TESAURO, Emanuele

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TESAURO, Emanuele

Monica Bisi

TESAURO, Emanuele. – Nacque a Torino il 3 gennaio 1592 (e fu battezzato il giorno 28), ultimo dei nove figli del conte Alessandro e di Margherita Mulazzi, nobildonna astigiana.

La famiglia paterna dei conti di Salmour, insediata a Fossano (Cuneo) da alcune generazioni, vantava al proprio interno letterati (come il conte Alessandro, autore della Sereide; v. la voce in questo Dizionario), religiosi agostiniani e gesuiti (come alcuni tra i fratelli di Emanuele) e membri della magistratura e del governo di Casa Savoia, alla quale era strettamente legata.

Tesauro ricevette probabilmente la prima istruzione in casa; in seguito nel collegio dei gesuiti a Torino, dove rimase fra il 1605 e il 1611 per gli studi inferiori (grammatica, umanità, retorica). Il 10 novembre 1611 entrò nella Compagnia di Gesù; al termine del biennio di probazione fu ammesso ai voti semplici e destinato, per proseguire gli studi, al collegio di Brera, nella Milano di Federico Borromeo.

Nel 1615, all’inizio degli studi di filosofia, una satira antispagnola che avrebbe potuto ledere la reputazione della Compagnia provocò alcuni provvedimenti disciplinari a suo carico, inaspriti l’anno successivo dalla prima richiesta del generale di allontanarlo dalla milizia gesuitica. Il fratello Ludovico (amico di Giovan Battista Marino) si oppose. Conclusi gli studi di filosofia fu assegnato, per il magistero, al collegio di Cremona, dove scrisse componimenti in italiano e acquistò fama di abile oratore grazie alla Gigantomachia (1619). Fra il 1619 e il 1621 operò nuovamente al collegio di Brera come professor rethoricae e praefectum academiae humanitarum, affiancando tali incarichi con una feconda attività letteraria e celebrativa, militante e cortigiana, che confluì nelle Inscriptiones, collezione di epigrafi, insegne, stemmi, programmi iconografici più volte ripresa e ampliata fra il 1619 e il 1670. La sua attività milanese culminò nel 1621 con l’allestimento, il 7 giugno, dell’apparato funebre per Filippo III di Spagna e con la messa in scena, a Brera, del dramma martirologico Hermenegildus (26 agosto). Risale a questi anni Il libero arbitrio, dramma in prosa memore degli Esercizi ignaziani, non senza elementi di novità, scritto, con intento pedagogico, per i giovani della scuola di dottrina cristiana dei collegi dei gesuiti (pubblicato da Maria Luisa Doglio nel 1969): precorritore delle tragedie della maturità e probabilmente anteriore all’Hermenegildus, esso pare costituire la sua prima prova teatrale.

Sospettato di essere coinvolto in alcuni disordini sorti in collegio, nel 1622 Tesauro venne inviato a Napoli per gli studi di teologia, ma già nel dicembre dello stesso anno fu confinato nel collegio di Sezze a causa di un comportamento poco urbano nei confronti di un confratello. A questo periodo risale la genesi del trattato pratico L’arte delle lettere missive, stampato a Bologna da Recaldini solo nel 1669 e poi da Zavatta nel 1674. Tornò a Milano nel gennaio del 1624 per il secondo e il terzo anno di teologia: anni in cui probabilmente vennero elaborati il perduto De argutia e l’Idea delle perfette imprese, dai quali derivò la maestosa trattazione del Cannocchiale aristotelico. Nell’agosto del 1625, rifiutato un secondo invito a uscire dalla Compagnia, Tesauro venne inviato al collegio di Mondovì, ma già nel 1626 fu trasferito a Torino, grazie all’interessamento di persone influenti quale il padre Pierre Monod, per ultimare le iscrizioni della reggia di Rivoli e per la predicazione a corte.

