ENRICO di Castiglia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 42 (1993)

ENRICO di Castiglia (Henricus de Castella, Henricus de Hispania, Arrigo di Castiglia, Anrricus, Don Enrrique)

Norbert Kamp

Nacque all'inizio del marzo 1230, quarto figlio di Fernando (Ferdinando) III di Castiglia (1217-1252) e di Beatrice di Svevia, figlia più giovane del re Filippo di Svevia. Era quindi pronipote dell'imperatore Federico I Barbarossa. Sua madre aveva sposato Fernando di Castiglia con il consenso del cugino, il futuro imperatore Federico II.

E. trascorse la sua infanzia a Burgos, dove, secondo una notizia posteriore, avrebbe avuto tra i suoi precettori il futuro cardinale Egidio Torres. Conformemente al suo rango ricevette un'educazione cavalleresca. Si dimostrò molto dotato: di intelligenza acuta, versato nelle lingue, adatto alla guerra per il fisico robusto, valoroso ed energico, fu aperto e diretto nei rapporti personali; già durante la giovinezza tutte queste doti contribuirono a formare una personalità fuori dal comune che suscitò l'attenzione di poeti e trovatori.

A partire dal 1246 E. si mise in luce nelle campagne di Fernando III per l'accerchiamento di Siviglia e il re gli concesse in feudo le prime conquiste: Morón de la Frontera e Cote, ad est di Siviglia. Fu l'anticipo di una serie di altri feudi, Jérez de la Frontera, Lebrija, Arcos e Medina (Sidonia), che furono liberati soltanto dopo la caduta di Siviglia nel 1248. Nell'ambito del repartimiento che segui la capitolazione della città E. ottenne una quota per sé e per il suo seguito. Perciò negli anni seguenti visse per lo più a Siviglia alla corte della matrigna francese Giovanna di Ponthieu, seconda moglie di Fernando III. Questa prossimità fece sorgere voci di una relazione più intima, ma le allusioni che affiorano nei testi trobadorici sono prive di fondamento.

La forte ambizione di E., intollerante di ogni freno, rese inevitabile che nella famiglia reale sorgesse un conflitto intorno al diritto di primogenitura che si stava affermando in Castiglia. Già nel 1246 nacquero i primi contrasti con il fratello maggiore Alfonso destinato alla successione, allorché E. gli rifiutò l'homagium richiesto dal padre. I dissidi crebbero quando Alfonso X divenne re nel 1252. Nel marzo 1253 egli ritirò i privilegi sui grossi feudi andalusi che Fernando III aveva concesso ad E. e ridimensionò cosi le ambizioni del fratello. Proposte di matrimonio per E. furono lasciate cadere da Alfonso con ostentazione.

In risposta E. si legò ad uno dei grandi magnati che si opponevano alla Corona, Diego López de Haro, signore di Biscaglia. In un incontro a Maluenda nel 1255 convinse re Giacomo I d'Aragona ad aderire ai suoi piani e quando Alfonso reagi e Giacomo cambiò di nuovo partito, E. decise di ribellarsi apertamente. Nonostante trovasse sostenitori fino in Galizia, bastò la sconfitta subita in uno scontro presso Morón per far fallire la rivolta già nell'ottobre 1255. E. lasciò il paese da Cadice; il ritorno in Castiglia gli sarà per il futuro impedito.

Passando per Valenza, appartenente agli Aragonesi e per la Francia, E. riparò in Inghilterra, dove giunse verso la metà del 1256. Il re Enrico III, che aveva fatto sposare poco prima il figlio Edoardo con Eleonora, sorellastra di E., gli offri asilo per vari anni ma nessun sostegno concreto ai suoi progetti politici. Una congiuntura favorevole si presentò nella primavera 1257, quando il rappresentante del papa, l'arcivescovo di Messina Giovanni Colonna, venne in Inghilterra per trattare con il re: E. si dichiarò pronto ad andare in Italia come capitano alla testa di una schiera di cavalieri per conquistare la corona di Sicilia al principe Edmondo d'Inghilterra, ma l'insurrezione dei Gallesi contro Enrico III mandò a monte il piano ai suoi esordi ed E. non poté partire per il Mediterraneo.

Anche alcuni viaggi in Francia non portarono ad alcun risultato concreto: gli anni inglesi rimasero politicamente infruttuosi per E., anche perché il conflitto anglo-castigliano per la corona tedesca limitò ulteriormente le sue possibilità di azione. Nel 1259 decise pertanto di lasciare l'Europa e di raggiungere Tunisi, dove gli emiri Hafsidi avevano creato negli ultimi decenni una potenza autonoma che aveva esteso la sua autorità su buona parte dell'Africa settentrionale, creando condizioni favorevoli non solo al commercio dei mercanti europei, ma anche ai cavalieri latini cui era offerta l'opportunità di affermarsi militarmente al servizio degli emiri. Dietro assicurazione che non avrebbe attaccato la Castiglia, nel luglio 1259 Enrico III concesse ad E. diretto a Tunisi un salvacondotto per i porti della Guascogna sotto il suo controllo. Poiché E. invitava cavalieri catalani ad unirsi a lui, nell'aprile 1260 Giacomo I d'Aragona, che teneva peraltro in Africa truppe al soldo dell'emiro, proibi ai suoi vassalli di seguirlo a Tunisi.

