ROSSI, Ernesto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 88 (2017)

ROSSI, Ernesto

Luca Polese Remaggi

– Nacque il 25 agosto 1897 a Caserta, quartogenito di Antonio Rossi della Manta e di Elide Verardi.

Il padre, ufficiale dell’esercito di origini piemontesi, fu trasferito nel 1899 a Firenze, dove nacquero altri tre figli.

Presa la maturità classica da privatista nell’ottobre 1915, Rossi partì volontario in guerra l’11 marzo 1916. Dopo un breve addestramento in Campania, a Pontelandolfo, nel giugno entrò nella scuola militare di Modena, dove restò fino all’inizio di ottobre. Il 28 dello stesso mese già si trovava sul basso Isonzo, come aspirante ufficiale nella 5ª compagnia del 127° reggimento di fanteria. Il 12 maggio 1917, nel corso della decima battaglia dell’Isonzo, una granata gli squarciò il ventre e lo ferì a un occhio. Dal 1° gennaio 1918 Rossi fu promosso sottotenente e, contestualmente, giudicato inidoneo al combattimento. Congedato il 29 marzo 1919, s’iscrisse a giurisprudenza all’Università di Siena nel luglio successivo.

Era un giovane ex combattente vicino alle idee del primo fascismo. Collaborò a Il Popolo d’Italia con articoli di argomento tecnico-politico (la riforma della proprietà fondiaria, il protezionismo doganale, la riforma della scuola), non disdegnando tuttavia di formulare giudizi drastici sulla ‘triste casta chiusa’ dei parlamentari, che doveva lasciare il passo agli ‘uomini nuovi’, provenienti dalle trincee. Nell’articolo Chiarificazioni spirituali, pubblicato il 1° giugno 1921, espresse la determinazione a «ubbidire ciecamente» a un «duce», provvisto di «qualità adatte al comando». L’incontro con Gaetano Salvemini negli ultimi mesi del 1919 rappresentò l’inizio di una nuova educazione politica, ispirata ai valori dell’elitismo democratico. Laureatosi nel dicembre 1920 con una tesi dedicata al pensiero di Vilfredo Pareto, Rossi non derubricò però dalla sua cultura il disprezzo per la politica intesa come mediazione degli interessi e soluzione di compromesso su base parlamentare.

A partire dall’ottobre 1920 lavorò presso la sezione fiorentina della Associazione agraria toscana. Nel corso dell’autunno dell’anno successivo si recò in Basilicata come collaboratore di Umberto Zanotti Bianco, il quale dirigeva l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia. S’immerse fra i contadini diseredati di quelle zone, facendo un’esperienza che rafforzò in lui il sentimento di avversione verso il mondo chiuso della politica incapace di dare risposte al ‘popolo’ che aveva combattuto nelle trincee. Tornato a Firenze, divenne segretario della sezione fiorentina dell’Agraria. Le sue idee lo spinsero ad attaccare il governo Mussolini in alcuni scritti pubblicati nel corso del 1923 su La Libertà economica di Alberto Giovannini. Il fascismo al governo gli apparve infatti come la nuova incarnazione di antichi mali: il protezionismo, il predominio degli interessi organizzati e la corruzione politica. Meridionalismo, liberismo e antifascismo s’intrecciarono pertanto in uno stesso discorso, che Rossi continuò ad articolare sulle pagine de Il Giornale degli agricoltori toscani, di cui fu direttore dal 4 dicembre 1923 fino al 17 giugno 1924. A questa data era oramai un antifascista intransigente, deciso a contestare a Mussolini il monopolio fascista di Vittorio Veneto e della memoria di Cesare Battisti. Nel corso del 1923, partecipò assiduamente alle attività del Circolo di cultura a Firenze, fu uno degli animatori delle iniziative di Italia libera e infine redasse, stampò e diffuse il Non mollare insieme a Carlo e Nello Rosselli. Nel maggio del 1925, tuttavia, dovette fuggire, riparando a Parigi.

