REYCEND, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016)

REYCEND, Enrico

Piergiorgio Dragone

REYCEND, Enrico. – Primogenito di Luigi, libraio, e di Marianna Savj, nacque a Torino il 3 novembre 1855; ebbe due fratelli, Ernesto e Giovanni, gemelli, nati a Torino il 23 marzo 1859.

Discendeva da librai e mercanti d’arte di Monestier de Briançon, nel Delfinato, trasferitisi nel 1675 a Torino. L’impresa familiare aprì botteghe a Milano, Lisbona e Parigi; dal 1767 si chiamò Fratelli Reycend, «Librai di Sua Maestà» dal 1816 ed editori di guide di Torino (M. Paroletti, Turin et ses curiosités, Turin 1819; Id., Turin à la portée de l’étranges, Turin 1826). Il nonno Giovanni morì nel 1851; due figli, Giacomo e Luigi, rifondarono la società; un altro, Ferdinando, divenne architetto. Sciolta nel 1863 la Fratelli Reycend, a Luigi (morto nel 1876) restò il negozio in piazza Castello.

Si legge sempre (da Stella, 1893, in poi) che Reycend studiò all’Accademia Albertina, lasciandola nel 1872 senza diplomarsi. Il suo nome non risulta però nei documenti dell’archivio dell’istituzione (molti furono perduti per un bombardamento).

Carattere solitario, Reycend non tenne rapporti con i cugini figli di Ferdinando: né con Valentino (1848-1914), diplomato all’Albertina, disegnatore e litografo; né con Giovanni Angelo (1843-1925), ingegnere e architetto, docente universitario e consigliere comunale, personalità di spicco del tempo, che fu presidente della sezione di architettura del Circolo degli artisti, nelle cui sale Enrico espose dal 1874 al 1920 (mancò soltanto la mostra del 1884). I due cugini non si incontravano, lasciando entrambi intendere di non essere nemmeno parenti.

Di recente la diffusa opinione che non lo fossero è stata però sfatata (cfr. E. Gianasso, Per una biografia di Giovanni Angelo Reycend, in Studi piemontesi, 2000, vol. 29, n. 2, pp. 583-595; Dragone, 2003, p. 190).

Enrico esordì alla Promotrice nel 1873 (vi avrebbe esposto ogni anno sino al 1927) con Un acquedotto sulla Dora e La cinta di Vanchiglia, paesaggi della periferia urbana dove Antonio Fontanesi (dal 1869 professore di paesaggio all’Albertina) conduceva gli allievi a lavorare en plein air. Reycend ne parlò come di un maestro «venerato» (Biancale, 1955, p. 34).

Da artista solitario e schivo, ma dotato di marcata individualità, Reycend in pochi anni raggiunse un proprio linguaggio pittorico. In letteratura lo si disse allievo privato di Enrico Ghisolfi e frequentatore degli studi di Fontanesi e poi di Lorenzo Delleani; Reycend stesso dichiarò più volte un debito verso il milanese Filippo Carcano (confutato da Mallé, 1976, p. 141). Alla fine del decennio, la sua pittura era distante tanto da Fontanesi quanto dal suo allievo Marco Calderini, il quale stava approdando a una maniera di elegante sentimentalismo priva, tuttavia, di interessanti evoluzioni pittoriche.

Reycend espose a Firenze dal 1874-75 (In autunno e Nei dintorni di Rivoli) al 1889; nel 1875 fu a Milano, a Brera, con Mattino d’agosto, e a Genova, con L’inverno e In autunno. A Parigi per l’Esposizione universale del 1878, vide direttamente la pittura di Jean-Baptiste Camille Corot, che egli considerava (come già Fontanesi e i paesisti di Rivara) il maggior innovatore della pittura.

Sin dalla fine degli anni Settanta Reycend ebbe un’intensa e felice produzione: osservando con attenzione l’ambiente circostante, sperimentò stesure di pennellate nervose, con vivacità di tocco, e creò uno spezzettarsi della luce sulla superficie di impasti di colore di grande sensibilità timbrica. Si aggiornò con ciò che vedeva alle esposizioni (sino a cogliere più avanti, a suo modo, la lezione del divisionismo), cui partecipò con sistematica costanza, ricevendo apprezzamenti da parte della critica più avvertita, se non dalla gran massa del pubblico.

