ERCOLE III d'Este, duca di Modena e Reggio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 43 (1993)

ERCOLE III d'Este, duca di Modena e Reggio

Marina Romanello

Ercole Rinaldo nacque a Modena il 22 nov. 1727 da Francesco III, duca di Modena, e da Carlotta Aglae d'Orléans, figlia di Filippo, reggente di Francia fino alla sua morte nel 1723.

Il matrimonio dei genitori - contratto nel 1719 - era stato voluto fortissimamente dal nonno, Rinaldo I d'Este, nello spasmodico desiderio di trovare nella Francia un sostegno politico valido da contrapporre ai disegni che, con ben altre capacità, la farnesiana regina di Spagna, Elisabetta, aveva concepito per i Ducati di Parma e Piacenza, destinati al proprio figlio primogenito, don Carlos. L'unione si era rivelata pessimamente assortita: lei, quarta figlia del reggente, nota in tutta Europa per esuberanza di carattere e spregiudicatezza dei modi tali da scandalizzare persino la non certo bacchettona corte francese, non si era mai assuefatta all'ambiente italiano a cui il matrimonio l'aveva destinata, ristretto, provinciale, regolato in base alle vedute bigotte dell'allora regnante duca. Un tale personaggio non aveva - ovviamente - neppure facilitato o migliorato le premesse per un appianamento dei rapporti tra il marito Francesco e il di lui padre Rinaldo, già tesi per assodata incompatibilità di carattere. L'irrequietezza e le frequenti assenze di lei contrappuntate, peraltro, dalla condotta libertina del marito, esacerbato e introverso, non si erano mitigate neppure con la nascita e la morte prematura di molti dei loro figli.

Di essi, dal 1751, E. era rimasto l'unico maschio vivente e, per ciò stesso, erede del Ducato. Il quale, giuridicamente configurandosi come feudo imperiale, aveva da sempre collocato i duchi via via succedutisi a Modena in un'area politica ben determinata. Ciò era stato evidentissimo con Rinaldo I, mentre divenne sempre più sfumato con i successori. Sia Francesco III sia il figlio E. cercarono di abbandonare la politica di neutralità passiva seguita dal loro diretto predecessore per tentare - sull'esempio ispirato dai Savoia - di destreggiarsi tra gli opposti schieramenti nell'evidente scopo di prendere posizione per quel belligerante che desse maggiori garanzie di protezione e compensi.

Modena voleva ispirarsi in questo ai principi franco-piemontesi ma con ben altre chances per posizione geografica e per oggettivo peso militare e politico. Gli spazi di manovra per cercare di tenere in vita il piccolo organismo statale, stretto tra contendenti e interessi sempre più potenti, erano oggettivamente ristretti e tennero occupata praticamente l'intera attività degli ultimi due duchi.

Già al tempo della guerra di successione austriaca Francesco III era stato colto in flagrante doppio giuoco tra Austro-piemontesi e Spagnoli, aggravando di ulteriori imbarazzi una situazione già precaria. La pace di Aquisgrana (1748) aveva sottolineato - qualora ce ne fosse stato bisogno - l'isolamento politico di Modena ma non impedito al signore di casa d'Este, rientrato da un esilio di sette anni, di perseguire con ammirevole e patetica pervicacia l'ampliamento anche territoriale del dominio.

Fu in ossequio a questa direttiva che Francesco III aveva voluto l'unione dell'erede E. con la principessa Maria Teresa Cibo Malaspina: in conseguenza a ciò il Ducato di Massa e Carrara sarebbe stato unito ai possedimenti di casa d'Este.

Il matrimonio, celebrato il 16 apr. 1741, non fu però in grado di assicurare continuità alla casata: un figlio maschio, che i principi ebbero ai primi di febbraio 1753, morì nel maggio dello stesso anno. Era sopravvissuta la sola Maria Beatrice Ricciarda, nata il 7 apr. 1750, e non v'era speranza che la situazione cambiasse stante i gravi dissapori esistenti tra i due coniugi. La Cibo finirà per abbandonare il marito e ritirarsi a Reggio probabilmente esasperata anche dalla consistenza che aveva preso il legame tra la cantante Chiara Marini e il marito, avventura che aveva superato di molto i limiti di tacita tolleranza invalsi nella prassi coniugale cortigiana dell'epoca. E., infatti, aveva canalizzato verso una intensa, socialmente eterogenea, vita erotica - del resto ereditaria nel suo casato - la propria vitalità, certo frustrata anche dalla impotenza d'azione pubblica e politica cui lo aveva costretto la eccezionale longevità del padre.