A Torino, nel 1627, pronunciò i panegirici Il commentario (dedicato alla S. Sindone), La margherita e La magnificenza (quest’ultima a Chieri) e il ragionamento sacro La fuga vittoriosa. Intanto la prolungata insistenza del cardinale Maurizio di Savoia convinse il generale della Compagnia a concedere a Tesauro la patente per l’ordinazione sacerdotale (ottobre del 1627), già più volte differita a causa dei suoi comportamenti. Concluso il terzo anno di teologia ad Arona dopo la metà del 1628, in vista dell’esame finale si recò a Novara, dove apparve chiara la sua spiccata predisposizione per la predicazione sacra. Alla fine del 1629 fu chiamato a Milano per predicare l’avvento a S. Fedele: in questo periodo videro la luce i panegirici La nutrice (per s. Carlo Borromeo), L’apostolo delle Indie (per la festa di s. Francesco Saverio), Il presagio (per la nascita dell’erede al trono spagnolo, evento per il quale curò anche l’apparato delle celebrazioni del 31 gennaio 1630).

Nel 1630 si diffuse la peste a Torino, con significativi cambiamenti nella vita sociale. Benché riparato per alcuni mesi a Fossano, Tesauro non perse di vista le vicende della corte e con la sua produzione celebrativa (in particolare i quattro elogi latini Mercurius sive Iulii Mazzarini pro italica pace negotia) sostenne l’impegno di Giulio Mazzarino per la pace di Cherasco (6 aprile 1631), in occasione della quale pronunciò proprio a corte il panegirico La pace. Nel 1632 tenne a Milano il discorso accademico Il giudicio e a Torino i panegirici L’esorcismo e La fenice, quest’ultimo per la nascita di Francesco Giacinto, primogenito di Vittorio Amedeo I e di Cristina di Francia (per l’evento curò anche gli apparati festivi).

Nel 1633 divenne concionator della duchessa, alla cui impresa dedicò il panegirico Il diamante. I suoi interessi si estesero anche all’oratoria accademica, come dimostra il panegirico Parallelo della vita e dell’onore pronunciato all’Accademia dei Solinghi o Desiosi istituita dal cardinale Maurizio. Durante la settimana santa e l’avvento del 1633 pronunziò nel duomo di Torino alcuni discorsi sacri (fra cui spicca La metafisica del Niente) e un panegirico (Lo spettacolo) e diede alle stampe un volume di otto panegirici e due discorsi accademici dedicato a Cristina di Francia (Panegirici sacri, Torino, eredi Tarino), coronando così un periodo nel quale era diventato una figura di riferimento nell’ambito della cultura letteraria e figurativa tra Milano e Torino. Sempre nel 1633, all’apice di un clima di tensioni provocato dalla sua insubordinazione, lo scontro accademico – ben presto aspra polemica pubblica – con il padre Monod sulla corrispondenza o meno dell’ascendente zodiacale di Francesco Giacinto a quello dell’imperatore Augusto, unito alla sua implicazione in alcune pubblicazioni libellistiche sospette, gli valse la minaccia di essere allontanato da Torino: minacciò a propria volta le dimissioni dalla Compagnia, che gli furono accordate nel giugno del 1635. Rimase sacerdote secolare.

L’8 settembre successivo Tesauro pronunciò il panegirico L’aurora nella cappella reale di Bruxelles: aveva dunque già raggiunto il principe Tommaso di Carignano impegnato nella campagna di Fiandra nel contesto europeo della guerra dei Trent’anni. Per quattro anni rimase al suo seguito come incaricato d’affari, osservatore e narratore delle sue imprese e molta parte ebbe nella decisione del principe di tornare in Piemonte alla fine dell’inverno del 1639. Tommaso conquistò Torino, che però l’anno successivo cadde in mano ai francesi: Tesauro allora seguì il principe a Ivrea e fu al suo fianco anche durante la guerra civile del Piemonte scoppiata dopo la morte di Vittorio Amedeo I.