Dal 1881 espose a Milano; nel 1883 (quando aprì uno studio in via Bonafous 6, a Torino), partecipò all’Esposizione artistica nazionale di Roma (città dove fu poi presente una ventina di volte); e nel 1887 alla Nazionale di Venezia e alla Donatelliana di Napoli, vincendovi la medaglia d’oro per In Piemonte; fu alla Nazionale di Bologna del 1888 con cinque opere (Mattino fra i monti, Pioggia nel porto di Genova, Scalo di ferrovia a Torino, Settembre in montagna e Sole velato); suoi dipinti continuarono a essere esposti a Verona, Biella, Vercelli, Novara, Ferrara e Genova. A fine decennio fu descritto (De Gubernatis, 1889) come «uno dei più geniali pittori […] espertissimo artista».

Nel 1952 Roberto Longhi lo avrebbe definito uno dei più originali artisti dell’ultimo quarto dell’Ottocento, un «impressionista» sui generis: Reycend approfittò di un lungo soggiorno genovese, a metà degli anni Ottanta, per maturare una particolare sensibilità per l’atmosfera dei cieli in paesaggi della riviera (Porto di Genova, 1885 circa, che a Longhi ricordava Porto di Trouville, 1884, di Eugène Boudin).

Reycend fu un’alternativa al verismo, rapido e rapace, di Delleani: più intimista, più sottilmente e dolcemente poetico. Si raffrontino le vedute del Foro romano, o altri soggetti comuni: i paesaggi, il treno, le figure nella campagna, che Delleani ritrae con efficaci pennellate essenziali, in Reycend risultano come umanizzati e colti alla luce di un sentimento della natura legato alla sua particolare sensibilità. Longhi (1952a, p. 45) testimonia che l’artista gli disse: «Ma vede, per me la natura è sempre delicata». La sua è una partecipazione mite, ma non meno autentica, alla quotidiana poesia della vita contemporanea. Alla puntuale notazione di stagione e clima – la nevicata, in un’atmosfera ora secca e fredda, ora umida e nebbiosa; il risveglio primaverile dei colori delle piante in un terso giorno di vento; la luce affocata della torrida estate; il tepore di una solare giornata in pieno autunno – paiono corrispondere l’incedere, l’atteggiamento e lo stato d’animo delle figure ritratte. Persone e animali: figurette che, in precedenza, erano solitarie e isolate in vasti panorami, mentre dagli anni Novanta ebbero nei suoi dipinti dimensioni da protagonisti, in marine e paesaggi agresti, cui poi si aggiunsero i più rari interni domestici, intimi e raccolti.

Nell’ultimo decennio del secolo Reycend divenne socio onorario di Brera (1894) e partecipò alle prime tre Biennali di Venezia, aumentando le sue presenze in Italia (nel 1892 a Palermo). Espose a Parigi nel 1890 e nel 1900 (premio con menzione onorevole), e dal primo decennio del Novecento (periodo in cui iniziò a esporre sistematicamente all’estero) anche a Monaco di Baviera (1901 e 1909), Barcellona (1911), Londra, Vienna, Dresda, Karlsruhe, Berlino, Zurigo; ma pure a San Francisco e Saint Louis, Santiago del Cile e Buenos Aires.

Ebbe anche acquirenti prestigiosi: sovrani e membri della famiglia reale; i musei di Verona (Galleria d’arte moderna Achille Forti, Lungo il Po a Torino, acquistato a Brera nel 1883), di Torino (GAM - Galleria civica d’Arte Moderna, Campagna canavese e Calma vespertina, acquistati alle Promotrici del 1892 e del 1908), di Novara (Galleria d’arte moderna Paolo e Adele Giannoni), Roma (Galleria d’arte moderna di Roma Capitale) e Bologna (Galleria comunale d’arte moderna).