L’amnistia del 25 luglio successivo permise a Rossi di tornare. In ottobre partecipò al concorso per insegnamento di discipline giuridico-economiche negli istituti tecnici, risultando primo classificato. Scelse Bergamo, dove occupò la cattedra di economia politica e scienze finanziarie presso l’istituto tecnico Vittorio Emanuele II. A partire dal marzo 1926, fino al 1930, prese a collaborare al periodico La Riforma sociale, diretto da Luigi Einaudi, con scritti sulla disoccupazione, sul debito pubblico e sulle finanze dello Stato. Einaudi fu per Rossi un’influenza duratura, ma per lo più limitata ai temi della liberalizzazione dell’economia. Infatti, mentre il fascismo stava assumendo la fisionomia dello Stato imprenditore, Rossi utilizzò il motivo della libertà economica in chiave molto più radicale, per dimostrare che la tirannia fascista era espressione di un circuito di poteri burocratici ed economici, pubblici e privati, talmente ramificato che sarebbe stato necessario un intervento ben più drastico di quello che poteva approntare il liberalismo tradizionale. Erano riflessioni che andavano di pari passo con l’intensificazione della sua attività clandestina. Collaborò a partire dal 1928 con il gruppo antifascista milanese composto, fra gli altri, da Riccardo Bauer, Vincenzo Calace, Umberto Ceva, Carlo Del Re, Dino Roberto. In ottobre conobbe Ada Rossi, insegnante nello stesso istituto, con la quale si fidanzò. L’anno successivo si recò spesso a Parigi per coordinare l’azione clandestina con i fondatori di Giustizia e Libertà (GL).

Nello spirito di GL, Rossi e i suoi compagni miravano a scuotere l’apatia degli italiani di fronte alla dittatura. Così, assieme a Del Re e Ceva, decise di fabbricare delle bombe incendiarie da far esplodere in diverse intendenze di finanza nelle città del Nord come forma di protesta contro l’accresciuto aumento delle tasse. Il momento prescelto aveva una forte dimensione simbolica: il 28 ottobre 1930, ottavo anniversario della marcia su Roma. Il progetto non andò in porto, ma la delazione di Del Re, divenuto una spia del capo della polizia Arturo Bocchini, provocò l’arresto degli altri. Rossi fu catturato il 3 novembre mentre stava facendo lezione a scuola. Destinato a Regina Coeli, fu rinchiuso in una cella, collocata nel braccio del carcere dove si trovavano i condannati del tribunale speciale, in assoluto isolamento e sottoposto a uno stretto controllo. Il tribunale speciale per la difesa dello Stato aprì i suoi lavori il 29 maggio 1931, giungendo a una rapida conclusione il giorno successivo: a Rossi e Bauer fu inflitta una pena di venti anni, a Calace e Roberto di dieci. La sentenza indicò in Rossi e Bauer i capi di un’organizzazione segreta che stava preparando un’insurrezione armata. Nel luglio del 1931 Rossi fu trasferito nel carcere di Pallanza, sul lago Maggiore. Qui, con rito civile, sposò Ada il 24 ottobre 1931. Un mese più tardi fu trasferito nel carcere di Piacenza, dopo che fu scoperto un progetto di evasione. A Piacenza strinse amicizia con Manlio Rossi Doria.

Fu trasferito nuovamente a Regina Coeli nel novembre 1933 in seguito alla scoperta di un altro tentativo di fuga. Scontò inizialmente un durissimo regime di sorveglianza e di isolamento, ma presto nel carcere romano ebbe la possibilità di incontrare nuovamente il vecchio gruppo giellista: Bauer, Calace e Roberto. Al gruppo si aggiunse l’anarchico Giovanni Battista Domaschi e, più tardi, i giellisti catturati nel maggio 1935, fra i quali Vindice Cavallera, Vittorio Foa, Michele Giua, Massimo Mila, Augusto Monti.

