GUAZZONE, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 60 (2003)

GUAZZONE (Guazzoni), Enrico

Claudia Campanelli

Nacque a Roma il 18 dic. 1876 da Bartolomeo e da Ginevra Santucci. Diplomatosi in pittura presso l'Istituto di belle arti della capitale, si specializzò in vedute della vecchia Roma, con pergolati, osterie e luce convenzionale, confezionando quadretti per un commerciante di corso Umberto. Nel 1901 l'incontro con il gestore e produttore cinematografico F. Alberini, che gli affidò la decorazione degli interni della sala Moderno, cambiò il corso della sua carriera; quattro anni più tardi, infatti, proprio Alberini lo chiamò a collaborare con la Alberini e Santoni, la prima casa di produzione cinematografica italiana, nucleo originario della Cines. Qui, dopo un lavoro di consulenza per il regista E. Bencivenga nel film in costume Raffaello Sanzio e la Fornarina, il G. (generalmente noto al pubblico come Guazzoni, con una leggera variante del cognome anagrafico) esordì nel 1907, come autore e regista, con la comica Un invito a pranzo, interpretata da André Deed.

L'anno seguente fondò la società cinematografica Cosmos, per la quale diresse un documentario e due film, interpretati da Gianna Terribili-Gonzales, Il romanzo di una ciociara e Fiore selvatico, quest'ultimo girato in esterni a Formello, con la partecipazione di contadini del luogo e con due soli attori professionisti. Nel 1909, dopo il matrimonio con Livia Leonzio e un breve soggiorno a Torino, il G. fu scritturato dalla Cines a Roma.

Nel corso dell'anno realizzò altri due film con la Terribili-Gonzales, Adriana di Berteaux e La nuova mammina, e diresse, insieme con G. Antamoro, un adattamento del Pinocchio di Collodi.

L'anno successivo il G. raggiunse infine il successo, con due produzioni di genere storico ambientate nell'antica Roma, Brutus e Agrippina, dove, per la prima volta, furono impiegate 2000 comparse contro le 30-40 abituali.

Da allora in avanti il G. avrebbe reso la folla protagonista delle sue pellicole, reinventandone l'estetica, facendola cioè muovere non globalmente come massa, secondo un concetto euritmico preordinato, ma in modo che ogni figura avesse una gestualità propria nell'ambito del gioco scenico. Di entrambi i film, inoltre, disegnò le scene e i costumi, mettendo a frutto la sua esperienza come pittore e decoratore e inaugurando una pratica che l'avrebbe accompagnato negli anni a venire.

Sempre nel 1910, proseguendo nel filone del genere storico, il G. diresse Faust, Orsini e Colonna e Andreuccio da Perugia, tutti interpretati da A. Novelli, cui seguirono, nel 1911, il dramma biblico I Maccabei e La Gerusalemme liberata, i quali confermarono la posizione di spicco della Cines tra le case di produzione italiane e la sua specializzazione nel genere storico-monumentale. Il 1911 fu anche l'anno di San Francesco, o il poverello d'Assisi, presentato al Concorso internazionale di cinematografia nell'ambito dell'Esposizione di Torino, dove conquistò il secondo premio per la categoria artistica, trovando poi una distribuzione anche in Germania e in Gran Bretagna. Girato in gran parte in esterni, ad Assisi, il film si avvalse al solito della cultura pittorico-accademica del G., che restituì con cura filologica personaggi, costumi e ambienti.

Il G. faceva precedere la realizzazione dei suoi film da un attento lavoro di preparazione in biblioteche, musei, negozi antiquari, per raccogliere una documentazione storica su usi e costumi dell'epoca da riprodurre, curando quindi personalmente i dettagli di acconciature, abiti, armi, affidati, sotto la sua diretta sorveglianza, alla realizzazione delle varie maestranze: sarti, attrezzisti e carpentieri.

Tuttavia il film "colosso" che impose definitivamente il G., e in generale il cinema italiano, all'attenzione del mondo fu Quo vadis?, del 1913, basato sul romanzo di H. Sienkiewicz.

