BESTA, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 9 (1967)

BESTA, Enrico

Carlo Guido Mor

Nato a Tresivio (Sondrio) il 30 giugno 1874, da Carlo e da Francesca Guicciardi (entrambi appartenenti alla vecchia nobiltà capitaneale di Valtellina), rimase presto orfano del padre, trovando nello zio paterno Fabio, professore all'Istituto superiore di economia e commercio di Venezia, un'amorevole guida ed un saldo appoggio. A Padova seguì i corsi universitari, udendo le ultime lezioni di A. Pertile e legandosi di affettuosa amicizia col condiscepolo P. S. Leicht. A ventiquattro anni vinse la cattedra di storia del diritto italiano presso l'università di Sassari, ove insegnò fino al 1904, passando successivamente alle università di Palermo (1904-1909), di Pisa (1909-1924) e di Milano (1924-1949). Fu socio nazionale dei Lincei, e membro effettivo di molte altre accademie. Nel 1936 fu chiamato a presiedere la Deputazione di storia patria per la Lombardia, con prudenza operando per la trasformazione nel nuovo organo della vecchia Società storica lombarda. Dopo la seconda guerra mondiale continuò a reggere le sorti della rinata Società storica lombarda, mantenendole una parte della configurazione di Deputazione. Morì a Milano il 12 luglio 1952.

Giovanissimo, a tredici anni, aveva cominciato il lavoro di trascrizione di documenti valtellinesi, affinandosi poi al contatto di uomini come B. Brugi - il suo vero maestro padovano - e di B. Predelli, il grande direttore dell'Archivio di Stato di Venezia. Questi contatti determinarono, in un certo senso, la direttrice di una prima serie di ricerche: la storia della giurisprudenza medievale e la storia di Venezia, che per alcuni aspetti potevano anche coincidere (come nella ricerca su Riccardo Malombra, consultore della Repubblica, e su Iacopo Bertaldo). Ma soprattutto le indagini veneziane ponevano il B. nel bel mezzo della grande polemica che da un decennio vedeva di fronte F. Schupfer e N. Tamassia.

Il punto di frizione era la maggiore o minore importanza, nella formazione del diritto intermedio, del contributo dei popoli germanici - e in particolare dei Langobardi stanziatisi in Italia - facendo risalire ad un apporto germanico le diversità fra il diritto documentato nei secoli di mezzo e il diritto romano giustinianeo, oppure spiegandole solo come deviazioni o concrezioni rispetto ad un robusto sistema giuridico, fondamentalmente indigeno e romano. Mentre Schupfer nei suoi lavori faceva leva sulle ultime idee romantiche, che consideravano il germanesimo come una alluvione che tutto avesse spazzato via, Tamassia era d'opinione che una gran parte di antico pensiero giuridico e di istituti fosse vivacemente sopravvissuta, ponendosi anzi in posizione dialettica con quei nuovi concetti, rivolgendo pertanto l'interesse a quei territori che o non avevano subito una massiccia sovrapposizione germanica o addirittura ne erano rimasti "immuni"; di qui in particolare le sue ricerche di storia giuridica meridionale.

Per la sua conoscenza dei fondi archivistici veneziani, il B. si trovò predisposto a seguire l'insegnamento del Tamassia, proprio prendendo in esame l'ambiente lagunare, che si mostrava ideale per un riscontro efficace delle nuove vedute. Venezia era, infatti, rimasta fuori del regno langobardo e poi franco, e semmai l'unica influenza diretta si poteva pensare fosse stata quella bizantina: ambiente, in certo senso antitetico al langobardo, ed a cui si rivolgevano allora gli interessi del Brandileone e del Calisse. L'aver vinto la cattedra universitaria a Sassari fu la spinta contingente ad occuparsi della storia giuridica isolana, campo in cui solo occasionalmente s'erano avventurati altri studiosi: la prolusione del 1898 rappresentò la prima presa di posizione per una integrale revisione - ma possiamo anche dire la prima costruzione - di una storia del diritto in Sardegna.

Nessun dubbio sulla mancanza di ogni influenza germanica, ma semmai, proprio come a Venezia, una presenza più o meno diretta di Bisanzio. Ci si domandava, dunque, se l'evoluzione giuridica si poteva ritenere - come avevan stimato gli antichi studiosi sardi - una lineare continuità dal diritto giustinianeo all'ultima età di mezzo (XIII-principio del XIV secolo). Ciò non risultava: v'erano diversità che non si potevano imputare al sessantennio di dominazione vandala (come poi suggerì il Brandileone), e che dovevano esser prodotto di forze consuetudinarie e popolari. Si affacciava così l'idea di un "diritto volgare" espressione genuina di un lavorio interno, di un adattamento delle leggi alle esigenze di un determinato ambiente sociale ed economico, od anche di creazione di nuovi istituti necessari per quell'ambiente. Con ciò il B. aderiva a quella corrente positivista, che mirava a spiegare i fatti storici in base alla obbiettiva esegesi documentaria; di qui, anche, la sua particolare inclinazione all'interpretazione filologica dei testi.