Dal 1260 E. visse a Tunisi. Il fratello maggiore Federico (1224-1277), anch'egli ribellatosi ad Alfonso X, lo raggiunse nello stesso anno. Entrambi militarono con un contingente di cavalieri spagnoli al servizio dell'emiro El-Mostanssir (1249-1277), combattendo contro ribelli e governatori delle province infedeli. Nel 1261 E. con il fratello dell'emiro, Abou Hafs, condusse una spedizione contro la città di Miliana nel Maghreb centrale. Nel complesso i suoi successi militari, che dipendevano dall'armamento superiore dei suoi cavalieri, rafforzarono l'autonomia della dinastia Hafsidi dal Marocco degli Almohadi e dei loro successori. Di E., che fu trattato dall'emiro con onori principeschi, si disse anche, per la verità, che assunse abitudini e costumi del paese fino a rappresentare un elemento di disordine nella colonia cristiana di Tunisi anziché contribuire alla sua stabilità. Le ricchezze accumulate in questi anni furono investite come capitale in imprese commerciali di mercanti genovesi che avevano a Tunisi una propria colonia. Da un altro deposito creato sempre in questo periodo re Luigi IX di Francia poté attingere in seguito per un prestito al re d'Inghilterra.

Quando Carlo d'Angiò ricevette dal papa l'investitura feudale sull'Italia meridionale e nel maggio 1265 giunse a Roma, i due fratelli reagirono in maniera opposta. Federico accorse in aiuto del re di Sicilia Manfredi con un piccolo esercito. E., invece, intravide il suo futuro politico in un'alleanza con il cugino Carlo d'Angiò e, senza dubbio nella speranza alimentata da vaghe promesse di una ricompensa dopo la conquista del Regno, gli venne in aiuto dandogli in prestito i capitali depositati presso i mercanti genovesi, con i quali l'Angioino poté sopperire al grosso bisogno di denaro necessario agli arruolamenti nell'Italia settentrionale in vista della spedizione in Sicilia.

I suoi progetti iniziali, incoraggiati da papa Clemente IV e dall'imperatore latino Baldovino, miravano ad un matrimonio con Elena, la vedova di Manfredi, morto sul campo di battaglia a Benevento. La dote di Elena, l'isola di Corfù e una serie di località dell'odierna Albania, avrebbe dovuto essere la base di una signoria simile agli Stati creati in Grecia dai nobili francesi che avevano partecipato alle crociate. Dopo aver ricevuto una legazione da Tunisi, nella risposta ad E. dell'ottobre 1266 Carlo non escluse un matrimonio con Elena, sebbene intendesse ancora trattare con il padre di lei, il despota Michele d'Epiro, per ottenere anche la sua approvazione. Allo stesso tempo però si rendeva sempre più conto che sarebbe stato pericoloso per lui, cosi come lo era stato per i suoi predecessori sul trono di Sicilia, cedere ad altre potenze l'iniziativa politica nei paesi al di là dell'Adriatico. Cosi, mentre ancora nel gennaio 1267 Clemente IV escludeva a favore del matrimonio con Elena la proposta alternativa avanzata da E. di avere in feudo la Sardegna, nello stesso mese Carlo nominò un proprio vicario generale per Corfù che prese possesso dell'eredità di Elena. Le trattative dirette tra Carlo ed E., nel febbraio 1267 alla corte reale in Capitanata, ancora prima di cominciare avevano perso dunque ogni significato.

Quando Carlo d'Angiò, in viaggio verso la Toscana, all'inizio di maggio 1267 raggiunse la Curia a Viterbo per i suoi primi colloqui con il papa dopo l'insediamento sul trono dell'Italia meridionale, E. lo accompagnò con l'intento di perorare con l'appoggio del pontefice ben disposto verso di lui, i suoi progetti albanesi e sardi. Giacomo I d'Aragona, anch'egli interessato alla Sardegna, promise ad E. tramite il papa la mano della figlia e si offri al contempo come mediatore per il suo ritorno in Castiglia presso Alfonso X. Ma E. considerò questa nuova proposta caldeggiata dal pontefice come del tutto insicura di fronte alle promesse di Carlo, sulle quali egli ancora contava. Andò cosi incontro ad una clamorosa delusione. A Viterbo, pochi giorni dopo, Carlo concluse accordi segreti per la restaurazione dell'Impero latino con il principe della Morea Guglielmo di Villehardouin e l'imperatore latino spodestato Baldovino. Costoro non solo fornirono alla sua politica obiettivi imperiali nell'Oriente greco, ma garantirono anche un titolo legittimo al possesso dell'Albania. Dato che il papa, nonostante i pareri favorevoli ad E. nel Collegio cardinalizio, non prese alcuna decisione sulla questione della Sardegna, l'unico perdente delle trattative di Viterbo fu Enrico. Egli diede la colpa dello scacco a Carlo d'Angiò e dovette lasciare Viterbo covando un odio appena celato verso il rivale che aveva preso i suoi denari per i propri fini e - come E. rinfaccia nell'unica sua canzone conservata - lo aveva imbrogliato come un ebreo.