La durezza delle condizioni di vita fu mitigata dalla possibilità di studiare e di confrontarsi con gli altri detenuti sui grandi temi, dalla filosofia crociana (aborrita da Rossi, in costante polemica con l’idealista Bauer) alla tradizione anglosassone dell’empirismo, fino al rapporto tra Stato e mercato e alla questione delle riforme sociali. Grazie a Einaudi, Rossi scoprì l’opera dell’economista Philip Henry Wicksteed, il quale fu per lui un punto di riferimento nella composizione di opere che, iniziate in carcere e al confino, furono pubblicate dopo la seconda guerra mondiale. Nel secolo in cui le rivoluzioni erano diventate dittature, le dittature parlavano il linguaggio delle masse e le istituzioni pubbliche e l’economia si compenetravano con vari esiti, Rossi si impegnò non soltanto a ridisegnare il profilo dello Stato liberale, fondandolo sui diritti sociali in opposizione alle tirannie moderne, ma soprattutto a individuare la salvezza dello Stato nella retrocessione degli interessi organizzati nella sfera privata. Non a caso, dunque, il ‘giacobinismo’, più volte rivendicato nei suoi carteggi, sarebbe diventato ben presto il metodo della sua rivoluzione antifascista, chiamata a operare drasticamente la separazione fra le istituzioni pubbliche, liberate dalle indebite pressioni dei gruppi sociali organizzati, e il mercato, finalmente riorganizzato attorno alle regole della concorrenza. Gli anni della galera furono insomma per Rossi gli anni del rifiuto del corporatismo novecentesco, non soltanto del corporativismo fascista. Appaiono molto significativi da questo punto di vista i giudizi sprezzanti sull’opera di John Maynard Keynes e sul New Deal di Roosevelt, «il più sconclusionato pasticcione che sia mai stato presidente degli S.U.» («Nove anni sono molti», a cura di M. Franzinelli, 2001, p. 318).

Dopo nove anni di carcere, Rossi fu assegnato al confino in quanto ‘elemento socialmente pericoloso’. Il 16 novembre 1939 fu tradotto a Ventotene, dove l’estate successiva incontrò Altiero Spinelli. Dalle loro conversazioni, alle quali parteciparono Ursula Hirschmann, Eugenio Colorni e altri, prese forma lo scritto Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un Manifesto, redatto nel 1941 e destinato a diventare celebre come il Manifesto di Ventotene.

I residui della cultura leninista di Spinelli e le impazienze giacobine di Rossi confluirono nella proposta di un ‘partito rivoluzionario’ che imponesse la soluzione federalista ancor prima che essa fosse maturata nella coscienza dei popoli europei. Un europeismo ritenuto autoritario dagli altri giellisti di Ventotene, i quali erano inoltre convinti che Rossi fosse sotto la nociva influenza di Spinelli. Rossi agiva dunque in discontinuità con le idee liberali, proclamando la necessità di un ‘dittatura rivoluzionaria’: il problema non era più quello di ripristinare la democrazia dentro il circuito dello Stato liberale, quanto piuttosto di trovare lo spazio adeguato affinché le sue idee rivoluzionarie potessero essere realizzate. Nelle riflessioni di Rossi e Spinelli la formazione dello Stato europeo si caratterizzò forse più per i metodi giacobini della rivoluzione dall’alto che per gli obiettivi federalistici.

