EMANUELE FILIBERTO, duca di Savoia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)

EMANUELE FILIBERTO, duca di Savoia

Enrico Stumpo

Nacque a Chambéry l'8 luglio 1528, terzogenito di Carlo II, duca di Savoia, e di Beatrice di Portogallo.

Il 19 ottobre dello stesso anno, nella cappella della S. Sindone a Chambery, Carlo II volle che si celebrasse in forma solenne il battesimo, secondo le antiche tradizioni sabaude e borgognone. Il signore di Bonnes Nouvelles, re d'armi dell'Ordine della Ss. Annunziata, apriva il corteo, cui partecipavano il gran maestro dell'Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, Filippo di Villiers de l'Isle Adam, ospitato dal duca di Savoia dopo la perdita di Rodi, con trenta cavalieri. Era uno dei padrini insieme con Margherita d'Austria, governatrice dei Paesi Bassi, zia dell'imperatore Carlo V e vedova del predecessore di Carlo II, Filiberto II, e col re Emanuele di Portogallo, padre della duchessa Beatrice. In un momento difficile per la situazione d'isolamento internazionale in cui si era trovato il Ducato sabaudo, Carlo II aveva voluto sottolineare il ruolo, il rango internazionale e i legami dinastici dei Savoia, anche di fronte all'atteggiamento ostile della stessa sorella Luisa, madre di Francesco I di Francia.

Di complessione assai gracile, il piccolo E. venne destinato inizialmente alla carriera ecclesiastica, mentre sul fratello maggiore Luigi, nato nel 1524, si appuntavano le speranze di successione al trono, essendo morto in tenera età il primogenito Adriano. E dopo averlo presentato a soli tre anni a Bologna, nel 1530, al pontefice Clemente VII, il duca di Savoia aveva ottenuto la promessa per lui della nomina al vescovado di Ginevra e d'un posto nel Collegio cardinalizio, tanto che per qualche anno il giovanissimo principe venne chiamato a corte "il cardinalino" e così vestito lo ricorda ancor oggi un quadro conservato a Torino, all'età di circa quattro anni. Dopo i primi anni passati in Savoia E. visse qualche tempo a Torino e poi si ritirò con la madre Beatrice nella più sicura Nizza, dove restò sette anni.

Furono, quelli, anni di gravissima crisi per il Ducato sabaudo: alla profonda incapacità politica di Carlo II si accompagnava infatti una davvero scialba personalità che nel corso degli anni aveva portato il già scarso prestigio personale del duca ai livelli più bassi sia presso le corti sia presso l'opinione pubblica del tempo. Lo stesso Pietro Aretino, nel suo Pronostico politico, osservava causticamente nel 1534 che temeva di "perdere reputazione a mentovar Savoia, sendo così basso subbietto…" (E., a cura di C. Rinaudo, p. 32), prevedendo per il duca la perdita di tutte le terre e la morte per veleno. E di terre in effetti Carlo II, eufemisticamente definito il Buono dalla fin troppo benevola storiografia di corte, ne aveva già perse parecchie, alcune in modo invero paradossale. Già nel 1508 e nel 1511 il duca era stato costretto a riconoscere due false donazioni a favore dei Cantoni di Berna e Friburgo, prodotte da un suo cancelliere e notaio ducale Jean Dufour, rifugiato presso gli Svizzeri; donazioni e concordati che gli costarono oltre 400.000 fiorini, una grave perdita di prestigio e una vera e propria umiliazione presso sudditi e stranieri, unanimi nel condannare la sua debolezza. Così quando nel 1530 Ginevra rifiutò il potere militare e temporale del duca, che l'esercitava a nome del vescovo, a nulla valsero i tentativi militari di Carlo II. Ginevra si legò con i Cantoni di Berna e Friburgo, abbracciando l'eresia luterana prima, quella calvinista dopo. E l'intervento militare degli altri Cantoni portò all'occupazione di altre terre ducali nel Vaud e nella Alta Savoia. La stessa sorella del duca del resto, Luisa di Savoia, madre di Francesco I, iniziò ad avanzare pretese su molte terre ducali, come eredità paterna, incoraggiando il figlio nelle richieste francesi su Asti e Ceva. La corte francese aveva tentato di opporsi inoltre al matrimonio del duca con Beatrice di Portogallo, anche perché la sorella Isabella, andando sposa al neo eletto Carlo V, rendeva molto più stretti i vincoli dei Savoia con l'Impero. E in effetti proprio il forte carattere della nuova duchessa Beatrice e il suo ascendente presso il cognato avvicinarono Carlo II all'imperatore. A Bologna, nel 1530, egli ebbe un posto d'onore nella cerimonia dell'incoronazione di Carlo V, il quale l'anno seguente, con abile mossa, concesse la contea d'Asti e il marchesato di Ceva alla duchessa di Savoia, suscitando lo sdegno e l'avversione di Francesco I verso il duca sabaudo. Nel 1536 quindi l'esercito francese, sotto il comando di Filippo di Chabod, mosse all'invasione del Ducato: la Savoia e gran parte del Piemonte furono occupate, la stessa Torino venne rapidamente fortificata, i territori annessi al Regno di Francia, mentre Carlo II si rifugiava a Vercelli. Berna e Friburgo occuparono allora il Paese di Vaud e il litorale del lago Lemano. Pochi mesi dopo Carlo V da Genova deludeva le aspirazioni del duca rigettando le sue pretese di successione sul marchesato di Monferrato e pronunciando una sentenza favorevole a Federico Gonzaga. Inoltre, il 25 dicembre dello stesso e davvero infelice anno, il principe ereditario Luigi, educato in Spagna a corte insieme col cugino Filippo, moriva improvvisamente: E., a otto anni, divenne così principe di Piemonte e l'unico erede al Ducato sabaudo.

L'educazione di E. venne radicalmente modificata: a Claude Louis Allardet, abate di Filly, che ne aveva curato la prima educazione si affiancarono Louis de Châtillon, gran scudiere di Savoia e primo governatore, Giovan Battista Provana, poi vescovo di Nizza e Aimone di Ginevra, signore di Lullin, che esercitò notevole influenza sul giovane principe, seguendolo poi fino alla corte imperiale e nella battaglia di Ingolstadt. Esercizi fisici, giochi militari, equitazione, caccia, scherma occupavano quasi interamente le sue giornate, alternandosi alle lezioni di cultura umanistica del maestro Giacomo Bosio, già precettore in Spagna del fratello Luigi.

Le sue letture possono in parte essere ricostruite dai codici poi passati alla Biblioteca reale: tra questi figuravano Dante, Petrarca, Boccaccio, Cicerone, Tito Livio, mentre più tardi appaiono scrittori di arte militare quali R. Valturio, il De militia di L. Bruni, Vitruvio, G. Busca e F. di Clèves.

Alcuni dolori funestarono la giovinezza di E.: nel 1537 moriva a Milano la sorella Caterina, l'8 genn. 1538 a Nizza la madre Beatrice, lasciandolo erede universale. Della madre E. ebbe, secondo alcune penetranti osservazioni degli ambasciatori veneti, molti lati del carattere: la fermezza, il coraggio, la fierezza nonché quel senso profondo della regalità che sudditi e nobiltà sabauda scambiavano per "altierezza" (rimproveratagli del resto anche da alcuni suoi prigionieri illustri quali lo stesso G. de Coligny); ma che in realtà era un senso profondo ed alto della sovranità e del legittimismo dinastico, da lui talvolta quasi volutamente accentuato, "…biasimando in questo la natura del Duca suo padre, qual era tanto trattabile che ognuno se gli reputava compagno: dal che poi nasceva il poco rispetto e la poca obedienza che gli prestavano" (Relazioni…, p. 96). Del resto l'influenza e certi tratti dell'eredità materna furono riconosciuti dallo stesso principe, il quale così scriveva da Worms, nel suo primo soggiorno alla corte imperiale, al re di Portogallo nel dicembre 1547 a proposito dei suoi difficili momenti: "…che pruovo disagii molto contrarii alla qualità di casa mia con tanto cordoglio che senza ch'io mi trovo il cuore tanto gagliardo quanto l'ho portato dalle materne viscere mi sarebbe stato insopportabile…" (L. Cibrario, Origine e progressi…, p. 245).

Nel 1541 E. era a Genova, con il padre, a rendere omaggio all'imperatore in partenza per l'impresa di Tunisi. Sembra che gli chiedesse di prenderlo con sé nella pericolosa impresa; ma Carlo V, pur assicurandogli la sua protezione, lo invitò ad attendere la maggiore età.

Il 27 maggio 1545, con l'assenso imperiale, E. partiva finalmente alla volta della Dieta di Worms, recando un lungo memoriale sulla triste situazione del Ducato sabaudo. Il 29 luglio venne ricevuto con gran benevolenza da Carlo V che gli confermò i suoi impegni nella difesa del Ducato e nella volontà di ottenere la restituzione delle terre occupate dai Francesi. Conferendogli il collare del Toson d'oro l'anno seguente l'imperatore lo nominò, appena diciottenne, comandante della cavalleria di Fiandra e Borgogna, alla vigilia della guerra contro i protestanti. A Ingolstadt e a Mühlberg il giovane principe si condusse con abilità e valore, al comando della cavalleria e in azioni di retroguardia. La corte imperiale lo aveva del resto ben accolto: il re dei Romani Ferdinando e la regina Maria d'Ungheria lo aiutarono spesso, mentre simpatia e protezione gli mostrarono il Granvelle e più tardi il principe Filippo.