Nella primavera 1267, rovesciato a Roma il reggimento dei senatori nobili succeduto appena l'anno prima a Carlo d'Angiò, al neo eletto capitano del Popolo Angelo Capocci, guida del partito popolare, fu affidata la scelta del nuovo senatore unico. Capocci, che ancora alla fine di maggio dovette reprimere una rivolta nobiliare, in giugno decise a favore di E., il quale accettò subito la nomina. Probabilmente già alla fine del mese aveva assunto la carica di senatore, visto che il 2 luglio 1267 Clemente IV rispose alla sua prima circolare. Un contingente di trecento cavalieri spagnoli che aveva seguito E. da Tunisi assicurò il suo potere nella città; i partiti in lotta tra loro, intimoriti dalla prontezza nell'agire di E. furono da principio disposti ad accettarlo. E. era anche temuto perché poteva colpire fulmineamente.

Clemente IV ignorò dapprima il dissenso manifestatosi nella nobiltà romana e tra i cardinali contro l'elezione di Enrico. Egli, cosi come probabilmente anche Carlo d'Angiò, nutriva la speranza che la magistratura ottenuta a Roma appagasse la ambizione di E. ed egli si considerasse soddisfatto. Dato però che E. - seguendo l'indirizzo politico già di Brancaleone d'Andalò fatto proprio poi dallo stesso Carlo - voleva restaurare il reggimento della città nelle forme e nei diritti antichi anche sul distretto nella sua eccezione più ampia, conflitti col papa in qualità di sovrano dello Stato della Chiesa furono inevitabili.

Già nei primi giorni del suo ufficio E. comunicò ai Comuni, castelli e nobili del Patrimonium Sancti Petri nella Tuscia e nella Sabina l'obbligo di riconoscere la giurisdizione romana e il dovere di obbedienza politica. Furono rimessi in vigore antichi servizi caduti in disuso. Ad Anagni sorse un contenzioso circa il tribunale e le prestazioni dovute per la "cavallata" dei Romani; a Corneto si trattò dei rifornimenti alimentari della Curia che E. voleva dirottare su Roma. Agli ordini scritti seguirono per Corneto minacce di un intervento militare; davanti a Sutri E. schierò le sue forze dotate di grosse macchine da guerra. Persino località ai confini del Regno risentirono della politica aggressiva del nuovo senatore, cosicché Clemente IV mise sul chi vive il capitano generale di Carlo d'Angiò. Per il resto il papa reagi con contrordini ai Comuni ed esortazioni all'indirizzo di E., ma mostrò nel complesso un atteggiamento timoroso, comprensibile solo alla luce della preoccupazione dominante della sua politica, che era quella di evitare una aperta alleanza tra E. e i ghibellini che si andavano organizzando per riconquistare il potere.

Per E. tale passo era divenuto peraltro inevitabile, almeno da quando, al più tardi a Viterbo nel maggio 1267, aveva compreso che il suo futuro politico in Italia non era al fianco di Carlo d'Angiò, bensi dalla parte dei suoi avversari. A Roma nominò suo vicario uno dei principali nobili ghibellini delle Marche, il conte Guido da Montefeltro, che già nell'agosto 1267 intavolò trattative con Corradino ad Augusta. Corradino gli conferi in questa occasione la contea di Chieti e il titolo di familiare. Il 18 ott. 1267 E. ricevette solennemente a Roma il legato di Corradino Galvano Lancia e lo ospitò nel palazzo del Laterano. Sul Campidoglio fu innalzato il vessillo di Corradino con l'aquila imperiale. Si trattava di un chiaro segnale politico che non fu ricevuto solo dai ghibellini. La risposta del papa alla provocazione segui tuttavia la linea tenuta sin li: Clemente IV minacciò di scomunica Galvano Lancia con un proclama diffuso a Roma, ma sorvolò sul ruolo di Enrico.

