GALBIATI, Enzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 51 (1998)

GALBIATI, Enzo (Emilio)

Giuseppe Sircana

Nacque a Monza il 23 maggio 1897 da Giovanni e da Luigia Rolla. Diplomato in ragioneria, dal luglio 1917 prese parte alla prima guerra mondiale come caporale degli arditi del 153° fanteria, rimanendo ferito nel corso di un'azione bellica al dosso Faiti. Il 29 ag. 1918 ottenne la promozione a sottotenente presso il 151° fanteria (brigata "Sassari").

Legionario fiumano, s'iscrisse ai Fasci di combattimento il 4 nov. 1919 e fu tra gli organizzatori delle squadre d'azione in Brianza, subendo diversi arresti e processi anche in relazione a fatti di violenza per fini privati. Nei giorni della marcia su Roma il G. fu a capo degli squadristi monzesi che a Milano presidiarono la sede de Il Popolo d'Italia.

Console della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN) fin dalla sua costituzione nel gennaio 1923, dal marzo di quell'anno al luglio 1925 comandò la 25ª legione "Ferrea" di Monza, segnalandosi tra gli esponenti più radicali del fascismo di provincia. Durante la crisi Matteotti il G. sostenne la linea dell'intransigenza e il 31 dic. 1924 guidò, insieme con Aldo Tarabella, una delegazione di consoli della Milizia che s'incontrò con B. Mussolini per indurlo, in termini alquanto perentori, ad abbandonare quella che appariva loro una politica incerta e possibilista nei confronti dell'opposizione antifascista.

Mussolini, che con il discorso del 3 genn. 1925 riuscì a far rientrare il dissenso dell'ala estremista, incaricò il nuovo segretario del partito, Roberto Farinacci, di richiamare all'ordine la cosiddetta "pentarchia" della Milizia, costituita dal G., dal Tarabella, da Tullio Tamburini, Temistocle Testa e Mario Candelori. Per reazione si ebbe una recrudescenza dell'illegalismo da parte dell'ala dura dello squadrismo, mentre il G. e il Tarabella scatenarono una violenta campagna contro presunte infiltrazioni massoniche nell'apparato del Partito nazionale fascista (PNF).

Nel maggio 1925 i due consoli costituirono l'Ordine dei soldati della buona guerra con lo scopo precipuo di combattere la massoneria e accusarono Farinacci di essere stato iniziato alla massoneria di piazza del Gesù, di essere stato un imboscato e di partecipare agli intrighi massonici. Il clamore suscitato da tali accuse determinò la diffida ai fascisti dall'aderire all'Ordine e drastici provvedimenti a carico del G. e del Tarabella, che il 20 luglio vennero radiati dalla MVSN e il 10 agosto espulsi dal PNF.

Riammesso nel partito il 14 luglio 1926, il G. fu destinato al comando della 116ª legione della Milizia di Rieti (aprile-maggio 1927) e quindi della 104ª di Perugia (giugno 1927 - maggio 1928), dell'8ª di Varese (luglio 1928 - marzo 1931) e della 1ª legione "Sabauda" di Torino (aprile 1931 - giugno 1933). Promosso console generale, dal luglio 1933 al settembre 1935 il G. comandò il 21° gruppo della legione di Roma e prese quindi parte alla guerra d'Etiopia, dove perse un braccio in battaglia, meritando due medaglie d'argento al valor militare.

Nominato ispettore generale dei reparti universitari della Milizia (maggio 1937 - maggio 1941) e promosso, il 23 dic. 1939, luogotenente generale, il G. partecipò, alla testa di un raggruppamento di tre battaglioni di camicie nere alle operazioni militari sul fronte greco-albanese. Per il suo comportamento sul campo di battaglia di Marirai nel febbraio-marzo 1941 fu insignito di un'altra medaglia d'argento e premiato con la nomina, il 25 maggio, a capo di stato maggiore della Milizia.

Tale incarico, che comportava l'ingresso nel Direttorio nazionale del PNF e nel Gran Consiglio del fascismo, proiettava il G. ai vertici del regime in una fase di grande difficoltà. Da qualche mese era esploso "un vivace contrasto tra la Milizia e l'Esercito che si trascinò per tutto il corso della guerra e che neppure il personale intervento di Mussolini, verso la metà del 1942, riuscì a comporre" (De Felice, Mussolini l'alleato, I, p. 32). Tale contrasto riguardava il reclutamento di giovani volontari nelle file della Milizia, considerato dall'Esercito "pregiudizievole alla propria efficienza quantitativa e qualitativa" e da qualcuno ai suoi vertici come una manovra in vista del "domani" (ibid.). La diffidenza e il sospetto tra Esercito e Milizia aumentarono, allorché, nell'inverno del 1942, prese consistenza l'ipotesi di un crollo del regime.

