PACELLI, Ernesto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)

PACELLI, Ernesto

Maurizio Pegrari

PACELLI, Ernesto. – Nacque a Civitavecchia il 31 agosto 1859, primo di sei figli, da Pietro, amministratore delle dogane pontificie (poi dimessosi in segno di rifiuto all’inquadramento nei ruoli dello Stato italiano).

Allorché la famiglia – originaria di Acquapendente (prov. di Viterbo) – si trasferì a Roma, i figli del capostipite Gaetano entrarono nella burocrazia pontificia. Fra questi Marcantonio, che sarebbe stato tra i fondatori dell’Osservatore romano e nonno di Eugenio, il futuro papa Pio XII; e Felice, funzionario delle dogane pontificie e nonno di Ernesto.

Frequentò il seminario di Alatri per poi espletare il servizio militare in fanteria. Non condividendo l’intransigentismo della famiglia, più aperto alle novità del tempo, optò per un’attività diversa, abbandonando la tradizione degli uffici ecclesiastici e impiegandosi prima nella Banca nazionale toscana, poi nel Banco di Roma. Questo impiego fu il punto di partenza di un percorso destinato a rivelarsi ricco di fortune e, alla fine, di sfortune.

Nel 1887 sposò Chiara Tajani, figlia di Diego, deputato per sette legislature, ex ministro di Grazia, giustizia e culti nei gabinetti Depretis e apertamente anticlericale. Il matrimonio spinse Pacelli verso una posizione sociale privilegiata che, unita all’esperienza bancaria e alla tradizione clericale d’origine, non passò inosservata negli ambienti vaticani. Fu legatissimo allo zio Filippo e ai suoi figli Eugenio e Francesco, e dopo la separazione dalla moglie volle che Eugenio assumesse il ruolo di padre spirituale dell’unica figlia Maria Teresa.

Fino al trasferimento nella villa acquistata sulla via Aurelia, abitò al n. 110 di Corso Vittorio Emanuele confinante con Palazzo Vidoni.

In considerazione dell’autorità di cui godeva negli ambienti della finanza, del governo, del Vaticano e in Campidoglio era soprannominato il ‘terzo re di Roma’ dopo il re e il papa e con questo titolo lo ricordò Pio Molajoni (1942, p. 181), tracciandone un arguto ritratto: «La sua persona alta e complessa sembrava contenuta a fatica nel minuscolo equipaggio dominato dal caratteristico cappello duro a larghe falde che in Roma era portato da tre o quattro persone: un grosso sigaro tra le labbra; un saluto con la mano e un sorriso per tutti, anzi saluto e sorriso erano più cordiali per coloro che egli conosceva come suoi denigratori, e non erano pochi». Anni prima Molajoni aveva fatto di Pacelli uno dei protagonisti del romanzo Crepuscoli e bagliori (Roma 1920), un’autobiografia in realtà, nella quale erano rappresentati sia l’autore, con il nome di Clemente Mari, ansioso di misurarsi con la società del tempo, sia Pacelli nelle vesti di Lorenzo Fiori, finanziere disilluso dalle meschinità degli uomini che lo avevano progressivamente abbandonato.

L’attività al Banco di Roma, che sin dalla sua costituzione nel marzo 1880 fu la vera ‘banca del papa’, capace di gestire una buona parte delle finanze vaticane, consentì a Pacelli di ampliare e irrobustire la sua rete di relazioni con l’aristocrazia romana, l’ambiente politico e le gerarchie vaticane verso le quali si mostrò sempre disponibile.

Nel decennio 1870-80 le finanze della S. Sede avevano attraversato serie difficoltà, almeno in parte legate agli avvenimenti politici e ben sintetizzate dalla battuta di Pio IX al termine del Concilio Vaticano I: «Saremo pure infallibili, ma siamo sicuramente in bancarotta». Il cardinale Giacomo Antonelli e il suo successore alle finanze monsignor Enrico Folchi si erano incaricati di smentire le preoccupazioni papali, appoggiandosi a istituti bancari stranieri – i Rothschild a Parigi, la Société Générale a Bruxelles e la Bank of England – da sempre considerati punti di riferimento privilegiati, stante la scarsa fiducia in quelli italiani. Non per caso sia Antonelli sia il papa erano tra i clienti della sede romana dell’Union Générale, la più importante banca francese nella capitale, affidata nel 1878 a esponenti del mondo cattolico e dell’aristocrazia romana come Giulio Mereghi, Francesco Borghese e il principe Sigismondo Giustiniani Bandini. Furono questi che, a seguito di dissidi con la sede parigina, nel 1880 uscirono dalla banca per dare vita al Banco di Roma.

