Espressionismo

Enciclopedia del Novecento (1977)

Espressionismo

JJolanda Nigro Covre
Gianfranco Contini
Ugo Duse

di Jolanda Nigro Covre, Gianfranco Contini, Ugo Duse

ESPRESSIONISMO

Espressionismo artistico

di Jolanda Nigro Cove

sommario: 1. Uso del termine, presupposti culturali e ideologici, dati caratterizzanti. 2. Le premesse teoriche, letterarie, figurative. 3 centri dell'espressionismo pittorico. 4. La sintesi delle arti. Architettura e spettacolo. □ Bibliografia.

1. Uso del termine, presupposti culturali e ideologici, dati caratterizzanti

Nell'uso attuale del termine espressionismo riferito alle arti si danno due accezioni diverse: da un lato si indica una tendenza ricorrente, una sorta di categoria, individuabile in senso sovrastorico, dell'atteggiamento psicologico che si manifesta, nel fare artistico, in un sistema di esasperazioni formali; dall'altro si indica un complesso momento, storicamente determinabile, dell'avanguardia artistica di questo secolo, al quale il termine è stato applicato, prima dalla critica e poi dagli artisti, per indicarne il comun denominatore e il fattore più caratterizzante. In questo momento prevale l'atteggiamento espressionista categorialmente inteso; ma il fenomeno storico non è riducibile all'atteggiamento, come d'altra parte l'atteggiamento, nel suo manifestarsi storico, si combina con una serie eterogenea di fattori e si riduce in una determinazione particolare. Nel taglio del materiale da analizzare è legittimo tener presente l'una o l'altra accezione del termine, operando una restrizione, necessaria per ogni tipo di analisi, che corrisponde a una scelta sul metodo e le finalità del lavoro. Optando per la seconda, ci proponiamo di indicare il significato di un certo modo d'intendere la produzione artistica e l'atteggiamento estetico in un determinato momento storico, le sue molteplici manifestazioni e le sue implicazioni ideologiche, le condizioni da cui esso nasce e la posizione che occupa nella coscienza contemporanea. Questa precisazione è necessaria perché, tra tutti i termini designati a indicare movimenti d'avanguardia, l'espressionismo, per la complessità dei fatti che lo compongono (e non per una loro presunta, illusoria elementarità), è quello che presenta maggiori difficoltà di definizione e quindi, al tempo stesso, più si presta a risolversi in una categoria sovrastorica; categoria che può esercitare un particolare fascino anche per certe sue istanze irrazionalistiche. Scegliendo di porsi in un'ottica rigorosamente storica, si deve analizzare e scomporre anche questo fascino.

Per espressionismo s'intende dunque una manifestazione delle arti situabile tra l'esaurirsi, o meglio il trasformarsi, di un filone simbolista e le nuove tendenze ‛oggettive' e ‛razionali', che però sotto molti aspetti in esso rientrano, ossia tra il 1905 circa e il corso degli anni venti. Il termine è nato nell'ambito della pittura, ma il fenomeno investe anche la scultura (più limitatamente), la musica, la letteratura, il teatro e il cinema, e infine l'architettura e l'industrial design, dove però è controverso se esso abbia agito direttamente o a livello di istanza, o in negativo. Per un complesso di ragioni economiche e sociopolitiche, nonché per un particolare substrato culturale e in specie filosofico, il suo centro è la Germania, da cui passa abbastanza direttamente in Austria e per vie più lente e complesse in altri paesi. Un discorso a parte va fatto per i fauves, che si possono considerare una particolare, e diversa, manifestazione dell'espressionismo in Francia, e con i quali si sono talvolta identificati gli stessi pittori espressionisti tedeschi.

Il termine indica la volontà programmatica di estrinsecare nell'opera una realtà interiore, una condizione composta di sentimenti, concezioni del mondo, reazioni all'ambiente esterno, direttamente e immediatamente attraverso l'immagine, senza il tramite di un simbolo codificato; questa condizione si riassume nella intraducibile Stimmung, letteralmente ‛intonazione di un accordo', che comprende lo stato d'animo e l'atmosfera dell'ambiente. Si accentuano, in tal modo, l'istanza comunicativa e il valore gestuale dell'attività artistica, a discapito dell'interesse per una forma totalizzante e appagante; la forma si riduce invece alla funzione di segno, nel contesto di un linguaggio che rivendica a sè, e a sé soltanto, la possibilità di esprimere globalmente e senza ‛maschere' la realtà dell'esistenza, ormai scissa irrevocabilmente dalla verità fenomenica: sono proprio gli espressionisti che aprono la strada a un'estetica non più fondata sul concetto di forma e di rappresentazione, ma su quello di ‛segno': l'estetica ‛semantica', appunto. Nè, se questa tesi è giusta, v'è altro da aggiungere per spiegare l'influenza persistente, crescente, sempre più premente, che l'espressionismo ha esercitato ed esercita sull'arte moderna nel mondo; e la necessità di un ponderato riesame critico che chiarisca l'importanza, non soltanto di componente romantica, ch'esso ha avuto nella storia dell'arte" (G. C. Argan, L'estetica dell'espressionismo, in ‟Marcatrè", 1964, n. 8-9-10, p. 24).

La definizione dell'espressionismo in tale significato, che, nel sottolineare il moto dall'interno all'esterno dell'atto creativo, polemicamente lo oppone all'impressionismo (ma questo se ne rivelerà, a un esame più attento, presupposto diretto), non appare in un vero e proprio programma, ma è desumibile da una serie d'interventi di critici e di artisti. È usata, forse per la prima volta, nel 1910, riferita a un quadro di Pechstein da Cassirer, durante una discussione della giuria del gruppo Secessione di Berlino; da Worringer nella sua difesa delle tendenze moderne, soprattutto francesi (contro la nazionalistica Protest deutscher Künstler), pubblicata poi anche in ‟Der Sturm" nell'agosto 1911; con maggiore consapevolezza da P. Fechter nel 1914, riferita agli artisti della Brücke, del Blaue Reiter e a Kokoschka, e da Bahr nel 1916; da K. Edschmid in alcuni scritti tra il 1917 e il 1919, riferita alla letteratura; quindi il termine diviene di uso comune, e in seguito sarà riferito sempre più alla tendenza che più nettamente si rivela nei pittori della Brùcke. Dal 1914 in poi per espressionisti s'intendono specialmente gli artisti operanti in Germania, ma il termine è spesso ancora esteso ai fauves, ai cubisti e ai futuristi. In alcune affermazioni, per esempio dello stesso Edschmid e di Behne (Deutsche Expressionisten, in ‟Sturm", 1914, n. 17-18), appare prevalente la tendenza a concepire l'espressionismo come categoria sovrastorica, che eternamente ‛ritorna' nell'evoluzione dell'umanità.

Come è stato notato (v. Gordon, 1966), sono gli artisti francesi, e in particolare Matisse sulla scia di Moreau, i primi a formulare nei loro scritti una teoria dell'arte come espressione; e il termine espressionismo in Germania è inizialmente riferito proprio ai fauves: così, per esempio, alla XXII mostra del gruppo Secessione di Berlino, nel 1911. Ma non è un caso che il termine stesso venga coniato e usato dai critici tedeschi e non dai francesi. L'arte come espressione è intesa in modo profondamente diverso da un Matisse o da storici come Fechter; il riferirnento dell'espressionismo compiuto da quest'ultimo, a posteriori, all'avanguardia tedesca, in base ad argomentazioni irrazionalistiche per noi inaccettabili, indica comunque che esiste un fenomeno storicamente determinato riassumibile in tale termine, anche se gli artisti in questione non si sono autodefiniti espressionisti nè costituiscono un gruppo unitario.

Questa esigenza di comunicazione, di approdo immediato alla sfera esistenziale, di recupero del valore della creatività soggettiva, avviene in un momento particolarmente denso di trasformazioni nella storia della Germania. Siamo in una nazione relativamente giovane, in cui il processo di industrializzazione, ancora abbastanza arretrato all'inizio dell'ultimo quarto dell'Ottocento, ha subito negli ultimi anni una rapida accelerazione, per entrare direttamente nella competizione del mercato mondiale. La fase bismarckiana si è conclusa (1890); la speranza di un rapporto dialettico tra un capitalismo in piena espansione e un socialismo che preme alle porte, aperta subito dopo da qualche provvedimento, è delusa ben presto e sostituita dall'ordine stabile e dalle mire assolutistiche e imperialistiche di Guglielmo Il. Nella vita quotidiana appaiono preponderanti i valori del progresso scientifico e del rafforzamento del potere, presupposti della sicurezza di un assetto borghese che tanto più difende il proprio privilegio quanto meno direttamente è attaccato. È il momento di formazione e di espansione dei grandi consorzi produttivi e delle grandi ditte, il momento dei Krupp, della Siemens, delle miniere della Ruhr. In questa situazione l'artista-pittore prende coscienza, più chiaramente di quanto non fosse mai avvenuto prima, della propria non solo ideale ma reale, strutturale emarginazione. Sia nel ruolo di facitore d'immagini di evasiva purezza, sia in quello di sopravvissuto operatore di tecniche artigianali, egli avverte la propria impotenza nella ricerca di un committente non interessato all'utilità dell'investimento o di un destinatario ancora capace di accogliere, nel frastuono della città, il suo specifico linguaggio; e nello stesso tempo avverte, insopprimibile, il freudiano ‛disagio' dell'attuale forma di civiltà, anzi di ‛civilizzazione', il pericolo e l'imminente catastrofe, e per contro l'impulso vitale a opporvi disperatamente un valore alternativo. Il quale oscillerà sempre tra la pura, negativa protesta e un'ipotesi di ricostruzione più volte frustrata, fino ad approdare (ed è questa la fine, o meglio la risoluzione dell'espressionismo) al riconoscimento dell'inutilità della ribellione attuata in termini puramente astratti e della necessità, da parte dell'artista, di un intervento diretto nella lotta politica.