Si chiuse poi in una solitudine operosa, durante la quale stese i Campeggiamenti overo istorie del Piemonte (Venezia, M. Garzoni, 1643), cronache celebrative redatte con non comuni rigore, chiarezza e aderenza ai fatti e dedicate in gran parte alla guerra civile, alle quali si aggiunsero, nell’edizione del 1646, alcuni racconti della campagna di Fiandra. Intanto, il 28 giugno 1642 gli era stata conferita la dignità di cavaliere di gran croce dei Ss. Maurizio e Lazzaro. In questo periodo fu precettore dei figli del principe Tommaso, ruolo che poi ricoprì anche per i nipoti del sovrano e per il futuro primo re di Sardegna Amedeo II: un’attività di cui resta traccia in La politica di Esopo Frigio (Ivrea, San Francesco, 1646), rifacimento delle Fables d’Esope Phrygien di Jean Baudoin, primo orientamento dell’autore verso la riflessione sui rapporti fra morale e politica e segno tangibile della sua attenzione alle novità culturali francesi (ed europee), favorita anche dai viaggi diplomatici.

Il termine, almeno formale, della reggenza di Cristina di Francia (1648) costituì la premessa del più intenso periodo di attività celebrativa di Tesauro: negli anni Cinquanta, infatti, oltre ad accrescere la mole delle Inscriptiones (pubblicate poi a Torino da B. Zavatta nel 1666), dedicò al principe Maurizio il ragionamento sacro Le due croci (29 settembre 1653), per la sua struttura anello di raccordo fra le Inscriptiones, i Panegirici e il quasi concluso Cannocchiale aristotelico. L’anno successivo fu la volta dei panegirici sacri Il forte armato, sempre per Maurizio di Savoia, e La simpatia, e della stampa Sinibaldo del Cannocchiale aristotelico, le cui edizioni si moltiplicarono in pochi anni (si ricordino almeno Venezia 1655 e, con alcune modifiche, 1663; Roma 1664; Torino 1670; Bologna 1675).

Probabilmente concepito già nel terzo decennio del Seicento e sviluppato a partire dal nucleo originario costituito dal trattato latino De argutia, cui Tesauro aveva già lavorato prima del 1625, e dall’Idea delle perfette imprese (1622-29), che già identificava impresa e metafora, Il cannocchiale aristotelico si rivela non solo manuale normativo per futuri predicatori tesi a meravigliare e persuadere con parole che siano immagini, ma anche guida, chiave ermeneutica per chi si addentri nella selva della retorica del Seicento, mise en abîme esso stesso del sapere che veicola. «Enciclopedia della metafora come strumento conoscitivo e modello interpretativo del reale» (Doglio, 2002, p. 606), la più ampia opera dedicata all’estetica del barocco europeo organizza con rigore analitico, ma non senza anarchia rispetto all’auctoritas dichiarata, le pratiche retoriche del XVII secolo, ne sonda la profondità semantica, ne mostra inedite possibilità di funzionamento. La struttura apparentemente sistematica del trattato, in cui a ogni enunciazione teorica seguono esempi di realizzazione pratica provenienti dalla tradizione letteraria latina e italiana, ma anche composti ad hoc, si rivela ben presto centrifuga, decettiva, in alcuni casi sproporzionata: a partire infatti dalla problematica centralità attribuita dal titolo all’argutezza, ma dalla trattazione alla metafora – non senza una loro sovrapposizione in corso d’opera – l’equilibrio del trattato oscilla fra due fuochi di volta in volta identificabili con le coppie dialettiche ingegno-intelletto da un lato e appetito-volontà dall’altro, ma anche tra i poli visione e invenzione e parola e immagine, tanto che la stampa stessa ha un forte impatto visivo sia per la varietà dei corpi sia per l’alternanza fra testo e schemi. Qualunque fosse l’ambito d’indagine, che strinse progressivamente l’obiettivo dall’argutezza, alla metafora, all’impresa, all’emblema, Tesauro strutturò la propria analisi sulla base delle dieci categorie aristoteliche, fondamento della metafisica classica: è in questo radicare le forme dell’espressione nelle forme in cui si manifesta l’essere che va ricercata la specificità della sua intuizione, che riporta alla luce, con lo sguardo del Seicento, lo stretto legame fra essere e linguaggio. Alla metafora è riconosciuta la forza di mediare verso intuizioni di aspetti del reale inattingibili tramite la parola propria, fino alla visione delle essenze; alla retorica è restituita la dimensione letteralmente sostanziale che aveva perso nei secoli precedenti e che ne legittima l’estensione dalla sola materia civile all’ambito della natura e agli enti inanimati. L’impronta dello Stagirita si riconosce nell’attenzione alla dialettica fra aspetti materiali e formali dei prodotti dell’ingegno; nella capacità di mantenere in evidenza la tensione fra elementi particolari e concetti universali; nell’attitudine classificatoria; nell’impiego di un lessico e di definizioni che tuttavia, in alcuni casi, prendono le distanze dal modello.

