CECCHETTI, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CECCHETTI, Enrico

Alessandra Ascarelli

Nacque a Roma il 21 giugno 1850 da Cesare e da Serafina Casagli, in una famiglia di ballerini, coreografi e maestri di ballo.

Il padre, Cesare, nato a Civitanova Marche il 2 settembre del 1821, che era allievo prediletto di C. Blasis, conobbe una notevole fama verso la metà del secolo XIX sia come primo ballerino sia come coreografo, raccogliendo successi nei maggiori teatri italiani ed europei. Sposò la celebre danzatrice Serafina Casagli, con cui aveva lavorato nella stagione 1847-48 al teatro Carlo Felice di Genova. Dalla loro unione nacquero tre figli, Pia, Enrico e Giuseppe, che seguirono tutti le orme dei genitori nel campo della danza. Alla fine della sua brillante carriera Cesare si ritirò a Civitanova Marche, dedicandosi con successo alla politica; egli fu sindaco della cittadina (Fabbri), dove morì, dopo la scomparsa della moglie, nel 1898. Il primo dei figli che si avviò alla danza fu Pia, che si impegnò in lunghi e pazienti studi che dovevano farne una prima ballerina.Il C., figlio d'arte, era nato nel camerino di sua madre al teatro Apollo a Tordinona e fece la sua prima apparizione in pubblico all'età di cinque anni a Genova.

Nel 1857 accompagnò i genitori in un viaggio in America, dove essi erano stati ingaggiati come membri della compagnia organizzata dal danzatore ed impresario D. Ronzani, e ballò ne Il Birichino di Parigi (Filadelfia, Academy of Music). Quando nel '59 la compagnia rientrò in Italia, Cesare fu scritturato al teatro Vittorio Emanuele di Torino per mettere in scena quattro spettacoli all'anno (compose molti balletti, tra cui Il Mugnaio, Cristoforo Colombo e I Misteri di Parigi). Agli inizi degli anni '60 il padre e la madre del C. pensarono bene che fosse il caso di frenare le intemperanze del loro figliolo, diviso tra l'amore per la danza e l'entusiasmo patriottico, imponendogli una educazione scolastica nella speranza di avviarlo allo studio del diritto. Il ragazzo fu così mandato a Fermo, dove impiegò il suo tempo più a provare pirouettes che a seguire i corsi regolari, per cui, dopo un anno, i genitori lo ritirarono dalla scuola. Nel 1863 fu fatto un nuovo tentativo di allontanare il C. dal teatro (era infatti tra gli interpreti di Un Sogno nell'Harem di F. Magri dato nel '62 al teatro Municipale di Ferrara), inviandolo a Firenze, tentativo che si risolse con la espulsione del ragazzo che, incolpato a torto di una infrazione disciplinare, scagliò un calamaio contro l'insegnante.

Il C. tornò presto a Firenze, ma questa volta per intraprendere gli studi che amava: fu iscritto nel 1864 all'Accademia di danza diretta da G. Lepri, che era stato allievo del famoso C. Blasis. Dopo aver danzato alcuni pas de deux con la sorella Pia al saggio annuale, il C. debuttò con lei nel 1866 al teatro Pagliano nel balletto del padre Niccolò de' Lapi e ottenne in seguito una serie di scritture in città minori. La grande occasione venne nel 1870 quando il marchese C. Calcagnini, presidente del Comitato del teatro alla Scala, gli offrì non senza qualche perplessità, data la relativa inesperienza del giovane, un contratto come primo ballerino per il ballo La Dea del Walhalla del coreografo P. Borri con la già celebre G. Baratti. La rappresentazione fu travagliata da una serie di disavventure, ma il C. siriscattò agli occhi del pubblico eseguendo un tour de force, in cui compì vere prodezze virtuosistiche. Il successo scaligero gli aprì le porte dei maggiori teatri europei: fu così in Danimarca, in Norvegia, in Olanda, in Germania e in Austria; nel 1874 venne invitato a Pietroburgo. Al suo ritorno in Italia, ebbe occasione di ballare con una giovane e promettente allieva del Lepri, Giuseppina de Maria, sua partner al teatro Nazionale di Firenze in Il Figlio di Cheope, che il C. sposò il 2 dic. 1878 a Berlino. Nel 1885 lo troviamo come primo ballerino alla Scala, dove il 4 gennaio danzò con Emma Bessone e Rosa Turri nel balletto Messalina di L. Danesi, a cui seguì, il 26 febbraio, Gretchen, con coreografia del Danesi riprodotta da A. Coppini (cfr. Gatti, p. 205). Poco dopo si trasferì a Londra con la prima ballerina Giovannina Limido per prendere parte alla prima rappresentazione londinese dell'Excelsior di L. Manzotti, che si tenne il 22 maggio al Her Majesty's Theatre. Nonostante alcune difficoltà amministrative iniziali, lo spettacolo, rilevato da C. Hawtrey, ebbe grande successo e numerose repliche. In alcune serate fu eseguito anche un divertissement comico del C.: A Villa to be sold.