Destinato a succedergli solo nel 1780, ormai giunto ad età più che matura, era stato dominato a lungo dalla volontà e dalle mire paterne, ossessionate dal problema della successione. È in quest'ottica che va inteso, ad esempio, il progettato matrimonio tra l'unica erede di E., Maria Beatrice, e Ferdinando, arciduca d'Austria, figlio dell'imperatrice Maria Teresa, voluto fortissimamente da Francesco III e cui, fin dal 1753, aveva dato il suo assenso Ercole. Un suo successivo mutamento di opinione intervenuto dieci anni dopo aveva ancora una volta posto il figlio in posizione conflittuale rispetto al padre. Fosse il motivo del ripensamento costituito dall'esorbitanza della dote richiesta o semplicemente si riducesse alla volontà di accasare la giovanissima figlia secondo il proprio e non l'altrui desiderio, è certo che l'episodio portò a momenti di grave tensione. Si giunse persino al provvedimento degli arresti domiciliari per E., a sollecitare un ravvedimento che puntualmente giunse dopo un mese, prodromo degli sponsali solenni celebrati in Milano nell'ottobre 1771.

Certo complicità e tornaconto dinastico avevano guidato l'intera operazione che consentiva agli Estensi di assicurare l'eredità e la continuità dei Ducati, agli Austriaci di estendere le loro già lunghe ramificazioni nella penisola italiana, confermando inoltre il tradizionale schieramento di campo di casa d'Este. Se per ovvie motivazioni di peso specifico la politica estera degli ultimi duchi sarà giocoforza condizionata dai più potenti schieramenti europei e si ridurrà - quando possibile - alla capacità di tessere legami grazie a una attenta scelta matrimoniale, la corrente attenzione governativa andava verso tutto ciò che atteneva al settore economico, in primis alla proprietà terriera che ne era l'asse portante e alle riforme ad essa legate.

Già da principe ereditario E. aveva dovuto domare con l'aiuto delle truppe la sommossa scoppiata nel 1772 in Garfagnana: l'episodio aveva rappresentato, certo, la manifestazione di difficoltà e ostilità contro la capitale Modena, ma anche contro l'introduzione di riforme propugnate dai duchi e dai loro ministri. Partita come protesta contro la carta bollata appena istituita, contro il dazio sul caffè e contro le corvées per la costruzione della strada ducale che avrebbe dovuto collegare Modena a Massa, la ribellione canalizzò le proprie energie nel tentativo di superare i rappresentanti estensi in loco per rifarsi direttamente al principe. Tuttavia, anche dopo il perdono generale concesso ai Garfagnini, il malcontento rimase nella misura in cui le novità riformatrici - soprattutto fiscali - andavano a intaccare lo statu quo della proprietà terriera. Che si trattasse di un settore vitale lo testimoniò anche Gherardo Rangone, a lungo ministro estense, il quale identificava con chiarezza nell'agricoltura "il principio di ogni ricchezza, non solo, ma la vera e stabile base della prosperità" (cit. in Marini, p. 149). Sarà proprio il settore economico e fiscale a tenere impegnato E. nei 16 anni - a partire dal 1780 - in cui guidò lo Stato.

La progettazione e parziale attuazione delle riforme giunse con lui - grazie all'opera di L. Ricci - a livelli notevoli soprattutto nel 1787, quando fu istituita la Camera dei conti che doveva controllare le entrate e le uscite del principe e di ogni patrimonio pubblico dello Stato.

Dieci anni prima si era persino discusso se il sovrano dovesse pagare le imposte per i beni allodiali: del resto il Muratori - che, tra l'altro, fu precettore di E. - aveva chiaramente stigmatizzato come "opinione tirannica" quella per cui i principi non erano soggetti alle leggi, mentre proprio queste ultime, essendo dettate dalla ragione, dovevano essere il referente ultimo anche dei reggitori di Stati.