Nel medesimo periodo Tesauro continuò a rivedere le proprie opere celebrative, storiche e filosofiche e non fu estraneo alla complessa realizzazione del Theatrum Sabaudiae avviata da Carlo Emanuele II. Nel 1653 ideò l’apparato delle cerimonie per il secondo centenario del miracolo del Ss. Sacramento; nel 1656 creò un sontuoso allestimento per il passaggio a Torino della regina Cristina di Svezia (16 ottobre); rese poi omaggio alla città con la Storia della Compagnia di san Paolo (Torino, Sinibaldo, 1657), ricostruita sulla base di documenti e memorie relativi alle vicende dell’associazione di aristocratici e borghesi attiva soprattutto nell’ambito delle attività assistenziali, che grande ruolo ebbe anche nella fondazione del collegio da lui frequentato.

Alla celebrazione della corte si ascrivono i panegirici funebri L’eroe per le esequie del principe Tommaso (1656, in difesa della cui memoria stese poi I fasti bugiardi del marchese di Pianezza) e Il cilindro in morte del principe Maurizio (1657), nei quali si riconoscono le tracce del percorso di ravvicinamento fra i principi e Madama Reale; infine, La tragedia (1664), vertice delle pompe funerarie di Casa Savoia, pronunciato alle esequie di Cristina di Francia e posto a sigillo dell’edizione completa dei Panegirici (Zavatta, 1659-1665), ma anche, implicitamente, di un’attività che occupò Tesauro lungo un arco temporale di oltre quarant’anni (1619-64) e lo rese originale e fecondo interprete dei miti politico-religiosi della dinastia sabauda.

Progettati con lo sguardo rivolto all’orizzonte della corte, trait d’union fra Inscriptiones e Il cannocchiale, ricchi di peregrina erudizione e complessi a livello di inventio, i panegirici si caratterizzano per un impiego disinvolto delle Scritture e dei testi patristici, per la profondità teologica, per il vasto dispositivo di metafore, immagini, disquisizioni etimologiche che la veicolano in una prosa che resta sorvegliata, geometrica, composta e ritmicamente gradevole. Più che a sollecitare gli affetti, essi mirano a nutrire l’ingegno e la memoria dei cortigiani; più che a convincere di verità religiose, tendono a enfatizzarle per un uditorio che già le condivide.

Complesse rappresentazioni della vita di corte nei suoi aspetti magnifici, ma anche meno luminosi, nei suoi linguaggi dissimulatori e simbolici, nelle sue architetture di potere – anche quello della parola – sono le tragedie Ermegildo, Edipo, Ippolito, di impianto classicheggiante, ma aperte a suggerimenti contemporanei, pubblicate da Zavatta nel 1661 e frutto di una reiterata frequentazione di Sofocle, Euripide, Seneca già a partire dagli anni Trenta. Ermegildo, riscrittura in italiano della prova latina giovanile la cui trama proviene dalla storia altomedievale, unisce le esigenze pedagogiche della tradizione gesuita all’interesse di Tesauro per la comunicazione della verità nella civil conversazione. Edipo e Ippolito, esiti della rilettura dei modelli greci alla luce dello stoicismo senecano, gli furono commissionate, per ricreazione dalle fatiche della guerra, da Tommaso di Carignano, per il quale Ippolito fu messo in scena nel 1641: la trilogia costituisce, pertanto, un trattato di filosofia morale e di prudenza politica redatto sotto forma di rappresentazione teatrale, che non trascura nemmeno l’educazione religiosa. Unicum nella sua produzione e forse la sua prova più alta, la tragedia musicale Alcesti o sia l’amor sincero (Zavatta, 1665) rilegge l’avantesto euripideo a partire dalla prospettiva del contesto cortigiano. Scritta in occasione delle seconde nozze di Carlo Emanuele II, ne divenne chiave di lettura, in quanto pensata come emblema della risurrezione, nella seconda moglie, della giovane prima sposa scomparsa.

