutti. Nel 181 il re improvvisamente morì, lasciando erede un fanciullo di circa sei anni, Tolomeo VI Filometore.

Questi cominciò a regnare sotto la tutela della madre. La regina, pur assumendo la difesa dell'Egitto di cui era divenuta sovrana, anche contro la sua patria d'origine, riuscì a mantenere l'Egitto in pace, ma d'altra parte la sua reggenza fu d'assai breve durata: Cleopatra I Sira non tardò a seguire il marito nella tomba. La direzione degli affari fu assunta da due ministri, Euleus e Leneo, entrambi di origine barbara ed ex-schiavi. Anche sotto Filometore il possesso della Celesiria, della Fenicia e della Palestina provocò una nuova guerra. Durante lo svolgersi di questa, per la prima volta dopo Alessandro, l'Egitto subì un'invasione nemica. Antioco IV (v.), penetrato con un'astuzia a Pelusio, s'impadronì di Menfi e strinse d'assedio Alessandria, ma dové abbandonare l'impresa (169) prima di averla espugnata. Egli evacuò l'Egitto nella speranza di permanenti discordie tra Filometore e il fratello minore, Tolomeo VII Evergete II, nel frattempo proclamato re dagli Alessandrini. Invece, e probabilmente per opera dell'energica sorella d'entrambi e moglie di Filometore, Cleopatra II, i due fratelli s'unirono contro il comune nemico, iniziando il sistema della sovranità collettiva o correggenza a due o anche a tre, sistema divenuto di poi molto frequente, certo non con vantaggio della forza morale e politica dello stato. Antioco invase di nuovo l'Egitto e la sua flotta occupò Cipro. Soltanto l'intervento diretto di Roma riuscì a ottenere ch'egli s'inducesse a rinunciare all'impresa (168). Peraltro, com'era prevedibile, le risorte inquietudini dei nazionalisti egiziani furono presto favorite dalle gravissime discordie che non tardarono a sorgere tra i due fratelli, l'uno e l'altro costretti a sempre nuove concessioni. Filometore, detronizzato dagli Alessandrini a profitto del fratello, si rivolse al Senato romano. Da quando già sotto il secondo Tolomeo (273) l'Egitto aveva preso contatto di amichevoli rapporti con Roma, i legami con questa, s'erano andati facendo più intimi e avevano assunto, come si è visto, un carattere di particolare protezione durante la minorità di Epifane e, soprattutto, nella recente invasione siriaca. Il passo compiuto da Filometore doveva legare ancor più l'avvenire dell'Egitto al destino d'espansione dell'influenza e, più tardi, del dominio di Roma nell'Oriente. Per l'intromissione del Senato, Filometore, venuto a Roma, riebbe l'Egitto. Durante questa nuova fase del regno la regina comincia a essere ufficialmente associata al potere nelle formule protocollari. A Evergete era stata assegnata la Cirenaica (163), ma poiché egli aspirava anche a Cipro intrigò a sua volta a Roma, per guadagnare il Senato in suo favore; ma non riuscì nel suo tentativo, durato lunghi anni, perché Filometore trovò un potente alleato in Catone (153).

Quando nel 145 Filometore perì in Siria, Evergete, dopo il breve effimero regno d'un Eupatore, poté riunire di nuovo sotto un solo scettro l'Egitto, la Cirenaica e Cipro. Egli sposò la vedova regina che era anche sua sorella, ma presto se ne stancò per la giovine figlia di lei, Cleopatra III. Non tutti i provvedimenti presi da questo sovrano, soprannominato, per la corpulenza, Fiscone, giustificano la fama di mostro e di pazzoide (Κακεργέτης) decretatagli dalla tradizione e molti anzi rivelano una politica saggia e prudente; ma senza dubbio egli fu crudele e strano tanto che gli Alessandrini, ribellatisi, lo costrinsero, nel 131, a fuggire. Cleopatra II regnò sola per breve tempo, e quando Evergete di lì a poco rientrò nella capitale col favore dei suoi partigiani, toccò a lei di cercar rifugio nella Siria. Il re mori nel 116 lasciando per testamento la Cirenaica al figlio bastardo Tolomeo Apione (il quale venti anni dopo la lasciò in eredità ai Romani) e l'Egitto alla nipote-moglie Cleopatra III a cui riservò la libertà di scegliere come associato al trono quello dei due figli che avesse preferito.

Costretta dagli Alessandrini a far tacere le proprie preferenze per il cadetto Tolomeo IX Alessandro I e a chiamare sul trono il maggiore Tolomeo VIII soprannominato Lathyros, che detestava, lo costrinse a ripudiare Cleopatra (IV) ch'egli amava, e a sposare l'altra sorella Cleopatra V Selene. È facile intuire come s'andassero così accumulando le cause di torbidi e di confusione e d'instabilità del potere. Poco dopo troviamo Lathyros esiliato a Cipro e il fratello Alessandro regnante in Egitto; questi profanava la tomba del Grande Macedone, e inoltre assassinava la madre. Tanto divenne odioso e insopportabile che fu detronizzato e massacrato. Lathyros ritornò allora in Alessandria (88-80), ma subito dové domare una rivolta nell'Alto Egitto e ciò fece con tale crudeltà che Tebe venne distrutta e ridotta a sparsi villaggi. L'Egitto è ormai così esausto che non ha, si può dire, una politica sua, e s'avvia a subire sempre più l'influenza e il predominio di Roma. La figlia di Lathyros, Berenice III fu presto uccisa dal marito e cugino Tolomeo X Alessandro II, e quando questi fu massacrato durante la rivolta che seguì al misfatto, pervenne al trono un bastardo di Lathyros, Tolomeo Aulete.

Tra gli avvenimenti di carattere non politico verificatisi sotto il regno di Tolomeo XI Aulete, va ricordata la scoperta fatta nel 72 da un marinaio, Ippalos, dei monsoni. Aulete cercò l'amicizia dei Romani e riuscì a esserne riconosciuto come alleato, alleato peraltro così poco autorevole che, quando nel 58 Clodio fece decretare l'annessione di Cipro, egli non sollevò alcuna opposizione e protesta. Allora gli Alessandrini lo detronizzarono. Aulete trovò protezione a Roma e più tardi rifugio a Efeso di dove, con l'aiuto di Pompeo, poté agire su Gabinio, governatore della Siria, che lo pose di nuovo sul trono. Aulete mori nel 51, lasciando la corona al figlio Tolomeo XII che aveva tredici anni e alla sorella e sposa di lui che ne aveva 17.

Insofferente della predominante personalità di Cleopatra, Tolomeo XII s'era rifugiato presso le tribù arabe dell'est e stava riunendo un esercito a Pelusio per cacciarla d'Alessandria e impadronirsi del potere, quando si presentò a lui Pompeo per chiedergli ospitalità e aiuti: fu invece assassinato a tradimento. Cesare riconciliò la coppia reale, ma, mentre Cleopatra, compresa inutile e vana ogni resistenza, cercò di salvare sé stessa e il paese ricorrendo alle arti della seduzione, il giovine re si pose a capo del partito dell'opposizione, provocando quella guerra alessandrina (48-47) che fece correre gravi rischi al futuro padrone del mondo. Tuttavia la vittoria arrise finalmente a Cesare e Tolomeo XII trovò la morte in combattimento. Cleopatra, pur rimanendo la vera sovrana, ebbe allora per sposo il più giovane fratello Tolomeo XIII, ch'essa non tardò, del resto, a fare scomparire. La regina, che governava (v. Cleopatra VII) sotto la protezione di Cesare e delle legioni da lui lasciate, formò forse ambiziosi sogni di dominio universale, quando il dittatore l'ebbe chiamata presso di sé a Roma. Gli eventi delle idi di marzo del 44 crearono nuove incertezze e più gravi pericoli. Tuttavia le arti di Cleopatra riuscirono in misura anche maggiore col triumviro Antonio. Cleopatra poté conservare l'Egitto, dove Cesarione, figlio suo e di Cesare, fu riconosciuto come re, e anzi allargarne i possedimenti con l'annessione della Fenicia, della Siria, di una parte della Cilicia, e dell'Arabia Nabatea. Si ha ragione di credere che Cleopatra fosse riuscita ad attrarre nel suo sogno di un impero orientale a carattere federativo con Alessandria capitale, il compagno della "vita inimitabile". Cleopatra associata con Antonio, re e dio, fu proclamata regina delle regine, e vari regni in paesi conquistati o da conquistare (come la Partia) furono distribuiti ai loro figli; ma Ottaviano si decise a fare accusare il collega dinanzi al Senato. Alla destituzione di Antonio seguì la dichiarazione di guerra, rivolta alla regina d'Egitto. La battaglia d'Azio determinò la fine della dinastia tolemaica. L'Egitto divenne un possedimento romano con una sua particolare organizzazione (30 a. C.).

Questo evento chiude per diciannove secoli e mezzo la storia dell'Egitto come stato sovrano, sia pure con una dinastia di origine straniera. Veramente non soltanto la dinastia era straniera, poiché la conquista portò seco l'immissione nel territorio egiziano d'una considerevole percentuale di nuovi abitatori immigrati, i quali godevano inoltre una situazione di superiorità e di privilegio in confronto della massa indigena che costituiva l'enorme maggioranza, sei-sette milioni circa di fronte a qualche centinaio di migliaia. Ciò determinò un organismo sui generis assai complesso, in cui l'elemento greco dirigente cercò di esercitare un'azione assimilatrice non senza, peraltro, provocare una reazione da parte dell'elemento indigeno sottoposto, reazione che con l'andare del tempo risolse il conflitto ai danni dell'ellenismo.

Tolomeo I continuò la tradizione dei Faraoni, costituendo una monarchia assoluta. Ma i Tolomei, dato il carattere ibrido del nuovo stato, non potevano senz'altro accettare e applicare gli antichi usi, e la nuova dinastia s'andò stabilendo mediante ingegnosi compromessi tra idee e costumi eterogenei. I primi Tolomei, fino a Epifane, non si sono sottoposti ai riti mistici dell'incoronazione da parte del clero indigeno, ma hanno lasciato che il sacerdozio egiziano considerasse come avvenuta la cerimonia e attribuisse loro tutti i titoli protocollari che questa portava seco. Del pari le altre conseguenze dell'assolutismo, quale era concepito in Oriente, non potevano essere applicate in egual modo nei riguardi dei due principali elementi del nuovo stato. La divinità del sovrano vivente fu subito ammessa dagl'indigeni e il re non contrastò siffatta concezione, anzi intrattenne stretti rapporti col clero indigeno mediante sinodi generali annui, di cui il decreto di Canopo è testimonianza. I Greci e i Macedoni peraltro ammisero il principio della divinità del monarca soltanto a partire da Tolomeo II e dapprima sporadicamente e nelle attenuate forme greche. I Greco-macedoni giunsero a mano a mano al culto del sovrano vivo, attraverso la divinizzazione di Alessandro Magno, fondatore della città, e attraverso quello delle defunte coppie reali: da figli di dei i Tolomei divennero dei essi stessi. E come tali furono da tutti considerati a partire da Tolomeo III Evergete. A ogni modo l'apoteosi egizia dei Lagidi non va confusa col culto ellenistico del sovrano poiché l'una e l'altro hanno forma e portata molto diverse. L'uso dei matrimonî tra fratello e sorella, iniziato da Tolomeo II, rispondeva appieno alle idee degl'indigeni, ma tra i Greci non mancarono, nei primi tempi, denigratori e ironizzatori. La successione era determinata dal principio ereditario e di regola era successore il primogenito del sovrano defunto, ma l'esercito, il più sicuro appoggio della monarchia, interveniva per acclamare e riconoscere il nuovo re. Altra garanzia di stabilità era costituita dagli emigrati ellenici, poiché, nonostante la mitezza della dominazione, gli Egiziani consideravano come intrusi i conquistatori. Di qui la necessità non solo di attrarre in Alessandria e nella valle del Nilo il maggior numero possibile di Elleni, ma anche quella di farne una classe privilegiata, ponendoli ai posti di responsabilità e di direzione.

Nonostante la sua progredita civiltà, il paese era ancora allo stato di economia naturale, e soltanto i Greci potevano organizzarne la trasformazione, che infatti fu ad essi principalmente affidata. La lingua greca fu la sola adoperata negli atti ufficiali; soltanto i decreti che dovevano pervenire a diretta conoscenza degli strati più profondi della popolazione venivano tradotti in demotico. Al re fanno capo tutti i varî rami dell'amministrazione e poiché nessun organismo avrebbe potuto seguire il disbrigo di tutti gli affari, il re amministrava lo stato come proprietà personale o di famiglia, per mezzo di suoi stretti parenti e d'intimi amici, clienti, o servi. Era inevitabile che con questi e da questi agenti personali del sovrano si sviluppasse tutta una cancelleria, tutto un organismo burocratico che non tardò a costituire una vera corte. Questo personale di corte era il più potente di tutto il regno, e per onori e influenza superava anche i più alti funzionari del governo che non ne facevano parte.

I Tolomei erano i padroni di tutto il territorio dell'Egitto e di tutto ciò che racchiudeva. Ma se in principio tutto il paese indigeno, la χώρα, costituisce il patrimonio del sovrano, non tutta la terra coltivabile è terra regia (βασιλικὴ γῆ), sebbene ne comprenda moltissima. Si vedrà appresso nel paragrafo dedicato al diritto, quali fossero i rapporti intercorrenti, circa la terra coltivabile, fra il re e le varie categorie di persone alle quali poteva esser data in concessione. Poiché la principale fonte di ricchezza dell'Egitto ha sempre avuto la sua base nell'agricoltura, i Tolomei per disporre della più grande estensione possibile di terra coltivabile, bonificarono una gran parte del Delta e dell'Arsinoite (el-Fayyūm). Essi posero a capo dei servizî delle acque ingegneri greci, coadiuvati da esperti egiziani, introdussero nuovi alberi da frutto, sfruttarono meglio ed estesero le colture preesistenti (vite e ulivo); accrebbero il patrimonio zootecnico introducendo il cammello (sec. III a. C.), acclimatando molti ibridi e allevando nuove specie di volatili da cortile.

Anche il deserto, con le sue pietre dure, con i suoi marmi colorati, con il suo oro, costituì una fonte di ricchezza. Molti dei prodotti agricoli, come il lino, p. es., e il papiro, per non dire di altre piante, quali l'olivo e la vite, e parecchie pietre e minerali esistenti nel sottosuolo della penisola sinaitica e del deserto orientale, facilitarono lo sviluppo dell'industria: delle industrie tessili in prima linea (lino, cotone, seta, importata questa ultima) favorite dall'invenzione del telaio orizzontale ivi avvenuta, e poi le industrie ceramiche, del vetro, del cuoio, dei profumi e quella importantissima della carta di papiro. Alcune erano direttamente, altre indirettamente, monopolizzate dallo stato. Il movimento commerciale non si limitò sotto i Tolomei a provvedere all'importazione dei prodotti di cui gli abitanti della valle del Nilo potevano avere bisogno, e all'esportazione dei prodotti sovrabbondanti, ma assunse anche la funzione d'intemiediario tra le Indie, l'Arabia e le regioni del Mediterraneo. Perciò nessuna delle vecchie strade commerciali venne abbandonata e molte nuove furono aperte. Oltre alla riattivazione, compiuta da Tolomeo II, del canale tra il ramo orientale del Delta e il golfo di Suez, fu restaurata e ampliata la rete di vie carovaniere tra l'Alto Egitto e il Mar Rosso, dove le strade avevano come sbocco porti come Myos Hormos, Leukos Limen, Berenice, ecc. Le moltiplicate forme di attività, la frequenza e la rapidità degli scambî, il nuovo tipo di economia, che di tutto ciò era a un tempo causa e conseguenza, la presenza di una notevole e predominante minoranza di Greci e di Macedoni, fecero sì che i Tolomei assai presto furono indotti a preoccuparsi di fissare il corso del mezzo circolante. L'unità monetaria era la dramma d'argento; unità maggiori (due, quattro, otto, dieci dramme) furono coniate tanto d'oro quanto d'argento. In un periodo ulteriore rimasero soltanto in circolazione le unità auree di più alto valore e le tetradramme d'argento. Sul diritto delle monete fu nei primi tempi riprodotta, di profilo, la testa di Alessandro Magno, più tardi quella del fondatore della nuova dinastia, o del sovrano regnante o della regina specialmente, e fino alla caduta della dinastia, di Arsinoe Filadelfo; sul rovescio per lo più un'aquila, talora due o, qualche volta, una o due cornucopie; un'iscrizione col nome del re o della regina al genitivo (Πτολεμαίου Βασιλέως 'Αρσινόης Φιλαδέλϕου, ecc.) e nel campo lettere e simboli. Oro e argento non si diffusero largamente nell'interno del paese, dove si preferiva il rame, calcolando che la moneta di rame valesse 1/120 (più tardi 1/300) di quella d'argento. Molte transazioni, tuttavia, si facevano in natura. I sistemi di scambio davano luogo a complicazioni e perciò si rese necessaria l'attività di persone specializzate tanto per le operazioni in natura, quanto per quelle in moneta, l'introduzione di agenti di cambio, cioè della banca e dei banchieri.