Vinse medaglie d’argento alle esposizioni di Genova (1884), Ferrara, Livorno, Dresda (1897), Cuneo (1905).

Sin dagli anni del successo la sua vita venne funestata dalla perdita di numerosi figli, ben otto su nove secondo le biografie. Condivise dunque con la moglie, Rosa Bertola (Saluzzo, 26 gennaio 1856 - Torino, 25 giugno 1939), esperienze tragiche: persero la primogenita Luigia (1878-1884) all’età di sei anni, Luigi (Torino, 1890 - Salassa, Torino, 1891) a uno, Giovanni (nato nel 1880) e Maria (nata nel 1886) prima che compissero l’anno di vita, e altri ancora in tenera età: Enrichetta (1883-?) ed Enrico (1895-?). Nel nuovo secolo erano vivi Marianna (1887-1943) e Mario (1896-1927); ma anche quest’ultimo sarebbe morto prima del padre.

Marianna avrebbe avuto un peso rilevante nella vita di Reycend: nel 1905 sposò Carlo Accossato, un farmacista che emigrò in Argentina; ebbero due figli, Vittoria (1907) ed Enrico (1909); nel gennaio del 1912 Marianna raggiunse con loro il marito a Cordoba. Già nel 1913 fu però di ritorno a Torino con il terzo figlio, Mariano, nato in quell’anno. Fallito il matrimonio, visse con i tre figli nella casa di via Villa della Regina 30, che i suoi genitori avevano acquistato a fine Ottocento.

Benché esponesse ancora, e anche all’estero, gli inizi del nuovo secolo sino al conflitto mondiale portarono a Reycend i primi rifiuti da parte di varie giurie d’accettazione: i suoi dipinti, dalla materia sempre più densa, quasi una glassa, parvero superati, sia rispetto alla più ‘facile’ pittura alla moda, sia a confronto con le esperienze d’avanguardia del primo Novecento. Più avanti, replicando i medesimi soggetti e oppresso dalle difficoltà economiche, si ridusse a essere un pittore locale di scarso respiro, nella triste condizione di isolamento in cui Longhi lo conobbe attorno al 1917.

A metà degli anni Venti, il tracollo economico: casa Reycend fu venduta e l’artista andò in affitto in poche stanze in via Lagrange 29, dove morì il 21 febbraio 1928; la moglie Rosa scomparve nel 1939, all’ospizio di Carità. Marianna morì nel 1943 a Strambino, nel Torinese; suo figlio Enrico era in Argentina con il padre, Mariano era morto nel 1937, Vittoria emigrò nel 1949 – con le opere del nonno rimaste dopo le svendite dei decenni di povertà – a Las Varillas (Cordoba), dove visse e lavorò con il padre.

Quando Reycend esordì, a tre quarti dell’Ottocento, per l’arte iniziò un’impressionante accelerazione progressiva: anno dopo anno, nuovi artisti d’avanguardia trasformarono i linguaggi, rivoluzionando le idee su ciò che l’arte dovesse essere. Critici, storici e i più raffinati intenditori impiegarono decenni per comprendere quanto era accaduto; il pubblico e la maggior parte dei collezionisti e dei mercanti rimasero indietro di almeno cinquant’anni, se non di oltre un secolo.

Alla sua morte, nel 1928, era trascorso mezzo secolo; e nulla era più come prima. Reycend ebbe subito tre retrospettive, in ognuna delle quali era visto in un’ottica critica ben diversa: due a Torino (alla Promotrice, con cinquantuno opere, si rese omaggio a uno dei tanti pittori piemontesi della seconda metà dell’Ottocento; alla Società amici dell’arte, con diciannove dipinti e due pastelli, si celebrò l’artista protagonista del passaggio tra i due secoli); e una terza a Roma, alla Società amatori e cultori (storica ‘promotrice’ romana, nata nel 1830), in cui il curatore, Michele Biancale, giornalista e storico dell’arte romano, riassunse in venticinque opere la vicenda di un pittore che aveva proseguito nel Novecento una sua originale ricerca con radici nella tradizione del secolo precedente.