E. aveva dovuto tuttavia restringere al minimo le sue spese personali e la sua già piccola corte: furono quelli anni di bisogni e necessità economiche quasi umilianti, ai quali ben poco potevano far fronte le sacrificatissime finanze ducali. Era costretto a rinviare i giovani gentiluomini che principi e sovrani inviavano come paggi al suo servizio, confessando sinceramente di non avere i mezzi per mantenerli. Da qui una lunga serie di richieste a parenti o famiglie amiche, verso le quali più tardi, come duca di Savoia, fu assai legato. Tra questi la stessa regina Maria, il re di Portogallo, Ercole II d'Este e il cardinale di Trento C. Madruzzo.

Tra il 1548 e il 1550 E. fu a Bruxelles dove familiarizzò con il quasi coetaneo cugino Filippo di Spagna: tornei, feste e balli di corte li videro spesso insieme, tanto che nel 1551 E. accompagnò Filippo nel viaggio di ritorno in Spagna. Tornato in Piemonte, egli si fermò presso il padre a Vercelli e trascorse la primavera e l'estate di quell'anno combattendo contro i Francesi sotto il comando di Ferrante Gonzaga e richiamando sotto le sue insegne i pochi nobili rimasti fedeli ai Savoia: Giovanni Amedeo Valperga di Masino, Giorgio Costa della Trinità e Giovan Francesco Costa d'Arignano, Carlo Manfredi di Luserna, René de Challant, maresciallo di Savoia e potente governatore della Val d'Aosta. Ma nell'agosto del 1552 raggiunse la corte imperiale in Baviera in compagnia di Claudio di Savoia-Pancalieri e Andrea Provana di Leiny, convinto che solo presso Carlo V avrebbe potuto risolvere la gravissima situazione dei domini paterni.

Nell'ottobre dello stesso anno partecipò allo sfortunato assedio di Metz, al comando della cavalleria fiamminga; l'esito negativo dell'impresa costò la perdita del comando al duca d'Alba e per la prima volta nelle discussioni a corte per decidere la nomina del successore venne fatto il nome di Emanuele Filiberto. Il suo nome venne fatto a Bruxelles anche per l'eventuale nomina a viceré di Napoli, carica vacante per la morte di don Pedro de Toledo con una motivazione invero piuttosto abituale in quei tempi: la popolazione e la nobiltà locale avrebbero preferito un principe del sangue a un semplice cavaliere quale era stato il viceré scomparso (A. Segre-P. Egidi, E. F., I, p. 72). Caduta questa ipotesi, anche per la nomina al comando generale, Carlo V, pur sollecitato dalla regina Maria, preferì nominare l'anziano Adriano di Croy, conte di Roeulx, il quale il 20 giugno investì e prese la cittadella di Thérouanne. Ma il conte, già gravemente ammalato, morì pochi giorni dopo, lasciando nuovamente vacante il comando. Così il 27 giugno 1553 Carlo V rese pubblica la nomina di E. a luogotenente generale in Fiandra e a comandante supremo dell'esercito imperiale.

L'elezione di E. era ormai attesa: nessuno a corte poteva vantare dignità e titoli pari ai suoi, nonché gli stretti legami di parentela con la famiglia imperiale; e la nomina venne approvata dalle varie nazioni dell'esercito: Tedeschi, Fiamminghi, Spagnoli, Italiani. Poche settimane dopo egli prese Hesdin, ai confini della Piccardia, difesa dal duca di Bouillon Robert de La Mack. E negli anni seguenti fu un lungo succedersi di scontri e assedi in una guerra di piccoli movimenti e di scontri minori, tra una tregua e l'altra.

Che la nomina del principe di Piemonte al comando delle truppe imperiali fosse anche il risultato di un abile calcolo politico lo confermarono gli avvenimenti successivi alla morte del duca Carlo II. Oramai quasi abbandonato da tutti il duca era morto nella notte del 16-17 ag. 1553 a Vercelli e non fu possibile neppure procedere al funerale ufficiale: il corpo, chiuso in una semplice cassa, venne trasferito nella cattedrale e lì rimase fino al 1637. Commosse dichiarazioni rilasciarono al principe sia Carlo V ("…egli pigliava tutti quegli obblighi sopra di se' che deve il padre al figlio"), sia la regina Maria, la quale gli scriveva "…che se bene li era morto il padre, non li era perciò morta la madre" (A. Segre-P. Egidi, E. F., I, p. 84). Ma in realtà gli impegni che chiese l'imperatore furono ben altri: con un'assai singolare coincidenza il 15 luglio 1554 E. venne ufficialmente investito da Carlo V del Ducato di Savoia; un'investitura certo formale essendo quasi tutto il Ducato in mano ai Francesi. Ma appena tre settimane dopo, ad Arras, il nuovo duca faceva testamento: esecutori testamentari erano la regina Maria d'Ungheria, A. Perrenot de Granvelle e Rodrigo Gomez de Silva. Le indicazioni assai precise e vincolanti: il giovane duca indicava nel cugino Giacomo di Savoia-Nemours l'erede di tutti i suoi Stati "purché però abbandoni il servizio del re di Francia … e si sottometta nelle buone grazie dell'imperatore, dal quale dipenderanno detti suoi stati e presti la dovuta obbedienza et ove non adempisse a quanto sovra entro un mese sia privato e investito erede universale Filippo d'Austria figlio di detto imperatore principe della Spagna di lui cugino et prossimo cognato … il quale istituisce erede di detto Giacomo morendo questo senza figliuoli … Datum in Castri cesarei Atrebartez in Arthesia" (Arch. di Stato di Torino, Real Casa, Testamenti n. 7; trad. ital. dall'originale latino). Praticamente ignorato finora dalla storiografia sabauda tale testamento rivela chiaramente il patto politico-diplomatico sotteso alla nomina di E. a capitano generale prima e a governatore generale dei Paesi Bassi dopo: nel caso della sua morte la Spagna si sarebbe assicurata tutti i diritti di successione sul Ducato. Così il nuovo duca legava tutto il futuro della casa sabauda esclusivamente alle proprie capacità da un lato e ad un futuro matrimonio dall'altro, facendo le più ampie concessioni alla corte imperiale e alla Spagna.

Nel 1554 il richiamo del governatore di Milano Ferrante Gonzaga a Bruxelles fece intravedere a E. la possibilità di essere nominato al suo posto, in Lombardia, con il comando delle truppe impegnate contro le forze francesi dislocate in Piemonte. La sua richiesta a Carlo V e allo stesso Filippo, divenuto re d'Inghilterra grazie al suo matrimonio con Maria Tudor, fu disattesa. Filippo tuttavia volle ricevere il cugino a Londra e la regina Maria gli conferì l'Ordine della Giarrettiera. Si parlò anche di un eventuale matrimonio fra E. e la sorella della regina, Elisabetta, così come del resto qualche anno prima si era parlato a corte di un suo matrimonio con Margherita di Francia, sorella di Enrico II. In realtà già nel 1541 era stata stipulata per E. una promessa matrimoniale dal duca Carlo II con l'arciduchessa Maddalena, figlia del re dei Romani Ferdinando, futuro successore di Carlo V, con la quale E. si riteneva vincolato. Ma il matrimonio inglese si rivelò un'ipotesi assai vaga; e del resto una breve parentesi si rivelò il trono inglese per lo stesso Filippo. Pochi mesi dopo il soggiorno londinese le cattive notizie relative alla tragica situazione militare del Piemonte indussero E. a lasciare Bruxelles, da dove, nel mese di maggio, si recò in forma privata a visitare Milano e Vercelli.

La situazione militare in Piemonte era ormai molto grave. Da un lato l'occupazione francese del paese, divenuto nel 1536 una provincia del Regno, si era rivelata assai intelligente: sia il primo governatore Guillaume Du Bellay, l'illuminato amico di Rabelais, sia Charles de Cossé di Brissac, governatore e comandante militare negli anni Cinquanta, avevano proibito saccheggi e ruberie, alleggerito il carico fiscale, favorito il commercio con la Francia, aiutato con elargizioni in viveri ed elemosine la popolazione più povera. Spesse volte gli abitanti dei luoghi sottoposti al governo ducale, o meglio spagnolo, emigravano per porsi sotto la protezione dei gigli di Francia. Lo stesso E. fu costretto a riconoscere l'abilità di tale politica, soprattutto in confronto con quella, assai più dura e costosa, del governo spagnolo. Alla notizia della morte del padre il principe aveva nominato René de Challant luogotenente generale del Ducato e capo del Consiglio ducale. Le armi sabaude ormai tenevano soltanto Vercelli, Asti, Ceva, Fossano, Cuneo, Nizza, Ivrea e la Val d'Aosta. Ma erano possedimenti isolati fra loro la cui difesa dipendeva più dall'impegno e dal valore dei singoli comandanti che dalle truppe spagnole, poco propense ad offensive militari e abituatesi ad una guerra difensiva. Per poco, nell'autunno del 1553, non cadde la stessa Vercelli, occupata sia pure per soli due giorni da un colpo di mano del Brissac: difesa e soccorsa da Asti, la città venne rioccupata, ma nel frattempo i Francesi presero prigioniero lo stesso René de Challant e altri condottieri sabaudi.