I Tolomei conservarono la divisiene del regno in Alto Egitto (Tebaide) e in Basso Egitto, fissandone i confini ai limiti meridionali dell'Ermopolite, tra il 280 e il 270 parallelo, nei pressi dell'odierna Mallawī. La divisione amministrativa era fatta per distretti o nomi, i quali hanno spesso cambiato di confini, di numero e anche di designazione. Per cercar di domare l'indocilità dell'Alto Egitto. la regione della Tebaide fu organizzata, a partire da un certo momento, in un'unica epistrategia. Epistratego era di regola un potente personaggio molto vicino al re e spesso suo parente. I possedimenti esteri, quali la Libia, la Celesiria, Cipro, avevano governatori designati dal re, e da lui dipendenti (strategi): al comando delle isole dell'Arcipelago era di solito un navarco. Alessandria era distinta e separata dal paese, diciamo così, indigeno, dalla chora (χώρα); quasi a specificare questo carattere distintivo il nome della città è spesso accompagnato dalla formula ad Aegyptum. L'autonomia accordata dai Lagidi a Tolemaide, la sola nuova città creata dal fondatore della dinastia nell'Alto Egitto, induce a ritenere che analoga autonomia ebbero anche Alessandria, Naucrati (e forse anche Paraetonium). È ormai certo che sotto gli ultimi e probabilmente sotto tutti i Tolomei, Alessandria possedette (come Tolemaide e Naucrati) un senato, un'assemblea e un consiglio di magistrati esecutivi, oltre quelli resi necessarî dall'autonomia giudiziaria. Queste città furono sottratte alla competenza dei funzionarî del nomo, ed erano divise, come una polis greca, in tribù e demi, ma non poterono esser sottratte a restrizioni in quanto parte integrante d'uno stato monarchico e dipendenti da un sovrano assoluto. Particolarmente nella capitale, residenza del re e della corte, esistevano funzionarî regi che prendevano larga parte nell'amministrazione della città. Ogni nomo aveva un centro religioso e amministrativo nella metropoli e, quando si eccettui il Fayyūm ch'era composto di tre μερίδες, era diviso in villaggi (κῶμαι) e in territorî (τόκοι). A capo del nomo stava uno stratego, con poteri civili e militari, che aveva al suo fianco un nomarca per i lavori pubblici e per i dominî della corona, un segretario o scriba regio; coadiuvati da un epistate per gli affari giudiziarî, da un epimelete e da un tesoriere o economo e inoltre da funzionarî subalterni, interpreti e agoranomi, e inoltre dai capi dei τόκοι (toparchi) e dei villaggi (comarchi) accanto ai quali erano i laocriti o giudici di pace per gl'indigeni, e numerosi anziani.

Greci ed Egiziani dipendono entrambi dal potere del sovrano che può emanare a piacimento leggi e rescritti, ma i Tolomei anche in questo campo seguirono la via dei compromessi, lasciando che gl'indigeni vivessero secondo le loro leggi e costumi tradizionali. Quindi, vi furono due sistemi giudiziarî paralleli, i quali con l'andare del tempo, finirono con l'esercitare qualche influenza l'uno sull'altro. (Per quanto concerne in particolare la giustizia, v. più oltre il paragrafo dedicato al diritto).

Il principio essenziale della politica interna nel regno dei Tolomei, o almeno nel nucleo principale di esso che è costituito dal territorio egiziano, poiché diversa si presenta la situazione nei possedimenti all'estero, fu che ogni suddito poteva esercitare la sua attività e compiere gli obblighi cui era sottoposto, soltanto dentro la comunità originaria di cui faceva parte, comunità che non gli era concesso di abbandonare. Ogni Egiziano apparteneva a un gruppo ed era stabilmente e permanentemente legato ad esso. Solo con tale sistema era possibile un esatto censimento della popolazione e l'applicazione rigorosa del complesso meccanismo delle imposte. I Greci erano, come gli Egiziani, sebbene in modo diverso, alla dipendenza del re e dei suoi funzionarî, ed erano sottoposti a norme che ne limitavano la libertà. Gli abitanti della provincia non potevano trattenersi in Alessandria più di venti giorni. I lavoratori che erano addetti alle aziende regie - gli "agricoltori della corona" nei campi, e i salariati (ὑποτελεῖς) nelle officine di monopolio - erano sottoposti a regole anche più restrittive. Gli schiavi esercitarono un'influenza minima tanto nell'industria quanto nell'agricoltura. Erano, in generale, schiavi domestici e, più spesso, schiave o concubine.

I Tolomei furono maestri nello sfruttare, a profitto dello stato, e, meglio, del monarca che lo impersonava, la ricchezza del suolo e quella creata dall'attività produttiva dei suoi abitanti. Essi crearono per questo un sistema ingegnoso, saldo, compiuto che si rivelò efficacissimo per lo scopo perseguito. A parte le corvées poco o nulla retribuite, a parte le requisizioni e i doni, imposti in determinate circostanze, tasse d'ogni sorta accompagnavano l'autorizzazione a esplicare l'una o l'altra forma di attività, tasse a carattere protezionistico gravavano sul commercio (esistevano perfino dogane interne) e le industrie erano in gran parte, e in vario modo, monopolizzate. In molti casi lo stato lavorava nelle proprie officine le materie prime, facendo poi vendere i prodotti lavorati da speciali concessionarî, in altri casi non gestiva direttamente le officine, ma imponeva che tutta la produzione fosse consegnata allo stato a un prezzo determinato, oppure pretendeva una percentuale, generalmente il quarto, della produzione totale. I capi dei villaggi e i toparchi avevano per principale incarico di presiedere alla riscossione delle imposte: raccolta, trasporto e immagazzinamento dei prodotti del suolo per le tasse pagabili in natura, e all'incasso delle somme dovute in denaro. Essi erano coadiuvati dai capi dei magazzini reali o ϑησαυροί, dai sitologi, per il grano, e dai trapeziti, banchieri semi-ufficiali, e da speciali collettori di singole imposte. Tutte le entrate venivano accentrate nella cassa reale (τὸ βασιλικόν) la cui gestione veniva affidata a un ministro delle finanze, diocete, che aveva una competenza quasi illimitata per far funzionare la macchina burocratica, coadiuvato dall'amministratore della cassa privata, dall'ipodiocete, dall'epistolografo e da impiegati inferiori, tra i quali se ne annoveravano parecchi che possedevano la conoscenza delle due lingue. Questo il sistema, ed è evidente che la considerazione del proprio interesse pose ai Tolomei un limite alle capricciose dissipazioni e alle spese per scopi improduttivi. Che se molte delle ricchezze servivano a soddisfare il lusso del sovrano, o a consolidare la potenza di una dinastia che gli Egiziani subivano e che aveva da difendere possedimenti lontani, è del pari certo che molte ricchezze furono spese per opere di pubblica utilità, per lo sviluppo della cultura, delle arti e delle scienze. Senza dubbio la politica finanziaria ed economica dei Lagidi lasciava ai sudditi, in particolar modo agli Egiziani, troppo piccola parte dei loro redditi, soggetti a sbalorditivi monopolî, controlli o falcidie, ma, poiché era una politica che si sforzava senza posa di aumentare le sorgenti della ricchezza e di rendere più produttive quelle esistenti, il paese finiva col riceverne anch'esso vantaggio, col partecipare, sia pure in iniqua misura, a quella prospera condizione, acquistando nuovo vigore e nuova vitalità.

I Tolomei, contrariamente alla politica di fusione iniziata da Alessandro Magno, tentarono di stabilire una netta separazione tra Greci ed Egiziani. Tale finalità appare soprattutto nell'esclusione di questi ultimi dall'esercito combattente o permanente. In linea generale infatti fino a Tolomeo IV gli Egiziani furono adoperati soltanto come rematori nella flotta. L'esercito era costituito principalmente di Macedoni, i quali non solo formavano la guardia del corpo, ma anche il nucleo centrale delle varie milizie composte di Greci della madrepatria e delle colonie; accanto a questi non scarseggiano Persiani od originarî della Misia, della Pisidia, della Licia, ecc. Tale stato di cose durò fino al 217, quando Tolomeo Filopatore organizzò un corpo di soldati egiziani per servirsene contro Antioco. Così facendo, il re, se provvide all'interesse immediato della dinastia, determinò d'altra parte il risveglio del sentimento nazionale e il conseguente indebolirsi della superiorità ellenica. nel sec. II una "guardia" egiziana, gli ἐκίλεκτον, aveva guarnigione in Alessandria e s'incontrano Egiziani in alti posti militari. Attorno all'esercito in servizio permanente venivano a raggrupparsi, in tempo di guerra, nuovi mercenarî, assoldati sui grandi mercati sempre aperti. Prescindendo dalla guarnigione di Alessandria, composta di Macedoni, v'erano grossi presidî di soldati distribuiti nelle provincie e nelle principali città dell'interno come cleruchi, e che dobbiamo considerare non come veterani, ma come soldati attivi, soggetti in ogni momento a essere mobilitati. L'esercito comprendeva cavalieri e fanti. La cavalleria era distribuita in ipparchie e ἴλαι. Il raggruppamento avveniva secondo il numero di arure di terreno avute in concessione, 100 oppure 70, e nel sec. II anche 30 (cavalieri indigeni); le quattro ipparchie, composte di cavalieri di 70 arure, portano nomi etnici: di Traci, di Tessali, di Misî, di Persiani; ma, se in principio gli appartenenti a quella data ipparchia erano originarî del paese che il nome indicava, più tardi vi furono ammessi individui di diversa appartenenza etnica. La fanteria comprendeva suddivisioni di 1000, 500, 200, 100 e 50 uomini. Accanto agli ufficiali (chiliarchi, pentacosiarchi, ecc.) vi erano ufficiali d'intendenza, scrivani, contabili.

La religione poteva presentare un pericolo di gravi conflitti e d'insuperabili divisioni tra il popolo soggetto e i conquistatori. I Tolomei riuscirono a superare abilmente le gravissime difficoltà, mostrandosi tollerantissimi di fronte alla religione ma altrettanto fermi nell'opporsi a che il clero costituisse, come era avvenuto sotto i faraoni, uno stato nello stato. Molte divinità greche, all'incirca corrispondenti nella loro generica essenza, furono giustapposte alle divinità egiziane, con esse identificate, fuse. Ciò spiega la grande scarsità, nell'Egitto tolemaico, di santuarî dedicati a divinità puramente elleniche, e il fatto che i culti greci di Zeus, di Era, di Posidone, sebbene ufficialmente riconosciuti, non siano tra i più cospicui. L'atto più abile della politica religiosa dei Lagidi fu la creazione di Serapide (v.). Questo nuovo dio divenne il capo supremo del pantheon alessandrino ed esercitò una funzione importantissima come elemento di fusione tra i due popoli, nel campo religioso. A Serapide venne data in moglie Iside (v.): i due dei conquistarono, si può dire, tutto il mondo allora conosciuto. I vecchi dei degl'indigeni furono molto rispettati e onorati, ma non è più il gran sacerdote che amministra i loro beni. Il re detiene l'effettivo potere religioso, divenuto una funzione dello stato monarchico e non un potere parallelo. I sacerdoti potevano riunirsi in assemblee soltanto per decretare nuovi onori al sovrano. Fino a Tolomeo IV ogni anno aveva luogo una riunione generale di tutto il sacerdozio egiziano in Alessandria per celebrare il natalizio del re. Tolomeo V, rinunciando a tale convegno, diede prova di grande debolezza. Invero, anche la politica a carattere preminentemente ellenico, fu svolta e applicata con maggiore o minor vigore secondo la maggiore o minore energia del sovrano regnante, e, soprattutto, secondo la maggiore o minore rassegnazione del sacerdozio indigeno, e il maggiore o minore successo delle rivolte ch'esso apertamente capitanava o nascostamente suscitava. Dopo la batiaglia di Rafia, i Tolomei si mostrarono sempre più arrendevoli anche verso il clero. I Greci accolsero generalmente il culto degli animali; accanto alle divinità preesistenti ne sorsero altre, greco-egizie, sincretistiche, particolari al periodo ellenistico. I sovrani viventi, divinizzati secondo il rito greco, erano ammessi come ούνναοι ϑεοί accanto al dio principale indigeno, venerato in un dato tempio, quando analoga decisione veniva presa dal sacerdozio egiziano. I sacerdoti delle varie divinità e luoghi non costituiscono tanti gruppi isolati e affatto indipendenti, e questa organizzazione in un gruppo unitario, benché non implichi affatto unità d'insegnamento, cioè l'esistenza d'una chiesa egiziana vera e propria, non ha nulla di analogo nel culto greco, ch'era completamente libero. I sacerdoti addetti ai culti egiziani o egittizzati erano distribuiti in tribù o phylai (e dentro le file in cinque classi) con a capo un filarco. Al tempio presiedeva un epistate; veniva quindi l'archiereo, più in basso stavano i profeti gli stolisti (addetti alla vestizione delle immagini divine), i pterofori (portatori di ali), gli ierogrammati (scrivani sacri), i pastofori (portatori di reliquie); inoltre gli addetti al culto dei morti: i taricheuti (imbalsamatori) e i paraschisti (specializzati nell'apertura dei cadaveri da imbalsamare). Il culto monoteistico ebraico, data la presenza di una grande quantità di Israeliti in Alessandria e in Egitto, fin dai primi tempi della dinastia tolemaica, non solo fu tollerato ma fu anche in un certo senso favorito. Contemporaneamente si riscontra la presenza di altri culti orientali, come p. es. quello di Astarte e di Adone.

Dopo la conquista greca una numerosa popolazione emigra in Egitto da ogni parte del mondo ellenico, ma anche da altre regioni, e in modo particolare dalla Palestina. Gli Ebrei hanno formato, fin dal terzo secolo, una colonia considerevolissima in Alessandria, pur essendo sparsi in gruppi notevoli qua e là nell'interno del paese. Per le particolari condizioni della loro indole etnica e per la loro religione essi costituirono sempre un nucleo caratteristico e differenziato. E poiché gli altri parecchi elementi che davano un carattere di città cosmopolita ad Alessandria sono numericamente poco significanti presi ciascuno per sé, un esame dell'evoluzione che gli abitanti dell'Egitto tolemaico subirono, può prendere di mira i due nuclei principali, più direttamente in contatto fra loro e più spinti a esercitare l'uno un'azione sull'altro e a provocare una reazione da parte di questo: i Greci, assai inferiori di numero ma conquistatori, e la massa degli Egiziani conquistati. Moltissimi dei Greci immigrati si stabilivano in Alessandria uniformandosi al diritto civico di essa. Alessandria ebbe un carattere dapprima essenzialmente, di poi prevalentemente ellenico, di un ellenismo, s'intende, man mano trasformato dalle nuove condizioni d'ambiente ma non sopraffatto mai né dagli elementi egiziani che pure su quel carattere s'innestarono, né dal cosmopolitismo che pure diviene un aspetto appariscente del grande centro commerciale (v. alessandria). Nei villaggi dell'interno i Greci cercarono di vivere alla greca, riunendosi in leghe che conservavano o creavano un diritto civico di tipo ellenico. Questi minori raggruppamenti, questi politeumata, si svolsero dapprima attorno alle compagnie territoriali della milizia (cleruchi, ecc.) ma poi se ne distaccarono. Comunità in questo senso sono gli Elleni dell'Arsinoite, del Delta, della Tebaide. Ovunque esiste un nucleo di questi Elleni, esistono un ginnasio e una palestra; né vi mancarono santuarî, almeno in origine, puramente greci, e quartieri, bagni ed edifici di stile greco. Allevati alla greca nel ginnasio e attraverso l'efebia, i giovanetti più istruiti leggevano libri greci, e a questo amore per la letteratura nazionale, radicatosi negli Elleni d'Egitto, dobbiamo il felice caso che siano pervenute sino a noi non solo molte copie di testi già noti ma anche parecchie opere e numerosissimi frammenti di opere ritenute perdute per sempre (v. papirologia). È evidente tuttavia che nelle cittadine e nei villaggi sparsi lungo la valle del Nilo, questi Greci, che costituivano una minoranza di fronte alla massa indigena, erano assai più esposti a subire l'influenza dell'ambiente egiziano di quanto non lo fossero i Greci della capitale. Nella seconda, nella terza, e più nelle successive generazioni, abbondavano i figli nati da madri indigene. In verità, il processo d'ellenizzazione del popolo egiziano non fu mai molto esteso e profondo, mentre assai vasto ed operante fu il processo inverso. Non c'è alcun dubbio che la lingua greca imposta come lingua ufficiale conservò il suo predominio e guadagnò, anzi, in estensione; ma è ugualmente certo che i Greci s'andarono man mano adattando al nuovo ambiente subendo l'influenza delle costumanze, delle idee religiose, delle forme di vivere degl'indigeni. Per tal modo, l'aureola di superiorità che circondava il popolo conquistatore andava svanendo, le distanze si accorciavano e cresceva l'irritazione per i privilegi di cui gli stranieri godevano. Dopo la vittoria di Rafia (217), le insurrezioni divennero sempre più gravi e frequenti costringendo la dinastia a una politica di crescenti arrendevolezze e di concessioni. Questi avvenimenti indussero i Greci a stringersi insieme, al fine di opporsi ai pericoli dell'isolamento in mezzo alla massa degli Egiziani agitati da sentimenti ed aspirazioni nazionaliste, e in verità si può affermare che, sul volgere dal terzo al secondo secolo a. C., dalle varietà molteplici degl'individui e dei gruppi affluiti d'ogni dove, nacque in Egitto l'unità degli Elleni. Ma tuttavia, né le barriere formali, né i propositi di differenziamento per orgoglio di razza poterono arrestare l'opera dell'inevitabile convivenza fianco a fianco, dei mille rapporti quotidiani, e molto meno sospendere la mescolanza del sangue. A partire dal 200 appare con crescente evidenza il formarsi di quello strato di popolazione meticcia, greco-egizia, che costituisce l'elemento caratteristico dell'Egitto negli ultimi due secoli dei Lagidi e durante l'Impero. Quando i Romani divennero i padroni della valle del Nilo, essi si appoggiarono su quella classe di abitanti che si qualificava come greca, ma nessuno avrebbe potuto giurare che quegli Elleni, costituenti come una classe privilegiata intermedia tra i cittadini romani e gli Egiziani, avevano veramente nelle loro vene purissimo sangue greco.