Tornato in Italia, il C. prese parte, con Antonietta Bella, Marie Müller e la moglie come prima mima, al nuovo ballo del Manzotti Amor, che andò in scena alla Scala il 17 febbr. 1886 ed ebbe quarantaquattro repliche. Poco dopo si recava a Fermo per una riedizione dell'Excelsior. Nel 1887 apparve di nuovo alla Scala in due nuove creazioni del Manzotti, Rolla e Narenta, rappresentaterispettivamente il 15 gennaio e il 13 marzo, con Adelina Rossi come prima ballerina. Durante l'estate dello stesso anno, il C. aveva organizzato per una tournée a Pietroburgo una compagnia (in cui figuravano la Limido e la moglie come prima mima) che si produsse al teatro Arkadija nel balletto dello stesso C. Le Pouvoir de l'Amour, in una sua versione del Rive du peintre di J. Perrot e in una versione ridotta dell'Excelsior. Quest'ultimo ebbe un successo eccezionale, tanto da indurre gli organizzatori a tentare di mettere in scena il ballo integralmente; tuttavia, data la ristrettezza dello spazio a disposizione, si dové ripiegare su un altro ballo del Manzotti: Sieba. La maggior parte degli artisti del Balletto imperiale, tra cui Marius Petipa e Ivan Vsevoložskij, direttore del teatro Mariinskij, rimasero colpiti dalla prodigiosa bravura dei ballerini italiani e soprattutto del Cecchetti. Nacque così l'idea di far propri i segreti della loro tecnica, ampliando la gamma delle possibilità sia espressive sia spettacolari del balletto russo: Vsevoložskij offrì così al C. un contratto non esclusivo col teatro Mariinskij, dove egli fece il suo debutto nel 1887 danzando con V. Nikitina nel Tulipano di Haarlem di L. Ivanov, dove mostrò anche il suo perfetto stile di "danseur noble". Poco dopo apparve con V. Zucchi ne L'Ordre du roi.

Alla fine del 1887 troviamo il C. all'Empire Theatre di Londra; figurava in cartellone come "the first dancer in the world" (scriveva C. W. Beaumont: "What more active representative of a saltatory demon than the wonderful Signor Cecchetti").

A Londra, come a Pietroburgo, la presenza del C. fu determinante per sradicare vecchi pregiudizi e permettere, riabilitando il ruolo dell'interprete maschile, un effettivo sviluppo nelle strutture del balletto "classico", fin'allora imperniato sull'apoteosi della prima ballerina. Egli non operò direttamente come coreografo, in quanto la sua attività in questo campo si limiterà ad alcune riprese di vecchi balletti (Catarina ou la fille du bandit di J. Perrot nel 1888 e Coppelia nel 1894) e alla collaborazione con L. Ivanov per le coreografie di Mlada di N. Rimskij-Korsakov nel 1892 e di Cendrillon, oltre a numerose composizioni per i saggi annuali degli allievi della Scuola imperiale; tuttavia riuscì, con la sua imponente presenza scenica. e con la ricchezza del suo vocabolario coreico, a influenzare profondamente la vena creativa di Petipa, che si avvalse sia dei suoi consigli tecnici, sia di quella sua famosa capacità di suscitare, con la mimica, profonde passioni e suggestive atmosfere.

Dopo una malattia, Petipa fu costretto per due stagioni a cedere la direzione della compagnia al C., assunto già nel 1888 come secondo "maître de ballet" del teatro Mariinskij; la prima produzione che li vide impegnati entrambi fu il capolavoro di P. Čajkovskij e M. Petipa, La Belle au bois dormant, che andò in scena il 3 genn. 1890. Il C. ebbe qui l'occasione di dimostrare la completezza della sua personalità artistica impersonando senza l'uso della maschera, ma col solo trucco di scena, il ruolo di Carabosse, una vecchia strega contorta e malvagia che si trascinava per due atti sotto il peso della sua gobba, per poi trasformarsi nel terzo atto nel personaggio forse più raffinato e stilizzato che il balletto classico abbia potuto creare: l'uccello azzurro.