Proprio in quel torno d'anni andavano prendendo forma in Modena alcuni tentativi di razionalizzazione riformatrice, ispirati e determinati da due direttive. Dallo squilibrio, cioè, in cui i grandiosi lavori di Francesco III avevano lasciato l'amministrazione e dalla tendenza connaturata nell'ultimo duca estense verso la parsimonia economica, non di rado sconfinante in vera e propria grettezza. Al 1788 data la riforma annonaria che rendeva più libero il commercio dei grani; nello stesso anno veniva varato il nuovo catasto, strumento classico di lotta contro i troppi proprietari evasori fiscali; ancora, porta la stessa data la pubblicazione del Prolegomeno alla riforma dei pii istituti di Reggio, in cui si denuncia la vecchia difficoltà dell'arte della seta (nell'87 si erano ritirati dall'attività gli antichi imprenditori Trivelli), e la deplorazione delle deficienze tecniche nell'agricoltura reggiana.

La crisi, su cui tali strumenti legislativi si calavano, ormai inadeguati perché tardivi rispetto al resto d'Italia, era fortemente aggravata dal consistente aumento della popolazione. Pur senza entrare nel merito di problematiche quantificazioni e delle complesse motivazioni sottese al fenomeno, resta, certo, assodato storiograficamente un incremento generalizzato soprattutto fuori dai due centri maggiori, Modena e Reggio. È certo, parimenti, che la struttura economica e politica dello Stato estense non era in grado di reggere alcun consistente aumento numerico degli abitanti, stante anche la tradizionale opposizione sia di E. sia del padre contro le "spatriazioni". La massima che i principi avessero bisogno di sudditi fu dunque ribadita negli ultimi decenni di dominio estense, senza che si tenesse in considerazione se ci fossero o no posto e risorse sufficienti per tutti nello Stato.

L'aumento demografico ebbe, inoltre, due conseguenze di segno opposto: giovò a coloro che erano, in forza delle riforme, arrivati a possedere molta terra e che ne cercavano una migliore resa. Ma l'aumento del bracciantato il suo sfruttamento e l'aggravamento delle sue condizioni resero inevitabili lo spostamento e il concentramento di masse di "poveri mendicanti" dalle campagne in città, Modena e Reggio soprattutto, a costituire uno dei più rilevanti problemi di carattere sociale, comune, del resto, a molte società di ancien régime. Certo, per iniziativa degli ultimi Estensi e secondo gli orientamenti riformatori del secolo, furono creati ostelli e ospizi per questa frangia di diseredati ma era un rimedio assolutamente sproporzionato al male. Si trattava di provvedimenti che rientravano nell'ambito della sensibilità illuministica del duca non maldisposto in partenza a quelle riforme che non entrassero nel vivo dell'organismo statuale e non mettessero in discussione la sua posizione all'interno. In quest'ottica, ad esempio, sono da collocarsi gli interventi di regolamentazione del culto, giungendo, invero, a estremi parossistici nel dettagliare norme di svolgimento delle stesse funzioni sacre e di disciplina del fasto degli apparati ecclesiastici. Oppure - in altro settore - propugnando ampliamenti al codice di Francesco III nell'intento di eliminare interferenze e arbitri dall'amministrazione della giustizia. Oppure - ancora - intervenendo nel settore dell'istruzione, anche se in modo tanto meno incisivo di quanto fatto dal padre.

In realtà, quello che è vero studio scientifico, o istruzione elementare e secondaria non ebbe quasi affatto l'attenzione dell'ultimo duca d'Este. Certamente le scuole superiori e le università venivano create e potenziate più per desiderio di ostentazione che di vero sviluppo culturale e proprio per questo avevano attirato l'attenzione del padre Francesco, amante di istituzioni grandiose ancorché economicamente onerose. E., più attento al benessere economico che alle opere destinate al ricordo dei posteri, si fece promotore solo nel 1786 dell'Accademia di belle arti in una parte del convento dei domenicani e aprì una scuola di veterinaria aggregandola all'università. Quest'ultima iniziativa si iscriveva evidentemente nella comprensibile volontà di razionalizzare a fini pratici il settore - così vitale nella zona - dell'allevamento del bestiame.

