Emozione

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Emozione

Guglielmo Bellelli

(App. V, ii, p. 101; v. emozione ed emotività, XIII, p. 935)

La concezione, propria del senso comune, secondo cui le e. sarebbero reazioni irrazionali disgregatrici del comportamento appare ormai sostituita da quella che vede le e. come risposte adattive dell'organismo alle sollecitazioni ambientali. Negli animali superiori e nell'uomo l'adattamento non può più essere affidato a semplici reazioni riflesse o istintuali in quanto esse, per la loro rigidità, non consentirebbero di reagire appropriatamente a un ambiente complesso e altamente dinamico. Le e., come ha osservato K. Scherer (1984), consentono una dissociazione tra stimoli e risposte, a partire dalla quale la condotta dell'organismo diventa più lenta ma più varia e flessibile. I maggiori vantaggi derivanti da questa separazione (decoupling) sono rappresentati dal fatto che si interpone una qualche latenza tra evento-stimolo e risposta, e che è comunque possibile preparare abbastanza rapidamente una risposta appropriata.

La psicologia cognitiva contemporanea ha fatto propria la visione funzionalista delle e., ma ha attribuito importanza, più che ai comportamenti e alle disposizioni, ai piani e agli scopi (Power, Dalgleish 1997). Un approccio funzionalista è perfettamente coerente anche con le concezioni che si ispirano più direttamente alla teoria darwiniana dell'espressione delle e. (Darwin 1872). Le funzioni che vengono generalmente riconosciute alle e. sono molteplici: la capacità di determinare rapidamente i cambiamenti fisiologici necessari per sostenere le risposte adattive dell'organismo; la preparazione all'azione (Scherer parla, a questo proposito, di tendenze all'azione preprogrammate filogeneticamente); infine, funzioni più specificamente interpersonali, come la possibilità di coordinarsi e di cooperare e, in genere, di regolare le relazioni interpersonali, comunicando i propri piani e le proprie intenzioni attraverso l'espressione. Gli studiosi di ispirazione cognitivista sottolineano, inoltre, la funzione di cambiare l'attività cognitiva, per es. interrompendo l'esecuzione dei piani in corso e riorientando la condotta con la segnalazione di nuove priorità. Una concezione recente di ispirazione fortemente funzionalista è quella proposta da K. Oatley e P.N. Johnson-Laird, nella quale le e. sono differenziate tra loro in rapporto a scopi specifici, e possono essere viste come segnali non proposizionali capaci di 'settare' rapidamente l'individuo in un dato modo, rendendolo pronto a reagire adattivamente alla situazione ambientale (Johnson-Laird, Oatley 1989; Oatley, Johnson-Laird 1996).

Concezioni dimensionali versus concezioni categoriali dell'emozione

Benché sia generica e comprenda concezioni molto diverse tra loro, l'espressione teorie cognitive si riferisce fondamentalmente a quelle concezioni secondo cui la cognizione riveste un ruolo essenziale nella generazione delle emozioni. Agli inizi degli anni Ottanta è stata molto vigorosa la polemica tra R. Zajonc e R.S. Lazarus sulla priorità dell'e. o della cognizione. Secondo Zajonc (1980), lo stimolo, immediatamente dopo la registrazione sensoriale, dà luogo a una risposta affettiva (v. oltre). I teorici cognitivi, come Lazarus (1982) e N. Frijda (1993), ritengono invece che una sia pur minimale elaborazione della valenza e della rilevanza per gli scopi sia indispensabile perché si produca una reazione emotiva. Le teorie cosiddette cognitive propongono un approccio dimensionale, nel quale le diverse e. possono essere differenziate tra di loro in base al profilo emergente dalla combinazione di alcune dimensioni valutative o di appraisal, come la novità, la piacevolezza o la controllabilità dell'evento da cui ha origine l'emozione; v. anche scienza cognitiva in questa Appendice.