Ciò accadeva per due diverse e concomitanti ragioni: da un lato l’arte italiana dell’Ottocento era considerata un fenomeno dai rigidi confini regionali (anche se tutti gli artisti di maggiore qualità, già ben prima dell’Unità, agivano e pensavano in ambiti nazionali e internazionali); dall’altro, per quasi tutto il Novecento, storici e critici furono convinti che l’esperienza francese fosse l’unica ‘moderna’. Di qui la condanna sommaria dell’Ottocento italiano, espressione di una cultura attardata, sostanzialmente ‘provinciale’.

Sino al secondo dopoguerra, però, i testi sull’Ottocento citarono Reycend con scarso rilievo, in una dimensione regionale e non di primo piano; nel dopoguerra ripresero gli studi sulla pittura di paesaggio, e anch’egli ebbe più spazio e l’attenzione di una nuova generazione di studiosi.

Nel 1952, la svolta radicale. Roberto Longhi scrisse su Paragone un Ricordo di Enrico Reycend, riferendo la sua ‘scoperta’ dell’artista: «Il recupero critico cominciò per me subito dopo, verso il 1915 […] tra una licenza e l’altra della prima guerra, da certi quadretti che m’intrigavano e mi sorprendevano negli sporti dei ‘mercantini’ milanesi presso la loggia degli Osii; […] volli anche regalarmene qualche esemplare, dato che mi costava poco più delle sigarette e meno dei libri di Meier-Graefe. E me ne venne in breve la raccoltina di Reycend che, dopo trentasette anni di gelosa custodia, ho voluto trasmettere in dono al Museo Civico di Torino […]. Seppi anche, al momento della ‘scoperta’, che il Reycend era ancora vivo; e, forse per controllare il significato della mia associazione mentale con gli ‘impressionisti’, volli visitarlo a Torino; e fu, mi pare, nel 1917». Longhi tracciò una magistrale sintesi della cultura artistica piemontese nell’Ottocento: ne mostrò sia i pregi, per il respiro internazionale di alcuni suoi protagonisti, sia i limiti, per le chiusure provinciali che fecero «abbassare il gusto della borghesia piemontese proprio nel miglior ventennio di Reycend – 1880-1900». Descrisse la sua stesura: «la forma definitiva del suo tócco, a scandella, che non abbandonerà più: una specie di ‘trapunto’, di ‘impuntito’ tanto suo proprio come lo sono, caso per caso, le diversificazioni del tócco in Monet, in Pissarro, in Sisley. […] la forma, credo, più viva e delicata che un italiano sapesse esprimere, ‘de son cru’, nell’ambito della civiltà impressionistica». Preannunciò la mostra sui «Paesisti piemontesi dell’Ottocento» alla Biennale di Venezia, anticipandone il giudizio: «la cultura paesistica piemontese è cosa ben più seria e connessa di quanto comunemente si dice; a mio parere, anzi, in tutto il nostro Ottocento, la più costantemente elevata».

Alla Biennale, la presentazione longhiana alla mostra avvertiva che essa «non intende offrire più che un avvio al migliore apprezzamento, in sede internazionale, d’uno degli impegni artistici più nobilmente sostenuti e meglio connessi all’Ottocento italiano». Ne derivò il volersi limitare «ai quattro nomi di Antonio Fontanesi (1818-1882), di Vittorio Avondo (1836-1910), di Lorenzo Delleani (1840-1908) e del quasi ignoto, fino ad oggi, Enrico Reycend (1883-1928)». Non una semplice rivalutazione, dunque, ma una totale revisione e reinterpretazione di Reycend, posto tra i migliori dei piemontesi, a chiudere il secolo con una ‘patente’ da impressionista italiano.

Nel 1955, centenario della nascita, la torinese galleria Fogliato organizzò, con centodieci opere, la più ampia mostra mai dedicata a Reycend, presentata da Biancale, con introduzione di Marziano Bernardi.