Si trattava di una pellicola di grande impegno, costata per l'epoca una cifra rilevante (tra le 45.000 e le 60.000 lire), che portava a conclusione un profondo cambiamento nella struttura produttiva. Basata su una conduzione narrativa che alternava abilmente vicende individuali e corali, trasferiva sullo schermo, nella misura compiuta del lungometraggio, la complessa vicenda del romanzo attraverso un linguaggio cinematografico infine maturo. Carattere peculiare del Quo vadis? fu poi l'utilizzazione di imponenti scenografie architettoniche realizzate prevalentemente in esterno, che in maniera esemplare portavano a compimento il percorso di "appropriazione dello spazio" in ambito cinematografico, iniziato dal G. con le prime produzioni storiche. In Quo vadis? egli restituiva l'immagine della Roma pagana affastellando "lo spazio di moli spettacolari e di dettagli corposi" (Paolella, 1949, p. 51), alternando profondità di campo e molteplicità di piani allora inconsuete e scene di massa tumultuose. Secondo il parere concorde della critica, il G. fu in effetti il primo cineasta a porsi il problema della prospettiva, uscendo dagli spazi asfittici dei teatri di posa, e indicando "una via felice per allontanare il dramma cinematografico dalle scene teatrali" (Vincent, p. 128). E ancora: "Nel metter su i suoi grandi film spettacolari […] Guazzoni mostra di conoscere la scienza dei volumi, dei rapporti tra le varie parti dei diversi edifici che entrano nel campo della sua camera, al punto che certe sue inquadrature di portici, di cupole, di palazzi, di ville e fontane, sembrano mantenere intatto il prestigio della grande tradizione pittorica italiana, dove le architetture sono, al tempo stesso, il limite e lo sfondo delle figure umane, e il naturale teatro dei festini e dei trionfi" (Paolella, 1952, p. 6).

La fastosa spettacolarità di Quo vadis? inaugurò e favorì la "produzione di film storici di vasto respiro, magniloquenti e scenograficamente sontuosi" (Rondolino, p. 93). Da allora il cinema muto italiano fu identificato con il cinema in costume, affermandosi, internazionalmente, proprio nel campo delle ricostruzioni storiche e mitologiche, dove tuttavia "i temi della storia patria e dell'antichità romana erano filtrati attraverso la letteratura romanzesca e la cultura scolastica" (ibid., p. 91).

La risonanza di Quo vadis? all'estero fu tale che, nelle grandi capitali in cui fu presentato, il film assunse le proporzioni di un evento mondano.

Per l'occasione, a Londra l'Albert Hall fu trasformata in sala di proiezione, a Berlino la Cines inaugurò una nuova sala di grandi dimensioni, a Parigi J. Nogues compose una partitura originale, e a New York il film fu accolto a Broadway in un grande teatro.

Dopo Quo vadis? il G., al ritmo di tre film l'anno, raccolse nuovi, importanti successi nel genere storico tra i quali Marcantonio e Cleopatra (1913) - un grande affresco di cui resta memorabile "la sfilata dell'esercito romano in Egitto nella controluce del tramonto, scandita dal ritmo del mare" (Paolella, 1952, p. 7) - Caius Julius Caesar (1914) e Fabiola (1917), tutti interpretati da A. Novelli, con scenografie dello stesso Guazzone.

Nel 1918, abbandonata la Palatino - la società collegata alla Cines, per la quale lavorava dal 1911 e di cui era direttore generale -, il G. fondò una propria casa di produzione, la Guazzoni film, con sede sociale e teatro di posa presso villa Massimo a Roma. Quello stesso anno, per la nuova società, produsse e diresse, Pagliaccio, I cancelli della morte, La figlia della jena, Le tre ombre, Arduino d'Ivrea e La Gerusalemme liberata, tutti con la coppia A. Novelli ed Elena Sangro, e, l'anno successivo, il monumentale Clemente VII e il sacco di Roma.

Nel 1919, di fronte alla grave crisi economica che investì l'industria cinematografica italiana, il G. lasciò morire la sua casa di produzione, rifiutando di aderire all'Unione cinematografica italiana (UCI), una sorta di monopolio che chiamava a raccolta tutte le forze del cinema, nel tentativo di rafforzare le iniziative individuali e di arginare la concorrenza proveniente dall'estero.

Solo quattro anni più tardi, nel 1923, e di nuovo per la Cines (consociata all'UCI) il G. tornò a produrre e dirigere un film, Messalina, con Rina De Liguoro.