Il 9 luglio 1943 Rossi fu nuovamente arrestato e trasferito a Regina Coeli insieme a Bauer e Calace. La caduta del regime di Mussolini impedì che il processo si svolgesse. Il 30 luglio Rossi fu liberato. Poté riabbracciare dopo tredici anni parenti e amici, ma soprattutto si gettò a capofitto nell’attività politica. Il 27 e 28 agosto 1943 partecipò alla fondazione del Movimento federalista europeo (MFE) nella casa milanese di Mario Alberto Rollier. Il 5 settembre partecipò al primo convegno del Partito d’azione, svoltosi a Firenze. Il 7 fu di nuovo a Bergamo con la moglie. Nei giorni successivi si risolse per l’esilio in Svizzera. Lasciò l’Italia il 14 settembre, con i fascisti bergamaschi che gli davano la caccia. Dopo un lungo soggiorno a Lugano, si trasferì nel marzo 1944 a Ginevra. Vi conobbe Wilhelm Röpke e, soprattutto, poté da qui riprendere i contatti epistolari con Salvemini, il quale si mostrò assai critico nei confronti del federalismo di Rossi. Condivise con Spinelli, anch’egli riparato in Svizzera, l’idea di realizzare una sorta di ‘Zimmerwald federalista’, che si concretizzò in una serie di incontri ginevrini, svoltisi tra marzo e luglio 1944 nella casa del teologo olandese Willem Adolph Visser ’t Hooft. Parteciparono a queste riunioni una quindicina di persone tra antifascisti italiani, socialisti svizzeri e rappresentanti francesi di France libre. Il 20 maggio fu pubblicato un Progetto di dichiarazione delle Resistenze europee, ma le adesioni furono scarse. Nel luglio Rossi diede alle stampe, con lo pseudonimo di Storeno, Gli Stati Uniti d’Europa.

Era un modo di ragionare senza grandi sfumature di come gli Stati nazionali venivano separati dal circuito della cittadinanza e ridotti a base dei nazionalismi. Assai diversamente andò dopo il 1945, con la rinascita della democrazia a occidente, all’interno di Stati nazionali impegnati in uno sforzo di consolidamento attraverso la graduale integrazione di alcune importanti funzioni economiche.

Tornato in Italia nei giorni precedenti la Liberazione, Rossi fu nominato sottosegretario alla Ricostruzione dal presidente del Consiglio, Ferruccio Parri. Fu tra i rappresentanti azionisti alla Consulta. Il 29 ottobre fu nominato presidente dell’Azienda rilievo alienazione residuati (ARAR), incarico che gli fu confermato da Alcide De Gasperi.

Complessivamente, Rossi disegnò l’ARAR come un organismo istituzionale al servizio del libero mercato. Stabilì il principio della gara pubblica e la vendita per piccoli lotti per contrastare le pretese dei grandi gruppi organizzati, le derive corporative e gli assalti sindacali. Questa caratterizzazione proseguì quando l’ARAR partecipò alla gestione dei fondi Marshall. Fu la battaglia più riuscita di Rossi, nella quale poté mettere in opera le sue idee intorno a uno Stato che fosse in grado di resistere alle pressioni degli interessi organizzati da un lato, di dettare le regole della competizione economica dall’altro.

Il Piano Marshall favorì anche il rilancio delle idee europeiste di Rossi e Spinelli, ma in un senso diverso dal passato: tramontata la suggestione del ‘partito rivoluzionario’, le nuove speranze federaliste si appoggiarono sull’opera di governo di De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer. I due autori del Manifesto di Ventotene recuperarono rapidamente la direzione del MFE, anche se Rossi, pur partecipando al direttivo nazionale, non volle incarichi pubblici. La passione europeista di Rossi si spense nel 1954, quando il voto contrario del Parlamento francese alla Comunità europea di difesa (CED) mostrò ai suoi occhi che il processo di formazione statuale europeo attraverso la convocazione di un’assemblea costituente era rimandato a un lontano futuro.

La ritrosia di Rossi verso le cariche pubbliche emerse anche in occasione delle elezioni del 18 aprile 1948, allorquando, candidato per Unità socialista alla Camera nel collegio Brescia-Bergamo e al Senato nel collegio di Bitonto, invitò gli elettori a votare per il suo collega di lista, Gaetano Pieraccini. La sua ambizione politica era un’altra, quella di orientare l’opinione pubblica attraverso i suoi scritti. Nel 1945 aveva pubblicato Critica del sindacalismo e La riforma agraria, nel 1946 Abolire la miseria e nel 1948, per le Edizioni di Comunità, la Critica del capitalismo.