La sorpresa di Vercelli causò la caduta del Gonzaga, richiamato appunto a corte; ma E:, preoccupato per la possibilità che i Francesi, grazie a Challant, potessero occupare o invadere la Val d'Aosta, inviò in Piemonte Andrea Provana di Leiny con l'incarico di assicurare la difesa della valle e riorganizzare il potere ducale nei territori ancora sabaudi. E in effetti la visita del Leiny e soprattutto le poche somme di denaro che riuscì a procurarsi si rivelarono provvidenziali per la sicurezza della valle, così come il viaggio che fece nelle altre città piemontesi e soprattutto a Nizza, di cui riorganizzò accuratamente le difese. Al Gonzaga ormai in disgrazia successe come governatore di Milano il duca d'Alba, ma la situazione militare non migliorò certamente: l'abile Brissac riuscì a prendere Santhià e poi la stessa Alessandria. Lo stesso E. non poté far altro che visitare Vercelli e raccomandare al nuovo governatore i suoi territori: "…per dar qualche refrigerio ai miei sudditi, che si po' dir sono in extremis, a ponto di render il solo spirito che gli è rimasto" (A. Segre-P. Egidi, E. F., I, p. 116). Ma il duca d'Alba si rivelò pessimo comandante in campo e crudele saccheggiatore in campagna provocando le ire e le ritorsioni dei Francesi e la disperazione degli abitanti: il suo tentativo di riprendere Santhià e l'abbandono della fortezza di Volpiano furono talmente mal condotti che crearono fra le truppe spagnole l'ingiurioso insulto: "Tu es mas vigliacco que la retirada de Santhià". Fortuna volle che il duca d'Alba fosse nominato l'anno seguente (1555) vicerè di Napoli: al suo posto in Lombardia vennero inviati il cardinale Cristoforo Madruzzo, vescovo di Trento, da anni molto legato a E., per il governo civile e il marchese di Pescara Francesco Ferdinando d'Avalos per il comando militare.

Ma la tregua di Vaticelles, firmata il 5 febbr. 1556 fra Francia, Spagna e Impero, fu un colpo assai grave per le speranze di E., il quale aveva cercato di opporsi sia presso Filippo a Londra sia presso Carlo V. Quest'ultimo tuttavia aveva già abdicato, con una solenne cerimonia, il 23 ottobre, il governo dei Paesi Bassi al figlio; il 16 genn. 1556, pochi giorni prima della tregua, lasciò quello della Spagna e dei regni collegati. Carlo V e la sorella Maria, che abbandonava il governo dei Paesi Bassi, si ritiravano in Spagna. La tregua, probabilmente accettata da Carlo V per stanchezza, sarebbe durata cinque anni e prevedeva il mantenimento della situazione militare de facto: nessuna ipotesi di restituzione per i ducati sabaudi, sia pur addolcita dalla consueta proposta matrimoniale per il duca di Savoia con una principessa di Francia e dal pagamento di una pensione di 20.000 scudi l'anno da parte del re di Francia. La delusione di E. fu profonda e le sue proteste vivissime, soprattutto presso Filippo II e i suoi stretti consiglieri: rifiutò come "principe d'animo e signore legittimo" la pensione francese. Il nuovo sovrano di Spagna, tuttavia, continuò a protestargli la sua fiducia e l'impegno nella difesa dei suoi interessi: così nello stesso mese ratificò la precedente nomina del duca a governatore generale dei Paesi Bassi, con poteri assai ampi sul Consiglio di Stato.

Sicuramente fu importante l'esperienza di governo del duca nei Paesi Bassi sia pur assai limitata nel tempo e nei rigidi vincoli posti dal sovrano spagnolo. Unico risultato notevole che E. riuscì ad ottenere, d'accordo con gli Stati provinciali, fu la riduzione dei tributi straordinari di guerra, che gravavano quasi interamente sul paese, e il concorso del Tesoro spagnolo al pagamento dei debiti di guerra.

La tregua di Vaucelles si rivelò del resto assai più fragile del previsto: essa veniva rotta in Italia già nel novembre dello stesso anno e l'esercito del duca di Guisa, penetrato in Italia, iniziava la sua marcia verso Roma e Napoli, grazie all'appoggio del pontefice Paolo IV Carafa. Sul fronte franco-fiammingo le ostilità cominciarono nella primavera seguente; i Francesi del Coligny iniziarono i combattimenti dalla Piccardia, ma E. poteva contare su un esercito rafforzato dall'alleanza che Filippo II, grazie al suo matrimonio con la regina Maria Tudor, aveva saputo imporre all'Inghilterra. L'esercito imperiale pose l'assedio a San Quintino dove riuscì a rifugiarsi il Coligny: nel tentativo di soccorrere la piazza già circondata, il conestabile Anne de Montmorency si fece sorprendere dall'intero esercito di E. e venne clamorosamente sconfitto. Il conestabile e i migliori comandanti francesi, 16 pezzi d'artiglieria, 200 cavalieri e 4.000 fanti rimasero nelle mani dei vincitori.

Fu vera gloria per il duca di Savoia? Difficile certo penetrare nel velo di retorica e di propaganda che la storiografia sabauda ha steso su tale impresa. D'altro canto il talento militare era in quegli anni ben diverso dalle capacità che la guerra di manovra richiese successivamente in Europa. Allora da un comandante in capo si richiedeva per lo più nobiltà di nascita, autorità, prestigio, capacità di mantenere ordine e disciplina più che una vera e propria esperienza strategica o tattica; questa la possedevano e la suggerivano i diversi consiglieri militari. Di E. lo furono Antonio Doria e G. B. Castaldo mentre il principe d'Orange, il conte d'Egmont e il conte d'Aremberg o il Gonzaga facevano parte del Consiglio allargato, al quale del resto potevano anche accedere il Granvelle e lo stesso Filippo II.

Erano inoltre, quelli, anni in cui alleati, corpi di truppe, intere armate potevano muoversi con tempi diversi giungendo sul campo di battaglia con ore e a volte giorni di ritardo: alla grande battaglia campale si giungeva più per caso che per volontà precisa d'una delle due forze in campo.

Indubbiamente E. poteva vantare sicure doti di comando; il suo primo bando alle truppe imperiali, appena assunta la carica, rimase celebre e fu durissimo: vennero proibite le assenze ingiustificate, controllati i registri delle mostre di tutti i reggimenti, allontanati dal campo prostitute e vagabondi, introdotta la pena di morte per stupri, violenze e rapine a danno dei civili. A differenza di altri tale bando venne applicato alcuni giorni dopo, quando, presa la fortezza di Hesdin, la fanteria spagnola s'impadronì del castello e lo saccheggiò, violando una breve sospensione d'armi. E. fece arrestare il capitano delle compagnie insubordinate, inviandolo con i ferri alle mani a Bruxelles e ordinò l'impiccagione di cinque fra i soldati più violenti: proprio quei soldati spagnoli che solo qualche giorno prima, soddisfatti della sua nomina, gli avevano offerto la rinunzia di 1.000 scudi al mese sulle loro paghe per le spese della sua carica. Così il suo stesso nome di battaglia, "Testa di ferro", pur essendogli stato dato dai Catalani a Barcellona (per la sua azione nella difesa della città contro un tentativo di sbarco della flotta di L. Strozzi) fu diffuso soprattutto proprio tra i tercios spagnoli. Ma l'applicazione del bando nulla tolse alla sua popolarità fra le truppe, grazie alla sua cura a dividerne disagi e impegni, secondo la grande tradizione e il modello del marchese di Pescara: dalle marce forzate con i fanti alle notti nelle trincee, riposando "con la medesima camicia bagnata, senza cavarsi stivali e speroni, per 30 giorni consecutivi" (Relazioni…, p. 207). E per quanto riguarda la sua fermezza nel mantenere l'ordine fra le truppe, anche fra quelle più indocili, fece molto scalpore l'episodio del conte di Waldeck. Nel settembre 1555, poco dopo lo scontro di Renty con l'esercito francese, E. confermò la condanna a morte di alcuni raitri del conte di Waldeck, colpevoli di rapina e violenze, tra i quali un domestico del conte. Protestò il conte insolentemente il giorno dopo con E., davanti al suo reggimento, a cavallo, agitando un piccolo archibugio verso il duca; questi, respingendo l'arma, scaricò sul conte la sua pistola, uccidendolo all'istante. La sera stessa il conte di Schwarzenberg e gli altri condottieri tedeschi invitarono E. ad un solenne banchetto, mentre lo stesso Carlo V elogiava la fermezza del nipote nel Consiglio di guerra.

La vittoria di San Quintino fu in ogni caso un notevole avvenimento politico-militare: sia a E. sia a Filippo II fu poi rimproverato di non aver saputo cogliere tutti i frutti dell'improvvisa vittoria. Ma in realtà tale accusa appare oggi ingiusta: anche una marcia vittoriosa su Parigi, pur sempre difficile e pericolosa, non avrebbe certo potuto dare più di quello che il re di Spagna ed E. raccolsero con la pace di Cateau-Cambrésis.

Anche sul fronte piemontese gli avvenimenti militari si erano mostrati in effetti favorevoli: Cuneo, brillantemente difesa da Carlo Manfredi di Luserna, resistette all'assedio francese guidato dal Brissac dal 3 maggio al 27 giugno. L'esercito francese dovette infine abbandonare l'assedio per il sopraggiungere delle truppe spagnole al comando del marchese di Pescara, lasciando tutti i bagagli, molti feriti e circa 3.000 morti.

Le trattative di pace, benché lunghe e complicate, erano favorite dallo stesso Montmorency e da Enrico II nonché dai successi del Guisa, che, costretto ad abbandonare l'impresa italiana, aveva riconquistato alla Francia la città di Calais. Ai primi di aprile 1559 veniva firmata la pace tra Francia, Inghilterra e Spagna. I domini sabaudi erano restituiti al duca di Savoia, salvo cinque piazzeforti che sarebbero rimaste alle truppe francesi per tre anni e due, Asti e Santhià, al re di Spagna. La giovane figlia di Enrico II, Elisabetta, avrebbe sposato Filippo II mentre Margherita, sorella del re, era destinata ad E., il quale in realtà avrebbe preferito l'altra figlia di Enrico, Claudia, assai più giovane della pur nota e ammirata zia. Inoltre, grazie al ricco bottino e ai riscatti dei prigionieri (il solo Montmorency pagò 200.000 scudi) e alla dote di Margherita, la pace diede qualche ristoro alle sempre esauste finanze di Emanuele Filiberto. Tuttavia al trattato pubblico Filippo II volle aggiungere alcuni patti segreti, concordati fra i due sovrani il 26 marzo nel convento di Grunendal, presso Bruxelles. Quasi apponendo una postilla al suo testamento del 1554, E. si impegnava infatti a mantenere due guarnigioni a Nizza e Villafranca, pagate dal re di Spagna con castellani fedeli al re e al duca, e a lasciare le due località, preziose per la marina spagnola, al re di Spagna, in caso di sua morte senza eredi.