Non sono, questi, problemi del tutto nuovi. Il ‛disagio' era stato rilevato esattamente, anche se utopisticamente irrisolto, da Ruskin e Morris; e il problema di opporre al meccanicismo della produzione industriale l'alternativa della creatività e della libertà è un problema di tutta l'arte contemporanea, dall'impressionismo e postimpressionismo alle avanguardie storiche e fino ai nostri giorni. Ma nell'attaccamento alla propria tradizione nazionale, favorito da un isolamento culturale riscontrabile a tutti i livelli nella seconda metà dell'Ottocento, gli artisti tedeschi ora trovano motivo per aggravare dolorosamente quello che Gropius chiamerà ‟l'abisso tra il reale e l'ideale" piuttosto che per risolvere un problema già contraddittoriamente impostato. Nei primi anni del Novecento, pesantissima è ancora l'eredità romantica nella sua componente idealistica, e a questa non è sfuggito neppure il positivismo tedesco che non ha mai assunto un ruolo di rottura, ma è stato neutralizzato da una nuova corrente irrazionalistica con cui esso stesso si confondeva. L'impressionismo come radicale mutamento nella concezione della pittura non era mai entrato in Germania, e con esso veniva ignorato, almeno a livello di tecnica, qualunque modo d'intendere l'arte nella sua funzione conoscitiva e di controllo con mezzi specifici della realtà fenomenica. Il simbolismo in Germania non evocava tanto un contenuto onirico quanto gli antichi miti e un astratto ideale che sconfinava, assai più che negli altri paesi, nel recupero di un classicismo vuoto e lontano. Lo Jugendstil, più che interpretare le nuove istanze del modernismo, si era posto, nelle sue forme più appariscenti, come posizione evocativa ed evasivamente liberatoria.

L'improvvisa apertura che l'espressionismo indubbiamente segna nei confronti della cultura europea, assume il carattere, da un lato di una violenta reazione contro tutte le condizioni che l'avevano ostacolata, dalla tradizione accademica agli interessi di una logica borghese e industrialistica, dall'altro di una strenua difesa delle proprie radici considerate autentiche, di un recupero sovrastorico dei valori del proprio passato, con i quali il legame è direi quasi viscerale e impossibile a sciogliersi. Consideriamo gli idoli del momento, i nomi ricorrenti negli articoli dei critici e nelle lettere degli artisti: da un'interpretazione parziale di Nietzsche si risale a Schopenhauer e, più lontano, alla genuinità del cristianesimo primitivo o della religione autoctona precristiana; si risale da Wagner a Goethe, fino a Dürer, Grünewald e i ‛primitivi' tedeschi.

Il primo momento della reazione (non in senso strettamente cronologico, anche se pure di questo si tratta, ma soprattutto in senso dialettico) segna un'esasperazione della soggettività contro la minaccia di una massificazione, dell'individuale contro il sociale. Quindi, il passo è breve verso il recupero di un senso di coralità in cui l'individuo non solo conserva il proprio valore, ma lo intensifica nel creare, con i suoi simili, quella sorta di superiore individualità che è la comunità e che non necessariamente coincide con la collettività sociale. Resterà sempre, negli espressionisti e fin nei maturi anni del Bauhaus, un irriducibile contrasto tra ciò che Tönnies aveva definito Gemeinschaft e Gesellschaft.

Contro la materia impersonata dalla macchina, dal denaro, dal benessere, si rivendica lo Spirito (e anche in questo c'è l'eredità diretta della tradizione simbolista), o più precisamente il Geist, che è spirito e intelletto insieme, e si esprime attraverso l'istinto, romanticamente rivendicato contro la ragione. Esso non va confuso con una religiosità di tipo confessionale: viene esaltato anche contestualmente all'agnosticismo o all'indifferenza religiosa; è una sorta di anima, una Seele, un principio vitale, e difatti la parola sarà nuovamente assunta e chiarita in questo senso con il rafforzarsi di tendenze neovitalistiche negli anni successivi alla prima guerra. Comunque gli espressionisti sono in genere profondamente religiosi, quasi tutti tendenti a una forma mista di panteismo e misticismo, in cui identificano, sempre sulla scia della corrente romantica (Schopenhauer), cristianesimo e buddhismo, accanto a una ripresa della tradizione esoterica. The key of theosophy di E. P. Blavatskij (1889) è tradotto in tedesco nel 1907: il libro è citato con interesse, anche se con qualche riserva, da Kandinskij in Lo spirituale nell'arte (1912; ma la stesura è precedente di qualche anno); R. Steiner, l'architetto del Goetheanum di Dornach, fonda nel 1913 la Società Antroposofica per la quale è costruito il villaggio accanto al teatro, centro di cultura intesa come pratica religiosa, e nell'ambito della quale si forma un gruppo di architetti; M. Berg, l'autore del Palazzo del centenario di Breslavia, abbandona la professione per entrare in una setta mistica cristiana. E gli esempi potrebbero continuare.

Ma, al di là dell'interesse che può suscitare l'adesione di alcuni artisti a determinate dottrine, è importante tener presente il diffuso senso ‛cosmico' che emerge da tutte le testimonianze dell'espressionismo. Il senso di disagio e di emarginazione spinge l'artista a ricreare il proprio rapporto con la natura in base a funzioni irrazionali e mistiche, perché sul terreno della nemica ‛raglone' sarebbe sconfitto in partenza. In un primo momento egli oppone il suo io a una natura intesa come materia passiva, cui solo l'atto conoscitivo del soggetto può dare anima e vita. Quindi egli aspira a ricostituire una ‛unità' perduta, a perdersi nel ‛tutto', in un cosmo in cui gli esseri e le cose, il principio divino e la materia stessa si fondono nell'unico principio vitale che è il Geist; e oscilla tra un desiderio di autodistruzione, in quanto individuo staccato dal ‛tutto' originario, e un desiderio di autoaffermazione, perché il Geist si afferma attraverso un atto di volontà che è pur sempre un atto umano di rivalità con la natura. Il tema dell'unione cosmica è costante negli scritti di Fr. Marc, ma si trova anche in Klee, A. Macke e molti altri. In una lettera del 1 dicembre 1917 a E. Grisebach, E. L. Kirchner scrive: ‟Capisco ciò che Lei intende quando dice che il filosofo e l'artista creano il loro mondo. Questo mondo in realtà non è che un mezzo d'intesa per entrare in relazione con gli altri uomini nel grande segreto dell'universo". E Kandinskij in Sguardo al passato: Ogni opera d'arte ha origine nello stesso modo in cui ebbe origine il cosmo: attraverso catastrofi che dal caotico fragore degli strumenti formano infine una sinfonia la quale ha nome armonia delle sfere". Nel passaggio da un'opposizione tra l'io e il mondo alla ricerca di una nuova armonia tra gli esseri e le cose bisogna tener presente anche la funzione della mai interrotta tradizione del classicismo di Goethe, al quale gli scritti di artisti e critici fanno continuamente riferimento. Continua così una particolare dialettica di classico e anticlassico che trae le sue origini dallo Sturm und Drang; e l'espressionismo non si risolve semplicemente in un atteggiamento anticlassico, ma in una nostalgia per un' armonia che si vuol recuperare.

In questo ‛ritorno' all'unità originaria si ricercano le radici dell'esistenza umana anche in senso storico, come ripensamento della propria tradizione. Di qui il primitivismo, che gli espressionisti ereditano pure dal romanticismo e dall'area simbolista, ma che assume ora un tono particolare; è qualcosa di antico, di lungamente represso, che esplode, dal profondo dell'inconscio, nello Urschrei, il grido primordiale. Va precisato che il concetto d'inconscio, per gli espressionisti, è influenzato anche da Freud e più tardi da Jung, ma resta estraneo al senso in cui viene definito dalla nuova scienza della psicanalisi: morbosamente legato a qualcosa di viscerale e trascendentale nello stesso tempo, esso viene a coincidere con un'idea integralista dell'umano, carica di componenti sovrastrutturali; e per questo resta ancora al di là della nuda freddezza e laicità con cui il termine si trasforma per i surrealisti, anche se molti sono poi in concreto i passaggi tra i due movimenti, mediati dal dadaismo.

Si tratti della scultura negra o dell'arte dei popoli dei Mari del Sud, degli ex voto popolari, delle stilizzazioni della scultura etrusca (E. Heckel), egizia (O. Müller), o del verticalismo gotico, il primitivo viene sempre assunto non soltanto e non tanto come principio formativo, ma piuttosto come evocazione di una autenticità primordiale, inconoscibile ma manifestabile nel puro atto: non è un caso che le componenti primitivistiche appaiano più evidenti nelle incisioni e in particolare nella tecnica della xilografia, ripresa dalla tradizione popolare e dagli incisori tedeschi del Quattrocento, in cui la forma fa tutt'uno col gesto che scava il legno e che è determinato da una connessione quasi strutturale tra la soggettività dell'impulso e le caratteristiche quasi organiche e viventi (le venature) della materia.