Nonostante il cinema italiano, condizionato dalla produzione danese e tedesca, si fosse orientato, dopo la guerra, verso i drammi passionali di cui erano protagoniste privilegiate Francesca Bertini e Lyda Borelli, il G., con Messalina, rimase fedele a se stesso e al suo gusto per le grandi ricostruzioni storiche, offrendo al pubblico un affresco di enormi proporzioni, con "cavalcate impetuose, incendi e crolli paurosi, battaglie imperniate su masse gigantesche e mobili, gli amori suggestivi, orientaleggianti e magniloquenti dei principi romani e africani, le sofferenze dei primi cristiani" (Granich) e con la memorabile scena della corsa delle bighe, ripresa due anni più tardi nel Ben Hur di F. Niblo.

Messalina chiuse, comunque, l'esperienza del G. nel genere storico monumentale, denunciandone la stanchezza, evidente nell'applicazione ripetitiva di moduli sempre uguali. Nel 1926, infatti, egli tornava al cinema con Il miracolo della Madonna di Pompei.

Quest'ultimo è un esempio di scuola realistica partenopea "satura di istinti, maledizioni e sortilegi […] in cui traspare il retaggio spirituale della Spagna evocata da artisti quali Velasquez e Goya, soprattutto per l'alterno ritmo orgiastico e religioso" (Paolella, 1949, p. 49).

Nel 1929 diresse ancora due film: Myriam e La sperduta di Allah, una storia fosca di delitti e vendette, "un dramma esotico dell'oriente misterioso a base di nacchere e danze in costume" (cfr. Rivista del cinematografo, dicembre 1929, p. 271). Tornò a lavorare a pieno ritmo con l'avvento del sonoro, attingendo al teatro minore di intrattenimento e alla narrativa; esordì nel 1932 con Il dono del mattino, tratto dall'omonima commedia sentimentale di G. Forzano, sceneggiatore del film. Sempre da una commedia, questa volta di G. Cantini, trasse il successivo, La signora Paradiso (1934), interpretato da M. Benassi. Tuttavia, soltanto con il Re burlone (1935) il G. ritrovò l'antico successo.

La fonte, stavolta, era una pièce teatrale di maggiore spessore, di G. Rovetta, adattata per lo schermo da L. D'Ambra. Ambientata nella Napoli ottocentesca, raccontava la storia di una fanciulla che, scopertasi figlia di un giustiziato politico, si mette alla testa di una cospirazione per rapire Ferdinando II e costringerlo a concedere la costituzione. Sventato il complotto, i giovani sono prima arrestati e poi aiutati a evadere proprio dal bonario monarca. La vicenda - che si avvaleva dell'ottima esecuzione degli attori, con particolare riguardo all'arguta interpretazione di A. Falconi - consentì al G. di mettere a frutto la sua esperienza di realizzatore di grandi apparati storici, incastonando in un'elegante cornice una vicenda sentimentale, divertente e di saldo impianto narrativo, in cui furono innestate trovate comiche originali.

Il G. continuò a raccogliere successi con Re di denari, al solito una commedia sentimentale da un testo teatrale di F. Marchese appartenente al repertorio di A. Musco, interprete principale del film; e con il lagrimoso I due sergenti, racconto a tinte forti, classico melodramma popolare di cui il G. metteva in atto tutte le regole e gli espedienti, narrando, in un'efficace cornice storica di epoca napoleonica, le vicissitudini parigine di due sorelle.

Dopo un'altra commedia con Paola Borboni ed E. Viarisio, Ho perduto mio marito (1937), e Risorgimento (1937) con L. Picasso e U. Ceseri, sempre nel 1937 il G. diresse Il dottor Antonio, tratto dall'omonimo romanzo di G. Ruffini, ambientato durante i moti del 1848, e adattato per lo schermo da G. Gherardi, dove, ancora una volta, diede prova del suo accurato e sicuro mestiere.

"Guazzoni è un orologiaio capace di fabbricare orologi che camminano […] i personaggi sono schematici ma la costruzione narrativa è sapiente, si vuole sapere come va a finire" (Savio, p. 114); inoltre, il G. anche nel sonoro seppe ben utilizzare la grande esperienza nel muovere le masse acquisita ai tempi del muto: "nell'accavallarsi delle figurazioni, egli riesce sempre a distinguere e a precisare le schiere, a specificare i movimenti con la disciplinata chiarezza di un coreografo, a seguire tra il tumulto l'azione individuale" (Cinema, 1937, p. 439).