E. entrava poco dopo a Parigi il 21 giugno 1559 con un seguito di duecento gentiluomini, "tout accoutrés en velours violet cramoisi, deublé de toile d'or e avec velours noir"; nero, rosso, oro, colori di Margherita di Francia (A. Segre-P. Egidi, E. F., II, p. 3). Tra questi René de Challant, Claudio, Bernardino e Filippo di Savoia-Racconigi, i conti di Masino, d'Arignano, della Trinità. Enrico II lo ricevette con grande amabilità, incontrandolo fin quasi sulla soglia del palazzo reale e lo stesso giorno il re gli presentò la sorella Margherita. La principessa aveva da poco compiuto trentasei anni: allevata e educata dalla zia Margherita d'Angoulême, poi regina di Navarra, era divenuta ben presto la protettrice dei poeti e degli artisti della corte di Francia, Ronsard e Du Bellay, i poeti della Pléiade, Michel de L'Hospital, illustri giuristi quali H. Doneau e J. Cujas frequentavano la piccola capitale del suo ducato di Berry, Bourges, celebrando nella principessa la più illustre e ammirata donna di Francia. Il 27 giugno furono firmati i capitoli matrimoniali tra i delegati del re e quelli del duca di Savoia. Ma tre giorni dopo in una giostra cavalleresca corsa per celebrare le grandi feste matrimoniali Enrico II veniva mortalmente ferito. L'agonia del sovrano francese durò diversi giorni: egli stesso volle che si concludesse il matrimonio della sorella, che fu in effetti celebrato in forma privata nella notte del 9 luglio, poche ore prima della morte del re.

La morte di Enrico II, se negli anni si rivelò un indubbio vantaggio per il duca sabaudo, favorendo indirettamente un lungo periodo di pace e una sostanziale debolezza del potere regio in Francia, nell'immediato lo privò di un sicuro e prezioso alleato, sia nelle sue regioni verso Ginevra e i territori occupati dagli Svizzeri, che egli si era impegnato a difendere, sia nelle trattative per la restituzione delle piazze occupate, prolungate nel tempo dai suoi successori e da Caterina de' Medici fino al 1574.

Nel mese di agosto E. tornò nelle Fiandre per cedere il governo a Margherita Farnese; quindi si congedò da Filippo II, in partenza per la Spagna, e, dopo aver assistito a Reims alla consacrazione del nuovo sovrano francese Francesco II, ricevendo il collare dell'Ordine di S. Michele, s'imbarcò finalmente a Marsiglia per Nizza.

Il ritorno in Piemonte avveniva in condizioni ancora estremamente difficili. Certamente appare ancor oggi difficile un'obiettiva valutazione dell'azione di E., al di là dell'agiografia e delle sopravalutazioni di tanta storiografia sabauda. Tuttavia occorre considerare come il Piemonte del 1560 fosse praticamente tagliato e diviso dal marchesato del Monferrato da un lato e da quello di Saluzzo dall'altro. L'accesso verso la preziosa contea di Nizza era controllato dalla contea di Tenda, feudo imperiale tenuto da un ramo bastardo dei Savoia legato alla Francia. Torino, Chieri, Pinerolo, Chivasso e Villanova d'Asti erano guardate da truppe francesi, Asti e Santhià da truppe spagnole. Verso Ginevra i Cantoni di Berna e Friburgo continuavano ad occupare i territori presi nel 1536: il Vaud, il Gex, il Chiablese e il basso Vallese con Romont. All'interno un paese duramente stremato per i pesanti costi della guerra, con un'economia in larga parte solo agricola, una società ancora divisa fra partigiani francesi o spagnoli, una popolazione fortemente legata al precedente governo francese, dimostratosi assai più moderato e illuminato di quello sabaudo, mentre sempre più acuto era diventato il problema religioso, sia per l'influenza ginevrina e francese (Delfinato e Linguadoca) sia per la questione valdese, riaccesasi nelle valli del Pellice e del Chisone.

Sicuramente sia nella politica estera sia in quella interna l'esempio degli insuccessi paterni condizionarono con forte evidenza molte decisioni di E., così come grande influenza si può attribuire alla sua personale esperienza di governo e di comando in Germania e nei Paesi Bassi. La pace e i trattati con gli Svizzeri divennero l'asse portante della sua politica estera così come il mantenimento dell'equilibrio fra Francia e Spagna il suo obiettivo di lungo periodo.

Ma la pacificazione all'interno dello Stato fu il primo compito di E.: a Nizza e poi durante il suo primo viaggio nel Piemonte fu largo di riconoscimenti verso le città e i sudditi più fedeli. A Nizza volle lasciare le bandiere conquistate a San Quintino; verso Cuneo fu largo di concessioni e privilegi, mentre alle cariche di corte e di governo chiamò gli esponenti di quella nobiltà feudale e degli uffici che già avevano servito nel paese o fuori. Mancavano tuttavia gli uomini; anche dalle relazioni degli ambasciatori veneti E. appare isolato, quasi ansioso di dare e ricevere informazioni, notizie, idee, progetti. Ben poche sono le persone che riceveva a corte o delle quali si circondava nel Consiglio di Stato e di cui accettava eventuali suggerimenti o consigli. Precisa e l'osservazione su tale mancanza: "Non vi è in questa corte uomo di gran maneggio e di molto spirito … son persone tutte nuove al governo … vanno dubitando sopra ogni cosa e mai non si risolvono" (Le relazioni…, p. 326).

Cosi i personaggi sono sempre gli stessi: il segretario H. Michaud, già nel suo seguito nelle precedenti campagne, G. Tommaso Langosco di Stroppiana, nominato nel 1560 gran cancelliere, Giovanni Fabbri segretario di Stato, Cassiano Dal Pozzo presidente del Senato, il vecchio maresciallo di Savoia René de Challant, i pochi antichi combattenti, Amedeo Valperga, Carlo Manfredi di Luserna, Giorgio Costa della Trinità, qualche giurista come Giovanni Matteo di Cocconato o G. Cacherano d'Osasco, persino l'antico precettore di E., Luigi Alardet, vescovo di Mondovì. Tutti utilizzati nelle lunghe e complesse trattative delle restituzioni delle piazze, o nelle negoziazioni con gli Svizzeri e gli Stati italiani o in altre missioni diplomatiche. E in alcuni posti chiave, dove erano richieste davvero capacità e conoscenze specifiche, il duca chiamò qualche tecnico: il genovese Negrone Di Negro, da lui conosciuto nelle Fiandre, nominato tesoriere generale, il giurista Pierino Belli diplomatico e consigliere di Stato, lo spagnolo Diego Hortiz de Pros, creato contadore generale delle genti di guerra, ufficio da lui già svolto sotto Carlo V, o il piacentino G. A. Levo, veterano delle Fiandre, nominato sergente maggiore della nuova milizia.

E ancora una volta a corte o al servizio di E. vecchi compagni d'arme o rappresentanti di famiglie amiche e legate ai Savoia. I buoni rapporti intrattenuti con lui dal cardinale Madruzzo in Germania vennero ricompensati con la nomina del nipote Giovanni Federico a colonnello della fanteria tedesca, ma soprattutto dando in moglie a questo l'unica erede di René de Challant, il più potente e ricco feudatario sabaudo, arbitro dell'intera Val d'Aosta. Filippo d'Este ebbe la nomina a generale della cavalleria e la mano della figlia naturale del duca, Maria. E Andrea Provana di Leiny il governo di Nizza e il comando delle quattro galere sabaude, con tre delle quali si distinse poi a Lepanto. Uomini d'arme di solida e provata esperienza certo, ma utilizzati di volta in volta ora in incarichi diplomatici, ora nelle trattative con gli Stati generali, ora nella repressione dell'eresia. Emblematico per certi versi il ricorso a Giorgio Maria Costa di Trinità, il più noto e fedele combattente sabaudo e imperiale nelle guerre contro i Francesi. Nel 1560 fu nominato sì "generale maestro di campo delle Milizie dette ordinamenti ducali", ma pochi giorni dopo veniva incaricato dal duca di condurre le trattative con gli Stati generali, convocati a Racconigi, per stabilire l'aumento della gabella del sale. E tre mesi dopo promosso "capitano generale dell'impresa contro i Valdesi". Incarico assai poco gradito dal Costa che così scriveva al duca "…et Ella vorrà ch'io pigli la croce in spalle questo … per amor di Dio et per far servitio di V. A. lo farò…" (Diz. biogr. d. Ital., XXX, sub voce).

La scelta del Costa non fu certo casuale: uno dei primi atti di E. fu proprio lo scioglimento degli Stati generali rivelatisi già con Carlo II inadeguati e incapaci di sostenere la volontà del principe, soprattutto per la mancata concessione dei tributi militari e straordinari richiesti in occasione dell'invasione svizzera e di quella francese. Convocati per l'approvazione dell'aumento della gabella del sale, aumento poi trasformato in un'imposta fondiaria diretta, il tasso, simile alla taglia francese, gli Stati non furono mai più convocati. Giustificato in diversi modi dalla storiografia ottocentesca, in realtà tale atto fu dovuto proprio al profondo disprezzo che il nuovo duca, sovrano autoritario e assoluto, aveva maturato verso tali forme di rappresentanza politica sia nelle Fiandre sia nelle passate esperienze piemontesi.