In Russia rimasero famosi nell'interpretazione del C. anche i ruoli del Vento del Nord nel balletto di R. Drigo Il Talismano e quello della Locusta ne Le Caprice d'un papillon. Durante le ferie estive del teatro Imperiale, lo troviamo impegnato di nuovo all'Empire di Londra sotto la direzione di madame Katti Lanner in Orfeo (1891), con Malvina Cavallazzi, e in Versailles (1892).

Nel 1896 il C. abbandonò la carriera di danzatore per dedicarsi all'insegnamento, divenendo "maître de ballet" della Accademia imperiale, mentre la moglie assumeva l'incarico di sua assistente. Nel 1902, in seguito a disaccordi con la direzione, rassegnò le dimissioni e accettò l'incarico di "maître de ballet" offertogli dalla Scuola imperiale di Varsavia. Nei tre anni che seguirono, incrementò notevolmente il balletto polacco, potenziando la scuola e la compagnia, creando balletti di sua composizione tra cui Dopo il ballo, Piplet ed Eva, e invitando come ospiti le sue più grandi allieve russe, tra cui V. Trefilova, J. Sedova e O. Preobrajenska. In seguito alla rivoluzione del 1905 il C. lasciò la Polonia e si stabilì a Torino, ma non riuscì ad adattarsi alle mutate condizioni del nostro balletto ormai completamente surclassato, nel gusto del pubblico, dal furoreggiare dell'opera. Tutto quello che riuscirono ad offrire i teatri italiani al grande maestro furono le coreografie per l'opera Halka di M. Moniuszko (teatro Lirico di Milano) e per La Dannazione di Faust e L'Ebrea, date entrambe al teatro Costanzi di Roma tra il finire del 1905 e l'inizio del 1906. Il C. si trasferì di nuovo in Russia, dove aprì una scuola privata a Pietroburgo, che ben presto abbandonò per dedicarsi esclusivamente ad Anna Pavlova, che offrì al maestro un lauto compenso perché la seguisse senza accettare altri impegni. Passarono così tre anni di studi indefessi, durante i quali egli mise a disposizione della giovane ballerina tutta la sua esperienza artistica e didattica; se d'un lato essi furono determinanti per lo sviluppo del talento della Pavlova, contribuirono d'altro canto a creare intorno alla figura del maestro quell'alone quasi carismatico di "gran Sacerdote" della "nostra dea Tersicore" come scrisse la stessa Pavlova nell'introduzione al libro di C. Racster. Uscito dal volontario isolamento, il maestro ricominciò le sue lezioni ed ebbe numerosi allievi tra cui V. Nitinskij e T. Karsavina. Il suo prestigio era tale che, quando S. Djagilev propose alla Karsavina di entrare nella compagnia dei "Ballets russes", che era stata creata nel 1909, costei gli impose come condizione la possibilità di continuare le sue lezioni con il Cecchetti. Così nel 1910 questi era scritturato come istruttore dell'intero complesso djagileviano, oltre che come mimo.

Negli otto anni che seguirono, tranne che per un periodo nel 1913,durante il quale accompagnò la Pavlova in America, mantenne le capacità tecniche dei ballerini della compagnia di Diagilev al più alto livello, permettendo loro di far fronte alle varie esigenze di coreografi, pur molto diversi come stile e dando alla impostazione accademica del balletto "classico" quel valore di denominatore comune di tutti gli esperimenti coreografici e di tutte le ricerche stilistiche ed espressive che conserva tuttora. Naturalmente egli, legato com'era alla tradizione e spirito essenzialmente misoneistico, sconfessò sempre apertamente l'operato dei coreografi più rivoluzionari: famoso è rimasto per esempio il suo giudizio totalmente negativo su Le Sacredu printemps a proposito del quale tacciò di pura idiozia tutta la équipe dei creatori, da I. Stravinskij a N. Roehrich, da V. Nilinskij allo stesso S. Djagilev; tuttavia la "perfetta astrazione dei ... principi grammaticali" - come afferma A. M. Milloss (in Enc. d. Spett., col. 298) - che egli operò sul tessuto della tecnica accademica nella elaborazione del suo "metodo" permise al balletto di assorbire anche il rigido formalismo dalcroziano con la sua stretta aderenza al contesto musicale e di uscire così dai gorghi dell'espressionismo, rinnovato nella essenzialità delle sue strutture.