Età romana. - La morte della regina Cleopatra e di Marco Antonio eliminò ogni eventuale difficoltà, immediata o futura, per la definitiva annessione dell'Egitto a Roma. Soppressi Antillo, ch'era figlio di Antonio e di Fulvia, e Cesarione, nato da Cesare e da Cleopatra; spediti ad Ottavia i minori rampolli della "coppia inimitabile", Augusto poté organizzare l'Egitto come una sezione, affatto speciale, del territorio romano. Le più recenti ricerche tendono a dimostrare ch'egli, così facendo, non oltrepassò i poteri costituzionali attribuitigli né violò le norme del diritto pubblico. Invero l'Egitto fu, come altre regioni, espressamente assegnato ad Augusto a nome del popolo romano, per l'organo e con l'autorità del Senato. D'altra parte, il nuovo dominio, contro l'opinione corrente, costituì così poco, nella realtà, un appannaggio personale del princeps, che questi vi esercitò sempre l'imperium a nome del popolo e sempre le rendite ricavate dall'ex-regno tolemaico versò al fisco, considerandole, cioè, come proprietà dello stato (van Groningen). Il regime instaurato in Egitto rappresenterebbe, dunque, una varietà, la più peculiare senza dubbio ma non la sola, nel sistema d'amministrazione, varietà che non intacca e non distrugge la compatta unità dell'impero. In questa provincia - che, a rigor di termini, non sarebbe neppur tale, costituendo un organismo sui generis, alla diretta dipendenza dell'imperatore - il Senato non aveva alcuna ingerenza; anzi i senatori e gli equites illustres non potevano neppure penetrarvi senza uno speciale permesso, assai raramente concesso. Separato così dalle altre provincie dell'Impero, l'Egitto era occupato militarmente da alcune legioni ed amministrato da un governatore di grado equestre, praefectus Alexandreae et Aegypti o, più spesso, semplicemente praefectus Aegypti, luogotenente dell'imperatore che lo nominava e deponeva. In nessun caso poteva lasciare il paese prima dell'arrivo del successore. Nell'eventualità di una vacanza improvvisa, per morte, ad es., veniva nominato un vice-prefetto. All'imperatore erano riservati i più alti onori già attribuiti ai re, ma il prefetto godeva di onori quasi regi. Sia ch'egli avesse ricevuto un imperium come un proconsole nella forma giuridica di una legge (van Groningen, Wenger), sia che tale legge non esistesse (Solazzi), il fatto è ch'egli era a capo del potere tanto militare quanto civile, con la limitazione che alcune decisioni finali dovevano essere sottoposte all'imperatore. Nel complesso, il regime amministrativo interno del paese rimase quello che era sotto i Tolomei, ma non possono essere taciute alcune riforme molto importanti, come, ad es., l'istituzione del conventus. Ogni anno il prefetto, che normalmente risiedeva in Alessandria, doveva, come nelle altre provincie, tenere e presiedere, in stagioni preventivamente fissate, riunioni (in Alessandria, a Pelusio, a Menfi o eventualmente in Arsinoe) per la discussione di determinati processi o per il controllo delle amministrazioni locali. La lingua ufficiale degli atti pubblici rimase la greca, il latino essendo riserbato soltanto ai rapporti con l'esercito d'occupazione.

Per assolvere il lavoro connesso col suo ufficio, il prefetto aveva accanto a sé numerosi collaboratori, scelti, anch'essi, nell'ordine equestre: il iuridicus Aegypti oppure Alexandreae per gli affari giudiziarî; l'idiolŏgus, e più tardi anche il diocetes e il procurator usiacus, per l'amministrazione finanziaria, e una quantità di procuratores (Alexandreae, in Aegypto ad Epistrategiam, marmorum, Neapolis et Mausolaei Alex., ecc.). Tutti questi funzionarî superiori risiedevano in Alessandria che rimase il centro amministrativo di tutto il paese, sebbene avesse una separata organizzazione. I magistrati enumerati da Strabone ed esistenti già nell'età dei re, esegete, archidicasta, ipomnematografo, stratego di notte, non erano in modo esclusivo riservati alla città, ma di essa si occupavano in modo più diretto e speciale. Se Alessandria rimase divisa in tribù e demi, fu privata, da Augusto, del consiglio eletto o senato (βουλή) restituitole soltanto da Settimio Severo. Naucrati, Tolemaide e, dopo Adriano, Antinoe, godevano anch'esse di certi privilegi e di una limitata o piuttosto illusoria autonomia. Infatti non facevano parte delle epistrategie. Durante l'età tolemaica la sola Tebaide era sottoposta a un epistratego con poteri militari; Augusto divise tutto il territorio in tre epistrategie (Tebaide, Eptariomide e Arsinoite, Paese Basso o Delta) con a capo un epistratego, al quale attribuì però solo poteri civili. A grande distanza da questi cavalieri, viene lo stratego, di nomina prefettizia, il quale, privato d'ogni potere militare, si trova alla testa di ogni distretto o nomo, coadiuvato da un segretario o grammateus; a lui sottoposto è il nomarca, col principale compito di esigere le imposte. Le metropoli dei distretti, fino al 202, non ebbero alcuna autonomia; gl'impiegati o ἄρχοντες vi formano un corpo, τό κοινὸν τῶν ἀρχόντων, con una gerarchia ben definita, comprendente sette classi in ordine ascendente.

L'organizzazione data all'Egitto da Augusto rimase in vigore possiamo dire fino a Diocleziano, poiché la restituzione di un consiglio eletto ad Alessandria, e la concessione di esso alle metropoli dei nomi, non la intaccò nella sua essenza. Quali conseguenze l'amministrazione romana ebbe per l'Egitto?

Fino agli ultimissimi tempi si pensava che per lo meno il primo secolo avesse costituito un periodo di rinnovata prosperità, ma ora si va facendo strada una diversa opinione. È innegabile che le mutate condizioni dell'Egitto, dove i nuovi conquistatori non si stabilirono mai in gruppi notevoli e che mai tentarono di latinizzare, limitandosi a occuparlo militarmente, considerandolo soprattutto come granaio di Roma, non potevano alla lunga favorire la prosperità degli abitanti, a danno dei quali cospiravano le gravi imposte, il principio della responsabilità collettiva verso il fisco e non limitata alle sostanze ma estesa alle persone, lo zelo eccessivo di taluni governatori e gli abusi dei funzionarî. Tuttavia, non si deve dimenticare che, se l'annona era esportata dall'Egitto in pura perdita, la popolazione egiziana godeva in compenso i benefici della pace e che gl'imperatori avevano interesse a mantenere produttiva questa fonte di ricchezza. Già sotto il secondo prefetto, Petronio, i canali d'irrigazione furono spurgati e grandi zone di terreno furono restituite all'agricoltura; grandi lavori di pubblica utilità furono fatti eseguire da Augusto e da parecchi successori, fino a Traiano, che ripristinò il canale di comunicazione col Mar Rosso. Nerone, e non fu certo il solo, si preoccupò di migliorare le vecchie vie del commercio con le Indie e di aprirne di nuove; e non di rado gl'imperatori mandarono da Roma aiuti, in casi di carestia. Anche il sistema monetario, il cui titolo rimase costante da Tiberio ad Antonino Pio, mal si concilia con la permanente e crescente crisi economica che si sarebbe iniziata fin dai primi tempi della conquista. La crisi economica, già grave alla fine del sec. II e divenuta man mano quasi disperata, ha certo una delle sue cause nella politica fiscale, sfruttatrice nella sua essenza, ma l'organizzazione di Augusto non avrebbe condotto inevitabilmente a tale rovina, se fosse stata sempre applicata con saggezza e con misura. Anche nell'antichità il fenomeno della prosperità o della decadenza economica non è legato in Egitto a una causa unica, è un fenomeno molto complesso, determinato da cause interne ed esterne. Perciò, non bisogna esagerare, attribuendo un valore universale e assoluto a documenti papiracei, relativi spesso a casi individuali e isolati, per affermare che il paese costantemente decadde fin da quando l'amministrazione romana cominciò a funzionare, e per negare ad Augusto il merito (Milne), che il Rostowtzeff è pur costretto a riconoscergli, di aver restaurato la prosperità economica dell'Egitto.

Quanto alla religione, la tendenza generale della politica romana fu caratterizzata, come quella dei Tolomei, da una grande tolleranza e da un grande spirito di conciliazione verso gli dei indigeni, non disgiunta da grande fermezza per limitare l'influenza economica e politica del clero. Prima cura dei Romani, subito dopo la conquista, fu di togliere ai sacerdoti egiziani tutti quei privilegi e poteri ch'erano venuti riconquistando sotto gli ultimi Tolomei, e di controllarne da vicino l'attività col sottoporre i riti e perfino l'abbigliamento a minute prescrizioni. Nuovi culti, quando si eccettui quello di Osiris Antinoo, non sorsero; quello imperiale, piuttosto cittadino che di stato e nelle forme ellenistiche, ebbe grande estensione e sviluppo. Gli dei greci scomparvero quasi affatto, assorbiti da quelli egiziani e con essi identificati, ma questi dei greco-egizî ebbero grande vitalità: Serapide e Iside acquistarono una rinomanza sempre più grande, e il culto degli animali s'accrebbe in estensione e in significato. Se, nonostante gli sforzi di Roma per tenere separati i Greci e gli Egiziani, andavano crescendo di numero i bastardi o meticci, tanto in senso fisico quanto in senso spirituale, mescolanze e avvicinamenti anche più notevoli avvennero nel campo religioso. Astraendo dagli stadî inferiori della superstizione e della magia, si osserva che le religioni particolari vanno arretrando di fronte a quelle con aspirazioni universali, che superano i confini etnici e portano consolazioni e verità eterne a tutti gli uomini.

Anche in Egitto i Romani applicarono il sistema di signoreggiare vaste regioni e grandi agglomerati umani con poche persone. All'infuori dell'esercito d'occupazione, non molti erano i cittadini romani, commercianti, esattori delle imposte e impiegati nei posti più elevati. Essi rappresentavano l'elemento che nell'età anteriore era stato rappresentato dai Macedoni, e anzi con autorità maggiore. Molto più in basso stavano i Greci e gli Egiziani, ai quali, per molto tempo, venne assai di rado e individualmente accordata la cittadinanza romana, e solo quando fossero già in possesso di quella alessandrina. I Romani si guardavano bene dal mescolarsi con gli abitanti di diversa nazionalità. Nondimeno Greci residenti in Egitto furono ammessi nell'esercito d'occupazione. Questi, quando entravano in servizio nella legione o quando raggiungevano il congedo dalle truppe ausiliarie, ricevevano la cittadinanza. Così, col tempo, si formò un grosso nucleo di Romani d'origine greca, affatto estranei alla razza e alla civiltà latina. I nuovi dominatori s'appoggiarono soprattutto sullo strato di popolazione greca, almeno ufficialmente. Questi Greci erano esentati dalla tassa di capitazione. Essi formavano la loro educazione e cultura, come per l'innanzi, nel ginnasio. Anche sotto il dominio romano gli eruditi d'Egitto continuarono a lavorare e a produrre, pur rimanendo a grande distanza dai dotti del secolo III a. C. Ma se Didimo, per quanto prezioso per noi, non rivela né genialità né vigore scientifico, Origene nelle sue ricerche intorno al testo della Bibbia s'avvicina ai grandi del buon tempo. Né tra le menti creatrici vanno dimenticati Plotino e Nonno, l'ultimo grande epico greco, fiorito sulla fine del sec. IV, entrambi originarî dell'Alto Egitto.

Poiché la cittadinanza alessandrina era la condizione preliminare e come il vestibolo della romana, gli Alessandrini erano pienamente coscienti di questo privilegio e lo facevano valere, non solo di fronte agli Egiziani e agli Ebrei, ma anche nei loro rapporti coi funzionarî romani. Gli Egiziani, che formavano la grandissima maggioranza della popolazione, caddero nella condizione di peregrini dediticii, furono sottoposti alla tassa di capitazione, esclusi dagl'impieghi, tranne che nell'amministrazione dei villaggi, e dall'esercito. Ciò non vuol dire che tra di essi non vi fossero persone ricche, colte, soprattutto tra gli alti sacerdoti. Un elemento considerevole della popolazione era costituito dai liberti e dagli schiavi, fiduciarî del sovrano del mondo e quindi, non in diritto ma di fatto, potenti e temuti. Degli altri gruppi etnici il più importante fu, anche sotto i Romani, l'ebreo. Gli Ebrei rimasero in possesso della loro speciale organizzazione come comunità separata, ma furono sottoposti alla capitazione. Nondimeno la loro prosperità e influenza era tale che i Greci d'Alessandria ne divennero estremamente irritati e gelosi. L'odio reciproco scoppiò spesso in sanguinosi conflitti, uno dei quali ha provocato la famosa lettera dell'imperatore Claudio (v.).

Il più sicuro strumento del dominio romano era l'esercito d'occupazione. Sotto Augusto fu composto di tre legioni (quella destinata ad Alessandria era acquartierata nel sobborgo di Nicopolis [Sīdī Gāber-Muṣṭafà Pascià]) di nove coorti e di tre squadroni di cavalleria, in tutto circa 23.000 uomini. Da Tiberio fino al principio del sec. II le legioni furono ridotte a due. Traiano creò una terza legione egiziana, ma portò fuori dell'Egitto molte milizie che vi stazionavano, per servirsene nella guerra partica. Da Adriano fino a Diocleziano la 2ª legione traianea, rinforzata da truppe ausiliarie, dové bastare all'occupazione e alla difesa del paese.

Non sarebbe concepibile che gli Egiziani, così facili alle rivolte sotto i Tolomei, si fossero acquetati al nuovo stato di cose. Due insurrezioni scoppiarono sotto il primo prefetto Cornelio Gallo, una nel Basso Egitto, e una nella Tebaide, entrambe rapidamente soffocate nel sangue. Cornelio Gallo, probabilmente inebriato dei successi conseguiti, assunse atteggiamenti e linguaggio che indussero Augusto a sospettare del suo lealismo. Richiamato, Gallo preferì il suicidio (26 a. C.). Sotto il successore Petronio, scoppiò una rivolta in Alessandria. Per domarla, il prefetto fu costretto a sguarnire la frontiera meridionale, con la conseguenza che la regina d'Etiopia, Candace, penetrò in Egitto e saccheggiò la Tebaide. Respinta fino alla sua capitale Napata, inviò ambasciatori ad Augusto, dal quale ottenne d'essere esentata dal tributo cui l'aveva costretta Petronio. Il posto più meridionale occupato dai Romani fu stabilito a Hierasykaminos; la regione tra questa località e Siene, chiamata Dodekaschoinos, fu organizzata come frontiera militare fortificata.

Nell'ultima parte del regno d'Augusto e sotto Tiberio, l'Egitto godette d'un periodo di pace esteriore e di tranquillità interna, ma quasi subito dopo l'ascesa al trono di Caligola, scoppiò in Ales. sandria una violenta lotta tra Greci ed Israeliti. La lotta, un momento quietata dopo la destituzione del prefetto Flacco, si riaccese più violenta sotto Claudio e ad essa dobbiamo la già ricordata lettera agli Alessandrini. Pochi anni dopo una missione di protesta capitanata dai Greci Isidoro e Lámpone, si chiuse con la condanna a morte di costoro, considerati perciò nell'opinione degli Alessandrini come martiri nazionalisti. Il regno di Nerone, cui si è debitori, fra l'altro, d'una spedizione alla ricerca delle sorgenti del Nilo e d'intensificati rapporti di commercio con le Indie, costituisce un periodo di prospera calma. Il prefetto Tiberio Giulio Alessandro riconobbe Galba ed Ottone, ma si mostrò ostile a Vitellio. La proclamazione di Vespasiano fu, si può dire, opera sua.

Il nuovo imperatore, che si trovava in Siria, non tardò a venire in Egitto e a visitare Alessandria, dove fu accolto con grandi feste. Ma i rapporti si guastarono presto, tanto grande era l'avarizia del sovrano e tanto pungente la caustica lingua degli Alessandrini, tanto infrenabile la loro riottosità. Soltanto l'intervento di Tito attenuò le conseguenze dell'ira imperiale. Dopo la distruzione di Gerusalemme, i torbidi tra Greci ed Ebrei raddoppiarono e fu allora che venne decisa la chiusura del tempio fatto erigere da Onias a Leontopoli, nel Delta. Traiano ha legato il suo nome anche in Egitto ad opere di pubblica utilità; basti accennare all'Amnis Traianus ed al pronto rimedio contrapposto ad una carestia, mediante l'invio d'una flotta, carica di grano egiziano ch'era immagazzinato a Roma. Si deve a Traiano la costruzione della fortezza di Babylon, sulla riva destra del Nilo, all'apice del Delta. Nuovi atti d'antisemitismo s'intravedono attraverso documenti papiracei del 114; una violentissima sollevazione degli Ebrei scoppiò nel 115, sollevazione degenerata in una vera guerra, durata parecchi mesi e difficilmente domata, col virtuale sterminio dei ribelli, da Marcio Liviano Turbo. Ad Adriano spettò il compito di riparare i danni del disastroso conflitto; e infatti sappiamo ch'egli fece riparare molti edifici in Alessandria e costruirne di nuovi. L'opera di ricostruzione edilizia ed economica fu turbata da una nuova rivolta degli Egiziani, scoppiata a proposito della consacrazione del bue Apis. Nel 130 Adriano visitò l'Egitto con la moglie Sabina e con la sua corte, risalendo il Nilo fino a Luxor e attuando molte buone iniziative ovunque; ma l'atto più notevole congiunto con questo viaggio fu la fondazione di una nuova città di tipo greco per onorare il suo favorito annegatosi nel Nilo (v. antinoo).