Il G. si mostrò preoccupato per le febbrili consultazioni tra i vertici del ministero della Guerra e del ministero dell'Interno, ufficialmente motivate dalla necessità di predisporre un piano di difesa dell'ordine pubblico. Richiesto di mettere a disposizione alcuni battaglioni della Milizia, il G. rifiutò affermando che, all'occorrenza, la Milizia si sarebbe allertata per proprio conto. In realtà egli sospettava che lo scopo del piano fosse principalmente quello di neutralizzare la Milizia, individuata come la sola forza armata che avrebbe potuto agire in difesa del regime. Di fronte a segnali inequivocabili in tal senso il G. reagì convocando i comandanti della Milizia alla presenza del ministro dell'Interno G. Buffarini Guidi e del segretario del PNF A. Vidussoni.

Secondo quanto ebbe a riferire il sottosegretario alla Guerra A. Scuero all'aiutante di campo del re, generale P. Puntoni, il G. avrebbe costituito nuclei speciali di squadristi e avrebbe tentato di far affidare alla Milizia il controllo delle stazioni radiotelegrafiche. Ma sull'effettiva capacità della Milizia di ergersi a estremo baluardo del regime era dubbioso lo stesso Mussolini, che interpellò in proposito il capo delle SS tedesche H. Himmler. Questi riteneva che il G. non fosse all'altezza del suo compito (aveva detto di lui: "un buon fascista, ma nelle mie Waffen SS tutt'al più un graduato" [Dolmann, p. 162]) e propose a Mussolini di formare unità speciali con compiti di sicurezza sul modello delle SS, offrendo istruttori e l'equipaggiamento necessari a organizzare una divisione al completo.

Venne così costituita la divisione corazzata "M", dotata di carri armati, artiglieria e armi automatiche fornite dai Tedeschi e ciò non fece che acuire i contrasti tra la Milizia e l'Esercito. Il 10 luglio 1943, mentre le truppe alleate sbarcavano in Sicilia, questa divisione era dislocata nei pressi del lago di Bracciano.

Il capo di stato maggiore, generale V. Ambrosio, chiese pertanto che la divisione "M" fosse trasferita a Messina, ma il G. si oppose riuscendo a convincere Mussolini dell'impossibilità tecnica di spostarla prima del 21 luglio. Vanificato il tentativo di allontanare da Roma i "reparti politici", Ambrosio riuscì tuttavia a ottenere che da quella data la divisione passasse sotto il diretto comando dell'Esercito.

Nella riunione del Gran Consiglio del 25 luglio il G., schierato decisamente contro l'ordine del giorno Grandi, tenne a far sapere che gli uomini della Milizia erano a disposizione di Mussolini per ogni evenienza. Dopo aver sostenuto che le responsabilità per l'impreparazione militare non potevano essere addossate al duce, in quanto nessuno poteva prevedere gli sviluppi insostenibili per l'Italia che il conflitto aveva assunto, rivolto agli oppositori di Mussolini affermò: "Avete parlato di frattura tra partito e paese, tra fascismo e nazione. Non è vero, non esiste nessuna frattura. Può darsi, invece, che esista frattura tra voi e il paese, tra fascisti e molti iscritti al partito" (Galbiati, p. 227). Il tono e il senso del discorso del G. offrirono a Mussolini l'occasione per un attacco ai gerarchi che con il loro troppo elevato livello di vita avevano messo in crisi il rapporto tra il fascismo e il popolo italiano. Al termine della seduta il G. si recò con altri membri del Gran Consiglio nello studio di Mussolini per studiare le mosse da intraprendere, ma alla fine non venne assunta alcuna decisione. Il giorno dopo il G. si fece ricevere dal duce per sottoporgli un promemoria con le possibili iniziative da adottare: convocare il direttorio del partito oppure le più alte personalità del regime, o inviare lui in Germania per prendere contatti con Himmler. Data l'irreperibilità di D. Grandi, il G. suggerì che fosse spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti e di quanti lo avevano sostenuto. Mussolini respinse tutte le proposte del G. dichiarando di confidare negli esiti del colloquio che, di lì a poco, avrebbe avuto con il re. Il G. sconsigliò questo incontro e accompagnò quindi il duce nella visita ai quartieri di Roma colpiti dai bombardamenti.

Nel congedarlo - secondo la ricostruzione dello stesso G. - Mussolini gli avrebbe di nuovo raccomandato di non intraprendere alcuna iniziativa contro gli oppositori e di predisporre invece nei dettagli un'azione militare clandestina.

In attesa di ricevere ulteriori disposizioni il G. si recò presso il comando della Milizia, dove fu raggiunto dalla notizia delle dimissioni di Mussolini accompagnata dalla segnalazione di attacchi contro sedi e uomini della Milizia. Il G. impartì l'ordine di evitare provocazioni, ma di difendersi comunque dagli assalti e tentò quindi di mettersi in contatto con la divisione "M" e con le federazioni fasciste di Milano e di Bologna. Constatò allora che tutte le linee telefoniche erano state interrotte per disposizione del ministero dell'Interno e che, mentre il piano predisposto dall'Esercito veniva attuato, egli non era in grado invece di attuare alcuna contromossa efficace.