La mossa successiva fu rivolta all'opposizione guelfa a Roma, che a causa dell'appoggio che godeva nel Collegio cardinalizio rimaneva pericolosa. Tra l'11 e il 13 nov. 1267 E. arrestò i rappresentanti delle famiglie Orsini, Malabranca, Annibaldi, Savelli e Stefaneschi invitati in Campidoglio con un pretesto; ad alcuni di essi assegnò luoghi di reclusione fuori dalla città. Le loro case e fortezze a Roma furono distrutte. Solo Rinaldo Orsini riusci a rifugiarsi nel suo castello di Marino, a sud di Roma, e resistette agli assalti di Enrico.

Dall'estate del 1267 furono lanciati i primi segnali ai ghibellini, i quali erano incalzati dalla presenza di Carlo d'Angiò in Toscana. Su proposta del vicario Guido da Montefeltro il Consiglio dei Comune di Roma, allargato ai rappresentanti degli artigiani e dei mercanti, il 18 nov. 1267 decise l'ingresso nella lega già costituitasi tra Pisa, Siena e gli altri ghibellini toscani: la ratifica segui il 1º dic. 1267 a Roma alla presenza di Enrico. La nuova lega ghibellina dichiarò Carlo d'Angiò nemico comune e si assunse inoltre il compito di tutelare i diritti di Corradino e dell'Impero. E. fu eletto dai confederati capitano generale della Tuscia per cinque anni con uno stipendio di 10.000 lire pisane, e con l'obbligo di tenere ai suoi ordini un esercito di 200 cavalieri spagnoli e 2.000 soldati. L'incarico era in evidente conflitto con il mandato di pacificazione che alcuni mesi prima Clemente IV aveva affidato a Carlo d'Angiò conferendogli il titolo di paciarius.

Clemente IV, che dal settembre 1267 era al corrente dello sbarco di Corrado Capece in Sicilia, riconobbe il pericolo che proveniva dall'alleanza tra E. e i ghibellini toscani. Intraprese perciò un tentativo di ricomporre la rivalità che opponeva E. a Carlo d'Angiò risolvendo la questione ancora aperta del prestito. In una lettera del 13 nov. 1267 autorizzò il cardinale di S. Cecilia Simone di Brion ad impiegare i denari destinati alla crociata per saldare i debiti di Carlo e contemporaneamente dichiarò nulle le misure prese da E. contro i guelfi romani. Tali iniziative, volte a scongiurare uno scontro aperto, non furono però sufficienti per indebolire in maniera decisiva la posizione di Enrico.

In qualità di capitano generale della Tuscia, nel dicembre 1267 egli si rivolse anche ad Orvieto e Todi per coinvolgere nella lega le due città in conflitto con la Curia per altri motivi. Fece intercettare i corrieri pontifici con la loro corrispondenza, mentre gli scontri militari si estendevano fino a Vetralla, minacciosamente vicino alla Curia che risiedeva a Viterbo. Galvano Lancia, durante una seconda missione a Roma, fu accolto come ospite d'onore ai giochi romani e legati di Corradino assistettero ad una seduta del Consiglio in Campidoglio. E. stesso elesse come residenza abituale il palazzo papale di S. Pietro in Vaticano che aveva fatto occupare in precedenza da soldatesche germaniche. Furono presi inoltre contatti con la corte aragonese dove, intorno alla regina Costanza, si erano raccolti fuorusciti ghibellini.

Clemente IV, che si rendeva sempre più conto del suo isolamento, già dal dicembre 1267 fece intravedere a Carlo d'Angiò la possibilità di essere di nuovo creato senatore di Roma se la proposta della sua nomina fosse partita dai Romani. Il pontefice intendeva comunque ancora scongiurare un acutizzarsi della situazione politica. In questo senso, alla fine di gennaio 1268 si aggrappò come ad un'ancora di salvezza ad un'offerta di Alfonso X, il quale proponeva al fratello di tornare in Castiglia, dove avrebbe potuto contare sull'investitura di feudi. Un matrimonio di E. con la figlia del visconte Gastone di Béarn avrebbe dovuto favorire i piani del papa di un rientro in patria di Enrico. Ma l'alleanza di E. con i ghibellini non consenti a questo punto alcuna manovra, sebbene Clemente IV con il suo atteggiamento tollerante, ormai non più comprensibile, ancora nel marzo 1268 ritenesse che da E. non si dovesse temere alcun attacco al Regno.

Il 1º apr. 1268 la misura fu colma anche per il papa. A questa data fece pubblicamente ammonire per la prima volta E. per i soprusi perpetrati a Roma. Subito dopo l'arrivo di Carlo d'Angiò a Viterbo, il 5 aprile, giovedi santo, Clemente inflisse la scomunica ad E. e ai suoi seguaci. L'11 aprile assegnò a Carlo il vicariato imperiale in Toscana e dichiarò che l'ufficio di senatore sarebbe passato a lui se E. non avesse ottenuto l'assoluzione entro un mese. Il 17 maggio 1268 rinnovò la scomunica ma accordò come nuovo termine per l'assoluzione il 29 giugno.