Considerata la situazione storica da cui si sviluppa, è logico che al centro della poetica dell'espressionismo sia la tendenza a porre, e talvolta, nello stesso tempo, a eludere, il problema sociale e quello di una filosofia della scienza. Nasce una difesa del ‛povero', esplicita, per esempio, in Heckel e in A. Loos, in cui si mescolano la tradizione del cristianesimo primitivo e quella del socialismo utopistico (come in genere in tutte le avanguardie storiche, è pressoché ignorato il nome di Marx); e a questa spesso si accompagna una difesa dell'individuo in cui intervengono spunti anarchici talvolta direttamente testimoniati, e del resto già presenti nell'area simbolista francese e nell'esempio wagneriano. Molti artisti, per esempio Marc e quasi tutti i membri dello Arbeitsrat für Kunst, si autodefiniscono socialisti, ma di un socialismo ‛particolare', perpetuando così quell'atteggiamento impolitico che era stato caratteristico di gran parte del romanticismo, non solo tedesco. In Lo spirituale nell'arte Kandinskij, nel triangolo che simboleggia l'avanzata dello Spirito, pone al livello più basso i ‟materialisti", che sono ‟atei" anche se professano una religione confessionale, sono in politica ‟repubblicani", in economia ‟socialisti" e odiano l'anarchia anche se non la conoscono; e a un livello di poco superiore ci sono quelli che, tra gli altri, citano Marx. Mentre si sostiene l'autonomia e la libertà dell'atto estetico, si rifiuta il principio dell'art pour l'art, per finalizzare la forma all'affermazione di una vittoria spirituale e propagandare l'intervento diretto dell'arte nella vita; in teoria, nella vita del popolo, ma spesso si propugna la necessità di una élite culturale. A parte alcuni episodi circoscritti e anch'essi contraddittori (la rivista ‟Aktion"), l'atteggiamento degli espressionisti è nettamente antiattivistico, e in questo si distacca dalla componente nietzscheana. In realtà la protesta sociale avviene nella forma di un'astratta negazione ed è anch'essa concepita come puro atto non contaminato dalla realtà; nella ricerca di un ruolo specifico d'intervento, mai definito e realizzato, consiste il dramma, dai toni della speranza a quelli della disperazione, degli espressionisti.

Comune a tutti è l'atteggiamento antiborghese, altra costante almeno dal romanticismo in poi, e la polemica antipositivistica. L'utilitarismo, la ricerca del benessere e la fede nel mero progresso scientifico vengono accomunati nel concetto di materialismo, al quale si reagisce ora accentuando la fede nell'‛evoluzione' in una fase spiritualistica, dove il divenire si contrappone, ancora romanticamente, all'essere come lo spirito alla materia, ora ricorrendo al regresso in una fase preborghese, che s'identifica indifferentemente con la comunità medievale o con la preistoria dell'umanità. Nonostante l'odio per la borghesia, si accetta senza troppe contestazioni la realtà di fatto della committenza borghese. Questo non può essere oggetto di condanna: nella situazione politico-culturale esistente, e con i limiti ideologici che son quelli di tutti gli intellettuali e non solo degli artisti, gli espressionisti, come coloro che li precedono e li seguiranno, non possono far altro che cercare la protezione del collezionismo privato; aspirano, sia a Monaco che a Berlino, a non esserne condizionati, a organizzare mostre senza giuria, ma la loro gratitudine si volge indifferentemente al Direttore dei Musei di Monaco, H. von Tschudi, al ‛mecenate' B. Koehler (lo ‛zio Bernard' di Macke), ai mercanti illuminati P. Cassirer e H. Walden. La ‛comunità' della Brücke si regge col finanziamento dei ‛soci passivi', quasi tutti nomi dell'alta borghesia, e perfino nel programma dello Arbeitsrat für Kunst la produzione artistica deve avere finalità pubbliche, ma può esser promossa da enti pubblici e privati.

La disputa sulla collocazione borghese o antiborghese del fenomeno espressionista, connesso alle sue radici romantiche e in vista della fortuna che alcuni suoi temi avranno nel nazismo, sollevata soprattutto dall'interpretazione lukácsiana, non ha alcun senso, a nostro avviso, se ci si riferisce al piano politico concreto e all'espressionismo in particolare anziché a tutta l'arte contemporanea (G. Lukàcs, 'Grösse und Verfall' des Expressionismus, in ‟Intemationale Literatur", 1934, n. 1, pp. 153-173; ora in Probleme des Realismus, Neuwied-Berlin 1971, vol. I, pp. 109-149. Cfr. il compendio della discussione e la proposta di soluzione in Chiarini, 1969). Condannare il fallimento di questo movimento artistico significa cadere nell'illusione di una potenzialità rivoluzionaria diretta che esso non può avere, nè se lo consideriamo parte di una sovrastruttura, nè se lo consideriamo un linguaggio specifico. Anche se si appella sovente al popolo (e la parola Volk in tale contesto ha un significato romantico e spiritualistico e non coincide affatto con una ‛classe'), l'espressionismo non è un'arte popolare, come non lo è nessuna avanguardia. Nato nell'ambito, e sotto tutti i condizionamenti, di un assetto borghese, ne avverte i limiti e le contraddizioni, lo giudica, lo condanna e protesta contro di esso. Impotente a rompere i ponti con la sua stessa matrice, della borghesia si limita a preannunciare la catastrofe e in certa misura vi contribuisce, ma l'analisi negativa non evade dal livello simbolico. Nel momento in cui gli artisti avvertono l'equivoco, che non è della loro singola posizione ma del concetto stesso di arte, l'espressionismo, con un processo assai simile alla vicenda cubismo-dadaismo, si rovescia nel suo contrario, e si parlerà di morte del quadro, morte dell'architettura, morte dell'arte, senza peraltro la volontà di attuarla: nel 1912 Kandinskij parla di arte monumentale, opera d'arte totale (Gesamtkunstwerk), che si realizza non nel quadro ma nel teatro; Loos sostituisce al concetto di architettura quello della nuda prassi del costruire; gli architetti tedeschi dell'immediato dopoguerra oscillano tra l'esaltazione della forma nella fase utopistica e la riduzione della forma a un equivoco concetto di funzione nella fase del razionalismo; nel 1921 W. Worringer teorizza il concetto di fine dell'espressionismo e morte dell'arte figurativa (Künstlerische Zeitbragen).

È stato notato che certe immagini (il crollo del ‟regno del sogno" nel romanzo L'altra parte di A. Kubin, 1908; Destini di animali di Marc, 1913; l'‛improvvisazione' dal sottotitolo Cannoni di Kandinskij, 1913; il tema dell'assassinio e del dittatore ricorrente nel teatro e nel cinema, ecc.) e, più in generale, il senso di decadenza e di morte presente un po' in tutta la produzione espressionista, ma in particolare nella prima fase e nella ripresa postbellica, preannunziano la catastrofe della guerra o il nazismo. Tenendo anche presente che nel 1913 già si parlava di guerra, è chiaro che queste immagini derivano comunque dal presentimento, e dall'avvertimento, che l'attuale indirizzo politico (e non solo della Germania) non può che portare a una catastrofe. Accanto alla fiducia nell'inizio di una nuova era, in una palingenesi dell'arte e della società, avvertibile soprattutto nel Blaue Reiter, e all'esaltazione della giovinezza (il tema era già presente nello Jugendstil, lo stile della gioventù), c'è l'idea dell'imminente fine di una civiltà. L'atmosfera della Dämmerung è presente, nonostante l'apparente lucidità filosofica smentita dalle componenti irrazionalistiche, in un libro come Il tramonto dell'Occidente di O. Spengler (1918), che influenza direttamente l'idea di fine dell'espressionismo del Worringer: fine e non risoluzione, Ende e non Auflösung, e quindi non derivabile dalla dialettica hegeliana. Fine del mondo, e a seconda dei casi con o senza resurrezione. La diagnosi era esatta; i toni con cui si tenta il rimedio, o non lo si tenta affatto, lo sono meno. Si può ammettere che in questa rinuncia si riflette l'atteggiamento del borghese che assiste senza ribellarsi alla propria autodistruzione. Ma se per l'espressionismo l'arte è comunicazione, il compito rivoluzionario è realizzato nell'atto stesso della denuncia e nello stesso ammettere la propria inettitudine, che è quella di un'intera classe sociale, a costruire un'alternativa.

Tutto questo va detto per un'interpretazione globale del fenomeno; nel quale esistono anche episodi regressivi che si nutrono passivamente di una certa cultura, tramandata da una parte del filone romantico e sfruttata dall'ideologia nazista (si vedano le tesi di storici come P. Viereck e G. L. Mosse, e quella più ponderata del Mittner).

L'alternativa borghese-antiborghese introduce a un altro carattere dell'espressionismo: l'accentuata bipolarità, cui abbiamo già accennato a proposito della dialettica classico-anticlassico, opposizione-risoluzione del rapporto tra l'io e il mondo. Un atteggiamento bivalente è riscontrabile in ogni movimento artistico del Novecento (basti pensare al cubismo); un'opposizione polare è nei loro reciproci rapporti e risale al binomio sublime-pittoresco e classico- romantico. Appare nettissima nelle tendenze di volta in volta scientifiche e irrazionali, astratto-geometriche e organiche (spesso intrecciate) del postimpressionismo. Ma questa bivalenza, derivata dall'area simbolista, raggiunge nell'espressionismo la sua massima tensione; e non a caso alcuni studiosi di psicologia vi hanno visto, a ragione o a torto, realizzata la manifestazione di un carattere introvertito, o piuttosto di un carattere schizotimico estensibile a gran parte dell'arte contemporanea (W. Winkler, Psychologie der modernen Kunst, Tübingen 1949; vedi anche le osservazioni di Jung sull'arte contemporanea in Psychologische Typen, Zürich 1921; tr. it.: Tipi psicologici, Torino 1969, pp. 387 e 398). Sta di fatto che nell'espressionismo, e non di rado in uno stesso artista (Kirchner, Marc), coesistono un'esigenza di espressione soggettiva e di costruzione oggettiva, la ricerca del brutto e del deforme e quella di un'armonia, il relativo e l'assoluto, il tema della morte e quello della nascita, lo slancio lirico e la fredda impassibilità. Si passa dal rifiuto delle scienze esatte all'emulazione dell'astrazione matematica e degli studi biologici, dall'odio per la macchina all'esaltazione dell'industria (soprattutto in campo architettonico), dal nazionalismo all'europeismo e internazionalismo, dall'esaltazione dell'individuo a quella della massa, dalla rivoluzione alla conservazione, dall' ‟urlo" alla ‟geometria" (Mittner). Questo andamento distonico è spiegabile alla luce del ‛disagio della civiltà' da cui deriva e del carattere soggettivo di entrambe le soluzioni di ogni coppia di opposti. L'artista cerca ogni volta una risposta totale, esistenziale al problema della funzione dell'arte, chiede la sopravvivenza della libertà in assoluto e non i modi in cui si possa attuare; per questo, almeno prima del Bauhaus, gli sfugge quella soluzione (perché diverso è il suo problema) che appagava Cézanne o i cubisti: che la propria funzione consista nell'elaborazione di una tecnica esemplare, in un'indagine autonoma sulle strutture dello spazio e del tempo.