Biancale scrisse: «Ero a Torino per non ricordo più quale Promotrice d’Arte del primo dopo guerra […]; e incontratomi con Roberto Longhi decidemmo di andarlo a visitare». Bernardi e Biancale ribadirono le proprie interpretazioni su Reycend, e ciascuno rivendicò quanto fatto per renderlo noto e apprezzato; lieti dell’attenzione nuova sull’artista, ma preoccupati di rintuzzare le affermazioni di Longhi. Questi scrisse, il 29 marzo 1956, una lettera ad Angelo Dragone, in cui precisò: «mai io andai dal Reycend col Biancale; il quale vi sarà andato forse da solo (non m’interessa quando) e certamente dopo aver imparato a conoscere il Reycend dalla mia raccolta già tutta fatta nel 1916 e che fu l’origine di tutti i movimenti più o meno commercialistici del Biancale e della citazione del Cecchi nella sua “Pittura dell’800”. Et voilà comme on fait l’histoire» (Archivio di Stato di Torino, Sezioni riunite, Fondo Jolanda e Angelo Dragone, mazzo A184, f. 8).

Il dono Longhi di diciannove dipinti e il nuovo rilievo di Reycend spinsero il Museo civico di Torino ad acquistarne due opere significative: nel 1959 Lungo il Po, presso la Gran Madre di Dio di Torino, 1884 circa; e nel 1962 Dalle alture torinesi, del 1906, una veduta della città dall’abitazione dell’artista.

Fonti e Bibl.: A. De Gubernatis, Dizionario degli artisti italiani viventi. Pittori, scultori e architetti, Firenze 1889, p. 411; A. Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891, Torino 1893, pp. 504 s.; E. Cecchi, Pittura italiana dell’Ottocento, Roma-Milano 1926, p. 22; A.M. Comanducci, R. E., in Id., I pittori italiani dell’Ottocento, Milano 1934, p. 589; R., E., in U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXVIII, Leipzig 1934, p. 211; M. Bernardi, Ottocento piemontese, Torino 1946, p. 109; A. Dragone - J. Dragone Conti, I paesisti piemontesi dell’Ottocento, Milano 1947, pp. 112, 274 s.; R. Longhi, Ricordo di E. R., in Paragone, III (1952a), 27, pp. 43-55; Id., Paesisti piemontesi dell’Ottocento, in XXVI Biennale internazionale d’arte di Venezia (catal.), Venezia 1952b, pp. 35-44; M. Bernardi, Fortuna di R., in Il pittore E. R. (1855-1928) (catal., galleria d’arte Fogliato), Torino 1955, pp. 11-25; M. Biancale, Il pittore E. R., ibid., pp. 27-53; A. Griseri, II paesaggio nella pittura piemontese dell’Ottocento, Milano 1967, pp. 18-20; L. Mallé, E. R., in Id., La pittura dell’Ottocento piemontese, Torino 1976, pp. 138-143, ill. nn. 620-651; A. Dragone, Ottocento piemontese, anzi europeo, in Da Bagetti a Reycend... (catal.), a cura di A. Dragone, Torino 1986, pp. 11, 21; P. Dragone, E. R., ibid., pp. 256-267; A. Dragone, E. R. e l’Impressionismo, in E. R. (catal., Acqui Terme), a cura di A. Dragone, Acqui Terme-Torino 1989, pp. 7-17; P. Dragone, E. R., ibid., pp. 109 s.; M. Perosino, E. R., in La pittura in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, II, Milano 1990, p. 796; E. Canestrini, E. R., in Antonio Fontanesi e la pittura di paesaggio in Italia 1861-1880 (catal., Reggio Emilia), a cura di E. Farioli - C. Poppi, Milano 1999, pp. 223 s.; P. Dragone, E. R., in Id., Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895, Torino 2000, pp. 254-261; E. Canestrini, E. R., in P. Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920, Torino 2003, pp. 190, 357 s.; I. Ciseri, E. R., in La pittura di paesaggio in Italia. L’Ottocento, a cura di C. Sisi, Milano 2003, pp. 332 s.; P. Dragone, I taccuini di R., in Id., Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920, Torino 2003, pp. 189-192; G.L. Marini, E. R., in Dizionario dei pittori piemontesi dell’Ottocento, a cura di G.L. Marini, Torino 2013, pp. 552-554.

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