Molto più attenta e avveduta si rivelò nei primi anni invece la politica di repressione dell'eresia in Savoia e in Piemonte. L'occupazione francese aveva comportato in effetti molta tolleranza sia verso la propaganda calvinista e protestante sia verso i forti gruppi valdesi attivi nelle valli alpine. Sollecitato dalla S. Sede e dallo stesso Filippo II, il nuovo duca favorì indubbiamente la repressione di tali gruppi, anche perché personalmente convinto che le guerre di religione, così come era successo in Germania e stava avvenendo nella vicina Francia, avrebbero gravemente minato l'autorità sovrana, favorendo le lotte civili.

In un primo tempo il duca pensò ad una vera e propria spedizione punitiva nelle valli valdesi, affidandone appunto il comando al Costa. Ma la resistenza dei valdesi, i possibili coinvolgimenti degli ugonotti del Delfinato, le mediazioni dei principi protestanti tedeschi, ma soprattutto i tentativi di mediazione operati nella stessa corte dalla duchessa Margherita e da Filippo di Savoia-Racconigi spostarono i termini del conflitto. Il 5 giugno 1561, dopo lunghe trattative, si arrivò ad un accordo firmato nel castello di Cavour fra i rappresentanti ducali e quelli valdesi: questi ottennero piena amnistia e libertà di culto nelle valli, estesa anche ai cattolici; fuori dalle valli solo libertà di coscienza. Il trattato di Cavour, che il duca volle ufficialmente proclamato "ad intercessione della serenissima Madama nostra principessa et per grazia soa speciale", "restò per oltre due secoli la carta della libertà religiosa dei valdesi. E in effetti fu un'abile concessione del nuovo duca.

Egli, ricordano gli ambasciatori veneti, sentendosi principe profondamente religioso e intimamente cattolico, aveva vissuto come uomo d'arme e vero cristiano. Destò sorpresa il suo trascorrere la notte della vigilia della presa del comando supremo, nel 1553, nel monastero di S. Paolo, quasi nuova investitura di armi; ma altri giorni aveva trascorsi in ritiro e in preghiera, due anni prima, nella celebre abbazia di Monserrato, vicino Barcellona, dove già erano stati Consalvo di Cordova, Fernando d'Avalos, lo stesso Carlo V, e Ignazio di Loyola.

E tuttavia il suo atteggiamento nei confronti della riforma protestante fu singolarmente prudente. Prudenza assai probabilmente dovuta alla sua esperienza presso la corte cesarea, osservatorio privilegiato per rendersi conto della gravità e dei pericoli legati all'eresia, ma d'altro canto della vanità e dell'inutilità di una repressione armata. Affermava quindi che: "…la religione cristiana non fu mai piantata con la forza degli eserciti né colla violenza delle armi; ma ben con la verità del Verbo…" (Ricotti, p. 413). E così del resto scrisse, nel 1565, con notevole lucidità politica alla corte di Madrid, che lo aveva rimproverato per il perdono concesso ai valdesi di Caraglio: "…questi modi di riavere gli eretici … riusciranno assai migliori. Perciocché, facendogli morire ne nascerà tumulto e sollevazioni, e, lasciandogli fuggire, non guadagniamo le anime e perdiamo le persone, facciamo disabitare il nostro Stato e popoliamo l'altrui…" (Arch. di St. di Torino, Lettere ministri, Spagna, 1565). Saggio consiglio che lo stesso Filippo II avrebbe potuto seguire anni dopo. E così ancora di fronte alle insistenze di Pio V e dell'Inquisizione di Vercelli per far eseguire la condanna al rogo di un frate relapso, Giorgio Olivetta, così scriveva a Roma: "…Non basta né conviene di questi tempi bruciare un uomo, la cui morte non farà li buoni essere migliori, ma si bene li mali essere peggiori e più ostinati… Ma posso io far quel che non possono i re di Francia e Spagna? … So bene che tollerare eretici è pericolosissimo … ma non bisogna ingannarsi. Castigarli tutti a me è impossibile, abbruciarne alcuni infiamma crudelmente gli altri alla vendetta. Sicché … il mio parere è … che si abbia da usare della mediocrità tanto necessaria in questi tempi, castigando, non disperando … (Ricotti, p. 320).

Nel 1561 la corte ducale si stabiliva a Rivoli, in attesa della restituzione di Torino e delle altre piazze occupate dai Francesi. Le trattative furono lunghe e difficili, poi la nascita dell'erede al Ducato, Carlo Emanuele, il 12 genn. 1562, favorì gli interessi sabaudi. Il 7 febbr. 1563 E. fece il suo ingresso ufficiale nella città di Torino, con la duchessa Margherita, proclamando la città capitale dello Stato e sede della corte.

L'esperienza militare di E. e quella acquisita nel governo dei Paesi Bassi avevano radicato in lui la ferma convinzione che solo un forte esercito e una solida struttura finanziaria gli avrebbero permesso la conservazione dello Stato. Da qui le sue cure, già dai primi mesi del ritorno in Piemonte, a Nizza e poi a Vercelli, per una riforma del sistema fiscale e per la creazione di una struttura militare permanente. L'aumento della gabella del sale, l'introduzione del tasso, le gabelle dei consumi del vino e della carne, quelle sul commercio d'esportazione e di transito fecero in effetti crescere notevolmente il gettito delle imposte. In pochi anni la Tesoreria generale di Piemonte, grazie anche all'oculata gestione del duca, poteva vantare un saldo attivo che andava negli anni ad incrementare una riserva monetaria notevole. Da qui una certa impopolarità dello stesso E., ben colta da alcuni ambasciatori veneti, proprio per la forte e accresciuta presenza del governo ducale, in stridente contrasto sia con la precedente debolezza del governo di Carlo II sia con la moderazione osservata dai governatori francesi. L'occupazione francese inoltre era stata caratterizzata da forti spese militari nel Piemonte, mentre l'avveduta gestione finanziaria del nuovo duca limitava molto e le spese di corte e quelle militari.

Molto è stato scritto sulla riforma militare di E. e sull'introduzione della milizia ovvero su una sorta di leva militare alla quale erano tenuti tutti i sudditi compresi fra 1 18 e i 50 anni. Già utilizzata nella Terraferma veneta, con il nome di cernite, teorizzata da Machiavelli per Firenze, ripresa da Cosimo I in Toscana, con le note bande provinciali, essa aveva essenzialmente due scopi: evitare o almeno ridurre il ricorso alle truppe mercenarie, che costituivano allora il nerbo degli eserciti permanenti; abituare i sudditi all'esercizio delle armi per l'eventuale difesa del paese. Ma E. sapeva benissimo quanto poco potessero valere semplici contadini in una vera battaglia, come aveva lui stesso scritto, anni prima, a Filippo II: "… ya sabe V. M. cosa son villanos …" (A. Segre-P. Egidi, E. F., II, p. 15). Ma sapeva altrettanto bene cosa potesse significare presso le altre corti italiane ed europee la semplice notizia che oltre a contingenti svizzeri e a condottieri italiani "trattenuti" il duca di Savoia poteva contare su circa 22.000 uomini della milizia nazionale d'ordinanza. E in effetti l'organizzazione e la struttura della milizia, affidata al piacentino G. A. Levo e al vicentino G. Piovena includeva uomini d'arme, condottieri e capitani assoldati dal duca in tutta Italia. L'effetto propagandistico fu notevole: sia pure scettici sul valore di tali milizie tutti gli ambasciatori veneziani, francesi e spagnoli fecero a gara per rilevarne numero e consistenza. Il regolamento a stampa fu diffuso in Italia e all'estero, giungendo persino in Portogallo e ogni occasione ufficiale fu dal duca sfruttata per mettere in mostra e propagandare la milizia d'ordinanza. Nel 1566 mille uomini furono inviati all'imperatore Massimiliano in guerra contro i Turchi; l'anno seguente altri 6.000 uomini furono inviati in Francia per combattere contro gli ugonotti; nel 1574, in occasione del passaggio in Piemonte del nuovo re di Francia Enrico III, E. lo fece scortare via via da un complesso di 10.000 fanti e 2.000 cavalieri, dei quali 5.000 servirono il re di Francia con R. de Bellegarde all'assedio di Livron.

Uguale cura e attenzione il duca mostrò verso il sistema di fortificazioni che difendeva i punti chiave del Ducato. A Nizza, Bourg-en-Bresse, Saint-Julien, Montmélian furono innalzate nuove fortezze; a Mondovi e Santhià nuove cittadelle, così come a Torino. Qui il duca commissionò agli architetti F. Orologi e O. Paciotto la costruzione di una nuova cittadella, che venne innalzata in soli due anni, fra il 1564 e il 1566.

Ma soprattutto E. pensò di utilizzare il suo stesso prestigio e la fama conquistata sul campo per tessere una fitta rete di rapporti diplomatici che garantissero allo Stato un lungo periodo di pace. Perno della sua strategia fu l'intesa con i Cantoni svizzeri, grazie alla quale poteva assicurarsi la loro neutralità in caso di guerra, il reclutamento di truppe professionali e addestrate, trattati commerciali che assicuravano l'esportazione dei principali prodotti del paese, soprattutto quelli agricoli.

