Eserciti e flotte

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Maria Elisa Soldani

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Proseguendo una tendenza già avviata nel secolo precedente, le dimensioni degli eserciti e delle flotte europee continuano a crescere durante tutto il Seicento. È un incremento che si accompagna a rilevanti evoluzioni organizzative e tecniche e che ha conseguenze sociali, economiche e politiche di vasta portata.

Il “secolo di ferro”

L’immagine del Seicento come “secolo di ferro” deve molto all’impressione che nel Seicento i conflitti siano stati più frequenti, violenti, distruttivi (e costosi) che nei secoli precedenti e in quello seguente. Questa immagine marziale del Seicento poggia su fondamenti quantitativi abbastanza solidi, oltre che su evidenze aneddotiche impressionanti. Le principali potenze europee si trovano infatti in una condizione di quasi continua belligeranza, sottolineata dalla stessa onomastica dei conflitti: guerra dei Trent’anni, guerra degli Ottant’anni. Le uniche pause sono legate all’esplosione di guerre civili – la rivoluzione del 1642-46 per l’Inghilterra e la Fronda nel caso della Francia – che costringono momentaneamente gli Stati interessati a tralasciare le contese internazionali a favore di quelle interne. Ma talvolta conflitti interni ed esterni si sommano, come nel caso delle ribellioni del Portogallo e della Catalogna contro Madrid. Innescate dalla pressione fiscale e politica dovuta alla guerra dei Trent’anni, sono fra i fattori che accelerano la sconfitta finale degli Asburgo. L’aumento delle dimensioni degli eserciti è un indicatore forse ancor più significativo. All’epoca di Richelieu, la Francia dispone di circa 100 mila soldati, ai tempi di Luigi XIV può metterne in campo quattro volte tanti.

L’aumento delle dimensioni delle forze armate impegnate nei conflitti ha naturalmente conseguenze sociali profonde. Alle diverse decine di migliaia di combattenti bisogna aggiungere un numero almeno pari di civili che, a diverso titolo, li seguono: mercanti, servitori, prostitute, semplici saccheggiatori. Data la fragilità delle strutture logistiche, queste enormi masse devono vivere sul territorio. Per le popolazioni civili dei territori interessati dalle operazioni militari le conseguenze sono catastrofiche, sia che si tratti di eserciti amici, sia che si tratti di nemici. Raccolti distrutti, saccheggi, violenze di ogni genere e, soprattutto, epidemie, di cui gli eserciti e le torme di gente al loro seguito sono tra i più letali propagatori. Il Simplicius Simplicissimus di Grimmelshausen, con le sue descrizioni apocalittiche, testimonia, se non dell’impatto della guerra sulla realtà, quanto meno di quello sull’immaginario degli uomini e delle donne del Seicento.

Gli Stati e la guerra

L’aumento e le trasformazioni organizzative degli apparati militari, l’evoluzione tecnica degli armamenti e il rinnovamento delle concezioni tattiche e strategiche hanno un impatto profondo anche sugli equilibri politici e sociali complessivi, sia internazionali che interni ai singoli Stati. Molti storici hanno individuato proprio in quella che è stata definita “rivoluzione militare” del Cinque e Seicento il catalizzatore degli sviluppi istituzionali in direzione del cosiddetto Stato moderno e del sistema europeo degli Stati.

Sul versante interno, lo sforzo per mantenere eserciti e flotte più numerosi costringe infatti gli Stati a dotarsi di apparati amministrativi e di controllo adeguati per migliorare la loro capacità di conoscenza e di prelievo delle risorse, umane ed economiche, dei territori loro soggetti. D’altra parte il crescere degli eserciti e il loro carattere permanente e “nazionale” mette a disposizione delle autorità centrali un potente strumento di coercizione e di esercizio della sovranità. L’aumento dei costi rende del resto più difficile a soggetti politici interni potenzialmente concorrenti (nobili, città ecc.) competere con lo Stato sul terreno militare. D’altra parte è anche vero che l’ampliamento degli apparati militari fornisce d’altra parte all’aristocrazia, e in particolare ai suoi cadetti, un’importante opportunità d’impiego confacente alle sue tradizioni e costituisce una delle basi del compromesso fra monarchia e aristocrazia su cui si regge l’assolutismo.