All'epoca, d'altra parte, notevoli settori dell'intelligencija modeneseseguivano con interesse la contemporanea letteratura filosofica, religiosa ed economica italiana e lo stesso enciclopedismo proveniente d'Oltralpe. Sopra gli altri emerge la figura del padre bergamasco Girolamo Tiraboschi dal 30 maggio 1770 nominato dal duca bibliotecario dell'Estense. Il grande erudito, che aveva eletto Modena a sua seconda patria, fu interprete fedele della volontà dei sovrani che servì, dando un'impronta determinante all'istituto che era stato chiamato a dirigere. Lo stesso E., proseguendo la politica paterna che voleva fare dell'Estense una delle biblioteche più grandi e ricche d'Italia, ne incrementò le accessioni donando la biblioteca personale della sorella Elisabetta, buona parte di quella del card. Alessandro d'Este, quella privata del marchese A. V. Fontanelli, i libri medici del celebre A. Vallisnieri. L'accorta politica d'acquisti del Tiraboschi, autorizzata e incrementata dal duca, farà sì che alla sua morte, nel 1794, la Biblioteca avesse, con notevole sviluppo, raggiunto una grossa consistenza conservando oltre 100.000 volumi, 3.000 manoscritti e 2.000 edizioni tra le più rare dei secoli XV e XVI. Neppure il precipitare degli avvenimenti degli anni successivi e le spoliazioni di epoca napoleonica riusciranno a intaccare seriamente il patrimonio librario e culturale di un'istituzione, certo voluta e potenziata dagli ultimi Estensi in ossequio a un'immagine di prestigio dinastico e personale ma che - per ironia della sorte - costituisce forse la loro benemerenza oggettivamente più rilevante.

Certo man mano che ci si inoltrava negli anni Novanta del secolo i sussulti politici provenienti dalla Francia rivoluzionaria apparivano sempre meno arginabili e la condotta di governo di E. scopriva sempre più la sua inadeguatezza. Come per i vicini Farnese e Medici anche per gli Este gli spazi di manovra si ridussero drasticamente. Se, negli anni precedenti, il continuo, faticoso, lavorio diplomatico aveva salvaguardato l'area soprattutto dall'azione veneziana e dalla pressione papale, ormai i piccoli o grandi escamotages messi in atto da una classe politica avvezza a controllare la normalità non erano certo adatti ad affrontare gli eventi eccezionali che incalzavano.

La campagna italiana delle armate del Bonaparte diede il colpo di grazia alle residue speranze ducali. Inutili le abbondanti contribuzioni, le spasmodiche ambascerie, i trattati; vane anche le concessioni in termini di denaro all'Austria, nel tentativo disperato di trovare protezione in un alleato non evanescente. Si iniziarono trattative anche con il generale francese; ma questi aveva mostrato di respingere ogni tentativo adducendo l'inoppugnabile motivazione che il duca era feudatario dell'Impero e che aveva aiutato l'Asburgo con armi e denaro. Erano tutti buoni argomenti per imporre un armistizio a gravissime condizioni: pagamento di 7.500.000 lire tornesi, derrate, polvere e munizioni per 2.500.000, venti quadri prelevati dalle ricche collezioni estensi. Il duca, entrasse a questo punto in gioco la sua proverbiale parsimoniosità o desiderasse conservare la massima disponibilità di denaro per agevolare la propria via d'uscita personale qualora la situazione precipitasse, nicchiò quanto al versamento ai Francesi della cifra pattuita. Poi, vista l'impossibilità di sostenere una situazione che ormai volgeva al peggio per lui, E. partì da Modena il 7 maggio 1796 alla volta di Venezia.

Era accompagnato dal conte Francesco Magnani, gentiluomo di carriera, dal conte Giovan Battista Munarini, ministro degli Esteri e da diversi servitori. Viaggiava sotto il nome di marchese di San Felice e portava con sé Chiara Marini, che infine aveva sposato morganaticamente nel 1790, alla morte della moglie.

A Modena, al seguito dei Francesi, dall'ottobre '96 lavorò un comitato di governo di sette membri che abolì subito le giurisdizioni feudali, i titoli nobiliari, le corporazioni religiose rimaste, prese provvedimenti per razionalizzare la ferma generale. In complesso, comunque, a tutti era chiara l'irreversibilità della situazione politica: nell'ottobre Bologna, Ferrara, Modena, Reggio proclamarono la Confederazione Cispadana, che, in seguito, entrerà a fare parte della Cisalpina. Non è dato sapere se il duca, rifugiatosi nella repubblicana Venezia sotto l'egida protettrice dell'ambasciata austriaca, considerasse del tutto chiusa la partita e destituita di credibilità l'aspettativa di un rientro in Emilia. I tempi dell'esilio non furono, comunque, privi di amarezze. Nel 1797, raggiunto a Venezia stessa da un distaccamento francese che si voleva impossessare dell'oro ducale e - sia pure con modi formalmente corretti - piantonato nel suo palazzo, invano ricorse all'ambasciatore austriaco. In realtà, anche per gli Imperiali era diventato una presenza ingombrante. A ciò che riferiscono le cronache, al termine di una trattativa umiliante, dovette cedere 200.000 zecchini d'oro ai Francesi, il che rappresentava la quasi totale disponibilità liquida che il duca aveva portato con sé a Venezia a palazzo Vezzi a S. Cassiano.