Come mimo il C. legò inoltre il suo nome a famosi personaggi del repertorio dei "Ballets russes" imponendo definitivamente il nuovo modello di verità e di credibilità espressiva di cui si era già fatto promotore bandendo sia l'uso della maschera, sia l'"assurdo, falso pathos del battere il piede, del digrignare i denti, del roteare gli occhi...", come ricorda il suo allievo V. Celli (in Dance Index, p. 164), in uso al tempo di Petipa. Cyril W. Beaumont nel suo E. C.: A Memoir (London 1929) ci offre vivide descrizioni dei ruoli più famosi da lui interpretati,come quello del grande eunuco in Sheherazade, quello di Pantalone in Le Carnaval, quello del mago in Petruška, quellodi Kaščej ne L'Oiseau de feu, quello del marchese di Lucca ne Le Donne di buon umore e quello del bottegaio ne La Boutique fantasque.

Stanco dei continui spostamenti, il C. decise di stabilirsi a Londra dove nel 1918 aprì uno studio privato al numero 160 di Shaftesbury Avenue, dove molti ballerini di Djagilev tornavano, appena era loro possibile, per rimettere a punto le loro capacità tecniche: nomi come L. Egorova, T. Karsavina, M. Kšesinskaja, L. Lopokova, B. Nižinska, A. Pavlova, O. Preobrajenska, J. Sedova, M. Smirnova, V. Trefiliva, S. Idzikowski, S. Lifar, L. Massine, V. Nižinskij testimoniano con la loro presenza nella "classe" del C. di quanta stima egli godesse fra i maggiori artisti del mondo del balletto. Durante le stagioni londinesi della compagnia, di Djagilev, il C. ritornò a calcare le scene, interpretando nuovamente quei ruoli mimici che egli aveva reso famosi. Il suo cinquantesimo anniversario con il palcoscenico fu festeggiato il 5 genn. 1922 all'Alhambra, dove egli apparve ancora una volta nel ruolo di Carabosse da lui creato trentadue anni prima, e dove gli furono tributate da tutta la compagnia commosse manifestazioni di riverenza e di affetto, come testimonia il Beaumont (in The Passing..., pp. 152 s.), che in quello stesso anno riuscì a pubblicare il libro A Manual of the Theory and Practice of Classical Theatrical Dancing basato sul metodo del C. e frutto della sua collaborazione prima con S. Idzikowski e poi con lo stesso Cecchetti. A coronamento della sua fatica durata due anni il Beaumont promosse inoltre la formazione di una società che avesse come scopo la divulgazione del metodo Cecchetti e l'incremento del nascente interesse per il balletto che la lezione di Djagilev e la permanenza del maestro italiano avevano creato in Inghilterra. Nacque così la Cecchetti Society che nel 1924 si fuse con l'Imperial Society of Teachers of Dancing.

Nel 1923, per motivi di salute, il C. decise di ritornare in Italia e di stabilirsi a Torino, città natale della moglie, dove vivevano anche tre dei loro figli: Vittorio (Jojo), fotografo, Cesare (Cece), avvocato, e Luigi (Gigetto), musicista, e di abbandonare definitivamente il teatro. Il distacco da quel mondo che l'aveva accompagnato dalla nascita durò ben poco perché, nel 1925, A. Toscanini, allora direttore artistico della Scala, gli offrì il posto di direttore della scuola di ballo del teatro scaligero. In quella stessa estate del 1926 Djagilev ingaggiò di nuovo il C. per affidare alle sue cure S. Lifar. All'inizio della nuova stagione scaligera il C. acconsentì a tornare in scena per interpretare la parte del ciarlatano in Petruška con V. Celli e C. Fornaroli. Fu quella la sua ultima recita.

Morì a Milano il 13 nov. 1928.