Antonino Pio, sebbene in una delle endemiche insurrezioni lo stesso prefetto fosse stato ucciso, visitò Alessandria, dove fece costruire un ippodromo e le porte del Sole e della Luna, alle due estremità della grande via che attraversava tutta la città da oriente ad occidente. Sotto Marco Aurelio una ribellione con carattere nazionalista veramente indigeno scoppiò nella regione paludosa del Delta, abitata da βούκολοι o pastori. Ne fu promotore e capo un prete, Isidoro. Il governatore della Siria Avidio Cassio, accorse e sterminò i ribelli. Un suo tentativo insurrezionale portò alla morte sua e del figlio Meciano ch'era stato posto a capo d'Alessandria (175). L'anno seguente Marco Aurelio visitò l'Egitto mostrandosi generoso, mite e indulgente; ma severe punizioni inflisse a tutti i campioni nazionalisti, anche se mascherati da antisemiti, suo figlio Commodo. Alla morte di Pertinace (193), Pescennio Nigro, che era allora generale in Siria, ma aveva comandato una legione nell'Alto Egitto, acquistandosi molta popolarità tra gl'indigeni, fu proclamato imperatore; ma perì l'anno successivo.

Settimio Severo visitò l'Egitto nell'ottavo anno di regno (200) venendo dalla Palestina per la via di Pelusio. In Alessandria visitò la tomba di Alessandro Magno e fece racchiudere nel sarcofago di vetro, che Tolomeo X aveva sostituito a quello d'oro, una raccolta di manoscritti aventi un contenuto mistico. Fece costruire anche un tempio di Cibele, un ginnasio ed un panteon. Come atto politico di notevole significato va ricordata la restituzione ad Alessandria del consiglio eletto (βουλή) e la concessione fattane a tutte le metropoli dei distretti (202). Caracalla, che aveva accompagnato il padre in questo viaggio, tornò in Egitto 15 anni dopo. La visita fu caratterizzata da un massacro di giovani alessandrini che l'avevano posto in ridicolo, e dall'espulsione di tutti gl'immigrati dall'interno, che non fossero commercianti o non vi si trovassero per plausibili e ben precisati scopi. Con la Constitutio Antoniniana anche i Greci d'Egitto ebbero la cittadinanza romana. Nuovi torbidi si verificarono durante le lotte tra Macrino ed Elagabalo. Alessandro Severo, per quanto schernito col soprannome di "gran sacerdote siriaco", non si vendicò degl'incorreggibili insolenti e visitò la città senza lasciarvi dolorosi ricordi.

Intanto il cristianesimo (delle sue origini in Egitto e per quasi due secoli nulla ci è noto con sicurezza) che aveva acquistato un certo terreno tra i Greci, ma s'era diffuso molto più di quanto non appaia alla superficie, tra gli Egiziani dell'interno, contribuì a trasformare l'aspetto del paese con azione che, nei secoli successivi fino al settimo, divenne sempre più estesa e profonda. Esso dové infatti adattarsi alla lingua dei nuovi proseliti e presentare i libri sacri in egiziano, trascrivendoli coi segni dell'alfabeto greco, essendo morta la scrittura demotica. In verità, la scrittura e la lingua copta maturarono nella traduzione di opere cristiane e al cristianesimo devono tutto. Senza dubbio, di fronte al cristianesimo copto sta il cristianesimo greco, sta la chiesa alessandrina, che è tutta sotto l'influsso della scienza e della filosofia greca. Due correnti si manifestarono da allora in poi nella chiesa d'Egitto, la greca e l'egiziana, le quali fluiscono una accanto all'altra, estranee ed inseparabili e spessissimo in guerra aperta, guerra che è un riflesso dell'insanabile contrasto politico. A poco a poco il paese il cui aspetto poteva già caratterizzarsi come greco, cominciò a diventare ed apparire copto, cioè egiziano. Ma assai prima che ciò avvenisse, già sul finire del sec. II e agl'inizi del III, la nuova religione dava tali segni d'attività da apparire come una non trascurabile minaccia. Dopo di aver attirato l'attenzione ostile di Settimio Severo, ebbe a subire persecuzioni da Massimino e dai suoi successori. Le persecuzioni raggiunsero il loro culmine sotto Decio che contro il cristianesimo mosse il primo attacco generale (v. persecuzioni). Datano da questo tempo le prime fughe nel deserto, di cristiani che vi si recavano a vivere da anacoreti. (Per maggiori particolari sulla chiesa egiziana si rimanda agli articoli alessandria; anacoreti; ario; atanasio; cirillo; clemente alessandrino; copti; cristologia; dioscuro; eutiche; gnosticismo; monachismo; monofisiti).

Durante il regno di Gallieno, il prefetto Emiliano si fece proclamare imperatore dalla soldatesca, e, sebbene altri ambiziosi ne abbiano imitato l'esempio, egli poté prevalere su di essi e godere per due anni il potere. Finalmente Teodoto, legato di Gallieno, sconfisse l'usurpatore e lo fece strangolare in prigione. Alle cause di desolazione si aggiunse, tra il 250-262, una terribile e prolungata pestilenza. Profittando del tentativo d'usurpare il titolo imperiale compiuto da Macriano, che s'era associato i due figli Macriano e Quieto, e sollecitata dal nazionalista egiziano Timagene, Zenobia, regina di Palmira, fece invadere la valle del Nilo da un esercito di 70.000 uomini al comando di Zabdas. Zenobia poté dominare per tre anni in Egitto, fino a che ne fu scacciata sotto Aureliano, nel 272. L'anno seguente, un ricco mercante d'Alessandria, originario di Siria, Firmo, organizzò, d'accordo coi Palmireni e coi Blemmî una nuova insurrezione. Aureliano domò presto la rivolta e, accorso in Alessandria, costrinse alla resa Firmo e i suoi seguaci, asserragliatisi nel Bruchion. Il Bruchion, il Sema d'Alessandro e le tombe dei Tolomei furono in tale occasione incendiati e quasi totalmente distrutti. Aureliano lasciò l'Egitto, affidando a Probo il compito di respingere i Blemmî, ma, prima che questi avesse assolto l'impresa, fu proclamato imperatore dalle proprie soldatesche e riconosciuto dal senato. L'usurpazione di Saturnino obbligò Probo a intervenire ancora una volta nella valle del Nilo.

Età bizantina. - All'avvento di Diocleziano, l'Egitto traversava uno dei suoi, ormai rarissimi, periodi di quiete, ma poco dopo, Lucio Domizio Domiziano, volgarmente conosciuto col nome di Achilleus, insorse e si fece riconoscere dagli Alessandrini come imperatore. Diocleziano venne di persona sui luoghi, assediò per otto mesi la città e finalmente la prese d'assalto, abbandonandola alla devastazione e al saccheggio. Ugual sorte toccò a Copto, a Busiri e ad altre città che avevano appoggiato l'usurpatore. Dato il grande decadimento dell'agricoltura e l'impoverimento generale, l'imperatore ridusse l'annona che ogni anno doveva essere spedita a Roma e decise che la parte ridotta fosse devoluta a sollievo di Alessandria. Diocleziano attuò riforme amministrative e monetarie che investirono anche l'Egitto. Alessandria cessò di coniare una sua speciale moneta, e il paese fu incorporato nella diocesi d'Oriente. Così cessava il regime eccezionale instaurato da Augusto.

Il territorio egizio venne diviso dapprima in 3, poi in 4 provincie: 1. Aegyptus Iovia (Basso Egitto); 2. Aegyptus Herculia (più tardi Arcadia in onore di Arcadio; Medio Egitto), 3. Augustamnica, creata nel 341 con le parti orientali delle due prime; 4. Tebaide; ciascuna sotto un praeses. Le successive riforme poco alterarono questo schema, essendosi ridotte a suddividere in due le preesistenti provincie, meno l'Arcadia. L'esattore sostituì lo stratego, parte delle cui attribuzioni, peraltro, furono trasferite al logistes o curator. Grande cura di Diocleziano fu di separare nettamente il potere civile da quello militare. All'interno di ciascuna di queste provincie Massimino Daza instaurò la divisione in pagi (al posto dei distretti o nomi).

Gravissime furono le persecuzioni cui Diocleziano sottopose i cristiani, tanto che per molti secoli la chiesa copta, per i suoi usi cronologici, adottò l'"Era dei martiri", facendola iniziare dal 284, primo anno dell'imperatore. La storia dell'Egitto fino a Costantino si riassume ormai nelle persecuzioni religiose e nel crescente disordine amministrativo; dopo Costantino (323-337) per circa due secoli, in una serie di conflitti feroci tra i cristiani delle varie sette, alternati con persecuzioni comuni durante i periodi di reazione pagana (Giuliano) e in una serie di lotte spesso sanguinose tra patriarchi e governatori.

La chiesa egiziana si era intanto notevolmente sviluppata. Alessandria fino circa al 200 sembra essere stata l'unica sede episcopale dell'Egitto, le comunità cristiane nel resto del territorio erano amministrate da presbiteri e diaconi, sotto la direzione del vescovo della capitale. I vescovi Demetrio e Heracla cominciarono a creare vescovi per le località principali dell'Egitto e il numero delle diocesi con vescovi proprî aumentò considerevolmente nel corso del sec. III, di modo che al principio del IV esistevano nell'Egitto, compresa la Tebaide, la Libia e la Pentapoli, circa 100 vescovi, tutti istituiti dal vescovo di Alessandria. Questo sviluppo dell'organizzazione ecclesiastica spiega la posizione speciale del vescovo della capitale, come capo diretto di tutta la gerarchia ecclesiastica dell'Egitto e regioni vicine. Nel sec. IV troviamo nel patriarcato di Alessandria 9 provincie eeclesiastiche con le loro sedi metropolitane, corrispondenti alla divisione politica di quell'epoca. Il vescovo della capitale, come patriarca, conservò sempre la sua posizione di vero capo diretto di tutte le diocesi del suo patriarcato.

Nell'epoca anteriore a Costantino furono a capo della chiesa alessandrina alcuni vescovi celebri in tutta la cristianità, come Dionigi e S. Pietro martire nelle persecuzioni di Diocleziano. Dalle lettere di Dionigi e dalla Hist. Eccl. di Eusebio sui martiri delle persecuzioni del sec. III e del principio del IV abbiamo notizie particolareggiate. Numerosi cristiani dell'Egitto furono coronati dal martirio. Il patrono dell'Egitto cristiano, dal sec. IV in poi, fu S. Mena, e presso la sua tomba (in un'oasi a ovest di Alessandria) fu eretta una splendida e vasta basilica circondata da varî edifici religiosi.

Sotto Costantino che, se non visitò, ebbe il progetto di visitare l'Egitto in occasione del concilio di Nicea, ad Alessandria balenò la speranza di riacquistare o superare l'antico splendore divenendo la nuova capitale dell'Impero, ma la scelta definitiva cadde su Bisanzio. Il concilio di Nicea (325) fu un trionfo contro Ario, del giovane teologo egiziano Atanasio, che, rientrato in Alessandria, vi assunse il governo della chiesa, adoperandosi, con estrema energia ma con alterne vicende, per il trionfo dell'ortodossia cattolica. La controversia teologica non tardò a trasformarsi in contesa politica, turbando per lunghissimi anni il paese.

Il regno di Teodosio - che nel 382 restituì all'Egitto la sua unità amministrativa, elevandolo al grado di diocesi sotto l'autorità del prefetto augustale, residente in Alessandria - segnò la definitiva vittoria degli atanasiani sugli ariani, e segnò anche ufficialmente la fine del paganesimo, avendo l'imperatore con speciale editto (389) ordinato la chiusura dei templi. Intanto la posizione della sede patriarcale di Alessandria di fronte alla chiesa dell'Impero orientale aveva suscitato una rivalità con i vescovi di Costantinopoli, i quali con l'aiuto delle tendenze cesaro-papiste degl'imperatori cercarono di divenire i capi della Chiesa nell'Impero d'Oriente. Il patriarca Teofilo di Alessandria (385-412) nella sua lotta contro gli origenisti, profittò di questa occasione per dirigere la sua attività contro S. Giovanni Crisostomo di Costantinopoli e riuscì nei suoi intrighi. Teofilo si distinse anche per lo zelo con cui, assistito dalle soldatesche imperiali applicò il decreto di Teodosio circa la chiusura dei templi. Il celebre tempio di Serapide fu allora abbandonato all'incendio e alla distruzione. Il nipote e successore Cirillo (celebre per la parte da lui presa nella controversia monofisita), abile e ambiziosissimo, durante i suoi 30 anni di patriarcato lo superò nel fanatismo e nelle violenze. Egli scacciò in massa gli Ebrei dalla città e lasciò massacrare, dinanzi alla chiesa del Cesareo, Ipazia. Il successore Dioscoro favorì in larga misura il diffondersi della teoria monofisita e sotto di lui i rapporti tra clero e governo si fecero, e rimasero poi a lungo, ostilissimi, il patriarca rappresentando le idee religiose degli Egiziani, il prefetto quelle della corte imperiale. Dioscoro fu scomunicato ed esiliato, ma il vescovo Proterio inviato da Costantinopoli poté essere insediato soltanto dopo un nuovo assedio, un nuovo saccheggio della città e un nuovo incendio del Serapeo. E non durò a lungo, poiché fu assassinato e sostituito da un monaco eterodosso.

Ebbero luogo, intorno a questo tempo, nuove incursioni dei Blemmî nella Tebaide e fino alla Grande Oasi. I Blemmî furono respinti da Floro, prima governatore dell'Alto Egitto e poi prefetto, il quale riuscì a concludere con essi un trattato migliore dei precedenti e ad ottenere la consegna di ostaggi. Sotto Zenone (474-491), per qualche tempo vittoriosamente contrastato da Basilisco, partigiano delle idee religiose degli Egiziani, continuò la ridda di patriarchi e vescovi, nominati, a contrasto, dagli Egiziani e dall'imperatore con alterne deposizioni, deportazioni e condanne. Finalmente, sotto Anastasio (491-518) si ebbe un periodo di pace religiosa, ma questa non impedì la miseria crescente e lo spopolamento, la fiscalità sempre più arbitraria, lo sparire delle piccole proprietà e il formarsi, quasi automatico, di vastissimi latifondi a tipo feudale, in mano di pochi proprietarî e dei monasteri. L'agricoltore che non voleva abbandonare la terra e fuggire nel deserto, come taluni facevano per disperazione, ricorreva al patrocinio di un potente vicino - non alieno dal resistere agli agenti del fisco anche con forze armate - cedendogli i proprî diritti: egli diveniva così suo colono nel latifondo, dapprima come locatario, poi come servo della gleba. Giustiniano (527-565) si sforzò di sollevare il paese dall'anarchia. A nulla riuscì nel campo religioso. Le misure ch'egli prendeva erano sempre combattute dall'imperatrice Teodora e quest'azione contrastante complicava anche più le gravissime difficoltà. Impotenti si rivelarono anche le riforme amministrative proclamate col famoso Editto XIII.

La diocesi d'Egitto sparisce e al suo posto subentra una divisione in cinque eparchie, aventi ciascuna un'amministrazione a sé, sotto un governatore civile e militare a un tempo. Tre di queste provincie sono ducati; i ducati sono divisi in due eparchie, la 2ª al comando di un praeses puramente civile. L'Arcadia comprende una sola eparchia. Il territorio a occidente del Delta forma il Limes della Libia. Alessandria costituisce un'unità separata, ma dipende, come il ducato d'Egitto, dal duce augustale d'Egitto, il quale, in pratica, veniva quindi a esercitare sugli altri una funzione preponderante.

Il male era ormai troppo complesso e troppo radicato, e le riforme mancavano di chi volesse e onestamente potesse applicarle sui luoghi, nonostante le gravissime sanzioni minacciate agl'impiegati corrotti o soltanto negligenti, perché il paese potesse risollevarsi. Tuttavia sotto Giustiniano si ebbe qualche rinnovata attività nella pubblica edilizia e nonostante la disgraziata situazione, i Blemmî poterono essere ridotti all'impotenza e furono costretti a convertirsi al cristianesimo. In tale occasione l'ultimo vestigio del culto pagano, il tempio d'Iside a File, venne chiuso e distrutto. Esasperate dall'irrimediabile crisi economica continuarono, per tutto il resto del secolo, le lotte sanguinose a carattere religioso-nazionalista tra melchiti (imperiali, cattolici) e giacobiti (da Giacobbe Baradas, che, nel sec. VI, era riuscito a raccogliere in un corpo di dottrina le varie sfumature del monofisismo). L'Egitto acquistò un'importanza politica notevole quando Eraclio levò, nel 609 lo stendardo della rivolta contro Foca, il quale aveva escluso gli Egiziani da tutti gli uffici dello stato e della provincia. Alessandria accolse con grandi feste la vittoria del duce augustale, Niceta, sulle truppe imperiali. I primi anni del regno di Eraclio (610-641) trascorsero in una relativa pace religiosa, Niceta avendo seguito una politica di conciliazione, e il patriarca Giovanni l'Elemosiniere essendo riuscito a conquistare l'ammirazione rispettosa di tutti, per le sue doti morali e il grande spirito di carità. È probabile che, se l'invasione persiana del 616 non fosse avvenuta, Niceta avrebbe indotto la corte imperiale a non inasprire le lotte venendo ad un compromesso con la chiesa che godeva in Egitto la maggiore popolarità. I Persiani non trovarono seria resistenza fin sotto le mura di Alessandria, di cui tuttavia s'impadronirono soltanto con l'aiuto d'un traditore. La città fu messa a sacco e gli abitanti massacrati. La signoria persiana durò circa dieci anni, fino a che le vittorie ottenute da Eraclio in Siria e in Mesopotamia (627) obbligarono i Persiani alla ritirata. L'Egitto fu di nuovo occupato da una guarnigione romana. Per sfortuna Eraclio, ripetendo un errore commesso da Giustiniano, unì in una sola persona la carica di prefetto e di patriarca, scegliendo per giunta in Ciro un irriducibile avversario dei monofisiti. Perciò ogni tentativo dell'imperatore per trovare una formula accettabile dai due partiti andò a vuoto ed alienò sempre più i Copti dall'Impero. Intanto s'andavano avvicinando all'Egitto invasori più agguerriti e più forti dei Persiani, i Musulmani.