Il fallimento di un attacco notturno su Roma organizzato da Carlo d'Angiò il 23 apr. 1268 e il ritorno di Carlo nel Regno a causa della rivolta dei Saraceni a Lucera consenti a E. di consolidare la sua posizione a Roma senza curarsi delle minacce di punizioni spirituali lanciate dal papa. Fece sequestrare i tesori delle chiese e i beni dati in custodia alle chiese dai privati e trasformò la città in un accampamento ghibellino. Il 27 maggio 1268, alla presenza di Galvano Lancia, l'alleanza ghibellina fu rinnovata. I legati del Comune di Siena pagarono ad E. una parte del salario stabilito per i suoi servizi di capitano generale nonostante fino ad allora egli non avesse condotto alcuna campagna nella Tuscia.

Corradino, che grazie al modificarsi della situazione in Toscana aveva potuto intraprendere il suo viaggio da Pavia verso il Sud, dopo essere passato per Pisa, Siena e Viterbo, giunse a Roma il 23 luglio 1268; il giorno dopo fu accolto da E. e dal popolo romano con la pompa e gli onori degni di un futuro imperatore e stabili la sua residenza in Campidoglio.

L'alleanza tra E. e Corradino mirava alla conquista del Regno. L'organizzazione militare della campagna fu curata nelle settimane successive da Galvano Lancia e dallo stesso Enrico. La marcia delle truppe da Roma corrispose ai loro piani strategici, che però Carlo seppe controbilanciare con i movimenti del suo esercito in maniera cosi brillante che fu lui a scegliere il luogo dello scontro ai Campi Palentini, presso Tagliacozzo. Nella battaglia del 23 ag. 1268 E. guidò la prima schiera formata da cavalieri spagnoli e da alleati romani. Con questa diede inizio alla battaglia e sfondò con un violento attacco la prima linea francese aggredendola dal fianco. E. e i suoi credettero erroneamente che sul campo fosse rimasto, invece del maresciallo Henri de Cousances, il re di Sicilia in persona e, imbaldanziti da questo risultato, considerarono già vinta la giornata. L'inseguimento del nemico in fuga senza preoccuparsi dell'ulteriore evolversi della battaglia si rivelò un errore tattico decisivo perché Carlo d'Angiò poté far entrare in campo la riserva strategica tenuta da parte contro un nemico numericamente indebolito e in questo modo trasformò la sconfitta in vittoria. Quando E. con i suoi cavalieri ormai stremati ritornò sul campo di battaglia non era più nelle condizioni di ribaltare le sorti della giornata. Nella rotta delle truppe di Corradino, cominciata senza alcun ordine verso sera, E., che aveva perso il suo cavallo nella battaglia, si avviò verso nord in direzione di Rieti. A metà strada -, a sud della città, si imbatté nel fratello dell'abate Egidio di S. Salvatore Maggiore, Sinibaldo di Vallecupola (detto anche de Aquilano) e fu catturato. Dopo una breve prigionia nel monastero, il 7 sett. 1268 l'abate lo consegnò a Carlo d'Angiò a Celle di Carsoli. Sinibaldo (morto prima del 1283-84) nel febbraio 1269 fu ricompensato con l'investitura feudale dei castelli di Staffile e Corropoli.

Il vicario Guido da Montefeltro rimasto a Roma al posto di E. dopo la disfatta si rifiutò di dare rifugio in Campidoglio al fuggiasco Corradino e, quando Carlo d'Angiò entrò a Roma, restitui la carica. Nell'ottobre 1268 Carlo portò E. insieme con tutti gli altri prigionieri attraverso diverse località del Regno fino a Napoli. Qui lo fece condannare a morte ma, in considerazione dello stretto legame di parentela e - come è altresi riportato - anche a causa di promesse fatte a Clemente IV, commutò la pena in prigionia a vita. Ad una grazia più estesa era impossibile pensare, perché durante la battaglia E., trascinato dall'ira, non solo si era lasciato andare a parole minacciose nei confronti di Carlo, ma aveva anche mostrato di volerlo uccidere personalmente quando aveva ammazzato con le sue mani, credendo fosse Carlo, il maresciallo Henri de Cousances, sbalzato da cavallo.

Dalla fine del 1268 al marzo del 1277 E. scontò la prigionia con il conte Corrado di Caserta nel castello di Canosa di Puglia, dalla primavera del 1277 in Castel del Monte presso Andria. I castellani e i sorveglianti erano cavalieri francesi della cerchia più ristretta di Carlo d'Angiò; le condizioni della prigionia, pur nel rispetto del suo rango, erano rigide.