Dagli studi veneziani e da quelli sardi del B. veniva fuori una quarta componente nella evoluzione dei diritto italiano: oltre alla romana, alla germanica e alla canonica, quella "volgare", da intendersi, però, in modo diverso da quanto l'intende Vano Brunner e Mitteis, l'uno come amalgama di due componenti contrastanti(germanica e romana), l'altro come aspetto di sopravvivenza di antichi diritti provinciali. Per il B. la componente "volgare" è una forza viva, sempre operante, che mantiene anche elementi risalenti a forme provinciali preromane, ma che elabora molte forme nuove prendendo pure lo spunto da sistenù giuridici vigenti (nei casi veneto e sardo: quello tardo romano), costruendo, con successivi adattamenti, un diritto originale.

Questo processo era per il B. ancor più interessante riscontrare in un ambiente che, per la molteplicità delle dominazìoni, poteva apparire il più aggrovigliato: l'Italia meridionale, e in particolare il territorio pugliese. Romano, langobardo, bizantino, normanno: il problema era di sapere quanto ciascuno di questi ordinamenti giuridici aveva lasciato in eredità, quali si potevano dir preminenti; come e per qual via si eran formate le consuetudini baresi, e le altre; e come, in sostanza, l'ethnos locale,non spento e non distrutto, aveva reagito. Il panorama pugliese, dal punto di vista giuridico, rappresenta in un tutto unico questa combinazione di elementi, per cui la consuetudine, a seconda che si dia un minimo di prevalenza ad un particolare piuttosto che ad un altro, può apparire germanica o romanica o bizantineggiante (a parte l'apporto normanno che effettivamente è prevalente nell'ordinamento pubblico). Ma ad uno spassionato e vigilante sguardo, la consuetudine pugliese è tutto questo insieme, con strani stravolgimenti nel significato delle parole. Anche qui, è sostanzialmente il diritto volgare cui dovremmo dare la palma.

A metà strada, possiamo dire, delle ricerche veneziane, sarde e pugliesi (il cui nucleo più denso si può porre appunto fra il 1897 ed il 1910), un breve, denso scritto dei 1905, significativo fin dal titolo, dava ragione dei risultati fino ad allora conseguiti: La persistenza del diritto volgare italico nel Medioevo.Iltermine "italico" stava a comprendere infatti anche una tendenza unificatrice di certi atteggiamenti o di certi sviluppi che, presi singolarmente, possono apparire come fenomeni locali, ma raccostati fra di loro non appaiono così isolati: non cospiranti (fenomeno impossibile, data la distanza), però molto simili ed univoci. Tesi su cui il B. doveva tornare nel 1938.

Posizioni valide tanto per il diritto pubblico, quanto per il privato. A quest'ultimo aspetto della vita giuridica - salvo, naturalmente, per ciò che si attiene ai tre campi "locali" presi in approfondito esame - il B. non concesse molto spazio se si ha riguardo a contributi diretti: molta attenzione, invece, se si pon mente ai cinque volumi del suo trattato (Le persone,Padova 1931; La Famiglia,ibid. 1933; I diritti sulle cose,ibid. 1933; Le successioni,ibid. 1935; Le obbligazioni,ibid. 1937), che, nella loro stessa regolare progressione di data, fanno risaltare la precedente lunga elaborazione (e infatti i primi accenni sono nei corsi palermitani) e l'attento lavorio di informazione, di controllo e di ricerca.

Di pari passo con gli studi "locali" veneziani o sardi o pugliesi, il B. continuava la ricerca sul periodo dei glossatori e postglossatori. Segnano un gran momento i due volumi su Imerio, larga rielaborazione della tesi di laurea, il secondo dei quali comprendeva un'ampia silloge di glosse imeriane. Dal 1901 l'attenzione del B. si sposta sull'Alto Medioevo, e sui più significativi monumenti dei secoli VI-XI: le glosse all'Epitome Iuliani,la Lex Raetica curiensis,la Summa Perusina, l'Expositio ad librum Papiensem.

Era ancora il problema della persistenza e della fortuna del diritto romano nei secoli cosiddetti bui che ritornava in primo piano - e non si può non ritrovarvi un larvato atteggiamento polemico contro la scuola così detta "germanistica" -, ma il metodo usato non era certo né quello eruditissimo di Patetta e di Conrat, né quello troppo avventuroso di Fitting, né quello sagace, ma sempre un poco esterno, di Tamassia. I monumenti sono studiati da parte del B. dall'interno, nel loro contenuto specifico, e tanto meglio quanto più essi si staccano dall'originale diritto giustinianeo. Riaffiora, sotto un altro angolo visuale, il problema del diritto "volgare", cioè del processo di adeguamento dei vecchi testi alle esigenze nuove, per cui si può scoprire quell'iter ambientale che ha portato o a dar diverso significato alle parole, o addirittura a mutare alcune espressioni del testo. Così, per altra via, si arrivava allo stesso risultato, questa volta facendo leva sui testi legislativi o dottrinari, che meno di tutti gli altri potevano far pensare a manipolazioni con carattere di adattamento. Studi che si concludono anch'essi in un decennio (1901-1911), ma che, nella loro contemporaneità con gli altri, mostrano quante vie il B. tentasse per chiarire l'idea centrale di tutta la sua ricerca.