Nello stesso 1880, Leone XIII creava l’Amministrazione dei Beni della Santa Sede (ABSS) con il compito di riorganizzare i flussi di denaro provenienti dai fedeli di tutto il mondo e quelli dell’Obolo di S. Pietro. Ne assunse la direzione Folchi, il quale consigliò il pontefice di mettere a disposizione sotto forma di deposito al 5%, rinnovabile ogni triennio, la non trascurabile somma di 3 milioni di lire, superiore allo stesso capitale sociale, e di abbandonare l’Union Générale che, due anni dopo, fu liquidata. L’operazione fu all’origine di uno stretto e discusso legame tra il Vaticano e il Banco, almeno sino al 1916 quando Benedetto XV uscì dall’istituto come azionista rimanendovi come depositante.

Le fasi congiunturali degli anni Ottanta – crisi (1882-83), ripresa (1884-87), crisi (1888-94) – indirizzarono gli investimenti del Banco in direzioni diverse (agricoltura, industria, trasporti, edilizia) con immobilizzi problematici nonostante la cautela operativa. Pacelli dovette affrontare questioni spinose e rivolgersi direttamente all’ABSS per risolvere i problemi di liquidità, rafforzare i rapporti con la S. Sede, garantire una buona parte della liquidità, inserire la banca nel contesto economico e bancario nazionale, raccogliere la sfida delle nuove banche miste che si profilavano all’orizzonte.

Nel 1891, proprio a causa dei suoi legami con il Banco di Roma, Folchi fu sostituito alla guida dell’ABSS dal cardinale Mario Mocenni; nello stesso anno Pacelli, cooptato nel consiglio di amministrazione del Banco come consigliere effettivo, riuscì a concludere un accordo che prevedeva l’intervento dell’ABSS e dell’avvocato Carlo Santucci, presidente del Crédit société financière, per salvare il Banco dal fallimento. Nella riorganizzazione delle cariche, conseguente all’impegno del Crédit, Pacelli ebbe ancora un ruolo marginale, ma nel marzo 1893, quando il Banco, grazie a una politica di rigoroso risanamento fece segnare miglioramenti, fu nominato segretario nel nuovo CdA, riconfermato nel 1895. Fu questo un anno particolarmente importante per la sua ascesa: risolse la questione degli indennizzi corrisposti dallo Stato italiano agli azionisti della Banca romana (in liquidazione perché travolta da noti scandali) e concluse favorevolmente la delicata questione del fallimento della ditta Bingen di Genova, forte debitrice del Banco.

In questo frangente scrisse un’accorata lettera a Leone XIII nella quale, oltre a dirsi onorato della fiducia dei colleghi, precisava: «fui chiamato a far parte, in Genova, della Delegazione dei creditori nel fallimento Bingen, causa unica della nostra scossa finanziaria, ed ho la fierezza di affermare che tutto io tenterò, ciò che onestamente può tentarsi per assodare che mal si troverà in tale circostanza la Sinagoga di fronte ai battezzati» (Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, rub. 63, 1895).

La sistemazione della Società dei Molini, che, superata la crisi del 1896, si era fusa con lo Stabilimento M. Pantanella dando vita alla Società dei molini e pastifici Pantanella, rappresentò un altro passo avanti nella crescita operativa del Banco e nella carriera di Pacelli.

Negli anni seguenti, segnati da forte ripresa economica, Pacelli formulò proposte innovative per l’istituto romano nel convincimento che per contrastare le nuove banche miste – Banca commerciale e Credito italiano – fosse necessario ottenere maggiori risorse. Diventato il «sor Ernesto» per il papa, ancora una volta si appoggiò alla S. Sede per guidare il Banco verso una maggiore dimensione operativa. Un viaggio in Austria e Germania nel 1897 fu il risultato di due combinazioni: da un lato la posizione azionaria maggioritaria del Vaticano nella banca e, dall’altro, la volontà di reperire nuovo capitale all’estero sulla base di un accreditamento dei nunzi di Vienna e Monaco negli ambienti interessati. Il veto del CdA del Banco di accettare consiglieri austriaci e tedeschi non consentì il risultato auspicato; ma i successivi aumenti di capitale videro in prima linea la S. Sede e permisero a Pacelli di imprimere un’accelerazione imprenditoriale, utilizzando una tecnica molto particolare, e, per quei tempi, del tutto originale: costituire nuove società finanziando in modo preponderante l’emissione azionaria per poi collocarle presso la propria clientela, trattenendo la quantità necessaria a consentire di esercitarne il controllo.