Si noti che su parte, almeno, di tale cifra vantavano delle pretese anche i Modenesi, la cui nuova Municipalità aveva inviato i cittadini Notari e Leonelli nella città lagunare per obbligare il duca a versare una somma rilevante a favore del Comitato di governo. Del resto v'era il ragionevole sospetto che il principe si fosse allontanato dalla città provvisto, oltre che del proprio patrimonio personale in contanti o valori, anche di parte di quello della pubblica cassa, secondo il Namias non meno di 3 milioni di lire modenesi (Memorie modenesi, citate in Messori-Roncaglia, Incontro dei Francesi..., p. 77).

Sia come sia, la somma prelevata al duca finì tutta nelle casse di E. Haller, esattore generale delle finanze italiane per conto della Repubblica francese: in cambio E. ottenne il sospirato lasciapassare per varcare l'Adriatico e raggiungere Trieste. In quello stesso anno, il 1797, egli andò a Vienna da dove ritornò a Venezia nel 1799. Dopo pochi mesi preferì passare nella vicina, più tranquilla Treviso, ritornata definitivamente agli Austriaci dopo la pace di Lunéville (9 febbr. 1801).

Qui il duca e la piccola corte si erano sistemati - non senza trattative economicamente laboriose - nel palazzo dei conti Coletti, affittato per una cifra contrattata allo spasimo, come era nelle abitudini dell'Estense. Il quale trascorse in questa piccola città, provinciale e tranquilla, gli ultimi anni di vita intento alla modesta attività mondana consentitagli dagli anni e dall'ambiente, "affabilissimo e pieno di religione", guardato con simpatia e rispetto dalla popolazione.

Nel 1801 ricevette e ricambiò la visita dell'arciduca Giuseppe di passaggio in città e l'anno successivo quella dell'arciduchessa Amalia d'Austria, duchessa vedova di Parma. Ma l'età e soprattutto l'idropisia lo avevano fiaccato nel fisico: dal 1803 non si era mosso più di casa, assistito dalla sorella, principessa Matilde. Nel settembre di quell'anno era giunta la notizia della morte di Fortunata, altra sorella del duca, ritirata da tempo nel convento delle salesiane di Venezia. Non molto dopo la fine giunse anche per l'ultimo erede diretto di Cesare d'Este: E. morì a Treviso il 14 ott. 1803 e due giorni dopo le sue spoglie furono tumulate nella chiesa del convento dei cappuccini.

In tale occasione la figlia, arciduchessa Maria Beatrice, diede disposizione di erogare - com'era d'uso - una cospicua cifra da destinarsi agli indigenti della città veneta e un'altra da distribuirsi alle comunità religiose regolari. Invece proprio per ciò che riguardava i resti del padre, essa sarà molto meno sollecita ad intervenire, pur essendo noto il desiderio di E. d'essere tumulato, infine, nella cattedrale della sua Modena. Tutto ciò si compirà solo nell'ottobre 1816, quando Maria Beatrice sarà rientrata in patria sull'onda della Restaurazione ormai in atto, al seguito del figlio Francesco IV d'Austria Este.

Fonti e Bibl.: F. Valdrighi, Estratto di un carteggio familiare e privato ai tempi delle repubbliche Cisalpina e Italiana, Modena 1872, pp. 107 ss.; G. Campori, Adelaide d'Orléans ed E. III d'E., in Atti e mem. delle R. Deputaz. di storia patria per le provincie modenesi e parmensi, VIII (1876), pp. 249-262; G. Pantanelli, La detenzione del principe ereditario E. III d'E., Modena 1901; M. T. Messori-Roncaglia Mari, Incontro di E. III d'E. coi Francesi, in Atti e Mem. della Deput. di storia patria per le antiche provincie modenesi, s. 8, VIII (1950), pp. 74-81; G. Remicci, Anni d'esilio e morte in Treviso di E. III duca di Modena, in Rivista italiana di studi napoleonici, IV (1965), pp. 33-42; L. Marini, Lo Stato estense, in Storia d'Italia (UTET), a cura di G. Galasso, XVII, Torino 1979, pp. 115, 144 ss.

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