Il problema degli espressionisti è meno circoscritto, più universalistico e perciò più ‛tragico' rispetto a quello dei cubisti. Tuttavia esso non va isolato, ma inquadrato in un rapporto di contemporaneità, di reciproci scambi e di complementarità con la linea fauve e cubista; si può dire che, in un analogo rapporto, tutte le esperienze successive muovano ora dalla tendenza fondamentale ‛dell'espressionismo, ora da quella del cubismo. Per alcuni artisti della Brücke e del Blaue Reiter (non tutti: non mancano interpretazioni corrette, non polemiche e istintive), come per critici come Bahr e Worringer, l'impressionismo è l'ultimo atto della tradizione classica rinascimentale alla quale si oppone la nuova pittura. Ammirano invece, e considerano dei loro, non solo Gauguin e van Gogh, ma anche Cézanne. La pittura impressionista vera e propria è, per loro, legata alla borghesia e al positivismo, è una passiva registrazione di dati sensoriali. La stessa interpretazione, comune anche ai fauves, si era formata nell'area del simbolismo francese. Noi possiamo considerare, al contrario, l'impressionismo come il primo atto di una serie di analisi condotte su una realtà non più pensata come assoluta ed esterna all'uomo, ma come prodotto della sua coscienza; il primo passo verso quel soggettivismo, che sarà poi alla base dell'espressionismo. I giovani pittori tedeschi non hanno veri impressionisti nella propria tradizione (neanche M. Liebermann, L. Corinth e M. Slevogt si possono considerare tali) e intorno al 1905 assai poco sanno degli impressionisti francesi. La strada che quelli avevano aperto sarà loro indicata indirettamente, da un lato da E. Munch e J. Ensor e poi dai fauves e dai loro immediati precedenti, dall'altro dalle teorie dell'arte contemporanee all'impressionismo e al postimpressionismo, nate in Germania e in Austria e certamente note nell'ambiente di Monaco. Al contrario, il filo che corre, attraverso Gauguin, van Gogh e Cézanne, i nabis e il pointillisme, dall'impressionismo al fauvismo e, attraverso Braque e ancora Cézanne, al cubismo, è tortuoso ma continuo. Nel primo decennio del secolo quindi gli elementi comuni agli artisti francesi e tedeschi sono minoritari rispetto alla base culturale; e anche la distanza dall'impressionismo va misurata su scale diverse.

Al procedimento recettivo dall'esterno all'interno sia i fauves che gli espressionisti oppongono un movimento dall'interno all'esterno, all'analisi la sintesi, a un processo materiale un processo spirituale. Entrambi usano colorazioni violente e arbitrarie, non dedotte dalla realtà ma interamente create, stesure di colore compatto, spesso delimitate, con una tecnica derivata dal cloisonnisme, da strisce scure; superano la frantumazione impressionistica dello spazio riducendo le immagini al piano, o a più piani intersecantisi che non hanno più alcun rapporto con la piramide visiva della tradizione rinascimentale. Ma l'operazione nei due casi è condotta con intenzionalità diversa. I fauves operano ancora nell'ambito della tradizione classica francese mai del tutto interrotta e continuamente rivitalizzata; non si pongono direttamente problemi esistenziali e sociali. L'espressione di un contenuto soggettivo si attua nella ricerca della potenzialità costruttiva del colore puro, nella creazione di forme che mirano a ricomporre un'armonia universale, una ‟natura parallela", come diceva Cézanne, il modello di un mondo possibile, in cui è essenziale la funzione di una forma perfetta e autosufficiente. Di qui al cubismo, per la via indicata da Braque: il colore si condensa in solidi geometrici, crea un nuovo spazio, in cui è introdotta, attraverso la memoria e la compresenza del vicino e del lontano, la dimensione del tempo. L'interrotto rapporto con la realtà è ricreato con un processo rigorosamente formale e un criterio universalizzante; rispetto all'impressionismo è stato compiuto un passo dal relativo all'assoluto; ma anche gli impressionisti si proponevano fin dall'inizio (e qui è la ragione della breve durata del gruppo) una nuova sintesi della realtà da attuarsi attraverso la tecnica pittorica.

Gli espressionisti della Brücke operano in piena tradizione romantica; dietro di sé hanno il mitologismo di A. Böcklin, lo spazio ideale e astratto di H. Marées o di A. Hildebrand, una tradizione pittorica classicistica (non classica) che contrasta con la cultura più radicata e popolare: a tutto ciò si oppongono e da tutto ciò nello stesso tempo sono condizionati. L'espressione si carica di un contenuto essenzialmente psicologico e la forma, più che subordinata, è violentata: se i colori dei fauves sono violenti ma armonicamente composti, questi sono stridenti e spesso sporcati da gialli acidi, verdastri, violacei; le linee sono spezzate, gli angoli appuntiti, le immagini disarmoniche. Non è, questo, il modello di un mondo diverso, ma lo stesso mondo reale restituito deformato e talvolta mostruoso: nonostante l'immagine sia prodotta dall'interno, essa è incapace di staccarsi dalla memoria del reale che è costrizione e sofferenza. La situazione si rovescia nelle opere del Blaue Reiter e non a caso c'è stato di mezzo il contatto diretto con i fauves. Ma, anche in questa fase, il problema centrale non è la creazione di una nuova armonia e un nuovo spazio (‟solo l'arte poteva trasportarmi fuori dello spazio e del tempo", ricorda Kandinskij nello scritto giovanile Sguardo al passato, e la formula resta per lui sempre valida), ma la rievocazione dell'inconscio, il recupero del soprannaturale, la comunicazione tra gli esseri e le cose.

Che Matisse sia classico, mediterraneo e pagano e Kirchner, o Kandinskij, gotico, nordico e mistico è immagine ormai abusata e da prender con cautela, ma significativa: da un lato si ‛esprime' un'idea appagante del mondo, una fiducia nelle possibilità costruttive di una tecnica umana, dall'altro una ricerca ansiosa e sempre inappagante, una tensione verso un Assoluto che resta al di là delle possibilità umane, un impegno in una prassi che mai si risolve in una forma compiuta, ma in cui s'identifica, all'infinito, l'attività artistica. Tutto questo vale come caratterizzazione generica dei due movimenti: nei singoli artisti troviamo anche forme miste e complesse. Tra i fauves, per esempio, M. Vlaminck è quello che più si avvicina all'inquietudine dei tedeschi, mentre Marc trova, tra il 1912 e il 1914, immagini di una straordinaria armonia ‛classica'.

2. Le premesse teoriche, letterarie, figurative

L'aggancio ad alcune teorie estetiche, storico-artistiche, filosofiche e letterarie è quanto mai necessario per un'introduzione all'espressionismo tedesco, sia per il suo accentuato carattere ideologico, sia per la rottura che esso compie con la tradizione figurativa locale, per cui le sue componenti vanno ricercate in gran parte al di fuori dell'area figurativa.

L'autonomia del linguaggio pittorico, la creatività e direi quasi ‛formatività' intesa come movimento dall'interno all'esterno, le implicazioni psicologiche, l'impulso volontaristico, la polemica antipositivistica e, in parte, anche la preferenza per le produzioni anticlassiche sono tutti elementi che trovano la loro premessa nei teorici della tpura visibilità' e della Einfühlung (empatia, immedesimazione, simpatia simbolica). K. Fiedier (Über die Beurteilung von Werken der bildenden Kunst, 1876; Der Ursprung der künstlerischen Tätigkeit, 1887) separa la facoltà con cui opera il pittore, la pura visibilità, sia dalla ragione che dal sentimento. Contro l'idealismo hegeliano e il positivismo (di quest'ultimo però sono accolte alcune istanze, come l'esigenza di fondare una ‛scienza dell'arte'), contro il romanticismo e il realismo, l'arte non è riflesso nè della natura, che non esiste al di fuori della coscienza umana, nè di un concetto o un'idea, nè del sentimento, ma è una forma autonoma di conoscenza, un atto creativo che parte dalla coscienza e termina nella forma della realtà, che va dall'interno all'esterno e in cui l'attività della mano prosegue quasi automaticamente e senza soluzione di continuità quella dell'occhio (Wirklichkeit und Kunst. Fragmente, 1895, in Schriften über Kunst, Leipzig 1896, Il, p. 168). Siamo nella tradizione kantiana, filtrata dal formalismo dello Herbart; e in genere a Kant, e non a Hegel, risalgono i precedenti culturali accolti dagli espressionisti.