Bibl.: I più importanti bollettini bibliografici si trovano nelle seguenti riviste: Aegyptus (Milano); Archiv für Papyrusforschung (Lipsia); Bulletin de la Société Royale d'Acchéologie (Alessandria d'Egitto); Journal of Egyptian Archaeology (Londra); Chroniques d'Égypte (Bruxelles); Revue des Études Grecques (Parigi). - Epoca tolemaica: Oltre alle storie speciali del periodo ellenistico del Droysen, del Kaerst, del Niese, del Beloch e il vol. VII della Cambridge Ancient History e la History of Egypt d S. Sharpe, non va dimenticato e anzi va segnalato in prima linea il vecchio ma sempre utile volume di G. Lumbroso, Recherches sur l'économie politique de l'Égypte sous les Lagides, Torino 1870 e del medesimo, sebbene non tratti sistematicamente di storia, il geniale e vario volume, L'Egitto al tempo dei Greci e dei Romani, Torino 1882; 2ª ed., con un'appendice, Bibliogr. dell'Egittol. greco-romana dal 1868 al 1895, Roma 1895; A. Bouché-Leclercq, Histoire des Lagides, I-IV, Parigi 1903-1907 (bibliografia nel primo volume; E. R. Bevan, History of Egypt under the Ptolemaic dinasty, Londra 1927; J. P. Mahaffy, The Empire of the Ptolemies, Londra 1895; M. L. Strack, Die Dynastie der Ptolemäer, Berlino 1897; W. Schubart, Ägypten von Alexander dem Grossen bis auf Mohammed, Berlino 1922; P. Jouguet, L'impérialisme macédonien et l'hellénisation de l'Orient, Parigi 1926, con ricca bibliografia; M. Rostowtzeff, A large estate in Egypt in the third Century, Madison, 1922; id., The foundation of Social and Economic Life in Egypt in Hellenistic Times, in Journal of Egyptian Archaeology, IV (1920); G. J. Milne, Egyptian Nationalism under Greek and Roman Rule, in Journal of Egypt. Arch., XIV (1928), pp. 226-234; P. Collomp, Recherches sur la Chancellerie et la Diplomatie des Lagides, Strasburgo 1926; W. Schubart, Die Griechen in Ägypten, Lipsia 1927 (Beihefte zum Alten Orient, 10); vedi anche altri quaderni della stessa serie); M. Fritz, Die ersten Ptolamäer und Griechenland, Halle 1917; W. Schmidt, Das griechische Gymnasium in Ägypten, Halle 1926; J. Lesquier, Les institutions militaires de l'Égypte sous les Lagides, Parigi 1911; W. Otto, Priester und Tempel im hellenistischen Ägypten, Lipsia, I (1905); II (1908); H. Maspero, Les finances de l'Égypte sous les Lagides, Parigi 1905; D. Cohen, De magistratibus Aegyptiis externas Lagidarum regni provincias administrantibus, L'Aia s. a.; A. Steiner, Der Fiskus der Ptolemäer, Lipsia 1903; Fr. Oertel, Die Liturgie. Studien zur ptolemäischen und kaiserlichen Verwaltung Ägyptens, Lipsia 1917; J. Svoronos, Τὰ υομίσματα τοῦ κράτους τῶν Προλεμαίων, Voll. 4, Atene 1904-08; A. Segré, Circolazione monetaria e prezzi nel mondo antico e in particolare in Egitto, Roma 1922; A. Andreades, Antimène de Rhodes et Cléomène de Naucratis, in Bull. Corr. Hell., LI (1929), pp. 1-18; W. Schubart, Einführung in die Papyruskunde, Berlino 1918; W. W. Tarn, Hellenistic Civilisation, Londra 1929, v. la List of Books, Relativa al cap. V (p. 301); U. Wilcken (e L. Mitteis), Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde, I, Lipsia 1912, utilissimo e con indicazioni bibliografiche premesse a ogni singolo capitolo; E. Ciaceri, Intorno alle relazioni fra Roma e l'Egitto al tempo dei Lagidi, in Atti Ist. Veneto, 1916, pp. 927-73. Cfr. anche bibliografia sotto alessandria.

Epoca romana e bizantina: Oltre le opere citate nel paragrafo precedente, v.: G. J. Milne, A History of Egypt under Roman Rule, 3ª ed., Londra 1923, con una lunga lista dei libri citati nelle note. Un'eccellente bibliografia si trova in: Rouillard Germaine, L'administration civile de l'Égypte byzantine, 2ª ed., Parigi 1928. Si possono aggiungere le indicazioni segg.: M. A. Levi, L'esclusione dei senatori romani dall'Egitto Augusteo, in Aegyptus, V (1924), pp. 231-235; B. A. Groningen (van), L'Égypte et l'Empire, Étude de droit public romain, in Aegyptus, VII (1927), pp. 189-202; S. Solazzi, Di una pretesa legge di Augusto relativa all'Egitto, in Aegyptus, IX (1928), pp. 296-301; G. J. Milne, The ruin of Egypt by Roman Mismanagement, in Journ. of Egypt. Arch., XIII (1927), pp. 1-13; id., Egyptian Nationalism under Greek and Roman Rule, ibid., IV (1928), pp. 226-234; M. Rostowtzeff, Social and Economic History of the Roman Empire, Oxford 1926 (ed. tedesca, Gesellschaft und Wirtschaft im römischen Kaiserreich, Lipsia 1930); id., Roman Exploitation of Egypt in the first Century A. D., in Journal of Economic and Business History, I (1929), pp. 337-364; A. Segré, Metrologia e circolazione monetaria degli antichi, Bologna 1920, p. 427 segg.: A. Stein, Untersuchungen zur Gesch. und Verwaltung Aegyptens unter röm. Herrschaft, Stoccarda 1915; W. Schur, Die Orientpolitik des Kaisers Nero, Lipsia 1923; J. Vogt, Die Alexandrinischen Münzen, Grundlegung einer alexandr. Kaisergeschichte, Stoccarda 1924; id., Römische Politik in Ägypten, Lipsia 1924.

Sul cristianesimo egiziano, v.: A. von Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums, 4ª ed., Lipsia 1924, II, pp. 705-729; A. T. Butler, Story of the Church of Egypt, Londra 1897; A. Heckel, Die Kirche von Ägypten, Strasburgo 1918; L. Duchesne, Histoire ancienne de l'Église, Parigi 1906-08, voll. 3; id., L'Église au VI siècle; H. Leclercq, Égypte, in Dict. d'archéol. chrét. et de liturgie, IV, ii (con ricca bibliografia); H. Delehaye, Les martyrs d'Égypte, in Analecta Bollandiana, LX (1922), pp. 1-154, 299-364; M. Chaine, La chronologie des temps chrétiens de l'Égypte et de l'Éthiopie, Parigi 1925; K. M. Kaufmann, La découverte des sanctuaires de Ménas dans le désert de Maréotis, Alessandria 1908; B. Cattan, La chiesa copta nel sec. XVII, in Bessarione, XXII (1918), pp. 134-161.

Diritto. - Il diritto postfaraonico è largamente noto attraverso i papiri. Ma, per quanto si parli sovente del "diritto dei papiri", questo non va considerato come un sistema unitario, svoltosi secondo proprie leggi di sviluppo: l'interesse maggiore degli studî papirologici è invece nella possibilità di confrontare le diverse esigenze giuridiche delle singole nazionalità e di osservare le reciproche recezioni e contaminazioni.

Nell'età tolemaica (332-31 a. C.), gl'indigeni conservarono proprî tribunali e proprî notai, e quindi il loro diritto: ad uso dei giudici se ne redigevano dei massimarî, come quello che viene citato nel processo di Hermias (pap. Taur. 1) o come l'altro, custodito nella Biblioteca di Monaco, del quale lo Spiegelberg ha di recente rintracciato i frammenti. Meno uniforme era il diritto dei Greci: accanto alle leggi di Naucrati (fondata dai Milesi nel sec. VII) sorsero quelle di Alessandria, in forma di editti e decreti (διαγράμματα, προστάγματα) del re (molti ne conosciamo, specie attraverso la raccolta contenuta nel celebre papiro di Halle, i cosiddetti δικαιώματα): più tardi, Tolemaide, fondata nel sec. III a. C., ebbe tutti gli organi tipici della πόλις, e quindi l'autonomia; ma inoltre vivevano da Greci i coloni militari (κληροῦχοι, e fra essi in prima linea i κάτοικοι), stanziati dai Tolomei nei varî distretti, e almeno nel Fayyūm collegati fittiziamente ad una città (Arsinoe) nei cui quartieri ciascuno si considerava domiciliato. Tuttavia le norme vigenti fra i Greci tendevano all'unificazione: mentre Naucrati si riduceva a una borgata, le leggi date ad Alessandria vennero spesso imitate in Tolemaide, ed eguale era la tendenza dei κάτοικοι, che per la varietà della provenienza non avevano inizialmente di comune se non le idee fondamentali ricorrenti in tutto il mondo greco. Ma l'Egitto aveva anche altri abitanti: qualche norma speciale vigeva fra i discendenti dei Persiani, altra volta signori del paese (Πέρσαι τώς ἐκιγονής), e un diritto proprio avevano gli Ebrei, numerosi e battaglieri specialmente nella capitale. Influenze reciproche, massime del diritto greco sopra l'egiziano, non mancano: la vigilanza statale sui trasferimenti immobiliari tende ad avvicinare i regimi della vendita e del matrimonio, e la necessità di tradurre in greco - ai fini delle pubbliche registrazioni e per il giudizio dei tribunali misti - i contratti demotici riesce talvolta a inserire i fini pratici degl'indigeni nelle categorie giuridiche greche: d'altronde, la forte prevalenza economica dei dominatori e la tendenza dei pochi indigeni benestanti a scimmiottarli caccia sempre più nell'ombra gli Egiziani, le cui costumanze - anche se conservate nei bassi strati - sono sempre meno documentate.

Tutto ciò si rispecchia, come si è accennato, nella giurisdizione: il potere giudiziario del re, al quale spesso le parti ricorrono direttamente, è più spesso esercitato attraverso i tribunali permanenti egiziani (λαοκρίται) o greci (χρηματισταί) o misti (κοινοδίκια); ma la competenza dei crematisti si estende via via a tutti i processi: inoltre le città greche hanno i loro proprî tribunali, e i funzionarî dei distretti (στρατηγοί) sono spesso invocati come giudici di pace, alla cui decisione le parti si attengono il più delle volte.

I conquistatori romani non importano nei primi secoli il loro diritto se non per i rapporti fra loro; anzi lasciano sussistere (come si rileva da quell'importantissimo massimario che è il γνώμων dell'ἴδιος λόγος) le preesistenti differenziazioni etniche, approfondendo dal punto di vista politico e amministrativo il distacco fra Egiziani e Greci e confermando i divieti di connubio. Ma il notariato e i tribunali si unificano: gli agoranomi greci diventano presto i redattori di ogni contratto, mentre la giurisdizione si accentra formalmente nel prefetto e nei suoi delegati, come lo iuridicus Alexandreae e gli strateghi ed epistrateghi dei distretti. Questa unificazione, nonché la crescente decadenza della popolazione indigena, accelerano la formazione di un sistema unitario, che è greco nelle linee generali benché abbia assorbito vari elementi locali e benché le preferenze tradizionali trovino frequente espressione nella molteplicità d'istituti miranti a scopi analoghi. È questo il diritto che chiamiamo greco-egizio: i governatori romani, a decorrere almeno dal tempo di Traiano, lo designavano come "legge degli Egiziani" (νόμος τῶν Αἰγυπτίων).

La costituzione caracalliana del 212, che dava a tutti i sudditi la cittadinanza romana, e della quale un lacunosissimo papiro di Giessen (pap. Giss. 40) ha conservato la traduzione greca, trasformò radicalmente la situazione, facendo del diritto romano la norma comune. Della lotta fra il diritto imperiale e il diritto locale, iniziata a questo punto, le fasi furono descritte fin dal 1891 in una mirabile opera del Mitteis; ma i papiri successivamente editi ne hanno precisato gli aspetti istituto per istituto. Come era naturale, ben di rado i provinciali praticarono apertamente istituti contrarî al diritto imperiale: più spesso resistettero passivamente, dando forma romana al contenuto pratico del diritto loro. All'una e all'altra tendenza gl'imperatori si opposero nei primi tempi (in massima, fino a tutto il regno di Diocleziano), poi il compromesso si fece frequente: istituti ellenistici ed orientali furono accolti nel diritto romano della decadenza, e più negozî giuridici fondamentali, come la stipulazione e la tradizione, degenerarono in modo da soddisfare, pur sotto l'egida dell'antico nome, le aspirazioni dei provinciali. Perciò il diritto romano postclassico e bizantino, come lo conosciamo attraverso gli strati più recenti della compilazione giustinianea, fu chiamato diritto romano-ellenico.

Peraltro, quantunque il diritto giustinianeo stia a base dei papiri del sec. VI e del VII e resista in parte anche dopo la conquista araba (anno 641), non è a dire che vi trovi sempre adesione piena. La decadenza della civiltà greca aveva fatto ritornare in primo piano la popolazione autoctona, e con essa certe correnti giuridiche delle quali dopo i primi decennî dell'era volgare si era perduta la traccia. Ad onta di ripetute condanne, queste correnti riescono a prevalere nella pratica.

L'importanza che ebbe per tutti i signori dell'Egitto lo sfruttamento della fertilità del suolo rese fondamentale il problema dei possessi. La soluzione tolemaica, che tutta la terra fosse propria del re, coincideva, oltre che col sistema faraonico, anche con la costruzione greca (cfr., ad es., Strabone, XI, 3, 6), secondo la quale una delle differenze fra le città-stati e i regni territoriali era nel considerare rispettivamente come proprietarî dei fondi i privati cittadini o il re. In Egitto i privati sono semplici concessionarî di un godimento più o meno limitato: pressoché equivalente alla proprietà privata per la terra da giardino, da frutteto o da costruzione (γῆ ἰδιόκτητος), per cui non vige altro limite che l'imposta; esente forse anche da questo limite, ma precario e revocabile, per le tenute assegnate a ministri e favoriti, γῆ ἐν δωρεᾳ (come la tenuta di Apollonio ministro di Tolomeo Filadelfo, a noi ben nota attraverso la corrispondenza del fattore Zenone); strettamente personale per le terre dei coloni militari (γῆ κατοικική), la cui trasmissibilità ereditaria fu riconosciuta a fatica, mentre fra vivi si trasmettevano solo con una finzione di surrogazione per inadempimento degli obblighi tributarî; ridotto a mera affittanza (μίσϑωσις) per la terra da semina che si ripartisce fra i "coloni del re", con mercede in danaro o in natura, commisurata al orodotto effettivo o ad una produzione ipotetica, in piccole parcelle corrispondenti alla capacità lavorativa di una famiglia o in grandi parcelle destinate al subaffitto. La situȧzione non muta in età romana, salva la stabilizzazione del terreno catecico la cui condizione si avvicina a quella della γῆ ἰδιόκτητος: la concessione ἐν δωρεᾷ rivive per qualche tempo nei patrimonia (?οὐσίαι), assegnati a nembri della famiglia imperiale o a favoriti, ma ritornati all'imperatore nell'età di Nerone pur conservando per alcuni decenni un bilancio a parte. L'affitto delle terre da semina, in grandi e in piccoli lotti, è pur sempre la regola, anzi nei periodi di maggior carestia si ricorre all'affitto forzoso, e a singoli gruppi di piccoli coltivatori sono aggregati sudditi abbienti che rispondono in via sussidiaria del tributo: è questo il tempo in cui i contadini vengono costretti, sotto la comminatoria di gravi pene, alla permanenza nei rispettivi villaggi. Un allargamento dei possessi privati si determina, dal sec. IV in poi, attraverso il patrocinium che i contadini angariati chiedono ai potentiores, capaci di difenderli dalle pretese eccessive dello stato: questo vi contrasta a lungo, ma nel 415 Onorio e Teodosio capitolano, disponendo (Cod. Th., XI, 24, 6) che le terre già date in patrocinio rimangano ai nuovi signori e legittimando così la servitù della gleba (v. colonato). In età bizantina potenti famiglie, come quella degli Apioni in Ossirinco, disponevano del territorio e della popolazione di interi villaggi o gruppi di villaggi: ben più ristretto era il territorio di diretta pertinenza dello stato nei cosiddetti vici publici (μητροκομίαι) e quello che per via di donazioni e testamenti affluiva a chiese e monasteri.

Minuziosamente controllato nei trasferimenti era il possesso delle terre e case private, nonché degli schiavi. Il diritto alessandrino disponeva che, formatosi tra le parti l'accordo relativo a una compravendita, le caratteristiche della cosa venduta, nonché i nomi delle parti e il prezzo pattuito, fossero comunicati ai questori, versando contemporaneamente una tassa: i questori redigevano l'atto pubblico, e di tutti i contratti tenevano nota in fogli intestati ai nomi dei venditori e ordinati secondo i demi in cui si ripartiva la popolazione della città. Un regine analogo vigeva fra i Greci sparsi per il regno, salvo che i magistrati cittadini erano sostituiti dai notai, obbligati anch'essi a tenere l'archivio delle convenzioni redatte col loro ministero e a non redigere il nuovo documento senza aver controllato che la cosa fosse nella libera disponibilità del venditore. Perfezionando il sistema, i governatori romani introdussero in ogni capoluogo di distretto due specie di libri fondiarî: i libri dei possessi (βιβλιοϑῆκαι τῶν ἐγκτέσεων) per le terre e case private; i libri delle cose di pubblica ragione (βιβλιοϑῆκαι δημοσίων λόγων) per le terre cateciche: i fogli di questi registri, detti διαστρώματα, erano intestati ai possessori, e contenevano quanto occorreva alla descrizione degli immobili e della loro situazione giuridica: i notai richiesti della confezione di negozî giuridici immobiliari dovevano chiederne l'autorizzazione alla βιβλιοϑήκη competente. Forma di pubblicità che avrebbe severamente tutelato i diritti dei terzi, ma che, ad onta dell'insistenza dei governatori del sec. I e del II, fu spesso trascurata: in seguito fu lasciata cadere, e le rare menzioni che se ne trovano dopo la constitutio Antoniniana sono mere sopravvivenze. Una nuova forma di pubblicità dei diritti immobiliari si andò costituendo secondo le direttive generali del tardo diritto romano, in specie con l'insinuatio dei trasferimenti negli atti (gesta) dei magistrati locali.