Allorché P. Del Giudice ideò una nuova completa Storia del diritto italiano,che avrebbe dovuto prendere il posto del classico trattato di A. Pertile, al B. fu affidata la parte relativa alle fonti nel Medioevo, dalla caduta dell'Impero romano alla fine del secolo XV. La ricchezza e la profondità delle precedenti ricerche documentarie permisero così al B., nei due volumi usciti nel 1923 e nel 1925, di tracciare non solo la storia esterna delle fonti - così come l'avevano pensata il Pertile, o, in Germania, Brunner e Schröder, o, in Francia, Esmein e Declareuil -, ma di presentare tutti i problemi che ciascun testo offriva, di collegare logicamente leggi e giurisprudenza, di impostare nuove soluzioni relativamente al grave problema del diritto comune e dei rapporti fra le varie gerarchie di diritti (universali, territoriali, associativi), di proporre uno studio più organico della larga produzione statutaria, e, in sostanza, di pervenire ad una rivalutazione obbiettiva dell'opera dei giureconsulti italiani, piuttosto malmenati dal Savigny.

Probabilmente è questa l'opera che diede più rinomanza al B., e certo è quella che ancor oggi, a più di trent'anni di distanza, appare insostituibile e valida. Basta, del resto, esaminare le prime cento pagine del secondo volume - dedicate alla teoria degli statuti come norma di legge - per sentire come, dietro l'esposizione tranquilla e distaccata del sistematore, ci sia un lungo lavorio di ricerca minuta, di analisi pazienti, di lettura di qualche migliaio di questi codici più o meno vasti, per ricercarne colleganze, simiglianze, coincidenze; ma soprattutto lo sforzo di costruire, dall'interno del fenomeno "statuto", la sintesi giuridica, cioè la reggia fondamentale che propone questo fenomeno come un prodotto, a sé stante nella vita giuridica italiana, ma collegato nel vasto ambito del diritto universale, espressione di particolarismo immerso nel sistema dello ius commune.Siandava oltre le concezioni allora correnti sul diritto comune, e di qui partirono, pochi anni dopo, G. Ermini e F. Calasso.

Il B., abbandonato l'insegnamento nel 1946, ripubblicava a Milano un libretto di piccola mole (160 pagine), ma densissimo di contenuto e sommamente istruttivo circa le idee professate: Avviamento allo studio della storia del diritto italiano (1 ediz., Padova 1926).

La metodologia del B. è esposta in tutta la sua pienezza, entro il quadro più ampio delle varie metodologie superate; con maggior sinteticità sono esposte anche le linee fondamentali della sua concezione del "diritto volgare italico", precisato, ora, come "sostrato" giuridico preromano (di qui la qualifica di "italico"), mutuando il concetto dalla glottologia. In fine vi è anche una breve esposizione delle posizioni storiografiche degli studiosi più qualificati.

Opere. Degli scritti del B. esiste un catalogo fino al 1938,premesso al primo dei quattro voll. degli Studi di storia e diritto in onore di E. B.: per il XL anno del suo insegnamento,Milano 1939, cui si rimanda. Posteriormente a tale data: Storia del diritto pubblico, I, Milano 1941;II,ibid. 1946; Corso di fonti del diritto romano dalla caduta dell'impero romano fino ai tempi nostri,Milano 1944; Bormio antica e medioevale,Milano 1945; Avviamento allo studio della storia del diritto italiano,Milano 1946; Storiografia valtellinese e storiografia rota,Coira 1949; Scritti di storia giuridica meridionale,a c. di G. Cassandro, Bari 1962.

Bibl.: B. Paradisi, Glistudi di storia del diritto italiano nell'ultimo cinquantennio (1895-1945), in Studi senesi, LX (1946-47), pp. 57-611; H. Mitteis, Zur Frage der rechtsgeschichtlichen Forschung in Italien,in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte,Germ. Abt., LXIX (1952), pp. 464-66; A. Giannini, E. B.,in Temi,XXIX(1953), pp. 96-97; P. S. Leicht. Commemor. di E. B., in Rend. dell'Acc. dei Lincei,cluse di scienze morali…, a. 8, VIII (1953), pp. 354-62; G. P. Bognetti, Commem. del pres. E. B.,in Arch. stor. lombardo,s. 8, IV (1953), pp. 434-439; G. Cassandro, prefazione a E. B., Scritti di storia giuridica…,pp. VII-XXII;P.F. Palumbo, N. Tamassia ed E. B. e il loro contributo alla storia giuridica meridionale,in Studi medievali,s. 3, IV (1963), pp. 617-27.

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