Gli anni seguenti furono molto positivi per l’ampliamento del Banco di Roma. Pacelli assorbì la Banca Artistico-Operaia (di cui la maggioranza azionaria era della S. Sede) che, senza rivelarsi un grande affare, permise di esercitare anche il credito agrario nel Lazio e aumentare il numero delle filiali nella regione e fuori, dove vi erano maggiori opportunità, sino a Parigi, assorbendo, nel 1902, un modesto istituto locale, la Caisse des Entrepôts.

Presidente nel 1903, Pacelli guidò il Banco con una precisa strategia, sostenuta da un consistente e progressivo aumento del capitale sociale, superiore a quello delle due rivali: la Commerciale e il Credito italiano. Proprio le maggiori disponibilità aprirono nuove convenienze di partecipazione azionaria: la Società cinematografica Cines e la Cines-seta per la fabbricazione della seta artificiale (con il brevetto della viscosa); la Società petrolifera italo-rumena; la Società anonima scamosceria italiana; la Società romana telefoni; la Società romana per i concimi organici; la Società sorgenti minerali dell’Aspio; la Società italo-belga del Benadir; la Société belge de banque; la Società italo-francese per la costruzione della ferrovia Danubio-Adriatico e numerose altre. L’espansione trevalicò i confini nazionali, toccando l’Europa e le coste del Mediterraneo – Tripoli, Bengasi, Malta, Salonicco, il Cairo, Alessandria d’Egitto, Barcellona, Tarragona – in qualche caso anche col sostegno del governo italiano e della stampa cattolica, sino ad assorbire la sezione bancaria della Società commerciale d’Oriente (Comor) a Costantinopoli, creata da Giuseppe Volpi e dalla Commerciale, ed entrando in competizione con Bernardino Nogara, alla guida della Comor.

Nonostante l’appoggio vaticano, intenzionato a tutelare i propri interessi nell’Impero ottomano, si trattava di una presenza internazionale dalle basi d’argilla. La gestione di Enrico Bresciani, direttore della filiale di Tripoli dal 1907, fece fallire le iniziative avviate con le risorse del Banco, ma senza il necessario controllo della direzione, e causò perdite vistose. L’orientamento di Pacelli a cedere le attività libiche a gruppi stranieri e il timore che tale scelta portasse a cancellare la presenza economica italiana in Libia, furono tra i motivi dell’intervento militare italiano. Le perdite non furono rimborsate e il Banco dovette ridimensionare la sua presenza in Libia, Egitto e Turchia.

La Grande Guerra incise sul complesso delle attività economiche europee, con effetti che non tardarono a farsi sentire anche sul Banco di Roma con la progressiva riduzione dei depositi e il conseguente aumento degli immobilizzi. Pacelli informò Benedetto XV, succeduto a Pio X il 3 settembre 1914, del deterioramento dei conti confidando nel suo aiuto dal momento che la S. Sede possedeva oltre il 25% del capitale. Il papa, però, gli consigliò di rivolgersi al Credito nazionale, banca di riferimento della Federazione bancaria italiana, sorta a Milano nel 1914 raggruppando 12 delle 74 banche cattoliche italiane. L’atteggiamento del nuovo papa, molto meno disponibile dei suoi predecessori, e il mutato ‘clima’ bancario italiano segnarono la svolta definitiva della carriera di Pacelli.

Il Banco di Roma aveva esercitato una forte pressione sulle banche cattoliche, piccole e medie, considerandole utili serbatoi di liquidità. L’alternativa al suo strapotere era, appunto, il Credito nazionale nato come Istituto centrale per tutte le banche cattoliche, benché l’operazione si concretizzasse solo in parte, nel senso che la maggior parte della banche si rifiutò di federarsi determinando una situazione di forti tensioni nel mondo delle banche confessionali.