La teoria della Einfühlung è di origine romantica, ma la sua formulazione moderna si può far risalire all'opera di R. Vischer (Über das optische Formgefühl, Leipzig 1873) ed è sistematizzata da J. Volkelt (si veda anche System der Ästhetik, München 1905-1914) e da Th. Lipps (Ästhetik. Psychologie des Schönen und der Kunst, Hamburg-Leipzig 1902-1906). Secondo tale teoria, l'artista proietta i propri sentimenti non negli oggetti delimitati concettualmente, ma nelle loro forme, presta la sua anima alle cose; e le forme da lui create rifletteranno il suo atto soggettivo di immedesimazione in esse, anche in questo caso secondo un processo che va dall'interno all'esterno. È importante, per gli sviluppi futuri, il principio antimimetico che vi è implicito, come anche il rapporto con la psicologia sperimentale, assente invece nella teoria fledleriana, nonché l'attenzione data dal Vischer al sogno e al mito; e soprattutto il principio soggettivo su cui si basa la teoria della percezione e della riproduzione delle forme, che si intende già come espressione di un contenuto puramente interiore. È certa l'influenza esercitata dalla teoria della Einfühlung nell'area dello Jugendstil e in particolare sulla concezione di H. Van de Velde, che a sua volta tanta importanza avrà per gli architetti della generazione espressionista, e sul libro Lo spirituale nell'arte di Kandinskij.

Di entrambe le teorie si vale A. Riegl (Stilfragen, Berlin 1893; Spätrömische Kunstindustrie, Wien 1901) per la sua concezione di un Kunzstwollen (volontà d'arte) che, in consonanza con le idee filosofiche, religiose, politiche, ma agente come elemento attivo di trasformazione, si esprime non allegoricamente, ma attraverso schemi o simboli visivi, raggruppati secondo un'alternanza di ‛tattile' e ‛ottico'. Di questa teoria Riegl si serve per rivalutare le arti applicate, cosiddette minori, e le fasi primitive e della cosiddetta decadenza: due interessi che, accanto all'accento spiritualistico e volontaristico, si ritrovano nello Jugendstil e nell'espressionismo.

Dalla teoria della Einfühlung e da quella del Riegl, nonché da Hildebrand, Schmarsow, Wölffiin, parte Worringer (Abstraktion und Einfühlung, Neuwied 1907) per opporre a un Kunstwollen fondato sul concetto di empatia, basato soprattutto sulla teoria del Lipps, uno fondato sul concetto di astrazione, tipico delle epoche primitive, dell'Oriente e, in parte, del gotico. L'uomo primitivo non s'identifica nelle forme dell'apparenza fenomenica; prova disagio nei confronti del mondo esterno, teme lo spazio, rifugge dall'organico-vitale' e trova conforto nell'‛astratto', ossia in una regolarità geometrica, cristallina, inorganica, in immagini ‛morte' come la piramide egizia o i mosaici bizantini, in cui tutto è ridotto alla rappresentazione bidimensionale per sottrarre gli oggetti alla casualità con cui sono percepiti nell'esperienza fenomenica e per renderli invariabili ed ‛eterni'. Worringer dimostra una simpatia per l'astratto, che nelle opere più tarde (Ägyptische Kunst, München 1927; Griechentum und Gotik, München 1928) si rovescerà in una simpatia per l'organico, assai vicina alle teorie e alle forme di alcuni architetti-utopisti, e collegabile a un'interpretazione di teorie vitalistiche e soprattutto del classicismo di Goethe. La portata innovatrice della teoria del Worringer non va sopravvalutata (giusto è l'avvertimento di O. Morpurgo Tagliabue, L'esthétique contemporaine, Milano 1960, p. 60); nè è collegabile senz'altro alle prime esperienze astratte, tanto meno a quelle di Kandinskij, il concetto di astrazione, che è poi un'empatia alla rovescia e che ha caratteri molto simili alla ‛chiarezza' e all'‛ordine', di matrice nettamente classicistica, di cui parla Fiedler. Però il libro, che è una sorta di sintesi di tutte le teorie precedenti ed è certamente conosciuto a Monaco, dimostra come quelle abbiano influito, per suo tramite, almeno sugli artisti del Blaue Reiter. Macke e Marc lo leggono e lo apprezzano (v. Macke e Marc, 1916, p. 60, lettera del luglio 1911; v. Kandinskij e Marc, 1965; tr. it., p. 257, lettera del febbraio 1912); Bahr (v.. 1916; tr. it., p. 60) ricorda Abstraktion und Einfühlung (‟tutti lo conoscono") accanto al Riegl e ne riprende puntualmente le tesi. Ma i quadri astratti e la teoria di Kandinskij nascono piuttosto nell'ambito della teoria della Einfühlung; e Klee non ha affatto simpatia per l'‛astrazione', anche se la considera, al pari di Worringer, come un prodotto tipico di un mondo ‛orrendo" (v. Klee, 1957, n. 951).

Tutte queste teorie sono state variamente considerate come prodotto di un formalismo di matrice idealistica o come geniali precorrimenti della teoria della Gestalt e della ‛teoria delle forme simboliche' di Cassirer. Sono probabilmente l'una e l'altra cosa, e con entrambi i connotati, regressivo e innovatore, si riflettono nei quadri degli espressionisti, almeno quanto le idee di Köhler e Cassirer sono presenti nella metodologia del Bauhaus. Resta il problema dello sfasamento tra la modernità, limitata se si vuole ma comunque innegabile, delle teorie e l'incomprensione più cieca delle correnti contemporanee. Fiedler ignora dapprima, poi guarda con sufficienza, impressionisti e simbolisti e ammira Hans von Marées, dalla cui teoria era stato influenzato. H. von Hildebrand scrive Das Problem der Form in der bildenden Kunst (Strassburg 1893) che può considerarsi il parallelo teorico di certe manifestazioni simboliste, ed è un mediocre scultore di forme classicistico-accademiche. Worringer sembra il teorico dell'espressionismo, ma ammira Rodin e Hildebrand e arriva tutt'al più a capire, a modo suo, paragonandoli ai gotici costruttori di cattedrali, Cézanne e van Gogh (cfr., per es., Kritische Gedanken zur neuen Kunst, in ‟Genius", 1919, pp. 221-236). Lo stesso avviene per i filosofi: neanche Hegel aveva realmente compreso il romanticismo, nè G. Simmel l'espressionismo, cui pure è tanto vicino nelle prime opere. Tutto questo dimostra due cose, molto importanti per comprendere la distanza tra l'espressionismo tedesco e i fauves francesi: nell'arte tedesca il problema del significato non si fonda empiricamente sulla prassi formale, su una tecnica operativa specifica, ma piuttosto sulla concezione del mondo che viene espressa; e la distanza che separa l'astrazione formale di un Marées o uno Hildebrand dagli espressionisti è assai minore di quanto possa sembrare a prima vista. La stessa importanza che questi ultimi attribuiscono alla tecnica della xilografia e al valore del segno incisivo e deformante non va intesa in senso pragmatico, ma si carica di un valore ideale e simbolico.

Tra i filosofi, i nomi ricorrenti negli scritti di artisti e teorici sono Schopenhauer e Nietzsche; il volontarismo e l'antispiritualismo di quest'ultimo sono però rovesciati per lo più in una rinuncia all'azione e in un atteggiamento mistico e ascetico di marca schopenhaueriana. Da entrambi deriva agli espressionisti la concezione del mondo come irrazionalità e dolore e l'opposizione alla realtà del principio soggettivo della volontà; da Schopenhauer l'idea che il mondo fenomenico, il ‛velo di Maya', ostacola la conoscenza della kantiana ‛cosa in sé', e le derivazioni indiane che tanta importanza avranno per un Marc o un Bruno Taut; da Nietzsche l'idea dell'‛eterno ritorno', il principio ‛dionisiaco' contrapposto nell'arte a quello ‛apollineo', il mito del superuomo, che viene applicato alla figura dell'artista, incompreso e distaccato dalla massa, emulo di Dio nella creazione del nuovo mondo. Il volontarismo di questa tradizione di pensiero si riflette nello stesso concetto di Kunstwollen del Riegl, che impronta tutte le teorie del periodo. Il principio ascetico è evidente, in particolare, nell'atteggiamento utopico della Novembergruppe, e si trasforma da un lato nella fuga dalla civiltà, dall'altro nella negazione del ‛potere' e in una vera e propria propaganda della non azione e della non violenza (Bruno Taut, il Worringer di Griechentum und Gotik), presente anche in campo letterario (A. Döblin, O. Kaiser, L. Rubiner). Nel saggio Die Wilden' Deutschlands, inserito nel Blaue Reiter, Marc così spiega il significato di ‛selvaggi', desunto dai fauves ed equivalente a espressionisti: ‟Nella nostra epoca, che è il momento della grande lotta per la nuova arte, noi combattiamo come ‛selvaggi', come non organizzati, contro un potere (Macht) antico, un potere organizzato". Parallela all'incitamento alla ribellione ricorre un'esaltazione dell'amore, anche questo in accezione più schopenhaueriana che cristiana, ma che ha molti punti di contatto anche col pensiero di E. Bloch, difensore dell'espressionismo. La rinuncia all'azione non è in contrasto, anzi è la base di una forma di titanismo spirituale: l'architetto concepito da Bruno Taut vuoi cambiare l'aspetto della terra e del cielo, trasforma le montagne in palazzi di vetro, è ‟costruttore del mondo" (Der Weltbaumeister, Hagen 1920). Nella lettera dei 15 aprile 1920 della corrispondenza utopica detta Die gläserne Kette (v., 1963, p. 40), si rivolge ai ‟proletari del mondo", a tutti quelli che si basano sul ‟nulla": ‟‛Dio è ovunque e in nessun luogo', io sono Dio, voi tutti lo siete"; e superuomo è l'artista di cui parla costantemente H. Finsterlin. Infine, lo schopenhaueriano ‛velo di Maya' trova riscontro in un'infinità di passi ed è alla base dello sforzo, teorizzato soprattutto nel Blaue Reiter, di ricercare l'essenza del reale al di là del ‛visibile', e non in un mondo di simboli letterari ma in quella ‟vista interna" di cui parla Kandinskij e che Bahr collega anche a teorie scientifiche. Il concetto è riassunto da Marc in un articolo pubblicato sulla rivista ‟Pan", Die konstruktiven Ideen der neuen Malerei (marzo 1912), che si conclude con la citazione: ‟Per usare le parole di Schopenhauer, oggi il mondo come volontà ha il sopravvento sul mondo come rappresentazione