Le disposizioni circa i libri dei possessi (in specie l'editto del prefetto Mezio Rufo trascritto nella famosa petizione di Dionisia, pap. Oxy. 23.l) ci dànno le indicazioni più precise intorno ai diritti reali noti all'Egitto greco-romano. Accanto al possesso pieno e attuale, va iscritta nei libri l'ipoteca, intesa come possesso in fieri, e soprattutto quella costituita sui beni del marito a garanzia della dote; inoltre un caratteristico ius ad rem che, secondo una pratica tipicamente egiziana, si suole costituire nel contratto di matrimonio a vantaggio dei figli futuri, e che i genitori possono a tempo opportuno, fra vivi o mortis causa, trasformare in possesso dei singoli figli su beni determinati. Allo stesso modo dovevano essere registrati i diritti di usufrutto e di abitazione dei quali fanno menzione i testamenti. Non erano invece considerate come diritti autonomi le servitù, concepite secondo i casi o come limitazioni legali della proprietà o - specie per i diritti di passaggio - come pertinenze dell'immobile.

Nei papiri hanno larga parte i contratti, non ordinati secondo tipi immutabili ma tendenti tuttavia a stilizzarsi, secondo i tempì e i distretti, in formularî tipici. Amanto alla vendita è diffusissima la μίσϑωσις, altrettanto varia di atteggiamenti quanto la locatio romana: affitto di terreni e di case, colonìa parziaria, soccida, contratti di baliatico, di tirocinio, di servizio. Le condizioni economiche generali vi si riverberano, oltre che nella prevalenza della mercede in danaro o di quella in natura, anche nella pietosa disparità fra le parti nei secoli più tristi: in epoca bizantina, i contratti di servizio e di tirocinio assumono l'aspetto di dedizioni in servitù, e perfino gli affitti di fondi e di case, il cui termine è posto a discrezione del locatore, divengono forme attenuate di colonato. Frequentissimi sono anche i contratti di mutuo (δάνειον), in danaro e in derrate, costruiti come titoli formali ed esecutivi, spesso al portatore: i conti correnti con le banche dànno luogo a operazioni di giro, e creano uno speciale tipo di documentazione bancaria, che fa concorrenza ai documenti notarili. Le contrattazioni più duramente usurarie si nascondono sotto il nome del deposito, con obbligo di pagamento del doppio in caso di mancata restituzione, o sotto la finzione di una vendita di derrate a prezzo anticipato.

Il principio dell'esecuzione delle obbligazioni sulla persona del debitore, al quale molti documenti accennano, dà luogo in certi papiri demotici alla caduta del debitore in schiavitù; più spesso il debitore si sottopone nel momento del contratto alle regole vigenti per i Persiani τής ἐκιγδονῆς, con la conseguenza di cadere in una condizione quasi servile che dura fino allo scomputo del debito. Ma nell'epoca imperiale sembra aver prevalso il principio dell'esecuzione sul patrimonio.

Nella famiglia si rivelano più spiccate le differenze fra Egiziani e Greci: uniti i primi in organismi compatti, tenuti insieme dalla riserva che nei contratti matrimoniali viene fatta a favore dei nascituri e dalla proprietà in mano comune amministrata dai primogeniti, spesso per un lungo ordine di generazioni; riuniti invece i secondi solo quanto occorre all'allevamento della prole, ma con una distinzione sempre limpida fra la capacità di diritto, spettante anche ai figli di famiglia, e la capacità di agire di cui il giovane è privo fino ai 18 anni: il padre e il tutore sono l'uno e l'altro rappresentanti legali del minorenne. Assai più lieve è la tutela (del marito o del figlio o del prossimo parente) a cui sono soggette le donne; anzi la si può considerare una mera sopravvivenza; tant'è che si tende a investire la vedova di un potere di amministrazione sui beni dei figli, concorrente con quello del tutore e talvolta predominante, e a consentirle qualsiasi atto di disposizione sulle persone dei minorenni.

Il matrimonio è lecito e usatissimo tra fratello e sorella, escluso in massima fra le varie nazionalità: di poligamia non vi è traccia. Il relativo atto presenta, massime fra Egiziani, varî tipi, distinguendosi in specie un matrimonio di pieno diritto e un matrimonio morganatico, ma forse anche questa contrapposizione si è ridotta fin dall'età tolemaica a una divergenza di formularî. Nell'epoca romana domina l'antitesi fra matrimonio scritto (γάμος ἔγγραϕος) e non scritto (ἄγραϕος), con diversità di effetti che forse si spiegano con l'applicazione del diritto di famiglia greco quando esista una scrittura che vi si conformi, del diritto romano e della sua ferrea potestà paterna quando non siano state prese disposizioni. Alla dote portata dalla moglie corrisponde sovente una donazione nuziale, versatale dal marito o promessale per il caso di divorzio: le famiglie egiziane vivono spesso, così nell'età tolemaica come nella bizantina, in regime di comunione universale dei beni. Il divorzio è lecito in ogni tempo, e praticato - a quanto pare - con frequenza.

L'eredità, che fra gli Egiziani si risolve nella libera disponibilità di beni predestinati o in un accrescimento delle aspettative sui beni in mano comune, segue fra i Greci, e in quella larga parte della popolazione indigena che ne imitò il costume, il principio della divisione in parti eguali tra i figli o fra le stirpi discendentali, con l'esclusione della figlia maritata e dotata, ma con la netta tendenza ad eliminare per ogni altro verso la profonda differenziazione che altrove i Greci ponevano fra i due sessi: una regola quanto mai caratteristica, che sembra ormai accertata, è che nel caso di seconde nozze i beni si dividano in parti eguali fra i due letti. In mancanza di discendenti, si passa, sempre in conformità del diritto comune greco, alle parentele rispettivamente discendenti dal padre, dall'avo, dal bisavo dell'ereditando (il padre esclude i fratelli, ma i figli del fratello premorto concorrono con gli zii per la quota che sarebbe spettata al loro padre; e similmente nelle altre parentele); la regola è stata accolta, quanto alla parentela paterna, nel diritto giustinianeo.

Ai Greci è dovuta l'introduzione del testamento, che è di solito testamento notarile pubblico, raramente segreto: nella determinazione dei successori a titolo universale e particolare, nelle possibilità di concorrenza della delazione testamentaria con la legittima, nell'ammissione della diseredazione la libertà è massima. Gli Egiziani, che in età romana si valgono largamente dell'istituto greco, preferiscono tuttavia tipi speciali di divisioni inter liberos, spesso fuse con il contratto di matrimonio fra i genitori o con quello relativo a uno o due fra i discendenti (συγγραϕοδιαϑῆκαι): alla tradizione indigena risponde pure la donazione mortis causa irrevocabile, praticata - in opposizione manifesta al diritto imperiale - anche dopo Giustiniano.

Bibl.: I papiri giuridici sono pubblicati nelle ormai numerosissime raccolte generali di papiri, in riviste specializzate e in atti accademici. Un elenco di queste pubblicazioni si troverà alla voce papiri: una raccolta scolastica è quella di P. M. Meyer, Juristische Papyri, Berlino 1920; un trattato generale con ricca scelta di documenti è quello di L. Mitteis e U. Wilcken, Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde, Lipsia 1912. Sulle varie nazionalità e sulla evoluzione generale possono consultarsi L. Mitteis, Reichsrecht und Volksrecht in den östlichen Provinzen des römischen Kaiserreichs, Lipsia 1891; L. Wenger, Volk und Staat in Ägypten am Ausgang der Römerherrschaft, Monaco 1922; G. Segrè, L'Editto di Caracalla sulla concessione della cittadinanza, in Studi in onore di Silvio Perozzi, Palermo 1925, p. 137 segg.; E. Bickermann, Das Edikt des Kaisers Caracalla in pap. Giess. 40, Berlino 1926; V. Arangio-Ruiz, Applicazioni del diritto giustinianeo in Egitto, in Aegyptus, I (1920), p. 21 segg. - Sul regime delle terre, M. Rostowzew, Studien zur Geschichte des römischen Kolonats, Lipsia 1910; id., A large estate in Egypt in the third Century B. C., Madison 1922; E. Kornemann, in Pauly-Wissowa, Real-Encicl., Suppl. IV, 1924, p. 227 segg.; W. Kunkel, Über die Veräusserung von Katökenland, in Zeitschr. der Savigny-Stift., XLVII (1928), p. 285 segg.; F. De Zulueta, Patronage in the later Empire, in Oxford Studies in soc. and leg. history, I, ii, 1909. - Sui diritti reali immobiliari, H. Lewald, Beiträge zur Kenntniss des röm.-ägypt. Grundbuchrechts, Lipsia 1909; J. Partsch, Die griechische Publizität der Grundstücksverträge im Ptolemaäerrechte, in Festschrift f. O. Lenel, Lipsia 1923, p. 77 segg.; E. Schönbauer, Beiträge zur Geschichte des Liegenschaftsrechts, Lipsia 1924; G. Flore, Sulla βιβλιοϑήκη τῶν ἐγκτήσεων, in Aegyptus, VIII (1927), p. 43 segg.; in particolare sulla κατοχή dei discendenti e sulla comunione familiare J. Partsch, in K. Sethe, Demotische Urkunden zum ägypt. Bürgschaftsrechte, in Abhandl. sächs. Akad., XXXII, Lipsia 1920, p. 687 segg.; e V. Arangio-Ruiz, Persone e famiglie nel diritto dei papiri, Milano 1930, p. 50 segg.; e sulle servitù R. Taubenschlag, Das Recht auf εἴσοδος und ἔξοδος in den Papyri, in Archiv f. Papyrusforsch., VIII (1926), p. 25 segg. Sui contratti A. Berger, Die Strafklauseln in den Papyrusurkunden, Lipsia 1911; V. Arangio-Ruiz, Lineamenti del sistema contrattuale nel dir. dei pap., Milano 1928: in particolare sul δάνειον J. Partsch, in Zeitschr. f. Handelsu. Konkursrecht, LXX (1912), p. 437 segg.; e in senso contrario F. Brandileone, in Rend. Accad. Bologna, 1920. - Sul procedimento esecutivo H. Lewald, Zur Personalexekution im Rechte der Papyri, Lipsia 1910; F. von Woess, Das Asylwesen Ägyptens, Monaco 1923. - Sulle garanzie reali immobiliari A. B. Schwarz, Hypothek und Hypallagma, Lipsia 1911; P. Jörs, Erzrichter und Chrematisten, in Zeitschr. der Savigny-Stift., XXXVI (1915), p. 230 segg.; XXXIX (1918), p. 52 segg.; XL (1919), p. 1 segg. - Sul diritto di famiglia (oltre V. Arangio-Ruiz, op. cit.), R. De Ruggiero, Studi papirologici sul matrimonio e sul divorzio, in Bull. ist. dir. rom., XV (1903), p. 179 segg.; id., Nuovi documenti per la storia del matrimonio, etc., in Studi stor. per l'ant. class., I, 1908, p. 161 segg., 317 segg. - Sulle successioni, da ultimo, H. Kreller, Erbrechtliche Untersuchungen auf Grund der gr.-ägypt. Papyrusurkunden, Lipsia 1919.

Numerosi studî sono dedicati al diritto penale (v. R. Taubenschlag, Das Strafrecht im Rechte der Pap., Lipsia 1916) e in specie al processo, per cui i documenti papiracei indicano spesso gli sviluppi di tutto il diritto dell'Impero: fra i molti cfr. L. Mitteis, Zur Lehre von den Libelli und der Prozesseinleitung nach den Pap., in Berichte sächs. Akad., LXII (1910), p. 61 segg.; A.-J. Boyé, La denuntiatio introductive d'instance sous le Principat, Bordeaux 1922; A. Steinwenter, Studien zum röm. Versäumnisverfahren, Monaco 1914; M. Wlassak, Zum röm. Provinzialprozess, in Sitzungsber. Akad. Wien, CXC (1919), IV.

L'Egitto musulmano.

Dalla conquista araba all'occupazione britannica. - Dopo la conquista della Siria, della Palestina, dell'‛lrāq e della Mesopotamia da parte degli Arabi (13-18 èg., 635-640 d. C.), il dominio bizantino sull'Egitto veniva ad essere seriamente minacciato: si ripeteva il fenomeno consueto nella storia dell'Asia anteriore e dell'Africa settentrionale, per cui ciascuna delle potenze occupanti la valle del Nilo e quella del Tigri ed Eufrate è tratta ad ambire di abbattere l'altra e di sottomettersela. Come già al tempo degli Assiri e dei Persiani, dei Macedoni e dei Romani, il possesso della Palestina apriva ai signori della Siria e della Mesopotamia l'accesso all'Egitto. L'iniziativa della conquista si dovette ad ‛Amr ibn al-‛Āṣ (v.), grande condottiero e accorto uomo politico, il quale irruppe attraverso l'istmo nella regione del Delta e, battuti i Bizantini in battaglia campale, espugnò la fortezza di Babylon sul Nilo (a sud del Cairo odierno), tagliando così le comunicazioni tra l'Alto e il Basso Egitto (18 èg. = 640). L'assedio di Alessandria si protrasse invero a lungo, per l'inesperienza militare degli Arabi e per il dominio dei Bizantini sul mare, e la città, arresasi una volta (21 èg. = 642) fu più tardi ritolta agli Arabi per breve tempo (642-45). Ma infine, mentre l'occupazione araba si estendeva nell'Alto Egitto raggiungendo la Nubia, e verso la Pentapoli (Cirenaica), preludendo alla conquista dell'intera Africa settentrionale, anche Alessandria cadeva definitivamente in mano degli Arabi.

I nuovi signori, come avevano già fatto iu Siria e nell'‛Irāq, non stabilirono la sede del governo nell'antica capitale, ma si accamparono presso la fortezza di Babylon, e dal loro campo militare sorse a poco a poco una grande città (al-Fusṭāṭ), che fu la capitale dell'Egitto musulmano fino alla fondazione del Cairo (v.). Questo netto distacco dei conquistatori dalla popolazione indigena, alla quale fu in sostanza lasciata la propria amministrazione sotto le antiche autorità locali, civili ed ecclesiastiche, andò tuttavia a poco a poco attenuandosi, specialmente per l'affluire di nuove tribù arabe (specialmente del ramo meridionale) sulle tracce dei primi conquistatori. Questi dapprima esercitarono il loro potere quasi esclusivamente sotto forma di esazione dei tributi, e i papiri ci hanno conservato interessanti esempî del modo con cui questi erano ripartiti e prelevati; gli stessi papiri mostrano, d'altra parte, come all'uso del greco nell'amministrazione vada a poco a poco subentrando quello dell'arabo: indizio della graduale assimilazione la quale si compì tra Arabi e indigeni, in Egitto, come nel resto dell'Impero arabo (v. arabi: Storia, III, p. 828). L'elemento greco, meno numeroso, fu il primo a scomparire, mentre quello copto si mantenne più a lungo, e passarono parecchi secoli prima che i cristiani d'Egitto perdessero l'uso della loro lingua nazionale (v. copti, XI, p. 334) Ma la forza di penetrazione dell'arabismo e dell'islamismo, favorita beninteso dai vantaggi materiali e morali della conversione alla religione dominante, finì col dare all'Egitto un'impronta prevalentemente arabo-musulmana, nella quale tuttavia, accanto ai caratteri comuni all'intero mondo arabo, si mantennero (e si mantengono tuttora) alcuni tratti tipicamente nazionali, i quali valsero a conservare a quel paese una fisionomia propria in seno all'immenso impero dei califfi, favorendo la sua futura autonomia.

L'importanza politica, militare ed economica dell'Egitto per il califfato fu grandissima, sia come punto di partenza per l'ulteriore espansione nell'Africa, sia per i suoi rapporti col resto dell'Impero. Ciò spiega la parte notevole che esso ebbe nelle lotte civili svoltesi sotto i califfati di ‛Othmān (644-656) e di ‛Alī (656-661) e la sua occupazione temporanea, sotto gli Omayyadi, per parte dell'anticaliffo Ibn az-Zubair. In Egitto si ritirò l'ultimo dei califfi omayyadi, Marwān II, e colà fu sconfitto e ucciso da Abu‛l-‛Abbās.

Il processo di distacco delle provincie che segna la fine dell'unità politica del califfato si manifestò presto anche in Egitto. Dopo una serie di governatori più o meno strettamente dipendenti dal governo centrale, Aḥmad ibn Ṭūlūn, di origine turca, si comportò come sovrano autonomo (254-270 èg. = 868-884), ed estese il suo dominio non solo sull'intero Egitto, ma anche sulla Palestina e sulla Siria (che ne erano staccate amministrativamente), riprendendo così la politica dei Faraoni e dei Tolomei. Il rilasciarsi dei vincoli col califfato di Baghdād restituì all'Egitto la sua posizione di splendore e di potenza; e dal sec. IX in poi si può dire che, salvo brevi parentesi, la sua storia si svolge in maniera indipendente. A dir vero, il tentativo di Ibn Ṭūlūn di fondare una dinastia non riuscì, poiché dopo la morte di suo figlio e successore Khumarawaih (883-895) l'Egitto fu nuovamente amministrato dal governo dei califfi; ma non molto dopo un altro governatore turco, Muḥammad al-Ikhshīd, gli ridiede un governo autonomo, durato dal 935 al 969.