Nell’arena internazionale i costi in continuo aumento per mantenere un apparato militare efficace hanno un effetto selettivo sul numero di Stati in grado di sopravvivere e conservare la propria autonomia in un contesto altamente competitivo. La prosperità commerciale e finanziaria e/o la capacità di mobilitare attraverso il ricorso alla coercizione le risorse di un vasto territorio sono le condizioni per ambire al ruolo di grande potenza. Le Province Unite sono certo il miglior esempio di quelle che lo storico Charles Tilly ha chiamato potenze “ad alta intensità di capitale”, la Francia di Luigi XIV quello di una potenza “ad alta intensità di coercizione”. Ma già nei decenni a cavallo fra Sei e Settecento si può intravedere come il futuro appartenga a chi, come l’Inghilterra in procinto di diventare Gran Bretagna, riesce meglio a combinare le due soluzioni.

Maurizio di Orange-Nassau e il modello olandese

All’inizio del secolo gli eserciti sono ancora quasi esclusivamente composti da volontari arruolati tramite capitani che hanno un mandato per reclutare uomini in una determinata zona. In alternativa interi eserciti mercenari possono essere forniti da veri e propri imprenditori. Gli aspiranti soldati provengono dagli strati sociali più poveri e da alcune aree (Scozia, Irlanda, Guascogna, Svizzera, Corsica, Albania) specializzate nell’esportazione di professionisti della guerra. Questo non significa però che tutti gli eserciti siano uguali. La propria solidità finanziaria consente agli Olandesi di pagare e rifornire con regolarità le truppe – pur sempre mercenarie – al loro servizio e di imporre loro un addestramento e una disciplina nuove.

Il contrasto con il comportamento dell’esercito spagnolo delle Fiandre, in fondo il primo esercito permanente, è evidente. I tercios costituiscono certamente una forza di notevole efficacia militare e i loro comandanti – Alba, Alessandro Farnese, Giorgio Spinola – sono fra i migliori condottieri dell’epoca. L’incertezza e i continui ritardi nei pagamenti fanno sì tuttavia che le truppe sfuggano spesso al controllo dei loro comandanti. Scioperi, ammutinamenti e rivolte sono frequenti e hanno conseguenze militari e politiche gravissime, come nel caso del terribile sacco di Anversa del 1576.

Le riforme che fanno dell’esercito delle Province Unite un modello per l’Europa e che sono legate al nome di Maurizio di Orange-Nassau, statholder dal 1585 al 1625, riguardano anche aspetti tecnici e tattici. La picca non viene abbandonata, ma il ruolo delle armi da fuoco aumenta. Queste ultime vengono anche uniformate nelle dimensioni e nel calibro, sia delle armi individuali che dell’artiglieria. Si ha quindi il passaggio da formazioni quadrate, profonde e massicce, quali quelle dei tercios spagnoli, ad altre più agili e sottili disposte in linea, in grado di sviluppare una maggiore potenza di fuoco.

L’impiego efficace di queste formazioni richiede anche un miglioramento nella capacità di comando, coordinamento e movimento delle truppe sul campo. Oltre che un miglioramento nell’addestramento individuale e collettivo della truppa, è quindi necessario perfezionare anche le competenze del corpo ufficiali. A questo fine cominciano ad essere istituite delle vere e proprie accademie militari con finalità tecniche e non genericamente destinate all’educazione dei giovani nobili. La prima può essere considerata quella di Siegen, fondata nel 1616 da Giovanni di Nassau, cugino di Maurizio.

Gustavo Adolfo e il modello svedese

La breve ma folgorante carriera militare di Gustavo II Adolfo Vasa apre quella che in Svezia è stata definita “l’età della grandezza” e impone un nuovo modello di organizzazione militare. Per la verità le innovazioni svedesi sul piano tattico e tecnico si collocano nel solco di quelle sperimentate in Olanda, con cui la Svezia aveva non a caso stretti legami politici e militari.