Da queste opere emerge che Rossi fu nel dopoguerra un fautore di robusti interventi statali, mirati a sanare gli squilibri del libero mercato: da un lato, si doveva arrestare la deriva monopolista del capitalismo, restaurando l’autonomia delle decisioni pubbliche; dall’altro, si doveva ‘abolire la miseria’, riformando i settori della scuola, della sanità, delle politiche alimentari e di quelle abitative. Questi studi hanno quale protagonista assoluto lo Stato come regolatore del mercato, mentre il vario mondo dei corpi sociali – i sindacati, le organizzazioni industriali, ma anche la Chiesa, con il suo insediamento sociale – era sospinto ai margini della narrazione, se non proprio delegittimato in quanto componente del processo democratico. Ogni declinazione in senso corporato o anche soltanto pluralista delle attività pubbliche e istituzionali richiamava lo spettro del corporativismo fascista, vale a dire, nella mentalità di Rossi, la subordinazione totale dello Stato ai grandi interessi privati.

L’altro filone della produzione libraria di Rossi nacque dall’impegno giornalistico. Nel dopoguerra, Rossi collaborò a molte testate: Il Ponte, L’Italia libera, Lo Stato moderno e Italia socialista; per brevi periodi, prestò la sua penna anche al Corriere della sera e a La Stampa. Soprattutto, collaborò a Il Mondo che Mario Pannunzio aveva fondato nel 1949. Condivise con il direttore, e i suoi principali collaboratori, un’ispirazione liberaldemocratica e un fiero spirito antifascista e anticomunista. L’insieme dei suoi articoli dette origine a una serie di raccolte, pubblicate dall’editore Laterza. Tra queste, Settimo: non rubare (1952), Lo Stato industriale (1953), Il malgoverno (1954).

Queste opere descrivono il quadro di un capitalismo inquinante, i cui principali gruppi industriali finanziavano giornali, campagne elettorali e partiti, mantenevano uomini di fiducia nei ministeri economici, avevano legami tra carabinieri, guardie di finanza e agenti delle imposte, ottenendo così licenze di importazione, concessioni esclusive, assegnazioni di materie prime sottocosto, accordi commerciali ritagliati sulle loro particolari esigenze in un gioco complessivo di privatizzazione dei profitti e nazionalizzazione delle perdite, come già si era visto sotto il regime fascista. Con la pubblicazione nel 1955 di I padroni del vapore, Rossi intese documentare proprio la continuità dell’inquinamento privatistico delle istituzioni pubbliche dal fascismo alla Repubblica, senza peraltro considerare che la ‘crisi dello Stato’ costituiva un fenomeno che era iniziato ben prima dell’avvento del fascismo e che naturalmente non riguardava esclusivamente l’Italia.

In quegli anni, Rossi partecipò all’organizzazione di convegni di grande importanza, come, tra gli altri, quello dedicato dall’Associazione degli amici del Mondo a La lotta contro i monopoli, tenutosi a Roma il 12 e il 13 marzo 1955.

In questa e in altre occasioni, la critica della deriva monopolistica del capitalismo italiano era sostenuta dal disegno di uno Stato guida, lo stesso che Rossi coltivava da tempo: uno Stato che, da un lato, doveva nazionalizzare alcuni settori fondamentali dell’economia (telefoni, elettricità e idrocarburi), dall’altro, doveva far funzionare i mercati, erigendo un sistema di regole a tutela dei consumatori e dei piccoli risparmiatori. Rossi era convinto che l’estensione della mano pubblica potesse affermare una logica diversa da quella dello Stato imprenditore fascista, fungendo da propulsore dello sviluppo economico e non più da grande socializzatore delle perdite dei privati. Lo stesso Rossi era però da tempo consapevole della forte compenetrazione tra partiti politici e amministrazione pubblica statale e parastatale che era venuta a crearsi in quegli anni. E difficilmente questa compenetrazione si sarebbe allentata nell’ulteriore processo di diramazione del capitalismo pubblico. Evidentemente, la guerra politica contro i monopoli valeva in quel passaggio storico più della guerra contro la deriva ‘partitocratica’ dello Stato.