La produzione teatrale di Tesauro, inaugurata negli anni Venti, poi impegno di tutta la vita ed esito specifico del suo lavoro creativo in lingua italiana, si caratterizza per il rapporto biunivoco che fa del teatro una metafora della corte e della vita e della metafora un «teatro di meraviglie» che mostra gli oggetti «l’un dentro all’altro» (Il cannocchiale, 1670, pp. 267, 301). Cimentandosi con il genere letterario più alto e alle prese con i modelli francesi e gli avantesti classici che tradusse con la libertà dell’orator, Tesauro mise in scena personaggi costretti a lavorare con le parole e il cui linguaggio, intessuto di metafore di equivoco, di laconismo, di opposizione, sembra impossibilitato a mentire: il velo metaforico mostra in scorcio verità che chiedono di essere difese. Il testo tragico consente così di comprendere immediatamente la distinzione fra «Cavillatione urbana» e «Cavillatione dialettica» proposta dal Cannocchiale, in un orizzonte in cui si articolano i rapporti fra le pratiche di simulazione e dissimulazione, nonché fra le categorie di colpa e innocenza e di scelta e fatalità, tanto da far pensare a un tentativo di rovesciamento della tragedia classica in tragedia cristiana. Per il loro portato fenomenologico e insieme regolativo, le tragedie costituiscono una sorta di idea della perfetta civil conversazione e un’efficace traduzione dello stretto rapporto fra etica e retorica che innerva i trattati.

Sempre per i tipi di Zavatta, nel 1664 vide la luce Del Regno d’Italia sotto i barbari con il commento di Valeriano Castiglione, opera di erudita storiografia medievale alla quale lavorarono anche gli artisti Charles Dauphin e Jan Miel e gli incisori Antoine De Pienne e Jean-Jacques Thourneysen: un vero e proprio libro figurato che favorì l’ammodernamento della veste visiva anche delle successive edizioni del Cannocchiale.

A partire dal 1669 il Municipio di Torino finanziò, per i tipi di Zavatta, una lussuosa edizione delle opere di Tesauro, omaggio al massimo teorico dello stile barocco e occasione, per l’autore, di comporre un quadro organico delle proprie opere storiche, letterarie, celebrative. Furono stampate Del Regno d’Italia (1669), l’edizione del Cannocchiale aristotelico corrispondente alla volontà ultima dell’autore; la quinta edizione delle Inscriptiones; la prima edizione della Filosofia morale (tutte nel 1670).

Quest’ultima, dedicata a Vittorio Amedeo, più volte riedita dopo il 1670 e diffusa in Europa con traduzioni e adattamenti, si inserisce, con le tragedie, nella tradizione dell’institutio principis non senza rinnovarla. In essa il dialogo dell’autore con l’etica aristotelica si arricchisce delle interpretazioni di s. Tommaso, della morale gesuitica, della trattatistica cinquecentesca, nonché delle riflessioni politiche di Tacito, Giusto Lipsio e Giovanni Botero utili a tracciare i caratteri del principe ideale e delle virtù da esercitare in ambito politico e civile in vista del raggiungimento del bene individuale e pubblico. Nel cuore del trattato, dove la retorica entra nello spazio simbolico del comportamento sociale, la riflessione sull’arte del parlare riporta alla luce il forte nesso non solo fra retorica e morale, ma anche fra l’opera teorica e quella teatrale di Tesauro.

Nel 1673, per Zavatta, apparvero le Apologie in difesa de’ libri (un primo volume, senza seguito, contenente scritti polemici disposti su un ampio arco temporale, tra cui la dotta requisitoria La Vergine trionfante e il Capricorno scornato contro le accuse del padre Monod) e l’Origine delle guerre civili del Piemonte (Colonia, G. Pindo), presupposto teorico dei Campeggiamenti del S.mo Principe Tomaso di Savoia, la cui redazione definitiva del 1674 stampata da Zavatta, raccogliendo anche le parti già edite, fu esito di una serie di riprese durata più di trent’anni. Nel 1674 vide la luce, per Zavatta, anche L’arte delle lettere missive, in esplicita continuità con Il cannocchiale e con la Filosofia morale. Per lo stesso editore uscì postumo nel 1679 solo il primo volume (dei sei previsti) dell’erudita Historia dell’augusta città di Torino, che Tesauro fu incaricato di comporre negli ultimi anni della sua vita.

