Erdogan vince la scommessa

Atlante Geopolitico 2016 (2016)

Valeria Talbot

Il voto del 1° novembre 2015 ha dato ragione al presidente Recep Tayyip Erdoğan che aveva scommesso sulle elezioni anticipate per riportare al potere il suo partito, Giustizia e Sviluppo (Akp), dopo la cocente sconfitta del 7 giugno. L’Akp è infatti riuscito ad aumentare in maniera consistente il numero delle preferenze a suo favore, passando dal 40,8% al 49,4%, e ciò gli ha permesso di formare un governo monocolore, il quarto degli ultimi tredici anni, dopo la fase di incertezza seguita al voto di giugno da cui non era uscita una maggioranza parlamentare. Mesi di incertezza, ma anche di profonda instabilità e di progressivo deterioramento del contesto di sicurezza interno dovuto alla ripresa dello scontro con i separatisti curdi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e ai gravi attentati di matrice jihadista che hanno scosso il paese. In questo contesto, Erdoğan è dunque apparso come l’unico ‘uomo forte’ in grado di assicurare stabilità e sicurezza al paese.

Non vi è dubbio che il successo dell’Akp apra in Turchia una nuova stagione in cui la riforma costituzionale e l’introduzione del presidenzialismo, tanto caro a Erdoğan, saranno al centro del dibattito politico. Infatti, sebbene con 317 seggi su 550 l’Akp non sia riuscito a ottenere i numeri necessari in parlamento per portare avanti da solo la riforma della Costituzione, la trasformazione del sistema politico turco da parlamentare in presidenziale è stata inserita nell’agenda del partito di governo già all’indomani del voto. Tuttavia, da quando nell’agosto del 2014 Erdoğan è stato eletto presidente, si è assistito di fatto, se non de jure, a una progressiva trasformazione del ruolo di mera rappresentanza che l’attuale Costituzione turca attribuisce al capo dello stato. A più riprese Erdoğan è intervenuto nella vita del paese più come leader politico che come figura super partes, indirizzando la linea del governo sia internamente sia in politica estera.

Ma il favore dei turchi, o almeno della metà di essi, per l’uomo forte non sembrerebbe oggi tradursi anche in sostegno alla riforma presidenziale. Infatti, secondo i dati di un sondaggio condotto da Ipsos a inizio novembre, il 57% degli intervistati ha dichiarato il proprio apprezzamento per il sistema parlamentare, mentre il solo 31% si è detto favorevole all’introduzione del presidenzialismo in Turchia. La strada dunque si presenta in salita per Erdoğan non solo perché si apre adesso un complesso gioco negoziale con i partiti di opposizione per ottenere quei 13 voti mancanti che consentirebbero all’Akp di sottoporre a referendum la revisione costituzionale, ma anche perché una eventuale consultazione referendaria potrebbe non produrre l’esito sperato. Se tutti i partiti concordano sulla necessità di rivedere una Costituzione di forte impronta militare che non si adatta più alle evoluzioni che la Turchia ha conosciuto negli ultimi trent’anni, sembra oggi difficile trovare un accordo sul presidenzialismo così come lo intende Erdoğan. La proposta dell’Akp prevede un rafforzamento del ruolo del presidente che, se non accompagnato da un adeguato meccanismo istituzionale di “controlli e contrappesi”, rischia di compromettere i già fragili equilibri tra i poteri dello stato e di fare compiere al paese significativi passi indietro nel processo democratico e nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, accentuando quella svolta autoritaria cui si è assistito negli ultimi anni. La campagna repressiva nei confronti degli organi di stampa di opposizione o afferenti al movimento di Fethullah Gülen non è che la punta dell’iceberg di questa stretta autoritaria.

Nell’attuale panorama politico turco, qualche apertura verso il presidenzialismo potrebbe venire dal Partito del movimento nazionalista (Mhp) o, come era già accaduto in passato, dai curdi dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli, nonostante quest’ultimo abbia assunto una posizione di chiusura durante la campagna elettorale. In gioco c’è la soluzione dell’annosa questione curda che riguarda, da un lato, il riconoscimento di maggiori diritti culturali alla più numerosa minoranza del paese (stimata tra il 15% e 20% della popolazione) sulla scia di quanto fatto negli ultimi anni proprio dal governo di Erdoğan; dall’altro, la ripresa dei negoziati di pace con il Pkk per porre fine al sanguinoso scontro che da decenni oppone l’organizzazione terroristica alle forze di sicurezza turche. Il tentativo negoziale portato avanti negli ultimi tre anni tra innumerevoli difficoltà e battute d’arresto si è definitivamente arenato nel luglio del 2015 dopo l’uccisione di due soldati turchi da parte di militanti dell’organizzazione che ha scatenato la dura reazione del governo.

Assicuratosi il potere per i prossimi quattro anni e fugati i timori di vedere il suo partito costretto all’interno di coalizioni vincolanti, Erdoğan ha consolidato la sua posizione di forza. Resta da vedere se agirà come un ‘nuovo sultano’ che farà assomigliare sempre più la Turchia alla Russia di Vladimir Putin o se invece la utilizzerà per riprendere in mano spinosi dossier, primo tra tutti quello curdo, la cui soluzione avrebbe importanti ricadute non solo sul piano interno ma anche a livello regionale.

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