Per la consueta oscillazione tra gli estremi, la fuga dalla vita si alterna a un'esaltazione della vita, intesa però come un principio metafisico. Il collegamento dell'espressionismo con le correnti neovitalistiche (cfr., per l'espressionismo letterario, K. Martens, Vitalismus und Expressionismus, Stuttgart 1971) è comprovato dalle letture preferite dai protagonisti, e del resto queste correnti discendono in gran parte dalla linea Schopenhauer-Nietzsche. Il senso di questa tangenza si può riassumere con un'osservazione del Worringer: ‟Lo Spirito è per l'espressionista la somma delle forze che si oppongono alle cieche leggi della natura, al corso automatico degli eventi. Spirito è per lui l'intervento di Dio in un mondo meccanizzato. È la divinizzazione dello Spirito che egli oppone alla divinizzazione della natura" (Kritische Gedanken zur neuen Kunst, cit.). ‟L'Espressionismo non si riconosce nella sfera razionale, ma in quella vitale (im Vitalen)" (Künstierische Zeitfragen, München 1921). Lo stesso autore subisce l'influenza prima di Simmel e poi di Spengier. H. Luckhardt pone Bruno Taut (pur criticandolo) al livello dei ‟grandi pensatori moderni" come H. Keyserling e Spengier (v. Die Gläserne Kette, 1963, p. 43, lettera del 31 maggio 1920). Questa esaltazione della ‛vita' si esprime spesso in una preferenza per forme dinamiche e plastiche, per il ‛tridimensionale' e gli spazi curvi e barocchi, che sembra opposta alla originaria fissità e alla Flächigkeit (riduzione alla superficie) degli espressionisti: così, ad es., in certi quadri di Marc, nei primi disegni di E. Mendelsohn, in tutta l'opera di Finsterlin.

Un'altra importante componente entra nella Weltanschauung espressionista soprattutto attraverso la mediazione di Munch: il senso tragico dell'esistenza presente nella filosofia di Kierkegaard e nella letteratura nordica. Nella Urangst dei tedeschi è l'eco del senso di colpa, del tragico di un'angusta vita borghese dei drammi di Ibsen, dell'angoscia e della follia religiosa di Strindberg. In Kierkegaard gli artisti ritrovano la stessa interpretazione del soggettivismo romantico e la stessa ansia religiosa di quella cultura che sulla scia di Schopenhauer si stava evolvendo; e soprattutto una straordinaria affinità nella coincidenza tra l'idea dell'‛esistere' e quella dell'‛esprimere', entrambe emanazione di una condizione di colpa, di costrizione e di angoscia, per cui l'espressionismo si può ben considerare uno dei ponti di passaggio tra Kierkegaard e l'esistenzialismo. Inoltre, al pari della ‛fede' di Kierkegaard e della ‛negazione della volontà' di Schopenhauer, la pittura espressionista, soprattutto nel periodo tra il 1910 e il 1914, si propone il ‛ritorno' nel Tutto, la redenzione nella reimmersione nell'indistinto del Cosmo.

L'esperienza di Gauguin, van Gogh, Cézanne, Ensor, Munch, le sinuosità lineari dell'architettura e della grafica dell'art nouveau, la riscoperta dei primitivi, delle stampe giapponesi e poi della scultura negra e oceanica sono precedenti comuni, in diverso dosaggio e in diversa accezione, per i fauves e per la Brücke. L'esperienza di Cézanne influirà soprattutto sui fauves, e soprattutto dopo la morte dell'artista, vissuto negli ultimi anni solitario e lontano dai vari gruppi; ma anche sulla formazione dei pittori del Blaue Reiter. Un ponte diretto tra le precedenti ricerche e quelle dei primi anni del secolo si può considerare, in Francia, il gruppo dei nabis, mentre il neoimpressionismo resta costantemente un punto di riferimento al quale si rivolgono, a più riprese, i fauves. Per la Brücke è anche importante la lezione di Toulouse-Lautrec, la sua analisi psicologica del mondo cittadino, la presentazione diretta della realtà consapevole dei mezzi atti a stimolare una reazione psichica immediata nell'osservatore, il valore costruttivo ed espressivo della linea di contorno, che anche i francesi spesso assumono per sostenere le stesure di colore puro.

A Gauguin in particolare, anche se non a lui solo, risale la scoperta del significato simbolico della riduzione bidimensionale, della linea ritmica e delle campiture piatte di colore dotate di una intrinseca, autonoma virtualità espressiva, che sono spesso accostate in rapporti dissonanti, in cui è la consapevolezza del valore dei complementari, ma anche la negazione che in esso consista una legge vincolante. In van Gogh si trova la deformazione e la violenza della realtà e il significato gestuale della pennellata, già espressivo-astratto, incurante dell'oggetto singolo e della forma finita. Notevole è anche la lezione di F. Hodler e di O. Klimt, che però non sempre vengono valutati positivamente dai nuovi artisti: di quest'ultimo il senso della decadenza fisica e spirituale che incrina la stessa bellezza e la rende inquietante, non solo per l'associazione Eros-Thanatos dei quadri simbolisti, ma per il presentimento dell'imminente fine di un mondo. Le maschere di Ensor sono stimolo alla ricerca di una struttura al di là del reale e nello stesso tempo rinuncia a rappresentare l'inconoscibile. La maschera si trasforma, nei fauves, nella stessa struttura formale con cui si ricostruisce armonicamente l'aspetto già distrutto della visione; nei pittori della Brücke, nel volto stesso dei personaggi, rigido involucro in cui la condizione interiore si sforza di trasparire attraverso una lotta con la materia visibile, lotta il cui risultato è il grottesco, il deforme, il brutto. Gli artisti del Blaue Reiter sono ossessionati dal pericolo dell'ornamentale e del decorativo (ne parlano espressamente almeno Marc, Klee e Kandinskij), che deriva dalle componenti figurative più dirette; un antidoto a questo si trova nell'arte di van Gogh, di Ensor e soprattutto di Munch, dove è chiaro il processo per cui la linea ondulata, organica, vitale della decorazione fin de siècle si sottrae a ogni intento edonistico per caricarsi di un contenuto interiore represso, del dolore esistenziale che esplode nell'urlo'.

L'influenza di questi personaggi non va limitata ai dati formali, ma si estende alla concezione dell'arte e del suo rapporto con la vita. Di Gauguin sarà quindi importantissimo l'esempio della fuga nel primitivo, che è poi la ricerca di un'originaria purezza: se ne può considerare un parallelo diretto nell'animalismo di Marc, altro esempio di fuga dalla civiltà. Analoga in certo senso è l'operazione del ‛doganiere' Rousseau, che non fugge ma riparte dal ‛grado zero' della pittura e della coscienza, dall'immagine nitida e incorrotta della natura e dalla favola come prima forma dell'immaginazione umana. Proprio i suoi oggetti ‛astratti' dal reale Kandinskij terrà presenti quando fisserà, in Lo spirituale nell'arte, l'equazione estremo realismo = estrema astrazione. La fuga nel mito di Gauguin, il tuffo nella società di Toulouse, la coincidenza di gesto e immagine di van Gogh sono tanti aspetti della stessa aspirazione a identificare arte e vita che è caratteristica dell'espressionismo sia tedesco che francese.

In Germania bisogna tener presenti, pure se forse hanno, sul piano formale diretto, minor peso, anche alcuni artisti locali che operano nei termini della tradizione classicistica o di quella di un attardato impressionismo. Si è già detto su che piano può aver influito un Marées, i cui quadri venivano esposti, accanto ai francesi modernissimi, nelle mostre delle Secessioni e di gallerie private, e con successo: pensiamo per esempio al giudizio di Klee (v., 1957, n. 847, gennaio 1909) e all'interesse dimostrato da M. Beckmann. Nella fase cosiddetta ‛impressionista' di Kandinskij o di Marc agisce l'impressionismo, diciamo, pesante di uno Slevogt o di un Corinth, accademico e contradditorio se confrontato a un Monet, ma pure aperto a una interpretazione simbolica e quasi materica del colore. Intanto Liebermann, presidente per molti anni del gruppo Secessione berlinese, aveva già in qualche modo identificato arte e vita subordinando la forma a un interesse sociale. Infine, non bisogna trascurare l'influenza, anche se limitata a grafici come Kubin o alle opere giovanili degli artisti maggiori, di incisori come Max Klinger, che entusiasma Kubin (e De Chirico); in base alla fortuna che egli ha avuto si potrebbe ricostruire il filo che lega il simbolismo alla metafisica e al surrealismo e che passa (ma solo tangenzialmente) per l'espressionismo.