La figura del C., sia come ballerino e mimo sia come pedagogo, si inserisce perfettamente in quel modo di concepire il balletto comunemente definito "classico", dove il sentimento e l'emotività del personaggio vengono convogliati in pure strutture formali che, a loro volta, si animano perdendo così ogni rigidità di impostazione, per dar modo allo spettatore di sentirsi sentimentalmente coinvolto, nella sua pur lucida considerazione, dalla abilità virtuosistica, che costituisce non tanto il tessuto spettacolare della rappresentazione quanto il suo stesso mezzo espressivo. L'atteggiamento intransigente del C. in sala da ballo era volto ad ottenere dai ballerini quella massima concentrazione senza la quale è impossibile creare col proprio corpo lo strumento duttile e sensibile che è richiesto dalle esigenze estetiche e interpretative del balletto accademico nel suo sviluppo "neoclassico" contemporaneo, il cui linguaggio lineare ed essenziale è strettamente legato all'esperienza didattica del C. maturata in seno alla compagnia di Djagilev. L'elaborazione codificata del metodo di insegnamento del C., operata dal Beaumont, è senz'altro opera altamente meritoria, in quanto si annovera tra le poche testimonianze scritte di un'arte che si esaurisce in sé ed è stata di fondamentale importanza per la nascita del balletto inglese; tuttavia, astraendo dal tessuto connettivo della lezione cecchettiana i soli principi metodologici e le scarne sequenze di passi, ha inevitabilmente privato il retaggio del C. di tutta la ricchezza dell'esperienza artistica e umana profusa nella sua opera didattica, e, sviando il lettore da quella costante ottica teatrale alla base del suo insegnamento che non poté mai considerarsi pura "accademia", ha esposto le sue teorie e il suo metodo a critiche e contestazioni.

A parte la "querelle" tra il C. e N. Legat sul metodo del salto, controversia comune allora a molte scuole di danza e riferita da S. Lifar "La Danse, pp. 102 s.), ci si puòimbattere in giudizi come quello di Muriel Stuart (un'allieva della Pavlova che operò nella sua compagnia tra il 1919 e il '26,studiando nei periodi liberi anche col C.), autrice di un libro sulla tecnica del balletto adottato come "text book" nella School of American Ballet di New York. La Stuart afferma tra l'altro: "What he handed down was a wonderful recipe from basic to complicated things ... But he didn't tell you how to do these things ... It was his personality, his excitement, not his exercises, that cannot be replaced ..." (in Dance Magazine, p. 64). Questo giudizio contrasta peraltro sia con la stima che dimostrò al C. un impresario e un uomo di cultura come Djagilev e con la vera e propria devozione che ebbero per il maestro ballerini che furono tra i miti del secolo, come la Pavlova e Nilinskij, sia con l'appassionata difesa del metodo Cecchetti, di cui fu sempre paladino uno storico del balletto dell'importanza del Beaumont, per non citare altri. Esso va comunque letto alla luce degli sviluppi successivi della tecnica ballettistica per cui oggi non è più in voga il metodo del salto propugnato dal C., si sono adottate altre definizioni per le posizioni delle braccia e delle "arabesques", è notevolmente cambiata la sequenza degli esercizi alla sbarra e non si trova più un ordine del giorno settimanale costante come aveva stabilito il Cecchetti.

Tuttavia è innegabile che proprio sulla base del metodo Cecchetti, che si pone nella scia di precedenti opere di codificazione della danza classica, come le Lettres sur la danse (1760)di J. G. Noverre ed il Traité de ladanse (1820)di C. Blasis, si siano venuti articolando i metodi attuali come quelli elaborati da Agrippina Vaganova (1934) e da S. Lifar (1949), che infatti non si allontanano eccessivamente dai binari tracciati dal maestro italiano: la scansione dello spazio scenico in otto punti fissati dal C. in base alle ortogonali ed alle diagonali che lo attraversano, è ormai un fatto acquisito; la sequenza stabile degli esercizi in base a un determinato ordine che riflette la gradualità dell'impegno muscolare, anche se non è più quella del C., è un altro dato accettato da ogni scuola professionale; gli exercices au milieu della tradizione cecchettiana vengono ovunque eseguiti e lo stesso dicasi dei ports de bras, di cui la scuola russa conserva ancora la numerazione da uno a sei data dal C.; la formulazione cecchettiana dell'adagio con i suoi releves, i lenti giri e le diverse posizioni en l'air, il grand fouetté en tournant, il renversé, ecc., è ancora oggi la base dell'adagio della scuola russa, che è molto più vicina all'insegnamento del C. di quanto non lo siano quella italiana o inglese; l'"allegro" si esegue ancora nella parte terminale della lezione e, per quanto più articolato nella sua progressione dai piccoli ai grandi salti, si avvale tuttora dell'esauriente vocabolario elaborato dal C., per cui si rimanda al libro curato dal Beaumont e da M. Craske: The Theory and Practice of Allegro in ClassicalBallet (London 1930).