Altre teorie, comunemente denominate teorie delle emozioni di base o fondamentali, propongono invece una differenziazione categoriale delle e. viste, di conseguenza, come stati discreti, universali e, in definitiva, innati (Ekman 1992). Secondo tali teorie esisterebbe un numero relativamente ristretto e comunque finito di e. (per Ekman, Friesen e Ellsworth, 1972, 1982², sono sei: la rabbia, il disgusto, la paura, la tristezza, la felicità e la sorpresa), ben demarcate e tali da non poter esser confuse. Ekman ha indicato alcune specifiche caratteristiche delle e. di base: distinti antecedenti universali; distinti segnali (espressioni) universali; diversità negli indici fisiologici; coerenza tra le risposte emotive; rapida insorgenza; breve durata; valutazione automatica; attivazione spontanea.

Le teorie cognitive sono invece, generalmente, alquanto indifferenti, se non contrarie, all'idea delle e. universali e innate: A. Ortonyi e T.J. Turner (1990) si sono chiesti, per es., se quello delle e. di base non sia un dogma privo di sostanza, "una teoria dell'emozione del tipo aria, terra, fuoco e acqua". Radicalizzando il concetto di componenzialità, nella loro concezione le e. fondamentali sono semplicemente alcune combinazioni essenziali di diverse componenti di base, quali interpretazioni, valutazioni, cambiamenti fisiologici, tendenze d'azione ecc.

Scherer (1984) considera le e. come generate da un processo incessante di valutazione degli stimoli, valutazione che avviene attraverso la successione in sequenza di una molteplicità di controlli (checks). Ciascun controllo produce a sua volta cambiamenti sincronizzati nei vari sottosistemi che definiscono le reazioni emozionali (elaborazione dell'informazione, sostegno, esecuzione/motivazione, azione, monitoraggio). I vari stati emotivi corrispondono perciò a differenti patterns di cambiamenti, sincronizzati nel tempo nelle diverse componenti. Come tali, essi sono dunque virtualmente infiniti, ma ciò non esclude che possano esservi alcuni patterns che risultino più frequenti di altri, in quanto costituiscono la risposta a situazioni maggiormente ricorrenti nel corso dell'adattamento. Secondo Scherer, le e. discrete possono essere viste, appunto, come 'effetti modali' del processo di valutazione dello stimolo, effetti che, in quanto tali, sono anche la base per le denominazioni verbali degli stati emotivi, riscontrabili in molte lingue di tutto il mondo.

Emozioni e cultura

Una delle argomentazioni più forti a favore delle teorie delle e. fondamentali è rappresentata dal fatto che, pur nelle diverse culture, le e. sono caratterizzate da distinte espressioni universali. P. Ekman e W.V. Friesen ritennero che le loro ricerche (Ekman, Sorenson, Friesen 1969; Ekman, Friesen 1971) sulle espressioni facciali di popolazioni primitive (i Fore della Nuova Guinea) costituissero una conferma dell'ipotesi innatistica. Le evidenze in tal senso non sono inattaccabili: diversi autori hanno sollevato obiezioni, soprattutto di tipo metodologico, per es. sul fatto che tali ricerche hanno usato compiti di riconoscimento a scelta forzata, a partire da una lista finita di etichette emozionali, cosa che naturalmente eleva la misura del consenso tra soggetti (Russell 1994). Particolarmente criticata è stata anche l'artificialità della procedura, nella quale erano mostrate espressioni facciali prototipiche statiche e decontestualizzate, cosa che la rende molto distante dal riconoscimento delle e. nelle situazioni naturali (Fernandez-Dols, Ruiz-Belda 1995). Per spiegare le differenze tra le diverse culture nel modo di esteriorizzare le e., Ekman e Friesen hanno introdotto il concetto di display rules (regole di esibizione). Nella loro concezione, alla base delle e. discrete vi sono dei programmi neuromotori innati, i quali fanno sì che le espressioni delle diverse e. siano le stesse nelle diverse culture; dal momento, però, che è possibile un certo grado di controllo volontario su di esse, le e. possono essere variamente modulate (intensificate o inibite, neutralizzate o mascherate) secondo regole prescritte culturalmente. In definitiva, per questi studiosi le variazioni tra le diverse culture non sono sostanziali, ma si limitano a differenze nell'intensità o nel controllo dell'espressione e, forse, nell'esperienza soggettiva.