Peraltro tanto Ṭūlūnidi quanto Ikhshīdidi non s'erano staccati formalmente dal califfato ‛abbāside, del quale riconoscevano l'autorità; ma più profondo mutamento ebbe luogo con l'invasione dei Fāṭimidi (v.). Questa dinastia shī‛ita, che dalla Tunisia era mossa all'assalto del califfato, pretendeva di detenere, essa sola, la legittima successione di Maometto e condannava come eretica la dinastia ‛abbāside. La conquista dell'Egitto per opera di Giawhar, generale del califfo fāṭimida al-Mu‛izz (969) non doveva essere, nell'intenzione degl'invasori, se non il primo atto dell'occupazione dell'intero territorio islamico; e appunto come conseguenza di tale politica volta verso l'oriente, al-Mu‛izz stabilì la capitale del suo impero in Egitto: la fondazione del Cairo, avvenuta con particolare solennità (358 èg. = 969) dava l'impronta alla trasformazione radicale della storia egiziana.

E invero sotto il governo dei Fāṭimidi l'Egitto assurse a importanza fondamentale nella storia dell'Islām: signore di un impero che dai confini occidentali dell'odierna Tunisia si estendeva fino a quelli della Mesopotamia e, col dominio della Sicilia, tendeva a insignorirsi del Mediterraneo, mentre penetrava, lungo il corso del Nilo, fino nel centro dell'Africa e, padrone del Mar Rosso, faceva sentire il suo potere fino alle coste dell'Arabia, il califfato fāṭimida era anche l'animatore di un'intensa propaganda internazionale segreta che mirava a scalzare tutti i sovrani musulmani a vantaggio del dominio universale del legittimismo shī‛ita (v. ismāīliyyah). E l'Egitto, centro di questo vasto e potente impero, univa allo sviluppo politico quello economico, culturale, artistico. Il Cairo, rapidamente ingrandito fino a diventare la più popolosa città dell'Islām, adornato di splendidi edifici, fornito di stabilimenti industriali, di grandi scuole di scienze religiose e laiche, di ricche biblioteche, andava soppiantando Baghdād nella posizione di metropoli dell'Islām. Sennonché i Fāṭimidi, nonostante la loro potenza politica e il loro prestigio religioso, erano pur sempre, nello stesso Egitto, i rappresentanti d'una credenza religiosa che la maggioranza della popolazione non accettava, e che soltanto la forza riusciva a imporle, con sistemi di persecuzione religiosa e di costrizione delle coscienze quali fino allora l'Islām non aveva conosciuti in così grande misura, e che si estesero (giacché erano diventati sistema di governo) anche agli ebrei e ai cristiani, i quali fino allora avevano goduto di un regime di tolleranza e avuto una parte cospicua nella vita economica del paese e nella stessa amministrazione dello stato. Il regno di al-Ḥākim (v.), strano tipo di sovrano nel quale a bontà di intenzioni e a notevole intelligenza politica si univano accessi di follia sanguinaria, rappresenta, in forma di esagerazione patologica, i pregi e i difetti del governo fāṭimida.

A contrastare, del resto, l'espansione di questo era sorta in Asia, fin dalla metà del sec. XI, la potenza dei Selgiuchidi e delle dinastie di Atābeg che successero loro: nelle lunghe lotte sostenute in Siria i Fāṭimidi logorarono le loro forze, mentre i loro dominî africani a occidente dell'Egitto andavano a poco a poco perduti sotto la pressione della dinastia dei Ḥammādidi. Le Crociate tolsero ai Fāṭimidi quanto loro restava dei possessi di Siria, e i califfi ormai caduti (come era avvenuto due secoli prima agli ‛Abbāsidi) sotto il controllo dei capi militari, turchi o curdi, si videro gradualmente privati di ogni effettiva influenza sulle sorti dell'Egitto. La storia interna di questo nei settant'anni posteriori alla prima crociata, non è che la storia delle rivalità tra i comandanti delle milizie, in cui intervenne l'atābeg di Mossul, Nūr ad-dīn, salito a grande potenza in Siria, il quale mandò in Egitto un suo generale, di nazione curda, Shīrkūh. Costui divenne l'arbitro della politica egiziana, né la sua potenza fu scossa dal temporaneo successo che il re Amalrico I di Gerusalemme (v.) ottenne contro di lui. Al nipote e successore di Shīrkūh, Ṣalāḥ ad-dīn (Saladino), riuscì di eliminare la dinastia califfale (567 èg. = 1171) e di proclamarsi poi sovrano dell'Egitto col titolo di re (malik) conferitogli dal califfo di Baghdād, al quale Saladino prestò un omaggio di dipendenza puramente formale. Così l'Egitto riassumeva ufficialmente il credo politico-religioso dei sunniti ma non solo conservò la sua indipendenza effettiva, ma altresì le migliori tradizioni fāṭimide in quanto si riferiva alla politica estera e alla protezione delle lettere e delle arti. Sotto la dinastia degli Ayyūbidi (v.) iniziatasi con Saladino, l'Egitto riprese il dominio della Siria, annettendosi i territorî degli atābeg e la maggior parte dei feudi latini e distruggendo il regno di Gerusalemme, e conquistò altresì la Mesopotamia; e se non riuscì a riconquistare tutti i territorî perduti dai Fāṭimidi nell'Africa settentrionale (ne tenne però la costa fino oltre Tripoli), occupò in compenso gran parte della penisola araba. Ma già alla morte di Saladino s'iniziò quel processo di spartizione del territorio fra i suoi collaterali e discendenti che doveva riuscire fatale all'integrità dello stato ayyūbida, i cui sovrani in breve tempo furono ridotti al dominio effettivo del solo Egitto, e anche colà caddero in mano ai capi delle milizie turche, composte generalmente di schiavi (mamlūk), il cui titolo servile ha dato il nome alla dinastia che, scalzati gli Ayyūbidi, si sostituì loro nel governo dell'Egitto, che mantenne per oltre due secoli e mezzo (648-913 èg. = 1250-1517).

Il periodo dei Mamelucchi (v.), che si suole dividere nelle due dinastie dei Baḥriti e dei Burgiti, offre la singolare particolarità di un regime di feudalismo militare turco, il quale si svolge con proprî ordinamenti, mentre accanto ad esso sussiste un'amministrazione civile, di carattere schiettamente arabo, la quale continua le tradizioni ayyūbidiche. Il sovrano è il più abile e il più influente dei generali, e ripete il potere dalla fiducia di questi, senza alcuna continuità dinastica. Questo sistema (che presenta strette analogie con quello dell'Impero romano) offrì il vantaggio di dare all'Egitto una serie di sovrani di alto valore personale: Baibars, Qalā'ūn, an-Nāṣir, Barqūq, al-Mu'ayyad, Qā'itbāy, i quali, dovendo il trono soltanto alle proprie qualità militari e politiche, seppero mantenervisi con onore. La Siria e l'Arabia, perdute sotto gli ultimi Ayyūbidi, furono riconquistate quasi per intero, espellendo dalla prima gli ultimi presidî latini e combattendo strenuamente gli Assassini (v.); ma il maggior titolo di gloria dei Mamelucchi è costituito dalla gagliarda resistenza opposta all'invasione mongola, la quale, dopo aver conquistato la Mesopotamia e abbattuto il califfato, minacciava di travolgere la Siria e l'Egitto. Respingendo i Mongoli dalla Siria, i Mamelucchi apparvero come i salvatori della civiltà musulmana, e l'Egitto fu effettivamente, nei secoli XIV e XV, il maggior centro dell'arabismo e degli studî islamici. Anche le condizioni economiche del paese furono a lungo floride, soprattutto per il favore concesso al commercio con l'estero (numerosi furono i trattati commerciali con gli stati cristiani), e all'industria, specialmente a quella tessile e metallurgica. L'Egitto fu per due secoli la via di transito tra l'India e l'Europa, e la sua prosperità si risentì in maniera notevole della scoperta della via marittima alle Indie per opera dei Portoghesi. Il Cairo, che gli Ayyūbidi avevano ingrandito e abbellito, divenne ancora più fiorente sotto i Mamelucchi, gli edifici dei quali sono quelli che ancora oggi dànno l'impronta caratteristica all'arte della città.

Tuttavia il dominio dei Mamelucchi conteneva nella sua stessa costituzione un elemento di debolezza, quello di non essere in contatto diretto col popolo, ma di sovrapporsi ad esso, rimanendogli straniero. E, venuti meno i sovrani di singolare valore individuale, i loro successori non seppero resistere alla violenta azione dei Turchi ottomani, che dall'inizio del sec. XV in poi avevano cominciato la loro opera di conquista dell'Asia anteriore e che, sconfitto in Siria l'ultimo sultano mamelucco, Ṭūmān Bey, incorporarono l'Egitto nel loro immenso impero.

La conquista ottomana fu senza dubbio dannosa all'Egitto; ma forse i suoi effetti deleterî sono stati esagerati. In realtà la decadenza era cominciata già prima; e se l'interruzione dei rapporti commerciali col Mediterraneo settentrionale costituì un grave colpo per la prosperità dell'Egitto, conviene ricordare che essa coincide col fenomeno generale dello spostamento delle grandi vie del commercio verso gli Oceani Atlantico e Indiano. Il governo degli Ottomani non fu sostanzialmente diverso da quello dei Mamelucchi: questi anzi conservarono in gran parte il loro potere, se non come sovrani, come membri del dīwān (consiglio), che assisteva il pascià inviato dal governo di Costantinopoli e che assai spesso riusciva a tenere in iscacco la volontà del governo centrale. Quando poi questo, a partire dalla fine del sec. XVIII, cominciò ad essere notevolmente indebolito, il potere del pascià finì con l'essere soltanto nominale, e i Mamelucchi costituirono una "camarilla" oligarchica, vera padrona dell'Egitto. Non mancarono neppure colà i movimenti insurrezionali tendenti a staccare dalla Turchia le sue provincie eccentriche (il più notevole è quello di ‛Alī Bey, nel 1771, che fu per qualche tempo sovrano di fatto dell'Egitto e della Siria), ma il governo ottomano riuscì sempre a domarli, sia pure a prezzo di concessioni.

La conquista napoleonica del 1798 e l'occupazione francese, durata sino al 10 luglio 1801, avevano portato un grave colpo all'autorità dei Mamelucchi, dimostratisi incapaci di difendere l'Egitto dall'invasione straniera, e al tempo stesso fece comprendere alla Porta la necessità di tenere l'Egitto sotto un governo più forte, mentre, d'altra parte, rivelava agli Egiziani la superiorità tecnica della civiltà europea. Subito dopo la partenza dell'esercito francese, la Porta nominò governatore dell'Egitto, con ampî poteri, Moḥammed Khusraw Pascià, con l'incarico di annullare gli ultimi resti della potenza dei Mamelucchi; ma il suo subordinato Moḥammed ‛Alī (Mehmet Alì secondo la pronunzia turca), albanese di Cavala, fattosi nominare capo di un gruppo di 3000-4000 soldati albanesi, riuscì a scalzare il suo superiore e poi, il 9 luglio 1805, a farsi nominare dalla Porta governatore. Egli rivelò subito un geniale e spregiudicato talento di governo. Sbarazzatosi dei Mamelucchi nel 1811 con un sanguinoso eccidio, riunì l'Egitto sotto il suo dominio effettivo, e cominciò a svolgere una vasta azione di risollevamento economico del paese, favorendo l'agricoltura e aprendo l'accesso del paese ai commercianti e agl'industriali europei.

I grandi servizî da lui resi al suo governo nel soffocare la rivolta dei Wahhābiti in Arabia, e nel combattere quella dei Greci, gli fecero ritenere di meritare un maggiore riconoscimento dei suoi meriti, e, poiché non riusciva ad ottenerlo con mezzi pacifici, ruppe guerra alla Porta (1831). Una serie di vittorie lo resero padrone della Siria e lo avrebbero condotto senza dubbio al trionfo completo sull'avversario e alla costituzione di un Egitto del tutto indipendente, se l'intervento dell'Inghilterra e dell'Austria non lo avessero costretto ad una transazione, per la quale egli dovette contentarsi, contro il pagamento di un annuo tributo, dell'investitura perpetua dell'Egitto (e del titolo di Pascià d'Egitto) con diritto di trasmetterla ai suoi discendenti, sotto la sovranità nominale della Turchia (firmano del 1 luglio 1841).

Con energia mirabile, il nuovo sovrano attese alla valorizzazione del paese, continuando a promuovere lo sviluppo agricolo (a lui si deve l'introduzione della coltura del cotone, fondamentale per l'odierna economia egiziana), industriale e civile; in tutto ciò si valse largamente dell'opera di Europei, assunti al suo servizio, e per mezzo dei quali fece anche esplorare molta parte del Sūdān occidentale, ch'egli fece conquistare ed aggregò all'Egitto. Non a torto fu detto da C. Becker (1913) che l'Egitto moderno è opera dell'Europa e dei khedive.

Fu riorganizzata l'amministrazione dello stato su basi saldamente accentrate, stabilito un rigido sistema di monopolî, migliorate le comunicazioni, creato un esercito egiziano; il tutto con orientale dispotismo, messo però a servizio d'un grandioso piano di rinnovamento del paese, che utilizzava elementi tecnici e scientifici stranieri, ma con vigile e gelosa indipendenza politica. Pur tuttavia l'Egitto non poteva tardare ad essere attirato nella sfera degl'interessi europei. Se a Moḥammed ‛Alī (morto nel 1849) e ai suoi due primi successori, il nipote ‛Abbās I (1849-54) e il figlio Sa‛îd (1854-63), riuscì di mantenere una doppia indipendenza di fronte alla decrescente autorità della Porta e alla crescente influenza delle potenze occidentali, sotto l'altro nipote di Moḥammed ‛Alī, Ismā‛il l'influsso europeo acquistò una soverchiante preponderanza nella vita politica egiziana.

Ismā‛īl (1863-79), il primo a portare il titolo di khedive conferitogli dalla Porta, spiegò una straordinaria attività nei lavori pubblici (sotto di lui, nel 1869, fu inaugurato il canale di Suez) che finì col rovinare le finanze dello stato, il cui debito pubblico saliva nel 1876 a quasi 100 milioni di sterline. L'intervento delle potenze obbligò il khedive ad accettare il controllo sull'amministrazione finanziaria di funzionarî inglesi e francesi; un Francese fu nominato ministro dei Lavori pubblici, e un Inglese alle Finanze. E quando Ismā‛īl, nel 1879, si rifiutò di richiamare questi membri stranieri del gabinetto licenziato, le potenze provocarono dal sultano di Costantinopoli la sua deposizione (26 giugno 1879). Con l'ascesa al trono del figlio Tawfīq, matura la crisi del contrasto fra gl'interessi europei, soprattutto inglesi, e il movimento nazionalista xenofobo; la sua risoluzione, con l'occupazione inglese dell'Egitto, apre un nuovo periodo nella storia egiziana.

Bibl.: S. Lane-Poole, A History of Egypt in the Middle Ages, Londra 1901 (4ª ed. 1925); C. H. Becker, in Encyclopédie de l'Islām, II, pp. 5-24, riprodotto in Islamstudien, Lipsia 1924, insieme con altri scritti su punti particolari dell'Egitto musulmano; id., Beiträge zur Gesch. Ägyptens unter dem Islam, Strasburgo 1902-1903. Per la bibliografia concernente la dinastia di Moḥammed ‛Alī v. questa voce.

Dal 1882 1n poi. - Tawfīq Pascià, privo di qualità politiche e propenso all'Inghilterra, si trovò improvvisamente di fronte ad un movimento di reazione contro l'eccessiva invadenza straniera. La posizione di favore fatta nell'esercito agli alti ufficiali d'origine turca e circassa provocò una prima sommossa militare, capitanata soprattutto dal colonnello Aḥmed 'Orābī, noto agli Europei come Arabi Pascià, il 15 gennaio 1881. Il partito militare nazionalista divenne padrone della situazione e il 9 settembre presentò un ultimatum al khedive, chiedendo e ottenendo la destituzione del ministero Riyāẓ, la formazione d'un parlamento e l'aumento dell'esercito con nuovi ordinamenti.

Il 10 marzo 1882 Arabi, nominato pascià e ministro della Guerra, si disponeva a deporre il khedive stesso; una dimostrazione navale anglo-francese dinanzi ad Alessandria sembrò per un momento calmare gli animi, senza tuttavia ottenere le richieste dimissioni del dittatore. Un massacro di Europei, improvvisamente avvenuto in Alessandria l'11 giugno di quell'anno, indusse la diplomazia internazionale a riunirsi a Costantinopoli per discutere sulla situazione egiziana, mentre l'Inghilterra si disponeva tuttavia ad agire. La Francia e l'Italia, benché sollecitate dall'Inghilterra, non aderirono ad un'azione militare; sicché la squadra britannica sola cominciò a bombardare Alessandria l'11 luglio 1882 e nuovi massacri subirono le colonie europee nei quattro giorni anteriori all sbarco delle truppe. Battuto e disperso a Tell el-Kebīr l'esercito egiziano (11 settembre 1882), il generale Wolseley entrava al Cairo e ristabiliva Tawfīq al potere. Arabi pascià fu processato e deportato a Ceylon.