Dopo consultazioni con i membri della famiglia reale francese e con Luigi IX, nel giugno 1269 Carlo rifiutò la liberazione richiesta da Alfonso X di Castiglia e Giacomo I d'Aragona. A favore di E. si pronunciarono anche trovatori come Paoletto di Marsiglia, Bartolomeo Zorzi e Folchetto di Lunel, ma senza risultato. Quando Edoardo I d'Inghilterra e sua moglie Eleonora di Castiglia di ritorno dalla Terrasanta nel dicembre 1272 passarono in Sicilia, Carlo permise alla regina di visitare il fratellastro, ma solo sotto stretta sorveglianza. Alla richiesta di grazia fatta dalla coppia reale inglese rispose negativamente e anche l'intervento di Giacomo I d'Aragona al concilio di Lione nel 1274 rimase senza esito. Un messo di E. poté recarsi nel 1279 alla corte di Castiglia grazie alla mediazione di Pietro III d'Aragona, ma anche la sua missione non diede alcun esito.

Un alleggerimento delle condizioni di prigionia si verificò per E. solo dopo che, con la morte di Carlo I nel 1285, l'aspra rivalità personale tra i due cugini venne meno. Papa Onorio IV nel 1286 conferi al suo legato nel Regno, il cardinale vescovo della Sabina Gerardo Bianchi, l'autorità di togliere ad E. la scomunica se avesse mostrato pentimento. Poco dopo il ritorno dalla sua prigionia nel settembre 1289, Carlo II concesse a E. un'uscita in sella a un mulo, una volta alla settimana. Nella nuovamente cambiata situazione politica del 1291 Edoardo I, su pressione della moglie Eleonora, intervenne di nuovo presso Carlo II. Con un secondo messaggio si rivolse a papa Niccolò IV ed ebbe successo: il 5 luglio 1291 Carlo II, trovandosi ad Aix-en-Provence, diede ordine di liberare Enrico.

Dopo il rilascio, di fronte alla situazione confusa che regnava nella Sicilia aragonese, E. si recò in un primo tempo a Tunisi, dove alla corte dell'emiro Abu Hafs (1284-1295), con il quale nel 1261 aveva espugnato Miliana, trovò accoglienza e probabilmente anche l'antica considerazione. All'inizio dell'estate 1294 andò come rappresentante dell'emiro in Spagna. Prima del 3 luglio arrivò a Barcellona: egli doveva presentare a Giacomo II le lamentele dell'emiro per gli attacchi dei pirati siciliani, ma a ciò si aggiungeva la proposta di rinnovare e allargare l'alleanza tunisino-catalana. Grazie alla sua mediazione Giacomo II accolse le richieste e inviò un proprio fiduciario a Tunisi per ulteriori negoziati.

Nello stesso periodo E. era destinato a giocare ancora, anche se assente, un ruolo sulla scena politica di Roma. La situazione, divenuta ingovernabile a causa del conflitto tra gli Orsini e i Colonna e dello stallo determinato dalla mancata elezione del pontefice rimasta in sospeso dal 1292, sfociò tra la fine di maggio e l'inizio di giugno 1294, secondo il resoconto del ben informato cronista inglese Bartholomew Cotton, in una rivolta contro la nobiltà. Emerse allora il progetto di affidare di nuovo a E. l'ufficio di senatore, ma la proposta di trovare una via d'uscita attraverso un arbitro esterno rimase senza esito come già quella precedente di coinvolgere nella questione romana il luogotenente e futuro re di Sicilia Federico III d'Aragona.

Da Barcellona nel 1294 E. si recò alla corte di suo nipote Sancho IV che era succeduto nel 1284 ad Alfonso X sul trono di Castiglia. A Burgos Sancho lo investi di importanti feudi, tra i quali la Biscaglia, e lo accolse nella sua corte; E. lo accompagno nel suo viaggio in Biscaglia, Valladolid e Toledo.

Quando Sancho mori già nell'aprile 1295 affidando alla moglie Maria de Molina la reggenza per il figlio minorenne Fernando IV, E. assunse di nuovo un ruolo autonomo sulla scena politica castigliana. Nonostante qualche resistenza, ottenne appoggio presso le Cortes dietro promessa di nuove libertà, sicché nell'agosto 1295 a Valladolid fu riconosciuto come reggente e tutore del re. La regina madre si vide cosi ridotta al ruolo di semplice educatrice del figlio. Nei primi mesi E., a prezzo di concessioni, conquistò gli iniziali oppositori della successione al trono di Fernando IV (contestata a causa della mancanza della dispensa papale per il matrimonio dei genitori), creando, quantunque al prezzo di un rafforzamento della nobiltà, una base politica alla monarchia. Tuttavia non c'è dubbio che la reggenza di E. durata più di sei anni non andò a vantaggio del paese. Tirando le somme bisogna dare ragione a coloro che già nel 1295 avevano detto che E. avrebbe pensato più a se stesso che al re. Il cronista Jofré de Loaisa aveva addirittura l'impressione che come reggente E. desse la precedenza alla caccia e ai banchetti sui suoi doveri.