Molto recentemente A. Kappas (1996) ha criticato sia le teorie delle e. discrete, sia quelle dell'appraisal (o valutazione cognitiva), in quanto, a suo giudizio, esse fanno spesso ricorso a fattori aggiuntivi (come, appunto, le regole di esibizione) nella forma di un deus ex machina che spieghi lo scarto esistente tra le attese teoriche e le espressioni reali; Kappas ha avviato un programma di ricerca finalizzato a mettere in maggiore evidenza l'influenza dei fattori sociali sull'espressione, fattori che in queste teorie non sono adeguatamente considerati.

Una posizione radicalmente opposta a quella dei sostenitori delle e. discrete è espressa dai cosiddetti costruzionisti o socio-costruzionisti (Armon-Jones 1986), per i quali le e. non vanno intese come entità biologicamente determinate, ma come costruzioni sociali. J.R. Averill (1982) ha usato, a proposito delle e., il concetto di ruoli sociali transitori, caratterizzati da apposite regole di prescrizione e di proscrizione. R. Harré (The social construction of emotions, 1986) ha sostenuto che le e. possono essere comprese solo in rapporto all'ordine culturale. Sono il linguaggio e la struttura dei valori delle società a determinare le e., come è del resto testimoniato dalle variazioni del lessico emotivo. Le e. variano dunque storicamente e nelle diverse culture.

Dal punto di vista diacronico, R. Harré e R. Finlay-Jones (1986) fanno osservare che nella nostra cultura vi sono e. che erano ritenute fondamentali in certe epoche storiche e che sono poi scomparse: per es. l'accidia, che ha cambiato profondamente di significato in rapporto ai mutamenti del contesto religioso, e la cui stessa denominazione è oggi caduta in disuso. Averill (1985) ha sostenuto che la stessa e. dell'amore romantico, dell'amore puro e altruistico, è caratteristica della nostra cultura e ha una origine storica ben determinata, che egli fa risalire all'amor cortese medievale teorizzato da Andrea Cappellano. Egli osserva che esso è del tutto sconosciuto nel mondo antico e, facendo propria una tesi di A. Beigel, ne collega l'origine alla necessità, emergente a quel tempo, di consolidare il potere della nuova classe dirigente fornendole una distinzione morale. Va detto però, nell'ottica di quanto sopra si sosteneva sul dibattito tra il carattere biologico e quello sociale delle e., che ciò non esclude che l'amore abbia una evidente base biologica, come la fame e la sete; ma che esso, così come lo intendiamo oggi, possa successivamente costituirsi come il prodotto di un processo di 'costruzione' ripercorribile nelle sue diverse fasi.