E. iniziò già nel 1560 a trattare con i Cantoni cattolici firmando con essi un primo trattato a Lucerna, che garantiva la libertà di traffico fra i due contraenti, il divieto di transito a eventuali truppe nemiche e il reclutamento di un piccolo contingente per la guardia del corpo del duca. Con Berna e Friburgo le trattative erano articolate dal contenzioso sui territori ducali occupati dai due Cantoni e dalle richieste sabaude: tuttavia E. preferì cedere a Berna i territori a occidente, tra cui il Vaud e Losanna, recuperando invece il Genevese, il Gex e lo Chiablese. La questione ginevrina fu lasciata da parte, mentre il duca assicurava la tolleranza religiosa ai riformati dei territori restituiti. Quest'ultima clausola del trattato, firmato a Losanna nel 1564, provocò le proteste della S. Sede e dello stesso Filippo II, che rifiutò a lungo di ratificare l'accordo. Solo tre anni dopo, nel 1567, in occasione della richiesta di transito fatta a E. per le truppe spagnole inviate da Milano nelle Fiandre, Filippo Il concesse la ratifica, insieme con Pio V. Altri accordi E. continuò a stipulare con Friburgo, Berna e gli altri Cantoni cattolici, ora cedendo qualche territorio, ora ottenendone indietro altri, rinnovando accordi commerciali, spesso contro l'opposizione pontificia, fino alla pace firmata a Torino nel 1577, con Friburgo e la Lega cattolica, che prevedeva in caso di guerra di poter assoldare ben 12.000 fanti svizzeri, impegnandosi il duca a sua volta a fornirne 1.500 e sussidi in denaro ai Cantoni.

Con gli Stati italiani E. tenne una politica altrettanto accorta. Già prima del rientro in Piemonte inviò una legazione permanente a Venezia, con la quale i Savoia avevano interrotto le relazioni alla fine del Quattrocento a causa delle loro rivendicazioni sul Regno di Cipro. Venezia quindi stabilì in Piemonte un'ambasciata regolare e durante il governo di E. ben sette ambasciatori si alternarono a Torino, lasciando nei loro dispacci e nelle loro relazioni una ricchissima descrizione sia del paese e del governo del duca sia della personalità dello stesso Emanuele Filiberto.

L'attenzione di E. verso Venezia fu costante; due volte fu nella città, nel 1566 e nel 1574, ottenendone il patriziato e volle che la Repubblica facesse da madrina al battesimo del principe Carlo Emanuele nel 1567. E in occasione della Lega santa, che portò alla vittoria di Lepanto, volle che le tre galere del nuovo Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, al comando di A. Provana di Leiny, partecipassero alla campagna insieme con la flotta veneziana. Buoni rapporti mantenne con gli Estensi e i Della Rovere, mentre quelli con il duca di Mantova restarono sempre assai difficili per le aspirazioni sabaude alla successione del marchesato di Monferrato.

Nelle relazioni con la S. Sede E. giocò quasi sempre con successo la carta del pericolo protestante, avvalendosi della delicata posizione del Ducato, confinante con i Cantoni svizzeri riformati e con le province francesi più dichiaratamente ugonotte come il Delfinato e la Provenza.

Ciò permise, giostrando abilmente con i diversi pontefici e soprattutto con Gregorio XIII Boncompagni, di ottenere numerose concessioni: il riconoscimento del celebre indulto concesso da Niccolò V ai Savoia, che per i benefici e le nomine del Ducato prevedeva il placet del duca e l'amministrazione ducale dei benefici vacanti; la ratifica della pace di Cavour con i valdesi e quella del trattato di Losanna con gli Svizzeri; la vendita dei benefici ecclesiastici dei territori recuperati agli Svizzeri a favore dell'Ordine mauriziano; l'unione dell'Ordine di S. Maurizio con quello di S. Lazzaro, con le relative ricche commende; l'introduzione della norma del tribunale competente, che proibiva ai sudditi di comparire di fronte a tribunali stranieri e quindi a quelli ecclesiastici, poi mitigata, di fronte alla reazione romana, con quella della appellazione per abuso, che dichiarava il Senato di Piemonte tribunale supremo di appello.

Certamente tali successi furono il frutto di altrettante concessioni: coerente con l'immagine del principe e sovrano cattolico, E. favorì l'introduzione dei canoni tridentini in Piemonte (ma non in Savoia), fu largo di concessioni e privilegi verso i nuovi collegi dei gesuiti, sostenne le ragioni della S. Sede su Avignone, minacciata dagli ugonotti, inviò più volte le galere mauriziane in crociera con quelle pontificie nel Mediterraneo.

Ma indubbiamente l'attenzione di E. fu in questi anni assorbita più dallo scenario internazionale che da quello italiano. Il mantenimento della pace tra la Spagna e la Francia fu il suo obiettivo immediato; e con gli anni la sua neutralità divenne forse ancor più accentuata, probabilmente proprio a causa della grave situazione di debolezza della corte francese e delle guerre di religione. Più volte incontrò in Francia la regina Caterina e diversi esponenti della Lega o del partito dei Montmorency, dimostrandosi abile mediatore, ma pur sempre sostenitore dei diritti della Corona francese. Tale azione non mancò di suscitare a Madrid numerosi sospetti, ma la ricca corrispondenza del duca con Filippo II testimonia una solidità di rapporti che solo la conoscenza diretta fra i due principi può spiegare.

Interpellato spesso da Madrid direttamente o tramite i diversi governatori generali di Milano, E. suggeriva dove fare nuovi arruolamenti in Italia; garantiva una via diretta per le Fiandre ai tercios della penisola; custodiva nel castello di Nizza le loro paghe per un valore di 2.000.000 di scudi d'oro; offriva la sua stessa persona al sovrano spagnolo per il comando militare della Lega santa. Ma in questo caso Filippo II rifiutò: voleva uno spagnolo al comando dell'impresa gloriosa e soprattutto non voleva che il Ducato, in posizione così delicata e in un momento grave per le guerre di religione in Francia, venisse governato da Margherita di Francia, dalle simpatie protestanti così apparentemente manifeste ai suoi occhi.

Nel 1574 E. si recò, d'intesa con la regina Caterina, a Venezia per incontrare il nuovo sovrano francese Enrico III e scortarlo poi sino a Lione. Lo scopo del duca era sin troppo evidente: voleva persuadere il giovane re ad acconsentire alla cessione delle due ultime piazzeforti conservate dai Francesi in Piemonte, Pinerolo e Savigliano. Ma subito dopo la breve permanenza a Torino del nipote Enrico III, presso il quale indubbiamente la duchessa esercitò tutta la sua influenza per ottenere la promessa della restituzione delle due piazze, Margherita si ammalò gravemente. Il duca ricevette la notizia della malattia in Francia, a Lione, dove aveva accompagnato con un largo seguito militare il sovrano francese e dove finalmente aveva ottenuto la tanto attesa promessa di restituzione. Ma al suo rientro a Torino la duchessa era già morta.

"Muger de gran spiritu y inteligencia… muger que no dorme", come sottolineava il pur ostile residente spagnolo a Torino G. Vargas, Margherita di Francia aveva esercitato una grande influenza su E., profondamente amato, tanto da far ammettere lei stessa a corte due suoi figli naturali, allevati segretamente fuori Torino. Fu lei indubbiamente a rafforzare lo spirito di tolleranza religiosa del duca, in lui certo molto più politico che reale; mentre sicuramente minore fu la sua propensione verso la causa francese, tanto temuta a Madrid, probabilmente anche per la grave crisi politica della monarchia in Francia. E tuttavia il suo matrimonio e il suo legame con il marito avevano accresciuto il prestigio e l'influenza personale del duca in Francia. Lo testimoniano la frequentissima corrispondenza fra la corte francese e Torino, le numerose richieste di mediazione fra la corte e alcuni principi e marescialli ribelli, quali il Bellegarde o il duca di Daniville, le stesse richieste pontificie al duca a favore di Avignone.

Dopo il 1574 l'attenzione di E. verso gli affari interni francesi si fece nettamente più marcata: le province meridionali del regno erano ormai in aperta rivolta. D'altro canto sia con il maresciallo Henri de Montmorency, duca di Damville, figlio del suo antico prigioniero di San Quintino, governatore di Linguadoca, sia con il maresciallo di Bellegarde governatore di Carmagnola e quindi del marchesato di Saluzzo, egli aveva sempre avuto innumerevoli contatti. Nel 1577, dopo l'ennesimo patteggiamento con la corte, mediato dal duca, il Damville si avvicinò alla lega dei Guisa, il Bellegarde agli ugonotti. Quest'ultimo, pur di non cedere Saluzzo al nuovo governatore reale Carlo Birago, l'occupò militarmente, con il tacito appoggio di E. e di Filippo II. Ma nello stesso anno il Bellegarde morì improvvisamente: pochi mesi dopo E. fece occupare il marchesato dalle truppe di Ferrante Vitelli, tenendolo "a nome del re di Francia" e suscitando le proteste francesi e dello stesso Filippo II. Probabilmente desiderata da tempo, l'occupazione di Saluzzo fu tuttavia un'operazione assai intempestiva e mal condotta, soprattutto a livello diplomatico. L'incertezza degli avvenimenti francesi aveva reso molto scettico verso la corte di Parigi lo stesso E.; la debolezza della monarchia lo privava di una valida alternativa all'alleanza spagnola, sempre pesantemente vincolante. Così, incerto se intervenire direttamente negli affari francesi, magari per strappare questa o quella provincia confinante, E. non riusciva neanche a decidere tra le varie proposte matrimoniali per il figlio, l'appena diciottenne Carlo Emanuele. Filippo II offriva la mano della Infanta Caterina, la corte imperiale l'arciduchessa Isabella, quella di Parigi la principessa di Lorena.

D'altro canto più volte E. aveva manifestato l'intenzione di ritirarsi a Nizza, lasciando il governo a Carlo Emanuele, forse influenzato dal grande esempio di Carlo V. Ma lui stesso si rendeva conto che il pericolo ugonotto ai confini francesi, la delicata situazione del marchesato di Saluzzo, l'arroganza del governo spagnolo in Lombardia richiedevano la sua attiva presenza a Torino. Già sofferente da anni di malaria e di insufficienza renale, aveva però ostinatamente perseverato in una dieta assai inadatta, privilegiando esclusivamente le carni e i pesanti vini spagnoli, di cui aveva sempre abusato. Nell'agosto del 1580 sopraggiunse una forte febbre, con edema alle gambe. Assistito dalla figlia Maria e dai fedelissimi Provana e Della Torre, ricevette il 30 ag. 1580 l'unzione dall'arcivescovo G. Della Rovere, spegnendosi poche ore dopo, a Torino.