L'appoggio dato da Giacomo II d'Aragona alle pretese sulla corona di Castiglia avanzata dai principi Alfonso e Fernando de la Cerda, figli di un fratello maggiore di Sancho IV morto prematuramente, minacciarono presto il potere di Fernando IV; anche altri infanti castigliani avanzarono pretese proponendosi come potenziali alleati dei suoi rivali. Nondimeno, quando invasioni simultanee su più fronti crearono situazioni critiche, il reggente apparentemente non se ne curò e rimase nei suoi feudi andalusi delegando l'onere della difesa e della mobilitazione delle truppe alla regina madre Maria. Nella primavera 1296 si rifiutò di soccorrere Mayorga de Campos assediata dalle truppe d'invasione aragonesi perché gli sembravano più importanti le sue trattative con il re di Granada. Verso l'inizio del 1297 invece impose l'interruzione dell'assedio di Paredes de Nava in León per impedire che la regina madre indebolisse la nobiltà ribelle del León con una sconfitta. In altre circostanze rinunciò ad un'alleanza contro la Corona con il re Dionigi di Portogallo e il potente infante di Galizia e León Juan a prezzo della concessione di grossi feudi come Roa, Medellin e Ecija. La nomina a adelantado de la frontera in Andalusia (1299), a cui E. aspirava soprattutto per le entrate elevate, non servi per la protezione del confine dai Mori, dato che E. continuò a perseguire un suo vecchio progetto del 1296 di cedere Tarifa, la fortezza situata nella punta meridionale della Spagna, al re di Granada sacrificando cosi il grosso valore simbolico che rivestiva questa fortezza riconquistata da Sancho IV in cambio dell'effimera concessione di sgravi fiscali a favore dei suoi sostenitori nelle città. Quando Giacomo II d'Aragona conquistò Murcia, un'alleanza di E. con l'infante Juan e il nobile Juan Nuñez de Lara contro la regina madre Maria (1301) rese vani gli sforzi castigliani per contrastare l'espansione aragonese. Ai testimoni contemporanei di questo quasi ininterrotto conflitto nobiliare, Maria de Molina apparve perciò sempre più un positivo contraltare dell'egoismo di E., dato che ella, a differenza del rivale, si occupò costantemente della tutela dei diritti di Fernando IV e dell'unità della Castiglia.

Quando nell'ottobre 1301 arrivò in Castiglia la bolla di Bonifacio VIII che con il riconoscimento del matrimonio di Sancho IV e Maria de Molina legittimava la successione di Fernando IV, E., che voleva rinviare la fine della reggenza, sparse la voce che si trattava di un falso. Al contempo però la sua influenza politica calò a favore dell'infante don Juan e di suo cognato Juan Nuñez de Lara. Quando la reggenza, per il cui prolungamento E. si era battuto invano, si concluse nel febbraio 1302, E. ottenne nuovi feudi, ma perse il posto nel Consiglio del re, debole e perciò esposto a nuove influenze.

E. si alleò perciò con altri nobili del casato degli Haro per recuperare il terreno perduto. In un rapido rovesciamento di alleanze, che produsse un momentaneo avvicinamento alla regina madre Maria contro la nobiltà che dominava il re, nell'estate 1302 ottenne l'ufficio di maggiordomo maggiore del re, ma restitui la carica già nel novembre per riacquistare la sua libertà di manovra. Il 20 giugno 1303 infatti, dopo essere dal febbraio tornato all'opposizione contro Fernando IV, E. concluse un patto con i fratelli de la Cerda, Giacomo II d'Aragona, l'infante Juan Manuel e altri nobili castigliani contro il sovrano.

L'alleanza non ebbe seguito perché E. già in luglio si ammalò gravemente. Nell'agosto 1303 dettò le sue ultime volontà. In una prima redazione esse tradiscono lo spirito egoistico che nell'ultimo decennio aveva già oscurato l'immagine di E. nella considerazione dei contemporanei: egli lasciò i feudi ricevuti dalla Corona di Castiglia ai suoi vassalli. Le pressioni della regina madre Maria e del suo confessore francescano gli fecero cambiare proposito: con un nuovo testamento del 9 ag. 1303 restitui i feudi regi alla Corona.

Mori l'11 ag. 1303 a Roa, presso Valladolid. La regina madre dispose una sepoltura confacente al suo rango nella chiesa minorita di S. Francesco a Valladolid. Ma la sua scomparsa suscitò in Castiglia più sollievo che tristezza tanto che quasi nessuno volle seguire il corteo funebre.