Nel dicembre del 1955, Rossi contribuì alla rifondazione del Partito radicale. Iniziò allora un percorso di radicalizzazione lungo i binari dell’antifascismo e dell’anticlericalismo nella convinzione che il disegno del suo Stato nuovo, interventista e regolatore, dovesse essere accompagnato sul terreno politico dalla delegittimazione sia delle forze sociali che gli si opponevano, vale a dire gli interessi organizzati della grande industria, sia delle forze politiche che minacciavano di snaturarlo, vale a dire la Democrazia cristiana (DC). Non a caso, il rilancio della passione antifascista di metà decennio si incentrò sulla denuncia delle connivenze dei gruppi industriali, a partire dalla FIAT, con il regime di Mussolini (il già citato I padroni del vapore). Da allora, l’antifascismo tornò come componente essenziale del discorso di Rossi. Sempre nel 1955 pubblicò per Feltrinelli Una spia del regime, che documentava il tradimento di Carlo Del Re, risalente all’ottobre 1930. Nel 1957, Rossi curò ancora per Feltrinelli il volume No al fascismo. L’attacco alla DC, la forza che più minacciava di snaturare il disegno dello Stato nuovo di Rossi, prese la forma dell’anticlericalismo più intransigente. Dopo il convegno degli Amici del Mondo dedicato a Stato e Chiesa (1957), Rossi si accordò con l’editore fiorentino Parenti per una collana che fu aperta, significativamente, dalla riedizione del Sillabo di Pio IX, corredato da un suo scritto critico. L’anno successivo pubblicò il volume Il manganello e l’aspersorio. Le implicazioni di questa ricostruzione storica erano evidenti: la Chiesa, al pari dei ‘padroni del vapore’, costituiva una forza che aveva intessuto rapporti con il regime mussoliniano, riuscendo a mantenere intatti i propri privilegi anche dopo la nascita della Repubblica. All’inizio del 1959, Rossi fu uno dei protagonisti (assieme a Leopoldo Piccardi) del convegno degli Amici del Mondo che Laterza pubblicò l’anno successivo con un titolo molto eloquente: Verso il regime.

Intorno al 1960 la polemica di Rossi contro gli industriali, la Chiesa e la DC si estese agli Stati Uniti, anch’essi responsabili della deriva ‘clerico-fascista’ italiana. Guardando alle elezioni presidenziali, temette che una vittoria di John Fitzgerald Kennedy potesse costituire un’affermazione del cattolicesimo mondiale a discapito del mondo laico. Nel luglio 1961 si dimise dall’Associazione per la libertà della cultura, marcando la sua secca presa di distanza dalle posizioni democratiche occidentali. Con queste premesse, Rossi maturò una forte ostilità sia nei confronti della politica di centrosinistra, comunque basata sulla centralità democristiana, sia nei confronti della permanenza dell’Italia nel Patto atlantico, destinato a restare il vincolo internazionale anche della nuova formula politica. Per contrasto, alternativa di governo al partito cattolico e neutralità internazionale spinsero dunque Rossi a sinistra, portandolo alla rottura con il gruppo del Mondo. Il celebre ‘caso Piccardi’ – sollevato dalle colonne del Mondo in seguito alla notizia contenuta nel libro dello storico Renzo De Felice (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1961) circa la partecipazione fra il 1938 e il 1939 di Leopoldo Piccardi, difeso a più riprese da Rossi e Parri, a due convegni italo-tedeschi in cui si toccavano temi razziali – non fu altro che il detonatore di tensioni che agivano più in profondità. Mentre proseguiva le sue denunce contro il capitalismo inquinante, che trovarono espressione nel volume Borse e borsaioli (1961), Rossi dovette constatare innanzitutto che la delegittimazione delle forze avverse al disegno del suo nuovo Stato era servita a poco; quindi che parti qualificanti del suo disegno, come la nazionalizzazione dell’energia elettrica, stavano entrando a far parte a pieno titolo del capitalismo pubblico diretto dai partiti.