3. I centri dell'espressionismo pittorico

Il principale centro d'irradiazione dell'espressionismo, inteso nel suo significato più specifico, è la ‛comunità di artisti' della Brüeke, fondata a Dresda nel 1905, alcuni dei quali lavoravano insieme fin dal 1902. Nello stesso anno, in una mostra tenuta a Parigi al Salon d'automne, si configura anche il gruppo dei fauves, già attivi in una certa direzione dal 1898-1900. Nel 1909, in polemica con il gruppo Secessione, nasce la Nuova associazione degli artisti di Monaco, dalla quale ancora si distacca nel 1911 Der blaue Reiter, per l'incomprensione delle tendenze più avanzate, soprattutto di quella nettamente astratta di Kandinskij, da parte di alcuni membri. A Berlino, dove nel frattempo (1910-1911) si erano trasferiti gli artisti della Brücke, è attiva dal 1910 la rivista ‟Der Sturm", fondata e diretta da H. Walden, proprietario dell'omonima galleria. Durante la guerra gli espressionisti si disperdono. Nel novembre 1918 è fondata la November gruppe, cui partecipano anche alcuni pittori già della Brücke e collaboratori di ‟Sturm". In un rapporto di opposizione-risoluzione con i movimenti precedenti è la Neue Sachlichkeit, nata all'inizio degli anni venti.

Fauves significa belve: il termine, come quello di cubismo, è coniato dal critico L. Vauxcelles in occasione della mostra del 1905. Die Brücke è il ponte gettato tra gli spiriti creativi. Lo spiega K. Schmidt-Rottluff nella lettera (4 febbraio 1906) con cui invita E. Nolde a esser dei loro: ‟chiamare a sé tutti gli elementi rivoluzionari e in fermento - questo significa il nome Brücke". È, più in generale, collegamento tra due parti, come dirà, pur senza far riferimento all'espressionismo, Simmel nel saggio Brücke und Tür (Ponte e porta) del 1909. Sturm significa tempesta, sconvolgimento della tradizione e delle convenzioni e rimanda automaticamente al termine Sturm und Drang, la culla del romanticismo tedesco. Der blaue Reiter invece non ha un significato codificato, e già questo fatto può indicarne il carattere: A tutti e due piaceva l'azzurro, a Marc i cavalli, a me i cavalieri. E così il termine venne fuori da sé" ricorderà Kandinskij nel 1930 (cfr. ‟Das Kunstblatt", 1930, n. 14). Il termine è il più astratto di tutti, è un puro significante che implica nella propria stessa formula il significato. Il blu per Kandinskij, come egli scrive in Lo spirituale nell'arte, richiama l'uomo verso l'infinito, suscita in lui la nostalgia della purezza e del sovrasensibile. Esso è il colore del cielo". I cavalli sono un simbolo della forza istintiva della natura, il cavaliere del romanticismo e del Medioevo, di quel mondo cavalleresco-cortese che la cultura borghese, secondo Worringer, ha ucciso nel Rinascimento e di nuovo nel XIX secolo.

Il gruppo francese non è unitario e il termine è stato forgiato a posteriori. Le più note opere fauves nascono tra il 1898 e il 1906. Nel 1907, due anni dopo la sua nascita ufficiale, il fauvismo si smembra, offuscato dal nascente cubismo; le sue premesse vengono portate avanti in varie direzioni, anche se l'opera coerente e quasi autosufficiente di Matisse sembra incarnarlo ancora per molti anni. Matisse e Marquet lavorano insieme dal 1898; nel 1900 inizia la profonda amicizia tra Derain e Vlaminck, che dal 1901 saranno in stretti rapporti anche con Matisse. Nel 1905 espongono Matisse, A. Marquet, H. Manguin, J. Puy, Ch. Camoin, L. Valtat, K. Van Dongen, O. Friesz, O. Rouault, A. Derain, M. Vlaminck. Al gruppo si aggiungono poi Dufy e, nel 1906, Braque. Questo è il nucleo in cui si possono riconoscere almeno tre direzioni: la più ‛classica' è guidata da Matisse (il personaggio comunque più influente del gruppo) e proviene dagli allievi dello studio di O. Moreau, quindi dal simbolismo francese nel senso più aderente del termine; la più espressionistica è rappresentata da Van Dongen e Vlaminck, olandese il primo, conterraneo di van Gogh, di origine fiamminga il secondo, come ricorda il nome stesso; la più strutturale è rappresentata da Braque, che poi è il ponte di passaggio al cubismo. Si possono distinguere varie fasi a seconda delle influenze dominanti: dapprima van Gogh, i nabis e i ‛sintetisti'; poi il pointillisme di Seurat e Signac, col quale ultimo questi artisti sono in continuo contatto per la frequentazione della sua villa a Saint-Tropez e per le mostre al Salon des indépendents da lui diretto; infine Cézanne e una nuova influenza di Gauguin. Di ‛espressione' parlano un po' tutti, ma in modo profondamente diverso. Matisse scrive: ‟Ciò che perseguo sopra ogni cosa, è l'espressione". Ma poi segue una precisazione che potrebbe valere come distinzione tra la sua ricerca e quella degli espressionisti tedeschi: l'espressione, per me, non risiede nella passione che apparirà improvvisa su un volto o che si affermerà con un movimento violento. È in tutta la disposizione del mio quadro: il posto che occupano i corpi, i vuoti che sono intorno a essi, le proporzioni, tutto ciò ha la sua importanza. La composizione è l'arte di sistemare in modo decorativo i diversi elementi di cui la pittura dispone per esprimere i propri sentimenti. [...] Sogno un'arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza soggetti inquietanti o preoccupanti, che possa essere per ogni lavoratore della mente, per l'uomo d'affari come per il letterato, un lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa d'analogo a una buona poltrona che lo riposi delle sue fatiche" (v. Matisse, 1908). È esattamente il contrario della concezione che Bahr, intendendo superare l'idea dell'arte che ‟abbellisce la vita" espressa da Nietzsche, riferisce all'espressionismo (v. Bahr, 1916; tr. it., p. 86). Al quale invece è più vicina la posizione libertaria e anarchica, l'accentuazione della vita nell'identificazione di arte e vita, di Vlaminck, per cui il fauvismo ‟è me stesso. È il mio essere in quest'epoca, il mio modo di ribellarmi e liberarmi nello stesso tempo, di rifiutare la scuola, il gruppo: i miei blu, i miei rossi, i miei gialli, i miei colori puri senza mescolanze di toni" (A. Derain-M. Vlaminck, Chatou, catalogo-mostra, Paris 1947); lui, il ‟barbaro tenero e pieno di violenza", vuol tradurre ‟d'istinto, senza metodo, una verità non artistica, ma umana" (v. Vlaminck, 1929, p. 94).

L'‛espressione' di Matisse è ancora abbastanza vicina al modo di concepire la pittura di un Denis o un Sérusier, all'esperienza del quali egli si riallaccia per ciò che riguarda il valore dei colore puro, il suo uso antimimetico, la sua funzione decorativa. È significativo che proprio Denis (v., 1905) sia tra i primi a comprendere il significato dell'operazione di Matisse, il suo processo di ‟astrazione" e di ‟generalizzazione" che sublima sia la rappresentazione del reale che quella della sensibilità, la meditazione teorica e il carattere ‟artificiale" della sua ‟pittura fuori da ogni contingenza, pittura in sé, atto puro del dipingere": a comprendere, infine, che è la ‟ragione" a fornirgli le sue ‟possibilità d'espressione".

Il punto di riferimento costante per Vlaminck, nonostante qualche variazione sulla tecnica divisionista e qualche meditazione su Gauguin, resta la pittura di van Gogh, di cui spesso rielabora la stessa pennellata a virgola e la direzione rotante dei tratti di colore spremuto direttamente dal tubetto, l'esasperata deformazione del reale e la rabbia del gesto pittorico, pur tendendo a stesure più ampie e riposate (tendenza poi dominante col passare degli anni). In questi caratteri talvolta, soprattutto prima del 1905, lo segue Derain, sempre conteso tra i due poli Vlaminck e Matisse. L'espressionismo di Van Dongen recupera soprattutto, accanto ad altre fonti, l'esperienza di Toulouse-Lautrec; se gli altri fauves dipingono soprattutto paesaggi (ma anche ritratti, e Matisse ama particolarmente la ‛figura'), l'olandese predilige i personaggi del teatro, del circo, dei locali notturni; li ritrae con una violenta esasperazione dei tratti del volto e con un piacere quasi sensuale della materia, che colpiranno gli artisti della Brücke: nel 1908 questi lo inviteranno a far parte del gruppo.

Anche se espone alla mostra del 1905, Rouault non va considerato tanto uno dei fauves quanto un espressionista indipendente. Il significato religioso e sociale che si esprime nella sua pittura lo avvicina ai pittori tedeschi, ma il suo impegno è esplicitamente cattolico, e il suo dolore esistenziale non si risolve in angoscia ma in giudizio morale e nella speranza della redenzione; queste le premesse di una pittura in cui il colore non divampa in toni puri ma resta scuro e pesante, illuminato da improvvisi bagliori e imbrigliato in pesanti contorni neri che risolvono in senso antidecorativo, ma senza la violenza deformante dei tedeschi, la tecnica cloisonniste.