Questi avvenimenti accelerarono nel Sūdān egiziano il divampare violento della ribellione contro l'Egitto, capitanata da Moḥammed Aḥmed, nativo del distretto di Dongola, il quale sin dalla metà del 1881 si era proclamato il Mahdī (v.) atteso dai musulmani. Procedendo verso il nord dalle regioni a sud del Kordofān, occupò questo territorio e ne espugnò la capitale el-Obeyyiḍ il 16 gennaio 1883. Un esercito egiziano, al comando del generale inglese W. Hicks, partito da Suez nel dicembre 1882, s'inoltrò nel Kordofān nell'autunno dell'anno successivo; ma fu completamente distrutto (5 novembre). Il governo britannico decideva allora lo sgombero del Sūdān e inviava a el-Kharṭum il generale G. Gordon (febbraio 1884) col difficile incarico di organizzare il ritiro delle guarnigioni egiziane disseminate nel vasto territorio. Assediato dal Mahdī nella stessa capitale sudanese, ove non si trovavano che scarse truppe egiziane, Gordon veniva sopraffatto ed ucciso (26 gennaio 1885). Una spedizione di soccorso al comando di G. J. Wolseley, giungeva due giorni dopo in vista di el-Kharṭum e doveva ritirarsi. La rivolta aveva trionfato anche nelle provincie del Dārfūr e del Baḥr el-Ghazāl, i cui governatori si erano sottomessi al Mahdī. La regione del Mar Rosso, ove il gen. V. Baker aveva sofferto un rovescio fra Suākin e Ṭōkar (4 febbraio 1884), cadde in potere di ‛Osmān Digna (Dignah), luogotenente del Mahdī. Nel febbraio 1885, in seguito ad accordi intervenuti con l'Inghilterra, avveniva l'occupazione italiana di Massaua.

Dopo la morte del Mahdī (22 giugno 1885), l'intero Sūdān egiziano, meno la provincia di Equatoria, era in mano del successore (Khalifah) del Mahdī, ‛Abd Allāh et-Ta‛ā'ishī. L'assetto politico dell'immenso territorio era fondato sui puri principî dell'islamismo, compreso il programma della guerra santa contro infedeli e Turchi, musulmani degeneri. Malgrado le ripetute dichiarazioni del governo britannico circa la temporaneità dell'occupazione la questione del Sūdān offriva un pretesto per prolungare tale regime anormale. Nominalmente l'Egitto era ancora provincia vassalla dell'Impero ottomano, ma dotata dell'autonomia conferitale con lo khaṭṭ-i sharīf del 1840. Una conferenza europea, riunita a Londra nell'aprile 1884 per un nuovo regolamento del debito egiziano, si era chiusa senza risultati. Migliore successo otteneva quella riunita a Parigi (1885-88) per la neutralizzazione del canale di Suez e l'ordinamento della Compagnia del canale (Conv. di Costantinopoli, 12 dicembre 1888). Sotto le direttive di lord Cromer, succeduto a lord Dufferin quale commissario britannico, il potere del khedive si trovò di fatto sensibilmente limitato, malgrado i tentativi di resistenza di ‛Abbās II Hilmī, successore di Tawfīq (1892). Al corpo di occupazione fu aggiunta una polizia inglese. L'esercito egiziano ebbe un sirdār (comandante supremo) ed uno stato maggiore britannici. I tribunali furono riorganizzati col sistema inglese dei tre giudici. Le dogane e il servizio sanitario civile funzionarono sotto il controllo diretto dell'Inghilterra. I ministeri dell'Interno e della Giustizia ebbero anch'essi un consigliere britannico. Rimanevano sotto il controllo internazionale le finanze e i tribunali misti (di Alessandria, Cairo e el-Manṣūrah con la corte d'appello di Alessandria) creati nel 1876. L'incremento dei lavori pubblici, dell'agricoltura e dei sistemi d'irrigazione, il progressivo risanamento delle finanze permisero, attraverso successivi prestiti, la conversione del debito pubblico. Nel 1898 fu fondata la Banca nazionale egiziana con un capitale iniziale di un milione di lire sterline.

Durante un decennio l'Inghilterra rinunciò a rioccupare il Sūdān, limitandosi alla difesa del territorio egiziano contro le incursioni dei dervisci, cui il col. H. Kitchener (succeduto poi al sirdār F. W. Grenfell) inflisse ripetuti scacchi. La zona del Mar Rosso fu preservata mercé il concorso delle bande abissine e delle truppe italiane (Kássalā, Agordat, ecc., v. eritrea: Storia). Quando l'esercito anglo-egiziano fu ritenuto sufficientemente preparato per tentare l'impresa, furono rioccupate successivamente Dongola e Berber (sett.-ott. 1897) nonché Kassalā, retroceduta dall'Italia (18 dicembre 1897). Proseguendo nella metodica avanzata verso il sud, il sirdār riportava un notevole successo a Hūdī sull'Atbarā (8 aprile 1898) e il 2 settembre successivo, dopo aver sbaragliato l'esercito dei dervisci, entrava in el-Kharṭūm. Frattanto, allo scopo di aprire ijno sbocco sul Nilo ai proprî possedimenti del Congo, il governo francese aveva fatto partire da Brazzaville (10 settembre 1897) una piccola colonna indigena al comando del capitano J. B. Marchand. Il 19 settembre 1898, Kitchener giunse dinanzi a Fāshōda (ora Kodok), che trovò già occupata dai Francesi. L'incidente diede luogo a laboriose trattative diplomatiche fra i due stati. In virtù della convenzione dell'11 dicembre 1898, la Francia consentiva al ritiro della colonna Marchand e Fāshōda veniva occupata dalle truppe britanniche. Il 20 gennaio 1899 l'Inghilterra si faceva riconoscere dal khedive il diritto di partecipare al governo del Sūdān. Il governatore, di nomina khediviale, doveva ricevere l'approvazione della Gran Bretagna. Inoltre il Sūdān, escluso dal regime delle capitolazioni, era pure sottratto alla giurisdizione dei tribunali misti. Primo governatore fu lo stesso sirdār Kitchener.

Nei primi anni del sec. XX la propaganda nazionalista riprende nuovo vigore sotto la guida del giovane Kāmil Muṣṭafà Pascià, fondatore di un nuovo partito nazionale che tenta dare un contenuto positivo alla vecchia formula "L'Egitto agli Egiziani". Principale scoglio rimarrà per lungo tempo l'analfabetismo, esteso ai nove decimi della popolazione totale. Lo sbarramento del Nilo ad Assuan, completato nel dicembre 1902, dopo quattro anni di lavoro fornito anche da operai italiani, permetteva la coltivazione di nuove terre, ma senza che si procedesse anche a sfruttare la ricchezza nazionale di energie idrauliche e la possibilità d'impianto di fiorenti industrie. I grandi lavori d'irrigazione intrapresi nel Sūdān, nella el-Gezīrah o regione settentrionale fra i due Nili, destavano apprensioni tra gli Egiziani e complicavano i rapporti di condominio.

La preoccupazione del governo britannico di legalizzare in qualche modo la propria permanenza in Egitto si rifletteva nell'accordo con la Francia, firmato l'8 aprile 1904: l'Inghilterra dichiarava di non avere intenzione di mutare lo stato politico dell'Egitto, mentre il governo francese s'impegnava a non richiedere la fissazione di un termine all'occupazione medesima; si acconsentiva, in cambio, all'estensione dell'influenza francese nel Marocco. L'imperatore Guglielmo II, traeva più tardi pretesto da tale accordo per le manifestazioni di Tangeri (1905) e di Agadir (1911). Nel 1907 sir Eldon Gorst succedeva a lord Cromer. Quattro anni dopo, lord Kitchener assumeva, con più estesi poteri, l'ufficio di rappresentante del governo britannico in Egitto.

L'impegno di non modificare l'assetto politico del paese, non impedì all'Inghilterra, poco dopo lo scoppio della guerra del 1914, di dichiarare abolita la sovranità ottomana sull'Egitto, procedendo alla deposizione del turcofilo khedive ‛Abbās II Ḥilmī che fu sostituito dallo zio Ḥusein Kāmil il quale fu proclamato sultano, mentre il paese veniva sottoposto al regime del protettorato (19 dicembre 1914). Fino dal 12 agosto di quell'anno l'Egitto si trovava in stato di guerra contro gl'imperi centrali: Alessandria era divenuta base navale britannica e il generale sir John Maxwell aveva assunto il comando dell'esercito anglo-egiziano; a lord Kitchener succedeva sir Henry McMahon. La difesa del canale di Suez contro le minacce provenienti dal Deserto Libico ad occidente e dalla Palestina ad oriente, costituì la principale preoccupazione bellica. Nel febbraio 1913 furono respinti attacchi di forze turche concentrate nel Sinai e, fino al febbraio 1917, i Senussi non cessarono di premere lungo la linea Baia di Sollum-Oasi di el-Baḥarīyah, di el-Farāfrah e di ed-Dākhlah. Rinforzato il corpo di spedizione con truppe metropolitane e indiane e passato il comando al generale sir Archibald Murray (marzo 1916), poté essere vittoriosamente fronteggiata anche l'offensiva turco-tedesca condotta da Enver Pascià tra il luglio e i primi di agosto 1916 (combattimenti di el-Qanṭrah e di Rumānī). L'inizio delle operazioni in Palestina (marzo 1917), per opera del generale sir Edmund Allenby, segnava la scomparsa di ogni seria minaccia contro questa vitale linea di comunicazioni. Moriva frattanto il sultano Ḥusein Kāmil e gli succedeva al trono il fratello Aḥmed Fu'ād (9 ottobre 1917). Con la fine delle ostilità avrebbe dovuto cessare il regime di protettorato che l'Inghilterra aveva dichiarato come provvisorio: il partito nazionalista - alla cui direzione era succeduto Sa‛d Zaghlūl Pascià, un avvocato divenuto vicepresidente del corpo legislativo - si faceva forte di questa promessa, dell'illegale situazione britannica in Egitto e del diritto di autodecisione dei popoli, affermato dal Wilson.

Fu chiesta invano all'alto commissario, sir Reginald Wingate, l'autorizzazione d'inviare presso il Consiglio supremo interalleato la delegazione permanente (Wafd) del partito, costituita da Zaghlūl per trattare le rivendicazioni nazionali. Il fermento guadagnò allora ogni ceto della popolazione; i capi musulmani della celebre moschea-università di al-Azhar fecero causa comune con i preti copti; operai, contadini e studenti scesero in piazza e la rivolta si estese rapidamente a tutto il Basso Egitto. La repressione britannica non fu meno violenta; Zaghlūl e un gruppo di suoi partigiani furono deportati a Malta. Il maresciallo Allenby, nominato alto commissario con pieni poteri, si adoperò per ristabilire la situazione ottenendo la liberazione di Zaghlūl e aprendo dei negoziati con i nazionalisti. Mentre il Wafd si recava a Parigi per esporre, con scarso successo, i proprî voti alla commissione interalleata incaricata di elaborare le condizioni di pace, una commissione d'inchiesta britannica, presieduta dal ministro delle colonie lord Milner, concludeva, nel marzo 1920, dopo 4 mesi di permanenza in Egitto, in senso favorevole alla soppressione del protettorato e alla concessione, sotto certe riserve, dell'indipendenza all'Egitto. Le laboriose trattative, intavolate successivamente a Londra, si prolungavano però fino al novembre 1921 senz'alcun risultato. Di fronte alle nuove agitazioni sorte nel paese e all'impossibilità di costituirvi un governo favorevole all'Inghilterra, si ricorse nuovamente ai mezzi repressivi (deportazione di Zaghlūl alle Seychelles); finché, constatati i palesi inconvenienti di tale sistema, il 28 febbraio 1922, il governo inglese s'indusse a riconoscere l'indipendenza dell'Egitto, sotto riserva di quattro punti che avrebbero dovuto formare oggetto di ulteriori negoziati: 1) sicurezza delle comunicazioni imperiali britanniche; 2) difesa dell'Egitto contro eventuali aggressioni esterne; 3) protezione delle minoranze e degl'interessi stranieri in Egitto; 4) questione del Sūdān. In attesa di un accordo su tali problemi, l'occupazione militare inglese sarebbe stata mantenuta. Il 15 marzo 1922 il sultano Fu'ād assumeva il titolo di re dell'Egitto indipendente; e, malgrado l'opposizione dei nazionalisti, incaricava il capo del partito moderato, Sarwat (Tharwat) Pascià, di formare un ministero e di elaborare la carta costituzionale del nuovo regno (promulgata il 19 aprile 1923). I due rami del parlamento risultarono costituiti del senato (corpo permanente di 121 membri, in parte di nomina sovrana) e della camera dei deputati (i membro ogni 60.000 ab.) eletta a suffragio diretto. Al parlamento furono conferite funzioni legislative e politiche; alla corona, l'esercizio del potere esecutivo attraverso ministri responsabili. La costituzione (molto simile a quella belga) garantiva ai cittadini l'esercizio delle libertà individuali proprie dei regimi democratici. In seguito al risultato delle prime elezioni (190 nazionalisti e 21 moderati) Zaghlūl Pascià, appena reduce dall'esilio, fu incaricato di formare un nuovo ministero (24 gennaio 1924). Le trattative sui quattro punti riservati, condotte a Londra col governo laburista nell'autunno di quello stesso anno, non portarono ad alcun accordo. L'assassinio del sirdār Lee Stack (19 novembre), avvenuto al Cairo per mano di alcuni fanatici, indusse invece il nuovo governo britannico (conservatore) a ordinare il ritiro delle truppe egiziane dal Sūdān e a sopprimere il regime del condominio. Zaghlūl, dimissionario, fu sostituito al potere da Zīwer Pascià con l'incarico di provvedere a nuove elezioni. I partiti fautori della completa indipendenza del paese (Wafdisti, liberali-costituzionali e nazionalisti estremisti), fino allora in disaccordo sui mezzi per conseguirla, strinsero un patto di alleanza che diede loro una nuova vittoria alle urne. ‛Adlī Yeghen Pascià si presentò dinanzi al nuovo parlamento (10 giugno 1926) con un programma di resistenza alla politica inglese; ma nel breve giro di un anno la sua posizione si dimostrò insostenibile di fronte all'energico atteggiamento britannico. Poche settimane dopo, la morte di Zaghlūl Pascià sopraggiungeva a disorientare maggiormente i partiti della coalizione, determinando un periodo di crisi nelle forze nazionaliste. Egualmente andarono deluse le speranze riposte nella visita di re Fu'ād a Londra e nelle conversazioni del nuovo presidente del consiglio, ‛Abd al-Khāliq Sarwat col ministro britannico sir Austen Chamberlain.

Dopo un breve esperimento con Muṣṭafà an-Naḥḥās Pascià - capo del Wafd dopo la morte di Zaghlūl - il sovrano affidò il potere a Moḥammed Maḥmūd Pascià (27 giugno 1928), liberale costituzionale, che tentò di risollevare la situazione economico-finanziaria del paese compromessa dalle continue agitazioni politiche e dalle interferenze parlamentari. Ottenuto dal re lo scioglimento della camera e l'aggiornamento delle elezioni per un triennio, Maḥmūd si accinse ad attuare un programma di risanamento della vita pubblica attraverso una maggiore disciplina nazionale, una serie di provvedimenti d'ordine sociale e una stretta collaborazione con l'alto commissario conservatore lord Lloyd, succeduto a lord Allenby nell'ottobre 1925. Trasferitosi a Londra per tentare il componimento dei dissensi anglo-egiziani, egli si trovò di fronte all'inatteso progetto di accordo proposto dal gabinetto Mac Donald, sopraggiunto al potere (luglio 1929), e stabilito sulle seguenti basi: a) sgombero delle truppe britanniche dall'Egitto e occupazione permanente della zona del canale di Suez per la difesa delle comunicazioni imperiali; b) conclusione di un'alleanza anglo-egiziana; c) possibilità all'Egitto di entrare nella Società delle Nazioni; d) patrocinio inglese per ottenere la riforma del regime delle capitolazioni; e) esclusivo dominio inglese nel Sūdān. L'Inghilterra rinunciava inoltre alla protezione degli stranieri e ammetteva l'applicazione di tasse e d'imposte nei loro riguardi, ma esigeva, d'altra parte il congedamento dei funzionarî stranieri non inglesi e il controllo delle nomine del personale nella magistratura mista. Poiché il progetto doveva essere presentato, secondo i patti, all'approvazione del parlamento egiziano, si resero inevitabili le dimissioni di Maḥmūd Pascià che non era tuttavia riuscito ad ottenere l'appoggio del Wafd. Dopo un breve ministero ‛Adlī Pascià, il risultato delle elezioni nuovamente favorevole al Wafd (gennaio 1930) portò come conseguenza il ritorno al potere di an-Naḥḥās Pascià, che si trovò d'accordo col parlamento per resistere alle pretese britanniche circa il Sūdān e per chiedere al sovrano nuove garanzie delle libertà costituzionali. D'altra parte re Fu'ād, convinto dell'impossibilità di risolvere la situazione attraverso il regime parlamentare, decideva di rinunciare alla collaborazione del Wafd: Ismāīl Ṣidqī Pascià sostituiva en-Naḥḥās alla presidenza del consiglio, parlamento e senato venivano chiusi e poi sciolti definitivamente. Nuovi disordini si verificarono nei principali centri del Delta (luglio 1931), ma ciò non distolse il governo dal programma propostosi.

Il 22 ottobre 1930 il re approvava le modifiche alla costituzione, proposte da Ṣidqī Pascià insieme con una nuova legge elettorale tendente a rendere meno precaria l'opera del potere esecutivo di fronte alla demagogia parlamentare. Le circoscrizioni elettorali venivano fissate dalla costituzione stessa, anziché dipendere dal numero degli abitanti, e veniva altresì ripristinato il sistema delle elezioni a doppio grado. Sotto la presidenza dello stesso primo ministro si costituiva inoltre un "Partito del popolo", destinato a contrapporsi ai due partiti di opposizione (Wafd e liberali-costituzionali) e costituito, oltreché dai seguaci del nuovo governo, dai dissidenti di ogni settore. Malgrado il boicottaggio delle elezioni, deciso dai seguaci di en-Naḥḥās, di Maḥmūd, di Zīwer e di ‛Adlī Yeghen (e motivato in un appello al sovrano), le urne davano la maggioranza al partito del governo in ambedue le camere (maggio-giugno 1931).

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V. tavv. XCI-CXVIII e tavole a colori.

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