Dal punto di vista interculturale, numerosi studi condotti con taglio antropologico hanno fornito sufficiente evidenza della diversità e specificità delle e. nelle diverse culture (Abu-Lughod 1986; Lutz 1988). In modo assai radicale, la linguista A. Wierzbicka (1995) ha denunciato l'etnocentrismo degli scienziati sociali occidentali: essi partono dalle e. di rabbia e amore della loro cultura e le cercano continuamente nelle altre culture e nelle altre lingue, ignorando che le e. sono esse stesse dei prodotti culturali. Ci si interroga del resto se esistano e. universali e se, al di là della loro somiglianza, siano tra loro omologabili. La rabbia per es., come ha sostenuto J. Briggs (1970), è praticamente sconosciuta presso gli esquimesi Utku; nel suo studio sugli Ifaluk, una popolazione che vive su un piccolo atollo della Micronesia, Lutz ha mostrato come il song degli isolani, benché in parte simile alla nostra rabbia, non possa essere assolutamente assimilato a essa. Aspetti similari sono la spiacevolezza dell'esperienza vissuta, il fatto che, generalmente, alla sua origine vi sia la violazione di una qualche norma di relazione interpersonale, e il timore di una ritorsione nel caso che il torto compiuto non sia riparato. Tuttavia, il song si riferisce soltanto a situazioni in cui una ritorsione o un'aggressione, che peraltro è spesso virtuale e quasi mai fisica, appaiono giustificate e si verificano inoltre in contesti collettivi più che individuali, cosa che è testimoniata anche dall'uso frequente del 'noi' più che dell''io'. Infine, esso viene espresso in modo da rispettare le differenziazioni gerarchiche, per cui si può parlare di veri e propri livelli emozionali. Vi sono poi, in altre culture, e. a noi del tutto sconosciute, come l'amae giapponese (Doi 1971; Morsbach, Wyler 1986), una sorta di piacevole dipendenza che gli individui adulti ricercano nei loro rapporti con gli altri: si tratta di una e. che nella nostra cultura, la quale esalta piuttosto l'autonomia e l'indipendenza, verrebbe tollerata soltanto nei bambini più piccoli.

Oatley (1993) ha sostenuto che la contrapposizione tra punti di vista biologici e punti di vista costruzionisti sulle e. è probabilmente inadeguata, in quanto le e. sono sia biologiche, sia costruite socialmente. Riferendosi all'analisi dell'amore fatta da Averill, egli osserva infatti che nell'amore, così come lo concepiamo oggi nella nostra cultura, sono certamente presenti molteplici componenti, alcune delle quali molto antiche e probabilmente innate, come l'attrazione fisica e l'altruismo, ma vi sono molte altre componenti, e il modo con cui esse sono assemblate non è affatto naturale, ma culturale. Egli ha anche osservato come molte delle evidenze assunte dai sostenitori dei due opposti punti di vista a sostegno delle proprie affermazioni sono quanto meno ambigue; possono, cioè, essere interpretate in modo diverso e persino utilizzate per rafforzare la posizione opposta. Per es., P.N. Stearns e C.Z. Stearns (1985), a proposito degli studi della Briggs, sostengono che questi hanno reso evidente che gli Esquimesi disapprovano la rabbia e la controllano, ma non hanno dimostrato che essi non provino rabbia.

Emozioni e processi cognitivi

Come si è detto, agli inizi degli anni Ottanta è stata particolarmente forte la polemica tra autori come Zajonc e psicologi cognitivisti (Lazarus 1982) circa il ruolo della cognizione. Zajonc ha sostenuto (1980) che e. e cognizione sono processi separati, pur potendosi connettere tra loro (cosa che accade normalmente nella maggior parte dei casi): l'individuo reagisce molto rapidamente agli stimoli su base soltanto affettiva, e solo successivamente subentrano le elaborazioni di tipo cognitivo. Anche biologi come J. Le Doux (1994) hanno sostenuto una certa indipendenza dell'e. rispetto alla cognizione, osservando che i circuiti cerebrali dell'e. e quelli della cognizione sono diversi. Quest'ultima dipende fondamentalmente dalla neocorteccia e dall'ippocampo e, se si restringe la definizione del cognitivo a ciò che è basato su processi neocorticali o sull'attività dell'ippocampo, è stato dimostrato che anche organismi con lesioni della neocorteccia o dell'ippocampo possono reagire emotivamente; cioè, virtualmente, in assenza dei requisiti cognitivi supposti come necessari. Lo stesso Le Doux, comunque, ha insistito sulle interazioni tra e. e cognizioni, mostrando come vi siano delle connessioni bidirezionali tra la neocorteccia e l'amigdala che rendono possibile una modulazione di ciascun processo da parte dell'altro. Lazarus (1982) ha obiettato che Zajonc ha confuso cognitivo e cosciente e ha semplicisticamente identificato automatico con affettivo, mentre è noto che molti processi cognitivi possono aver luogo in modo del tutto inconscio e automatico. Successivamente, Zajonc ha ammesso che possono esservi processi cognitivi inconsci, ma ha ribadito la diversità qualitativa dei processi iniziali di trattamento dello stimolo, processi, appunto, affettivi (Murphy, Zajonc 1993). H. Leventhal e K. Scherer (1987) hanno affermato che la polemica tra Zajonc e Lazarus pone in questione soltanto il livello al quale collocare i processi di elaborazione dello stimolo, dal momento che Zajonc insiste sull'esistenza di processi di codifica ed elaborazione molto rudimentali. In effetti, oggi gli studiosi cognitivisti non hanno alcuna difficoltà a ritenere che vi siano processi automatici molto rapidi, che possono essere senza difficoltà definiti come cognitivi in quanto implicano computazioni di basso livello nel sistema percettivo, la cui funzione è quella di scoprire il valore affettivo dello stimolo. In realtà, processi cognitivi e processi affettivi sono parti integranti di un unico insieme e, come dicono M. Power e T. Dalgleish (1997), separarli sarebbe come dividere le onde dall'acqua nella quale si formano.