Rottura e continuità avevano caratterizzato l'azione di E.: forse si è insistito da parte di certa storiografia nel cogliere più gli elementi di rottura con la situazione precedente che quelli di continuità. E indubbiamente lo scioglimento degli Stati generali, le innovazioni finanziarie e monetarie, l'introduzione di nuovi tribunali come le prefetture, la creazione di una milizia nazionale costituirono un nuovo assetto dello Stato sabaudo. Pure E. volle conservare i grandi tribunali introdotti dai Francesi, mutandone semplicemente il nome in Senato di Savoia e di Piemonte; le Camere dei conti di Savoia e Piemonte restarono nel campo finanziario e contabile i supremi organi di controllo e verifica dell'attività governativa. E numerosi certo furono i tentativi volti a privilegiare lo sviluppo economico e commerciale del paese; ma non diversi o più originali di quelli che pure venivano portati avanti negli altri Stati italiani del tempo. Privilegi alle arti, concessioni a mercanti e banchieri, tentativi d'introdurre l'arte della lana e quella della seta, aperture per chiamare nello Stato gli ebrei cacciati dalla Spagna, sviluppo del porto di Nizza, spesso si rivelarono piuttosto fragili speranze che progetti concreti, del tutto simili a quelli che si tentavano nella Toscana medicea o nella stessa Roma pontificia. Né miglior fortuna ebbe del resto la pur intelligente riforma monetaria, introdotta per rimediare ai gravi inconvenienti che le monete di basso conio e le diverse monete di conto recavano alla debole economia del paese. Ma la lira ducale d'argento, pur effettivamente coniata, divenne praticamente una sia pur utile moneta di conto; l'inflazione e la svalutazione monetaria restarono, aggravandosi sotto il governo dei suoi successori e solo con la nuova riforma di Vittorio Amedeo I la lira piemontese trovò equilibrio stabile con le monete forti del tempo. Ma indubbiamente E. lasciava al figlio uno Stato profondamente rinnovato, una struttura finanziaria solida, un paese con una ricca economia agricola, un prestigio e una posizione internazionale di tutto rilievo nel panorama dell'Italia del tempo.

Prestigio, fama e successo riconosciutigli ampiamente già ai suoi tempi: la stessa Venezia, dopo Lepanto, fu la prima a tributargli in Italia il titolo di Altezza, prima ancora della concessione imperiale. E nessun altro osservatore del tempo ha saputo cogliere la ricca personalità del principe sabaudo, nella sua schiettezza e nelle varie sfumature, meglio degli ambasciatori veneti residenti a Torino, dai segni del successo e del prestigio ("Ha questo signor duca tutti li ordini di cavalleria che siano oggi de' principali fra principi cristiani … l'ordine dell'Annunziata… la Giarettiera d'Inghilterra; il Tosone di Borgogna, S. Michele di Francia… Anzi dico di più che non è altri che gli abbia tutti quattro fuori che Sua Eccellenza…": Relazioni…, p. 37) alla capacità di trattare con gli uomini in guerra e in pace, mostrando un carattere forte ma capace di adattarsi ai luoghi e alle circostanze.

Grande fu quindi sempre la familiarità di E. con gli ambasciatori veneziani, verso i quali evidentemente non sentiva particolari obblighi di etichetta e con i quali si abbandonava a lunghe ore di conversazione. Ecco allora emergere la passione per il mare (frutto forse della sua giovinezza a Nizza?), gli svaghi nei suoi gabinetti di alchimia o negli studioli di matematica o nelle cacce. La descrizione di una di queste fatta da Francesco Morosini è davvero indicativa del carattere del personaggio: dopo una corsa di nove ore dietro un cervo, il duca, con soli più ormai quattro compagni, tra cui l'ambasciatore, uccide il cervo. Rifugiatisi presso un minuscolo castelluccio si trovano nella necessità di attendere che l'unico garzone spacchi la legna per il fuoco: ma il duca "vedendo che questi faceva molto a suo agio … gli levò sua eccellenza la mannara di mano e si mise con una destrezza e forza mirabile a spezzar quei legni, e in poco spazio ne preparò tanti che bastarono d'avvantaggio per il bisogno della cena … e fornita la cena subito si levò e restò in quel luogo giocando alle predelle… se bene tutti noi altri a pena potevamo stare in piedi…" (Relazioni…, p. 207).

Sovrano e principe assoluto, altero certo e ben conscio del suo ruolo, ma anche profondo diplomatico ed esperto conoscitore d'uomini e dei modi per conquistarli: questo spiega i suoi successi con le truppe, la simpatia riscossa nella corte imperiale, la sua capacità di muoversi a corte o al campo, dai suoi primi anni alla maturità. Così, ormai duca di Savoia, a Torino, dopo anni di lunghe ed estenuanti trattative con i Cantoni svizzeri e in particolare con i sei Cantoni cattolici, fra i quali Friburgo, non esitò ricevendoli a Torino a onorarli in vari modi, ma soprattutto "all'improvviso una mattina se ne andò con loro a disinare alla hosteria, dove erano alloggiati, nel qual luogo fece loro quelli più domestici favori che poté, cercando con quelle maniere accostumate tra quella Natione, far loro conoscere l'intimo del suo cuore, et la stima che faceva delle persone et superiori loro" (Adriani, Sanctacrucii…, p. 954). Non sarebbe quindi azzardato definirlo come il più celebre, illustre e fortunato principe italiano dell'età moderna.

Fonti e Bibl.: Per i numerosi incarichi ricoperti presso la corte imperiale, nelle Fiandre e al servizio della Spagna numerose sono le fonti relative a E. conservate nei maggiori archivi europei. Qui si indicherà soltanto per i suoi rapporti con Filippo II la corrispondenza del residente spagnolo a Torino, Giovanni de Vargas Mejia, in Archivo general de Simancas, Segreteria de Estado, Saboa, anni 1569-1575. Torino, Biblioteca Reale, Iconografia sabauda, c. 7: originale della stampa ufficiale di E. con i quattro Ordini cavallereschi e le varie imprese, destinata ad esser pubblicata dal Tonso nella prima biografia ufficiale; Ibid., Manoscritti, Misc. 165, cc. 29, 36 s.; 170, cc. 37, 33; Ibid., Misc. st. patria 560 (1-5); 1158-1159; Ibid., Fondo Saluzzo 231, 723 per alcuni carteggi e memorie relative all'attività di E. in Piemonte per gli anni 1552-1576.

Nell'Archivio di Stato di Torino, cfr. Real Casa, Cerimoniale, Nascite e battesimi, ms. 1, con la relazione del re d'armi dell'Annunziata sul battesimo di E.; Ibid., Matrimoni sovrani e principi, m. 19, per il matrimonio; Ibid., Testamenti, n. 7, per l'atto originale datato 8 ag. 1554. In Storia Real Casa, III, ms. 10 i diari originali e autografi delle campagne militari e il testo della Preghiera. Per la corrispondenza si vedano la serie Lettere duchi, Carlo III, E. F.; Registri lettere corte 1541-1553 quale principe di Piemonte e 1553-1573 come duca di Savoia; Minute lettere ducali, nn. 8-22. L'attività diplomatica di E. e la sua personale ingerenza nei rapporti con le grandi monarchie europee e gli Stati italiani si può facilmente riscontrare nelle serie Trattati diversi, Negoziazioni Svizzeri, Spagna, Roma, Francia, Venezia e Lettere ministri, sub voce, mentre per l'attività politica interna sono fondamentali i Protocolli ducali, nn. 223-237, con la registrazione di tutti gli atti prodotti dai segretari e cancellieri ducali. Inoltre, sempre nella sezione I, Materie militari, siconservano buona parte dei provvedimenti e delle memorie sull'istituzione della milizia voluta da E., da integrare con l'altrettanto ricca documentazione conservata nella sezione IV, Guerra e marina, Veedoria e contadoria generale…, e nella sezione III, Camerale, Tesoreria generale di milizia; qui si vedano inoltre gli artt. 259, con alcuni bilanci dello Stato e della Real Casa corretti dallo stesso E., 392, con i viaggi e gli itinerari del duca attraverso il Piemonte e la Savoia; e 217, Tesoreria Real Casa, per il mantenimento e la struttura della corte ducale. Nell'Archivio storico d. città di Torino, Collezione Simeon, nn. 2367-2368, la descrizione di alcune feste a Torino al tempo di Emanuele Filiberto.

I diari di E. furono pubblicati in occasione del IV centenario della nascita: si veda Diari della campagna di Fiandra, a cura di E. Brunelli, Introd. di P. Egidi, in Biblioteca della società storica subalpina, CXII, Torino 1928. Essi erano già stati commentati da E. Ricotti, Degli scritti di E. F. duca di Savoia, in Atti d. Acc. d. scienze di Torino, s. 2, XXII (1876), pp. 69 ss.; e da L. Romier, I diarii di E. F., in Mélanges École française de Rome, XXX (1910), pp. 3-50.