Verso la fine del 1299 E. aveva sposato Juana Nuñez de Lara († 1351), detta la Palomilla, sorella di Juan, membro di una delle più potenti famiglie del regno, caduto prigioniero in un fallito attacco contro la Castiglia. Il matrimonio rimase sterile e dopo il 1308 Juana sposò in seconde nozze Fernando de la Cerda († 1322), un pronipote di E., che per un periodo nutri speranze sulla eredità castigliana. Da una relazione illegittima con una donna italiana, i cui parenti in Castiglia si chiamavano Rodriguez Pecha, nacque Enrique Enriquez, erede dei feudi sivigliani. Suo figlio Enrique Enriquez, nipote di E., fu dal 1336 comandante delle truppe del vescovato di Jaen nella guerra contro i Mori e nel 1344 prese parte alla conquista di Algeciras. Dopo essere diventato verso il 1343, sotto Alfonso XI (1312-1350), justicia mayor de la casa del rey ricopri dal 1358 fino alla morte nel 1366 l'ufficio di adelantado de la frontera in Andalusia che era stato per poco tempo anche di Enrico.

La personalità di E. fu caratterizzata da un'indole accattivante e da virtù cavalleresche come valore, coraggio e astuzia guerresca che però furono oscurate da una passionalità difficilmente controllabile, da ambizione, avidità, irruenza e imprevedibilità. Solo di rado riusci a contemperare il suo intuito politico, la conoscenza degli uomini, l'abilità militare che lo resero adatto a incarichi di prestigio, con misura ed equilibrio. Clemente IV fu colpito dalla sua imprevedibilità nelle decisioni, altri dal temperamento irascibile - "el gran bolliciator" - che non riusciva a dominare. L'aspetto tragico del suo destino fu che l'ambizione, rimasta intatta fino all'ultimo, di conquistare un proprio regno lo portò spesso a puntare sulla carta sbagliata: in Castiglia in occasione della rivolta contro il fratello re, in Inghilterra, Albania e in Sardegna, infine anche alleandosi coli Corradino contro Carlo d'Angiò, decisione determinata più dall'ansia di vendicarsi che da convinzioni politiche. Nel periodo del suo eroico dispiegarsi prima della detenzione pluridecennale in Puglia, la sua personalità, con la sua sfida all'imprevisto, la vocazione all'avventura e all'audacia, con la sua energia che si esprimeva ancora meglio nel fuoco dell'azione, rappresentò un modello cui ispirarsi per i poeti e i trovatori delle corti spagnole e italiane che lo celebrarono come il più ardimentoso cavaliere dalla Germania a Burgos.

E. tanto più incontrò questa popolarità in quanto dominò perfettamente la lingua e le regole della lirica cortese spagnola e italico-provenzale. Sotto il suo nome è tramandata in un'antologia toscana del XIII secolo una sola canzone "Allegramente e con gran baldanza", i cui versi esprimono la speranza di una pronta rivalsa sulla condotta ingannatrice di Carlo d'Angiò e la veloce ascesa del 1268 in alleanza con Corradino. L'eleganza stilistica di questo sirventese (conservato nel cod. Vat. lat. 3793 f. 53v n. 166, e pubblicato in E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, a cura di F. Arese, Roma 1955, pp. 316 s.) ha ispirato a più di un critico dubbi sulla attribuzione ad E., ma il risentimento e l'odio personale che aleggiano nei versi contro Carlo e i riferimenti diretti, anche altrimenti individuabili, alla sua biografia, ne provano l'autenticità.

Inoltre a E. sono dedicate le seguenti canzoni o cantigas: don Gonçal Eanes do Vinhal, "Amigas, eu oy'dizer", e "Sey eu, donas, que deytad (h)ed acqui", in Cancioneiro portuguez da Vaticana, a cura di Th. Braga, Lisboa 1878, pp. 188 n. 999, 190 s. n. 1008; Cancioneiro da Biblioteca nacional (Colocci-Brancuti), a cura di E. Paxeco Machado-J. P. Machado, VI, Lisboa 1964, p. 128 n. 1342; VII, ibid 1964, pp. 100 s. n. 1655; "Gia non cugei, qe maportes ogan", in Grutzmacher, Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, XVIII (1963), 33, p. 311; Raimont de Tors de Marseille, "Per l'avinen pastor", in C. A. F. Mahn, Gedichte der Troubadours in provenzalischer Sprache, III, Berlin 1864, p. 227 n. 1058; "Ar es ben dretz que vailla mos chantars", ibid., II, ibid 1862, p. 14 n. 323; Calega Panzano, "Ar es sazos", in Poesie provenzali storiche relative all'Italia, a cura di V. De Bartholomacis, II, Roma 1931, pp. 250-256 n. 169; Bartolomeo Zorzi, "Sil monz fondez a maravilha gran", ibid., pp. 260-263 n. 171; Paulet de Marsiglia, "Ab marrimen et ab mala sabensa", ibid., pp. 257-260 n. 170; Folchetto di Lunel, "Al bon rey q'es reys depretzcar", ibid., pp. 277-281 n. 177.

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