Grazie a un miglioramento dei moschetti e dell’addestramento dei moschettieri con conseguente aumento della rapidità di fuoco, le fila dei moschettieri possono essere ridotte da dieci a sei, rendendo così le unità meno profonde e più agili. Inoltre, grazie anche all’ampia disponibilità da parte della Svezia di ferro e rame e all’apporto di capitali e competenze delle Fiamminghe tramite uomini come l’imprenditore Louis de Geer, l’artiglieria viene notevolmente sviluppata con pezzi più leggeri – e quindi più mobili – ma con una cadenza di fuoco superiore e calibri standardizzati. Inoltre il sovrano svedese rinnova l’uso della cavalleria, riportandone in auge la funzione di arma d’urto e di sfruttamento del successo, con cariche in cui la sciabola sostituisce la lancia.

I mutamenti più significativi introdotti dagli Svedesi riguardano comunque l’aspetto istituzionale. La Svezia infatti introduce un sistema di coscrizione obbligatoria grazie al quale ogni comunità deve fornire un soldato ogni dieci o venti uomini, e più tardi ogni cinque. L’esercito svedese è quindi, almeno in parte, un esercito nazionale, composto da contadini-sudditi-soldati che combattono non solo in cambio del soldo ma anche spinti da motivazioni patriottiche e lealismo nei confronti del re. In realtà degli oltre 180 mila combattenti al servizio della Svezia al tempo di Gustavo Adolfo, solo un quarto sono effettivamente svedesi, gli altri continuano ad essere mercenari delle più disparate provenienze. Tuttavia la novità importante è proprio l’affidabilità e l’efficienza delle truppe nazionali svedesi, che talvolta salvano la giornata, come ad esempio a Breitenfeld nel 1631.

La solidità dell’impianto dato da Gustavo Adolfo all’apparato militare svedese è dimostrato dal fatto che esso sopravvive alla morte prematura del sovrano a Lützen, nel 1632. Le armi svedesi continuano a costituire la componente più importante dello schieramento protestante in Germania e dal conflitto la Svezia esce come potenza egemone dell’area baltica.

Oliver Cromwell e il New Model Army

A tenere alto il morale e la combattività dei soldati svedesi non sono però solo il patriottismo e la fedeltà dinastica. La dimensione religiosa, in questo caso luterana, ha un ruolo importante. Questa dimensione, unitamente a quella politica e ideologica, ha una parte ancora più rilevante nel caso dell’esercito parlamentare inglese, che esce vincitore dalla guerra civile degli anni Quaranta: il New Model Army. Questo nuovo tipo di forza armata, creato da Oliver Cromwell e Thomas Fairfax nel 1645, dopo i primi insuccessi delle forze parlamentari, militarmente meno preparate dei loro avversari realisti, costituisce un caso particolare.

Il New Model Army non introduce novità tattiche o tecniche importanti, non è il primo esercito nazionale – anche perché è l’espressione di una fazione – e non è il primo esercito permanente. Non è neppure il primo esercito con una motivazione religiosa, dato che in questo caso i precedenti non mancherebbero anche in epoca medioevale. È però il primo esercito volontario politico-ideologico, la cui ragion d’essere e la cui coesione derivano da un’ideologia e da un programma politico. È anche il primo esercito, nella storia dell’Europa dopo la caduta dell’Impero romano, che di fatto si presenta come soggetto politico autonomo, come portatore di istanze sociali, ideali o corporative che siano, indipendenti. Il New Model Army ha certo un’identità – o meglio una somma di identità – politiche, religiose e sociali. È un esercito di orientamento prevalentemente repubblicano, indipendente e di estrazione borghese in senso lato. Ma non può essere considerato semplicemente uno strumento o l’espressione di questi orientamenti. A un certo punto l’esercito si impone come attore autonomo e principale sostegno al potere di Oliver Cromwell che in qualche modo può essere considerato il primo dittatore militare in senso moderno. Nel 1648 è proprio l’esercito a epurare, e in sostanza a ridurre all’impotenza politica, quel parlamento di cui l’esercito stesso avrebbe dovuto essere il semplice strumento militare.