Importanti giudizi sull'azione e la personalità di E. sono stati espressi da numerosi contemporanei e dai primi biografi. Tra i contemporanei, oltre alle numerose osservazioni, a volte davvero penetranti dei diversi ambasciatori veneti, sono intetessanti sia quelle espresse da generali e condottieri spagnoli sia dagli avversari francesi. Fra questi ultimi cfr. P. de Brantôme, Oeuvres complétes, I, Vies des homme illustres…, E. F., Paris 1822; B. de Monluc, Commentaires, 1521-1576, Bruges 1971, sub voce; Collection complète des mémoires relatifs à l'histoire de France depuis le régne de Philippe-Auguste…, a cura di Cl.-B. Petitot, Paris 1819-27, voll. XXVI-XXX (Memorie di Fr. de Scepeaux, sire de Vielleville, e di Fr. de Boyvin, baron du Villars), sub voce. Più agiografici e destinati a propagandare la figura del duca i lavori di altri contemporanei quali quelli di T. Malignano, Libro de cavalleria intitulato El Cavallero resplendor..: dirigido al Ser.mo E. Ph…., Vercelli 1562; B. Pellipari, L'Italia consolata, Vercelli 1562; I. Tonsi, De vita Emmanuelis Philiberti Allobrogum ducis libri duo, Augustae Taurinorum 1596; G. Botero, I principi cristiani. Vita dei capitani, Torino 1603, sub voce.

La sincera ammirazione di E. verso la Repubblica di Venezia traspare dagli ottimi rapporti da lui avuti con i ben sette ambasciatori che risiedettero a Torino fra il 1561 e il 1580; così le loro relazioni sono ricchissime di particolari, di notizie e di penetranti osservazioni sul carattere e la personalità del duca: cfr. Relazioni degli ambasciatori veneti, XI, Savoia, a cura di E. Alberi, nella riedizione, curata da L. Firpo, Torino 1983, pp. 37, 52, 79, 130, 140, 162, 230, 352 s., 420 s., 424 e passim; sui rapporti con Venezia cfr. inoltre Emanuele Filiberto duca di Savoia, Lettere alla Repubblica Veneta, a cura di N. Barozzi, Portogruaro 1863; e A. Paravia, Sul patriziato veneto dei reali di Savoia e sulle relazioni fra Venezia e Piemonte al tempo di E. F., in Memorie piem. di letter. e storia, Torino 1853, pp. 62-136, e A. Segre, E. F. e la Repubblica di Venezia, in Miscellanea della R. Deputaz. ven. di st. patria, VII (1896), pp. 87 ss. Come fonti coeve sono inoltre interessanti le osservazioni di G. Cambiano di Ruffia, Historico discorso, riedito in Monumenta historiae patriae, Scriptores, III, Augustae Taurinorum 1840, coll. 931-1422, e le Memorie di un terrazzano di Rivoli dal 1535 al 1586, a cura di D. Promis, in Miscellanea di storia italiana…, VI (1865), pp. 601 ss.; M. C. De Buttet, Les victoires E. Ph…., ibid., s. 3, XVII (1915), pp. 587-607.

Importanti riferimenti all'attività politica e diplomatica del duca di Savoia si trovano ancor oggi nei classici lavori di E. Ricotti, Storia della monarchia piemontese, II, Firenze 1861, pp. 8, 12, 18, 23 e passim; D. Carutti, Storia della diplomazia della corte di Savoia, II, Torino 1875, pp. 3, 15, 17 e passim; L. Cibrario, Origine e progressi delle istituzioni della monarchia di Savoia, Firenze 1869, passim; ricchissimi sono del resto i lavori di B. Claretta, Notizie storiche intorno alla vita e ai tempi di Beatrice. di Portogallo duchessa di Savoia, Torino 1863, passim; Id., Ferrante Vitelli alla corte di Savoia nel sec. XVI, Torino 1879, passim; Id., La successione di E. F. al trono sabaudo, Torino 1894; Id., Giacomina d'Entremont ammiraglia di Coligny ed E. F. duca di Savoia, in Nuova Rivista, Torino 1882; Id., Dell'Ordine mauriziano nel primo secolo della sua ricostruzione e del suo grand'ammiraglio A. Provana di Leyni, Torino 1890; Id., Il duca di Savoia E. F. e la corte di Londra negli anni 1554-1555, Genova 1892; G. B. Adriani, Santacrucii cardinalis Prosperi de vita atque rebus gestis…, in Miscellanea di storia italiana, V (1868), pp. 612-992, in part. pp. 933-955, con la più ricca e documentata ricostruzione delle trattative diplomatiche di E. con gli Svizzeri; A. Perrenot De Granvela, Lettere al duca E. F., Torino 1880; D. Promis, Cento lettere riguardanti la storia del Piemonte, in Miscellanea di storia patria, IX (1880), pp. 111, 117 e passim; L. P. Gachard, Le duc E. Ph. de S. gouverneur général des Pays Bas (1555-1559), in Id., Etudes historiques l'histoire des Pays Bas, III, Bruxelles 1890, pp. 13, 16 e passim; L. Vaccarrone, E. F. in Germania, Torino 1900; A. Segre, L'opera politica e militare di A. Provana di Leyni nello Stato sabaudo dal 1553 al 1559, in Atti d. R. Accad. d. Lincei, classe di scienze morali, stor. e filol., s. 5, VI (1898), pp. 3-123; Id., E. F. in Germania e le ultime relazioni del duca Carlo II di Savoia con Alfonso d'Avalos…, in Atti d. R. Accad. d. scienze di Torino, XXXVIII (1902-1903), pp. 17 ss. Sulle riforme politiche di E. in Piemonte e la soppressione dei Parlamenti cfr. E. Peverelli, Il Consiglio di Stato nella monarchia di Savoia dal conte Tommaso I fino a E., Roma 1888, pp. 128 ss.; A. Tallone, Parlamento sabaudo, VII, Patria cismontana (1525-1560), Bologna 1933, pp. CI, CIII e passim; A. H. Koenigsberger, The Parliament of Piemont during the Renaissance 1460-1560, in Recueil d. travaux d'hist. et philol. de l'Univ. cath. de Louvain, XIV (1952), pp. 97, 102 e passim; sulle riforme giudiziarie, oltre alle importanti raccolte quali quelle coeve Brief recueil des Edits de trés illustre prince E. Ph. ..., Chambéry 1567; o le Nove costituzioni ducali, Torino 1582, cfr. C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, I, Torino 1881, pp. 99-125; A. Manno, Degli ordinamenti giudiziari del duca di Savoia E. F., Torino 1928; e l'ampia e ragionata rassegna di G. Astuti, Gli ordinamenti giuridici degli Stati sabaudi, in Storia del Piemonte, Torino 1960, pp. 487-562; mentre il lavoro più recente è quello di P. Merlin, Giustizia, amministrazione e politica nel Piemonte di E. F. La riorganizzazione del Senato di Torino, in Boll. stor-bibl. subalpino, LXXX (1982), pp. 35-94. Il IV centenario della nascita di E. fu celebrato con una ricca produzione storiografica, della quale si segnalano in particolare: E. F., a cura e con introduzione di C. Rinaudo, Torino 1928; Lo Stato sabaudo al tempo di E. F., a cura di C. Patrucco, I-III, Torino 1928; A. Segre-P. Egidi, E. F., Torino 1928; P. Silva, E. F., Roma 1928; R. Quazza, E. F. di Savoia e Guglielmo Gonzaga (1559-1580), in Atti e mem. d. Accad. Virg. di Mantova, n. s., XXI (1929), pp. 86 ss.. Molto numerosi sono stati gli studi sui rapporti fra il duca di Savoia, i movimenti protestanti e la Riforma: cfr. L. Cramer, La Seigneurie de Genève et la maison de Savoie de 1519 à 1603, II, Paris 1912, pp. 33, 35, 39 e passim; C. Ciccolini, E. F. e il concilio di Trento, in Studi trent. di sc. storiche, IX (1928), pp. 8 ss.; D. Jahier, I valdesi e E. F., Torino 1928; G. Galbiati, I duchi di Savoia E. F. e Carlo Emanuele I nel loro carteggio con s. Carlo Borromeo, Milano 1941; E. Comba, La campagna del conte della Trinità narrata da lui medesimo, in Bull. de la Soc. d'hist. vaudoise, XXVIII (1904), pp. 3-32; ibid., XXIX (1905), pp. 7-27; A. Pascal, La lotta contro la riforma in Piemonte al tempo di E. …, ibid., pp. 6-83; M. Grosso-M. Mellano, La controriforma nella arcidiocesi di Torino (1558-1610), I, Il card. G. Della Rovere e il suo tempo, Città del Vaticano 1957, pp. 31, 36, 41 e passim; R. De Simone, Tre anni decisivi di storia valdese…, Roma 1958, pp. 5, 9, 13 e passim; Nunziatura di Savoia, 1560-1573, a cura di F. Fonzi, Roma 1960, in Fonti per la storia d'Italia, pp. III-VI-IX e passim; A. Erba, La Chiesa sabauda fra Cinque e Seicento…, Roma 1979, pp. 41 s., 54 e passim.

Sul matrimonio di E. e il ruolo di Margherita di Francia duchessa di Savoia cfr.: Marguerite de France ses rapports avec Genève (1563-67), in Mem. et doc. publiés par la Soc. d'hist. et d'archéol. de Genève, XV (1865), pp. 121 ss.; I. Malaguzzi, Le nozze di E. F. con Margherita di Francia, Modena 1893; R. Peyre, Une princesse de la Renaissance: Marguerite de France…, Paris 1902. Sui figli naturali avuti da E. cfr. B. Amante, Di Amedeo di Savoia figlio di E. F., Macerata 1877. Sulle riforme militari oltre alle tradizionali e classiche storie militari di C. Saluzzo, cfr. G. Briolo, Storia ragionata della milizia volontaria…, Torino 1798; G. Ottolenghi, Appunti e documenti sulla riforma militare di E. F., Casale 1892; e il penetrante giudizio datone in P. Anderson, Lo Stato assoluto, Milano 1976, pp. 154-159, assai più lucido della confusa ricostruzione di W. Barberis. Le armi del principe…, Torino 1988, pp. 5-77. Sull'organizzazione della corte ducale cfr. infine C. Stango, La corte di E. F.: organizzazione e gruppi sociali, in Boll. stor-bibl. subalpino, LXXXV (1987), pp. 445-502.

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