La divisione "M", che oltretutto dipendeva ormai dall'Esercito, era dislocata a nord del lago di Bracciano per alcune manovre e a Roma non c'erano battaglioni della Milizia sul piede di guerra. Davanti all'edificio in cui si trovava il G. erano stati schierati carri armati allo scopo di dissuadere qualsiasi risposta da parte della Milizia.

A quel punto il G. ritenne opportuno fare atto di sottomissione informando P. Badoglio che "la Milizia resta[va] fedele ai suoi principî e cioè: servire la Patria nel binomio Re e Duce" (Galbiati, p. 250). A mezzanotte del 26 luglio il G. ricevette da Badoglio l'invito a passare le consegne al generale Q. Armellini e circa un mese dopo, il 23 agosto, venne arrestato e rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea. Liberato dai Tedeschi il 12 settembre, il G. inviò diversi memoriali a Mussolini per giustificare il comportamento tenuto all'indomani del 25 luglio. I suoi argomenti non dovettero essere del tutto convincenti giacché, se da una parte evitò di finire sotto processo a Verona (dove comparve come semplice testimone), dall'altra non gli vennero affidati incarichi di responsabilità nella Repubblica sociale italiana.

Dopo la Liberazione il G. veniva segnalato, insieme con altri ex appartenenti alla disciolta Milizia, tra gli animatori del Movimento Tricolore, ma fu presto emarginato dagli ambienti del neofascismo, dove molti lo ritenevano responsabile di non aver fatto nulla per difendere Mussolini e il fascismo. Alle accuse di opportunismo e di viltà il G. intese replicare con il volume Il 25 luglio e la MVSN (Milano 1950) nel quale sosteneva di aver voluto evitare, date le circostanze, un inutile spargimento di sangue. In vista delle elezioni politiche del 7 giugno 1953 il G. avrebbe dovuto presiedere un'assemblea di ex appartenenti alla Milizia a sostegno della politica di "pacificazione" portata avanti dalla Democrazia cristiana (Galli, p. 147). Nel 1956 il G. intentò causa per diffamazione contro un nipote di Mussolini, il conte Vanni Teodorani, che aveva rilanciato le accuse relative al suo comportamento dopo il 25 luglio 1943.

Il G. morì a Solbiate, presso Como, il 23 maggio 1982.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria partic. del duce, Carteggio riserv. (1922-1943), f. 186/R: "Consoli G. e Tarabella"; Ibid., Ministero della Difesa, Direz. gen. ufficiali,X divisione, Stato di servizio "G. E."; E. Savino, La nazione operante, Novara 1937, p. 509; A. d'Alba, Milizia eroica, Roma 1941, p. 15; P. Monelli, Roma 1943, Roma 1945, ad ind.; C. Rossi, Mussolini com'era, Roma 1947, ad ind.; E. Dolmann, Roma nazista, Milano 1949, pp. 162, 166 s., 179-181, 185-187; L. Salvatorelli - G. Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino 1956, ad ind.; P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Milano 1958, pp. 107, 109; F.W. Deakin, Storia della Repubbl. di Salò, Torino 1963, ad ind.; R. De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere (1921-1925), Torino 1966, ad ind.; II, L'organizzazione dello Stato fascista (1925-1929), ibid. 1968, ad ind.; Id., Mussolini l'alleato, I, L'Italia in guerra (1940-1943), ibid. 1990, ad ind.; E. Santarelli, Storia del movim. e del regime fascista, Roma 1967, ad ind.; S. Zavoli, Nascita di una dittatura, Torino 1973, ad ind.; Il regime fascista, a cura di A. Aquarone - M. Vernassa, Bologna 1974, pp. 108, 110 s.; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari 1974, ad ind.; E. Lucas - G. De Vecchi, Storia delle unità combattenti della MVSN (1923-1943), Roma 1976, ad ind.; G. Galli, Storia della Democrazia cristiana, Roma-Bari 1978, ad ind.; G. Ciano, Diario 1937-1943, a cura di R. De Felice, Milano 1980, ad ind.; G. Vannoni, Massoneria, fascismo e Chiesa cattolica, Bari 1980, ad ind.; G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Milano 1982, ad ind.; P. Radius, G.: per 40 anni si è chiesto se poteva salvare il regime fascista, in Il Giornale, 27 maggio 1982; D. Grandi, 25 luglio. Quarant'anni dopo, a cura di R. De Felice, Bologna 1983, ad ind.; M. Missori, Gerarchie e statuti del PNF, Roma 1986, ad ind.; Lessico univ. ital., VIII, p. 454.

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