Luigi XIV e la preponderanza francese

Gli apparati militari della prima metà del Seicento, per quanto riformati, possono essere considerati dei modelli di transizione tra l’epoca degli eserciti mercenari, che dominano negli ultimi secoli del Medioevo e nel Cinquecento, e quella degli eserciti permanenti nazionali, che costituiscono a tutt’oggi il modello prevalente di organizzazione militare. In questa fase non solo le forze armate sono composte per la quasi totalità da sudditi o cittadini sottoposti a varie forme di coscrizione o di arruolamento volontario, ma lo Stato si assume anche direttamente i compiti organizzativi e logistici, sviluppando apposite strutture amministrative e facendo tentativi per uniformarne l’equipaggiamento.

Una tappa decisiva in questa direzione è costituita dalle riforme amministrative attuate nella seconda metà del secolo dalla Francia di Luigi XIV di Borbone per iniziativa del marchese di Louvois, che migliora i servizi logistici, e del marchese di Vauban, cui si devono i progressi nell’architettura militare, che cinge i confini del Paese con una catena di fortezze considerate imprendibili. L’esercito di Luigi XIV, il più grande mai visto in Europa, è strettamente sottoposto al controllo degli intendenti e in generale alla burocrazia regia, lasciando alla competenza dei militari solo gli aspetti strettamente tecnici, tattici e strategici. Gli eserciti francesi, guidati sul campo da uomini come il generale di Turenne, costituiscono il modello a cui si ispira l’Europa nella seconda metà del secolo e nella prima parte del successivo.

Anche sul piano strettamente tecnico, la seconda parte del secolo vede cambiamenti fondamentali: l’introduzione della baionetta, soprattutto di quella detta “a ghiera” che consente il contemporaneo uso del moschetto come arma da fuoco, è forse il più importante. Quest’innovazione determina la definitiva sparizione sui campi di battaglia europei della picca e del dualismo picchieri/moschettieri, con i conseguenti problemi di dosaggio e di coordinazione. La baionetta offre alla fanteria anche la possibilità di meglio resistere alla cavalleria. La normale fanteria viene inoltre affiancata da uno speciale corpo, i granatieri, il cui compito originario consiste nel lancio di granate a mano, ma che successivamente diventa quello di soldati scelti distribuiti fra i vari reparti. Il carattere permanente degli eserciti e le loro nuove tecniche d’impiego producono altre due importanti novità: la caserma e l’enfasi posta sull’addestramento e la disciplina.

La guerra sul mare 

Durante il Seicento il potere navale costituisce una componente sempre più importante dell’equilibrio politico-militare, dato che dal controllo delle vie di comunicazione marittime, continentali e intercontinentali dipendono le sorti economiche e finanziarie delle parti in lotta. I conflitti fra le potenze asburgiche e la Francia o le potenze protestanti emergenti sono veri e propri conflitti mondiali e le flotte non sono solo lo strumento dell’assoggettamento di vaste porzioni del globo all’Europa, ma anche della proiezione su scala mondiale dei conflitti europei. I mutamenti intervenuti nella guerra navale sono in qualche modo paralleli a quelli terrestri. Anche sul mare il Seicento decreta il trionfo definitivo del cannone sulle tecniche di speronamento e abbordaggio. La domanda di cannoni navali, in media uno ogni dieci tonnellate di stazza per le navi da guerra, costituisce uno degli stimoli più importanti per l’industria siderurgica. Gli Olandesi in particolare contribuiscono in maniera decisiva all’incremento della produzione svedese di rame, materia prima fondamentale per la fabbricazione dei cannoni di bronzo che risultano ancora nettamente migliori di quelli di ferro, malgrado i progressi realizzati nella fabbricazione di questi ultimi.