Il retaggio cecchettiano, quello che Beaumont chiama la "Cecchetti's legacy to the dance", è dunque presente nelle varie scuole nazionali che sono germogliate dal suo vecchio tronco, come del resto dalla diaspora della compagnia di Diagilev; se la scuola russa ne accentua l'elemento plastico e dinamico, se la scuola francese mette l'enfasi sulle tecniche dell'equilibrio già elaborate dal C., se la scuola inglese accentua l'esigenza già cecchettiana della linearità e della nitidezza delle posizioni, sono tutti motivi questi per ritenere che gli elementi costitutivi della tecnica ballettistica furono già presenti nel metodo del Cecchetti. Purtroppo la tardiva comparsa del maestro alla guida della scuola scaligera, dopo l'interregno che seguì la scomparsa delle tre grandi generazioni ottocentesche create dal Blasis, fu troppo breve perché lo si possa considerare il restauratore della tradizione italiana. Indubbiamente i suoi tre anni a Milano stimolarono le migliori energie nazionali e crearono danzatori come A. Radice, R. T. Legnani, V. Celli e G. Corbo. Tuttavia il C. rimase un fenomeno internazionale, l'ultimo forse della tradizione dei Vestris e dei Taglioni, ma il primo che portò la bandiera della tradizione del balletto europeo in un mondo iconoclasta come quello di Djagilev, in cui le istanze moderniste rischiavano di travolgere il concetto stesso di danza classica insieme agli schemi ottocenteschi del ballo teatrale.

Si ricorda inoltre, della famiglia Cecchetti, il fratello minore del C., Giuseppe (nato a Siena il 27 ottobre 1852 e morto a Torino il 30 ag. 1934), che fu anch'egli ballerino, coreografo e maestro di ballo. Sposò la celebre ballerina Amina Rossi (morta a Milano nel 1936) con cui, dopo un incidente professionale, si trasferì a Venezia verso il 1890, allontanandosi completamente dal teatro. Al teatro musicale ritornò successivamente, come impresario. L'insuccesso finanziario di questa esperienza lo costrinse a riprendere la carriera di coreografo di balli nelle opere, in Italia e all'estero. Spronato forse, dall'esempio del fratello e probabilmente quando questi rientrò in Italia, riprese l'attività didattica e, ormai settantenne, fondò e diresse una scuola di ballo a Torino, dove insegnò fino al giorno della sua morte.

Bibl.: C. Racster, The Master of the Russian Ballet (The memoirs of Cav. E. C.), a cura di A. Pavlova, London 1922; C. W. Beaumont, The Passing of a Great Artist, in The Mask, XIV(1928), 4, pp. 146-153; Id., E. C., A Memoir, London 1929; L. Moore, E. C., in Artists of the Dance, New York 1938, pp. 176-182; S. Lifar, La Danse, Paris 1938, pp. 102 s.; V. Celli, E. C.,in Dance Index, V(1946), 7, pp. 160-179; C. Resnevic Signorelli, E. C., in La Fiera letteraria, 16 luglio 1950; A. Clarke, C. e l'Inghilterra, in Balletto, II(1959), 7, pp. 227-234; A. H. Luijdjeps, Il grande divertissement di Nervi, ibid., pp. 278 s.; G. Corbo, E. C., Ricordi di un allievo, a cura di O. Signorelli, ibid.,III (1960), pp. 39 s.; C. Gatti, Il Teatro alla Scala nella storia e nell'arte, Milano 1964, II, pp. 205 s.; I. Guest, The Empire Ballet, London 1969, pp. 28 s., 35-40; Letters from the Maestro E. C. to Gisella Caccialanza, in Dance Perspective (New York), 1971, n. 45, pp. 8-51; M. Horosko, Anna Pavlova, in Dance Magazine, gennaio 1976, pp. 63 s.; S. Zavatti, Il civitanovese C. …, in Resto del Carlino, 10 dic. 1976; L. Rossi, E. C., Vercelli 1978; Enciclopedia dello Spettacolo, III, coll. 294-297; Enciclopedia della Musica Rizzoli-Ricordi, II, pp. 47 s. Per Giuseppe vedi necrologio in Corriere della Sera, 30 ag. 1934, e P. Fabbri, La famiglia del "cavaliere" C.,in L'Illustrazione italiana, 9 sett. 1934, pp. 392 s.

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