Iniziò allora l’ultima fase della vita pubblica di Rossi, tutta spesa in una direzione ostinatamente contraria al corso degli eventi. Nel settembre del 1962 partecipò alla fondazione del Movimento Gaetano Salvemini, che doveva sostituire nei suoi intendimenti gli Amici del Mondo. La battaglia più celebre di questo periodo fu quella contro la Federconsorzi di Paolo Bonomi, inizialmente mirata a ostacolare la formazione del governo di centrosinistra. Su L’Astrolabio, la rivista che fondò insieme a Parri nel 1963, Rossi denunciò la deriva trasformistica della politica italiana, puntando l’indice contro l’intreccio tra partiti, gruppi di pressione e funzionari pubblici, tutti impegnati nello sperpero del denaro pubblico. La riforma delle società per azioni, la legge urbanistica e la riorganizzazione della Federconsorzi furono questioni da Rossi studiate attentamente nello spirito di rilanciare l’idea di uno Stato superiore agli interessi privati e dunque capace di organizzare l’economia a tutela dei risparmiatori, come mostrato dal volume laterziano del 1964 I nostri quattrini. Nel 1966, l’anno in cui dette alle stampe il volume Pagine anticlericali per Samonà e Savelli, l’Accademia dei Lincei gli conferì il premio Francesco Saverio Nitti per gli studi di scienza delle finanze e di politica economica. Il 5 settembre però fu ricoverato d’urgenza per un’occlusione intestinale.

Dopo essersi ripreso per un breve periodo, morì a Roma il 9 febbraio 1967.

Riposa adesso al cimitero di Trespiano a Firenze, dove sono sepolti anche Salvemini e i fratelli Carlo e Sabatino (Nello) Rosselli.

Fonti e Bibl.: Le carte personali si trovano nel Fondo Ernesto Rossi, depositato dalla Fondazione Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini presso gli Archivi storici delle Comunità europee dell’Istituto universitario europeo a Firenze.

Una cospicua parte dei suoi carteggi è stata pubblicata nel corso del tempo: Elogio della galera. Lettere dal carcere 1930-1943, Bari 1968; Guerra e dopoguerra. Lettere (1915-1930), a cura di G. Armani, Firenze 1978; «Nove anni sono molti». Lettere dal carcere 1930-39, a cura di M. Franzinelli, Torino 2001; Dall’esilio alla Repubblica. Lettere 1944-1957 (con G. Salvemini), a cura di M. Franzinelli, Torino 2004; Epistolario 1943-1967. Dal Partito d’azione al centro-sinistra, a cura di M. Franzinelli, Roma-Bari 2007; «Empirico» e «Pantagruel». Per un’Europa diversa. Carteggio 1943-1945 (con A. Spinelli), a cura di P.S. Graglia, Milano 2015.

Tra i molti studi, si segnalano: G. Fiori, Una storia italiana. Vita di E. R., Torino 1997; G. Armani, La forza di non mollare. E. R. dalla grande guerra a Giustizia e Libertà, Milano 2004; A. Braga, Un federalista giacobino. E. R. pioniere degli Stati Uniti d’Europa, Bologna 2007; Ead., M. Franzinelli, E. R. Una vita per la libertà, 1897-1967. Bio-bibliografia, Novara 2007; S. Michelotti, E. R. contro il clericalismo. Una battaglia per la democrazia liberale, Soveria Mannelli 2007; E. R., ''un democratico europeo a cura di A. Braga - S. Michelotti, Soveria Mannelli 2009; M. Grasso, E. R. e il sud Italia nel primo dopoguerra, Bologna 2012; A. Braga - R. Vittori, Ada Rossi, Milano 2017.

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