Il Credito nazionale condusse una lunga trattativa con il Banco di Roma per sostenere il capitale sociale che si concluse nel 1916 con le dimissioni di Pacelli dalla presidenza della banca. La sua uscita portò alla sostituzione di tutti i vertici del Banco con uomini provenienti dal Credito nazionale (Carlo Santucci alla presidenza, Giuseppe Vicentini al settore interni e Ferdinando Bussetti al settore esteri). Con le dimissioni, Pacelli assumeva a suo carico l’intero deficit del Banco (circa 50 milioni). Un atto formale, concordato con Benedetto XV e con il nuovo segretario di Stato, cardinal Pietro Gasparri. La S. Sede decise di intervenire con i titoli gestiti da Pacelli per conto del Vaticano (425.000 azioni), costati 42 milioni e mezzo (pari a un valore di circa 15 milioni). Una parte del disavanzo fu ripianata dall’ABSS e un’altra dal ricavato della cessione della villa di Pacelli sull’Aurelia.

Pacelli si ritirò in Francia, senza abbandonare l’idea di rientrare al Banco di Roma. Nei suoi ritorni in Italia, veniva ricevuto in udienza da Benedetto XV che, secondo il racconto di Molajoni (1942, p. 183), non mancava di divertirsi ad accoglierlo con un «Venga, venga, signor Fiori…».

La nuova amministrazione del Banco non diede i risultati sperati. Il fallimento della Banca italiana di sconto nel 1921, portò anche il Banco alla chiusura, evitata – senza però un risanamento – solo grazie all’intervento degli istituti di emissione e del Consorzio sovvenzioni sui valori industriali. Con Mussolini al potere, Gasparri cercò la soluzione e, ancora una volta si giunse alla sostituzione degli amministratori. A Santucci e Vicentini subentrarono uomini allineati con il nuovo regime e voluti dal ministro delle Finanze Alberto De’ Stefani: il principe Luigi Boncompagni Ludovisi e l’avvocato Carlo Vitali. Nelle more di questo riassetto Pacelli, tra il marzo e l’aprile 1923, prese contatti con Vicentini per tentare qualche combinazione finanziaria che gli consentisse di tornare a controllare il Banco. Ma la lotta, senza esclusione di colpi, si concluse per lui negativamente.

Morì a Roma il 13 giugno 1925.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. storico del Banco di Roma; Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, rub. 63, 1895; Spoglio Pio X, f. 9, 1914. Secondo quanto afferma B. Lai (1979), senza alcuna indicazione, le carte private di Pacelli sono conservate presso gli eredi. P. Molajoni, “Il terzo re di Roma”, in Strenna dei Romanisti 1940, Roma 1942, pp. 181-184; A. De’ Stefani, Baraonda bancaria, Milano 1961, pp. 41, 287-290; F. Malgeri, La guerra libica (1911-1912), Roma 1970, pp. 17, 102, 370; R.A. Webster, L’imperialismo industriale italiano 1908-1915. Studi sul prefascismo, Torino 1974, pp. 212, 214, 216-218, 222 s., 225, 232 n., 240 n., 242, 246 n., 331, 422, 426, 430 s., 444, 454, 492, 508, 524; M.G. Rossi, Le origini del partito cattolico, Roma 1977, pp. 213, 295 s., 299-301, 305, 314, 317, 319; B. Lai, Finanze e finanzieri vaticani fra l’800 e il 900. Da Pio IX a Benedetto XV, I-II, Milano 1979, ad ind.; A. Confalonieri, Banca e industria in Italia (1894-1906), I. Il sistema bancario tra due crisi, Bologna 1980, p. 281; Id., Banca e industria in Italia dalla crisi del 1907 all’agosto 1914, II. Crisi e sviluppo nell’industria italiana, Milano 1982, pp. 98, 102, 104, 165; L. De Rosa, Storia del Banco di Roma, I-II, Roma 1982-83, ad ind.; M. Petricioli, L’Italia in Asia Minore. Equilibrio mediterraneo e ambizioni imperialiste alla vigilia della prima guerra mondiale, Firenze 1983, pp. 23 s., 44 s., 301, 323; G. De Rosa, Storia del Banco di Roma, III, Roma 1984, p. 253; J.F. Pollard, L’obolo di Pietro. Le finanze del papato moderno: 1850-1950, Milano 2006, pp. 13, 31, 100-103, 108 s., 119, 123, 126-131, 141-145, 161 s., 296-298, 303 s., 307 s.; R. Redi, La Cines. Storia di una casa di produzione italiana, Bologna 2009, pp. 20 s. 26, 30, 35 s., 43 s., 57, 71.

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