Seguirono, nel 1939, Il suo destino e Ho visto brillar le stelle, e, nel 1940, il celebrativo Antonio Meucci, dove il G. tornò alla felice collaborazione con L. D'Ambra, in un film "di largo respiro e pieno di episodi umani, che raggiunge momenti di profonda commozione" (Savio, p. 24) pur rimanendo fedele alla verità storica. Dello stesso anno è La figlia del Corsaro Verde, tratto da E. Salgari che, insieme con I pirati della Malesia (1942), interpretato da M. Girotti e Clara Calamai, rappresentava, nonostante la povertà dei mezzi a disposizione, la risposta italiana al genere avventuroso americano "con arrembaggi, cruente battaglie, veleggiare di bastimenti, candidi porti, merlati castelli" (Paolella, 1949, p. 50).

Nel 1944, oramai alla vigilia della stagione neorealista, il G. diresse La Fornarina, primo film italiano uscito a Roma dopo la Liberazione.

Il G. morì a Roma il 23 sett. 1949.

Protagonista, in varie fasi, di una lunga stagione del cinema italiano, il G. considerava il cinema un'arte e si mostrò, da subito, interessato al suo specifico, cioè "a come sfruttare, potenziare le sue peculiarità, a come spezzare le pastoie dell'unità di tempo e di luogo" (Guazzoni, p. 127); e per primo si pose "il problema della prospettiva cinematografica, intesa come dislocamento di uomini e di cose che si presentano alla vista secondo la loro diversa lontananza e posizione" (Paolella, 1949, p. 50). Di fatto il ruolo storico del G. nell'ambito della cinematografia italiana rimase confinato agli anni Dieci del muto, quando Quo vadis? aprì la strada alla produzione monumentale in costume, sia europea sia americana, attraverso l'influenza esercitata su D.W. Griffith; i suoi film - caratterizzati da una spettacolarità e da un fasto senza precedenti, e sostenuti da una tecnica sapiente - ebbero il merito di emancipare il cinema dalla finzione e dalle illusioni teatrali, attraverso l'impianto e la ripresa di strutture in esterno.

Nelle pellicole del secondo periodo, degli anni Trenta e Quaranta, allineate al nuovo corso della produzione tra commedia sentimentale e melodramma popolare, il G., pur esaurita la sua fase più significativa, conservò tuttavia intatto il saldo mestiere di artigiano del cinema, capace di tenere abilmente insieme storie, personaggi e ambienti per l'intrattenimento del pubblico.

Fonti e Bibl.: Recens. a Re burlone, in Cinema illustrazione, 18 dic. 1935, n. 51, p. 11; Puck, Galleria, III, E. Guazzoni, in Cinema, 10 ag. 1936, n. 3, p. 120; recens. a I due sergenti, ibid., 10 nov. 1936, n. 9, p. 362; recens. a Il dottor Antonio, ibid., 25 dic. 1937, n. 36, p. 439; M. Lapierre, Les cent visages du cinéma, Paris 1948, pp. 507-530; T. Granich, Ricordo di Wood e Guazzoni, in Cinema, ottobre 1949, n. 24, p. 182; R. Paolella, I valori dell'opera di E. Guazzoni nella storia del cinema, in Bianco e nero, novembre 1949, pp. 46-52; Id., Regia e registi italiani nel decennio 1915-1925, ibid., luglio-agosto 1952, pp. 3-30; E. Guazzoni, Mi confesserò, ibid., pp. 126-129; C. Lizzani, Storia del cinema italiano, Firenze 1961, pp. 579-583; J. Mitry, Filmographie universelle, V, Paris 1965, pp. 6-15; F. Savio, Ma l'amore no. Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943), Milano 1975, pp. 24, 111, 114, 120, 145, 290 s., 325; S. Francesco d'Assisi nel cinema. Dal muto al sonoro, a cura di D. Meccoli, Roma 1982, pp. 37 s.; V. Attolini, Dal romanzo al set, Bari 1988, pp. 31-35; C. Vincent, Storia del cinema, Milano 1988, pp. 128 s.; G. Rondolino, Storia del cinema, Torino 1988, pp. 91-93, 99 s.; Enc. dello spettacolo, VI, coll. 14 s.; Filmlexicon degli autori e delle opere, II, coll. 1230-1232.

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