I modelli più recenti appaiono orientati a ritenere che la cognizione debba essere concepita in modo assai più complesso e differenziato: è, infatti, ormai comunemente accettato che nell'e. non sia implicato un unico tipo di cognizione e che questa vada vista come organizzata in più livelli tra loro interagenti (Leventhal, Scherer 1987; Johnson, Multhaup 1992; Teasdale, Barnard 1993; Power, Dalgleish 1997).

Uno dei modelli più noti di questo tipo è quello descritto da Leventhal e Scherer, che individuano, a questo proposito, tre differenti livelli di elaborazione: il livello sensomotorio, il livello schematico e quello concettuale. Il primo è anche quello più primitivo e comprende molteplici componenti, costituite da una serie di programmi espressivo-motori innati e di sistemi cerebrali di attivazione, che possono essere stimolati simultaneamente da vari fattori (per es. dalla volontà, da una varietà di stimoli esterni, o da cambiamenti interni di stato). Questi meccanismi includono le capacità primarie di risposta emozionale dell'individuo e generano i primi comportamenti emotivi osservabili. Il livello schematico è attivato in modo automatico ed è costituito dalle associazioni apprese dai neonati nel corso della loro esperienza, associazioni che producono rapidamente dei prototipi, simili a immagini, delle situazioni emozionali, integrati alle risposte senso-motorie innate e a quelle soggettive. Il livello concettuale, infine, è conscio, ha un formato proposizionale, e include ricordi concernenti e., aspettative, scopi e piani coscienti dell'individuo insieme al concetto di sé. In quanto tale, esso permette perciò di situare gli eventi emotivi in una prospettiva temporale a lungo termine. Secondo Leventhal e Scherer, questi tre livelli operano ampiamente in parallelo (cioè simultaneamente) nelle persone adulte, e a ognuno di essi viene effettuata una serie di controlli valutativi (evaluative checks) sugli stimoli, volti a verificarne la novità, la piacevolezza o spiacevolezza, la rilevanza rispetto agli scopi e ai piani dell'individuo, il potenziale di coping o fronteggiamento dell'evento-stimolo e, infine, la compatibilità con il concetto di sé e con le norme sociali. Dal profilo emergente da questi controlli deriverebbero le diverse emozioni. Leventhal e Scherer ritengono che tale scansione avvenga in sequenza, in quanto ciascun controllo 'attende' i risultati del controllo precedente. In realtà è stato osservato che ciò non è affatto necessario, in quanto anche i checks possono essere concepiti come operanti in parallelo, come suggeriscono i modelli di tipo connessionista (Rumelhart, Mc Clelland 1986), cosa che renderebbe l'intero processo molto più rapido.