Morì a Torino il 26 febbraio 1675 e fu sepolto, per sua volontà, nella cappella gentilizia della chiesa di S. Francesco a Fossano.

Opere. Edizioni moderne: Un dramma inedito: “Il libero arbitrio”, a cura di M.L. Doglio, in Studi secenteschi, X (1969), pp. 163-242; Idea delle perfette imprese, testo inedito a cura di M.L. Doglio, Firenze 1975; Edipo, a cura di C. Ossola, commento e note di P. Getrevi, Venezia 1987; La politica di Esopo Frigio, a cura di D. Aricò, Roma 1990; Alcesti, a cura di M.L. Doglio, Bari 2000; Il cannocchiale aristotelico, Savigliano 2000 (rist. anast. dell’edizione Torino, Zavatta, 1670); Ermegildo, a cura di P. Frare - M. Gazich, Roma 2001; Istoria della venerabilissima compagnia della fede catolica, sotto l’invocazione di san Paolo, a cura di A. Cantaluppi, Torino 2003; Scritti, a cura di M.L. Doglio, Alessandria 2004; Vocabulario italiano, testo inedito a cura di M. Maggi, Firenze 2008; Ippolito, a cura di S. Castellaneta, prefazione G. Distaso, Lecce 2012; La tragedia, a cura di M. L. Doglio, Soveria Mannelli 2018.

Fonti e Bibl.: M. Zanardi, Vita ed esperienza di E. T. nella compagnia di Gesù, in Archivium historicum Societatis Iesu, XLVII (1978), pp. 3-96; Id., Contributi per una biografia di E. T. Dalle campagne di Fiandra alla guerra civile del Piemonte (1635-1642) con due lettere inedite, Torino 1979; Id., Sulla genesi del «Cannocchiale aristotelico» di E. T., in Studi secenteschi, XXIII (1982), pp. 3-61, XXIV (1983), pp. 3-50; G. Zanlonghi, La tragedia tra ludus e festa, in Comunicazioni sociali, XV (1993), n. 2-3, pp. 157-240; P. Frare, Retorica e verità. Le tragedie di E. T., Napoli 1998; M.L. Doglio, E. T. e la parola che crea: metafora e potere della scrittura, in E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, cit., 2000, pp. 7-16; P. Frare, «Per istraforo di perspettiva»: il «Cannocchiale aristotelico» e la poesia del Seicento, Pisa-Roma 2000; M.L. Doglio., Letteratura e retorica da T. a Gioffredo, in Storia di Torino, a cura di G. Ricuperati, IV, Torino 2002, pp. 569-630; A. Benassi, Il libro e il ritratto di E. T.: un modello impresistico, in Studi secenteschi, XLIX (2008), pp. 21-42; M. Maggi, Un inedito ‘vocabulario’ italiano manoscritto di E. T., in Lettere italiane, LX (2008), 2, pp. 205-225; V. Merola, La messinscena delle idee. E. T. e il «Teatro di maraviglie», Roma 2008; Testo, XXX (2009), 58, monografico dedicato a Tesauro; A. Benassi, “Il Diamante”, “L’Heroe” e “Il Cilindro” di E. T.: ‘imprese laudative’ e panegirici, in Forme e occasioni dell’encomio tra Cinque e Seicento, a cura di D. Boillet - L. Grassi, Lucca 2011, pp. 51-81; M. Bisi, Il velo di Alcesti. Metafora, dissimulazione e verità nell’opera di E. T., Pisa 2011; L. Giachino, ‘Per la causa del cielo e dello Stato’. Retorica, politica e religione nei «Panegirici sacri» del T., Alessandria 2012; V. Merola, La morale allo specchio. Retorica e letteratura secentesca, Roma 2012.

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