L’affermazione del cannone impone anche notevoli cambiamenti tattici. La formazione frontale è sostituita da quella in linea per sfruttare al massimo i pezzi sparanti dai portelli disposti lungo le fiancate con il fuoco detto “di bordata”. La galera mediterranea, a un solo ponte e con i remi disposti lungo le fiancate, non è quindi evidentemente in grado di competere con i vascelli. Analogamente a quanto sta avvenendo sui campi di battaglia terrestri, le nuove tattiche richiedono una maggiore capacità di manovra e coordinazione, e i grandi vascelli di linea del Seicento rappresentano da questo punto di vista un deciso progresso rispetto alle grandi navi del Cinquecento.

L’imposizione di una ferrea disciplina a bordo delle navi è un compito particolarmente difficile, date le particolari tensioni a cui sono sottoposti uomini costretti a vivere per lungo tempo in spazi ristretti e in condizioni disagiate. Il successo ottenuto in questo campo dalle potenze atlantiche e in particolare dagli Inglesi sulle loro navi da guerra è certamente una delle ragioni del loro successo sulle marinerie iberiche, affidate a ciurme eterogenee e spesso impreparate. Un altro punto di contatto fra evoluzione militare terrestre e navale è il carattere sempre più statale e “nazionale” delle flotte. Mentre ancora alla fine del Cinquecento era frequente da parte dello Stato l’uso di requisire o affittare navi civili (si pensi che solo 25 su 130 navi dell’Invencible Armada appartenevano alla corona), ora le flotte sono armate direttamente dallo Stato e gestite su base permanente da appositi organismi amministrativi.

Corsari e pirati

Più ancora che quella terrestre, la guerra sul mare, per le risorse economiche, tecniche e umane che richiede, è tuttavia una guerra asimmetrica. Improvvisarsi grande potenza navale è ancora più difficile che mettere insieme un grande esercito terrestre. Per questa ragione, gli Stati che si trovano in una condizione di relativa debolezza sul mare e che non possono quindi sfidare apertamente un avversario più forte, debbono scegliere la via della guerriglia, che sul mare si chiama guerra di corsa, per danneggiare il commercio e le vie di comunicazione del nemico. Nel Cinquecento erano stati Inglesi e Olandesi a optare per questa strategia, di fronte a un potere navale spagnolo e portoghese ancora saldo.

Nel Seicento, prima contro la Spagna e poi contro l’Olanda, è la Francia, sempre incerta sulla sua vocazione marittima nonostante le iniziative di Richelieu e in seguito Colbert, a dedicarsi con successo a questo tipo di guerra navale. Soprattutto dopo le battaglie di Barfleur e La Hogue, nel 1692, per contrastare il predominio anglo-olandese sul mare, la Francia si affida soprattutto all’abilità e al coraggio dei suoi corsari di Saint-Malo, come René Duguay-Trouin, o di Dunquerque, come Jean Bart. Tra il 1695 e il 1714 i corsari francesi catturano circa settemila navi inglesi.

Nel Mediterraneo invece scorazzano gli sciabecchi dei barbareschi – che sono qualcosa di più di semplici pirati, dato che hanno alle spalle le proprie città-stato, come Algeri, sotto la remota copertura diplomatica turca, e qualcosa di meno di corsari “patentati”, dato che la loro logica è più predatoria che bellica. Grazie all’arruolamento, tramite conversione, di nuovi adepti nordici, inglesi e olandesi, i barbareschi estendono la loro sfera d’azione nell’Atlantico, arrivando fino all’Islanda. Si limitano invece al Mediterraneo i “pirati” cristiani dell’ordine di Santo Stefano o i Cavalieri di Malta. Il mar delle Antille è invece sotto la costante minaccia dei bucanieri. I pirati caraibici non si limitano ad aggredire le navi: nel 1671, Henry Morgan, forse il più celebre tra loro, riesce addirittura a conquistare la città spagnola di Panama.

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