La condivisione sociale delle emozioni

Come ha mostrato B. Rimé con le sue ricerche degli anni Novanta sulla condivisione sociale delle e. (Rimé, Philippot, Boca et al. 1992; Rimé 1995; Rimé, Christophe 1997), contrariamente a quanto suppone la psicologia del senso comune, le e. sono tutt'altro che fenomeni di tipo intraindividuale di breve durata, possono durare a lungo nella memoria degli individui e anche a livello sociale, attraverso la condivisione dei ricordi emotivi. Gli eventi emotivi sono maggiormente disponibili in memoria e, come tali, vengono frequentemente rievocati. Ciò accade fondamentalmente perché, come aveva già suggerito S.A. Schachter (1964), le e. determinano negli individui un bisogno di elaborare, valutare e completare quanto viene percepito, valutato ed esperito nell'emozione. Le e. sono spesso associate a brusche violazioni delle aspettative e delle credenze dell'individuo. Come tali, esse fanno sì che si sviluppi un senso di imprevedibilità e incontrollabilità del mondo, sollecitando un intenso lavoro di elaborazione cognitiva volto a ristabilire l'equilibrio compromesso. Ciò appare evidente soprattutto nel caso di potenti e. negative o traumatiche (Janoff-Bulman 1992). Molto spesso, in tali occasioni, si attivano automaticamente anche pensieri che simulano esiti diversi del corso degli eventi, legati a possibili comportamenti alternativi e associati talvolta a sensi di colpa (pensieri controfattuali: What might have been, 1995; Davis, Lehner 1995). Le e. comportano però, frequentemente, una perturbazione dell'equilibrio anche nelle relazioni interpersonali, sollecitando la comunicazione con le altre persone finalizzata al ristabilimento dei rapporti interrotti. Per questi motivi, la frequente riattivazione dei ricordi legati alle e. non avviene soltanto in forma intraindividuale (ruminazione mentale: Martin, Tesser 1996), ma anche e soprattutto in forma interpersonale e sociale. Il comunicare a un'altra persona la propria e. produce, oltre a molteplici effetti sociali (per es. sostegno sociale, intimità interpersonale ecc.) anche importanti effetti cognitivi: lo stesso uso del linguaggio e la traduzione in forma simbolica di un'esperienza come quella emozionale, caratterizzata da una grande densità e saturazione di componenti somatiche, ne determina la progressiva articolazione e integrazione nella memoria a lungo termine, concorrendo a strutturare una propria conoscenza emozionale. In una serie di interessanti inchieste, di ricerche basate sull'uso di diari quotidiani, di studi sui risultati (follow-up) e anche sperimentali, Rimé e i suoi collaboratori hanno fornito un'ampia evidenza empirica dei fenomeni legati alla rievocazione delle e., specialmente nelle sue forme sociali (condivisione sociale o social sharing).

Altri studiosi come J.W. Pennebaker (1989; 1993; Emotion, disclosure and health 1995), sviluppando una linea di ricerca similare, hanno mostrato gli effetti della condivisione sociale delle e. sulla sofferenza psichica e anche biologica dell'individuo. Allargando il proprio campo di studi, Pennebaker ha analizzato anche la regolazione sociale della condivisione e della disclosure (rivelazione dei propri stati d'animo più intimi), mostrando come, in tutte le epoche e in tutte le culture, siano codificati i tempi e i modi in cui gli individui possono comunicare le proprie esperienze emotive. Ricerche come quelle di Rimé e Pennebaker danno un'ampia dimostrazione di come le e. siano fenomeni solo in parte individuali, e di come implichino anche una dimensione interpersonale e sociale. Il carattere sociale delle e. è messo in particolare evidenza anche dalle ricerche che hanno studiato i cosiddetti climi emozionali (emotional climates). J. De Rivera (1992) ha, infatti, mostrato come vi siano non solo le e. degli individui, ma anche quelle delle società. In alcuni paesi dell'America Meridionale, nei quali si sono affermati regimi dittatoriali, si è, per es., sviluppato un clima di paura derivante dall'esperienza di atti di violenza arbitraria e dal fenomeno dei desaparecidos, che ha avuto un impatto forte e generalizzato sul modo di percepire la realtà e sui comportamenti individuali e collettivi.

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