‟Con la fede in una evoluzione, in una nuova generazione di creatori e di fruitori d'arte, chiamiamo a raccolta tutta la gioventù e, come gioventù che reca in sé il futuro, vogliamo conquistarci libertà d'azione e di vita, contro le vecchie forze tanto profondamente radicate. È dei nostri chiunque riproduca con immediatezza e senza falsificazioni ciò che lo spinge a creare". In questo slogan, più che programma, redatto e divulgato in una xilografia da Kirchner nel 1906, sono sintetizzate le idee comuni: la volontà di rinnovamento, che non è fede nel progresso (Fortschritt), in cui sarebbe implicito un fattore razionale, un'allusione al mondo della scienza e della tecnica e una valutazione ottimistica e positiva, ma fede in una Entwickhlung fatale, naturale; l'esaltazione della gioventù e della libertà, l'assenza di qualunque cenno a preferenze di ordine formale e, per contrasto, l'identificazione di arte e vita e l'esortazione non a imitare, ma a creare, a esternare il moto interiore. Gli artisti si ritrovano nello studio di Kirchner e la vita comunitaria che svolgono sul piano del lavoro spiega il fatto che, nonostante lo stile individuale, spesso è difficile distinguere tra i quadri dell'uno e dell'altro. Il primo nucleo si forma, stando alla Cronaca della Brücke stesa da Kirchner nel 1913, a Dresda nel 1902; a Kirchner, F. Bleyl, Heckel e Schmidt-Rottluff si aggiungono più tardi C. Amiet, Nolde (1906), Pechstein e infine Müller (1910). Nel 1911 il gruppo, dal quale intanto si sono allontanati Nolde, Bleyl e Pechstein, si trasferisce da Dresda a Berlino. Nel 1913 si scioglie ufficialmente.

L'interesse per i primitivi è documentato almeno dalla passione di Kirchner per la scultura negra e gli intagli dei Mari del Sud, dall'influenza della scultura etrusca su Heckel, e soprattutto da una rimeditazione dell'arte tedesca prerinascimentale, che resterà costante in tutti gli espressionisti, ma che in questo momento si esprime più specificamente in una ricerca delle radici germaniche della tendenza all'espressione contrapposta alla forma. Molti sono i dipinti e le incisioni (litografe, acqueforti e xilografie) di soggetto religioso, in cui le asprezze lineari, le spigolosità e la ieraticità delle immagini rimandano non tanto a Grünewald, Cranach, Beham o Dürer giovane, più volte citati da questi artisti, ma soprattutto alla scultura del Trecento tedesco e francese. Una pregiudiziale in certo senso nazionalistica, che ritroviamo anche più evidente e pericolosa nell'architettura, ha pesato a lungo sull'espressionismo tedesco e ha contribuito tanto al suo fascino quanto al sospetto di un suo carattere chiuso e reazionario. Nolde riconosce la superiorità dei francesi nell'azione di rinnovamento, ma proprio per questo auspica l'affermazione di ‟una grande arte tedesca" (in una lettera del 20 marzo 1908). Ancora nel 1914 proprio Marc, che ama tanto i francesi, scrive a Macke rimproverandolo un po', e mentendo in buona fede sulla sua estraneità al ‛cubismo orfico': ‟Io la penso più o meno come Klee. Sono tedesco e posso scavare solo sul mio terreno; che ho a che fare io con la peinture degli orfisti? [...] Noi tedeschi siamo e restiamo grafici nati, illustratori anche come pittori. Lo dice bene Worringer nella sua introduzione alla Altdeutsche Buchillustration" (v. Macke e Marc, 1964, p. 184).

In realtà la ricerca di una costante etnica, che si ritrova anche in teorici e storici di estrazione diversa come Wölfflin e Taine e ha il corrispettivo nella rivisitazione di un'armonia mediterranea di un Matisse o un Le Corbusier, viene presto superata nella posizione europeistica dei protagonisti del Blaue Reiter e di Sturm. Contro i sostenitori a oltranza di un'integrità tedesca, che poi non hanno nulla a che vedere con l'espressionismo, come il pittore K. Vinnen, autore della Protest deutscher Künstler per l'introduzione in Germania delle opere di artisti francesi contemporanei, prendono posizione, tra gli altri, gli stessi sostenitori di un espressionismo nordico, come Worringer e Marc. Gli interventi sono raccolti e pubblicati da R. Piper nel 1911 in un volume dal titolo Antwort an die ‛Protest deutscher Künstler'. Il pericolo era di trasformare in pregiudizio razziale la preferenza per una caratteristica tramandatasi per ragioni storiche. Ma, al di là di questo errore che non va sopravvalutato, nel momento della formazione della Brücke e, in parte, anche del Blaue Reiter, l'appello alla costante nordica e tedesca va inteso come un recupero del senso genuino della propria storia, al di là di culture di importazione come il Rinascimento e il filone classicistico ottocentesco che si era esaurito nell'Accademia, principale nemico da sconfiggere; e come segno di superamento dell'impressionismo, considerato, come si è visto, materialistico e ancora legato alla tradizione rappresentativa rinascimentale.

La ricerca di una radice germanica va quindi collegata a due dati caratteristici della Brücke: l'accentuazione dell'indagine psicologica diretta e del momento distruttivo, negativo, di opposizione àlla tradizione e di rifiuto del ruolo dell'artista quale ideatore di una bellezza consolatoria, ancora presente nello Jugendstil (da cui però, fino al 1907-1908, si continuano ad accogliere suggerimenti formali). In una lettera a B. Graef del 21 settembre 1916 Kirchner ricorda: ‟Col prendere una più intima familiarità col soggetto da dipingere, contemporaneamente aveva luogo [...] un approfondimento psichico. Veri e propri modelli nel senso accademico del termine non ne ho mai avuti (...]. Con la realizzazione dei limiti dell'interazione tra le psiche umane, scompariva la propria persona e si risolveva nella psiche dell'altro, al fine di una rappresentazione più intensa" (D. E. Gordon, E. L. Kirchner, Cambridge, Mass., 1968, p. 26).

L'interesse psicologico conduce i pittori della Brücke a preferire il ritratto, o comunque la rappresentazione del volto umano (oltre a quella del nudo), non individualizzato ma colto nella sua tipicità, e scene della vita della città: dalla strada ai caffè, al circo, al locale notturno. Nello stile, il maggior punto di contatto con i fauves si avverte nelle opere tra il 1909 e il 1911, già qualche anno dopo la formazione del gruppo. Il carattere ‛inconscio' e ‛spontaneo' su cui insistono tutti all'inizio si viene via via disciplinando per l'intervento di una ricerca strutturale più severa, anche se non mutano in sostanza le premesse antiformalistiche. Questa condurrà Nolde a una particolare vitalità e ‛gioia' coloristica, Müller a un distaccato arcaismo; il più rigoroso nel ricorso a una severa disciplina per trovare la migliore espressione al contenuto istintuale sarà Kirchner, che insisterà sulla necessità di una forma ‛chiusa'. Più che l'influenza dei fauves, è importante, in questa fase di controllo del gesto, proprio l'attività dell'incisione, in cui, come dice Nolde, si avverte il piacere del ‟lavoro manuale", il recupero dell'artigianato: la più importante premessa espressionista alla concezione del Bauhaus.

L'azione degli artisti del Blaue Reiter si può considerare complementare a quella della Brücke, e in un certo senso rappresenta già l'inizio di un superamento dell'espressionismo. Al momento distruttivo subentra una meditazione costruttiva, non tanto sulla forma in se stessa - per Kandinskij, infatti, ‟in linea di principio non esiste alcun problema della forma" - ma sui mezzi della comunicazione dell'‟interno contenuto" e sull'essenza stessa della ‟interiore necessità", che ancora urge, come per Kirchner, dietro l'atto creativo; all'analisi psicologica succede la sintesi, al doloroso scavare nel profondo un impulso all'astrazione, all'istintività la riflessione teorica, come dimostrano anche i numerosi scritti pubblicati da questi artisti. Se la Brücke era una comunità, in cui le esperienze si comunicavano giorno per giorno, Der blaue Reiter non è neanche un'associazione, ma il titolo di una serie di mostre e di una raccolta di scritti di artisti e di riproduzioni di arte popolare e primitiva. Si accolgono dall'esterno, di volta in volta, i contributi che appaiono più opportuni: R. Delaunay e il ‛doganiere' Rousseau espongono alla prima mostra nel 1911; nell'almanacco sono incluse riproduzioni di opere, oltre che di Delaunay e Rousseau, di Cézanne, Gauguin e van Gogh, degli artisti della Briìcke (grafica), di O. Kokoschka, e anche di Picasso, Matisse, H. Le Fauconnier, H. Arp, Natalie Goncarova. Tra i protagonisti (Kandinskij è l'anima del gruppo, Marc il più fervido organizzatore) solo quattro sono tedeschi, Marc, Macke, H. Campendonck e G. Münter; Kubin è austriaco, Klee svizzero, mentre il contributo del folklore e del misticismo russo, estremamente significativo, è portato da Kandinskij e A. Jawlenskij. Anche il concetto del primitivo si allarga: accanto alle riproduzioni di stampe tedesche dell'Ottocento, stampe giapponesi, sculture africane e artigianato delle isole del Pacifico, troviamo nell'almanacco l'arte precolombiana, figurine del teatro d'ombre egiziano, disegni infantili, l'arte popolare russa e le pitture su vetro degli ex voto bavaresi, di cui si apprezza l'ingenuità, l'elementarità degli elementi compositivi e la purezza del colore: in questa tecnica si esercitano Kandinskij, Klee, Marc.

Nelle opere del gruppo le aperture verso l'avanguardia francese, italiana e russa sono decisamente maggiori e certo preponderanti rispetto all'influenza dei pittori della Brücke, con i quali, stando alla testimonianza di Kandinskij (in ‟Cahiers d'art", 1936, n. 8-10), prima della fine del 1911 gli artisti di Monaco non hanno avuto rapporti. Una fase vicina al simbolismo cromatico e all'armonia compositiva dei fauves è documentata almeno in Kandinskij, Jawlenskij, Marc e Macke; nel 1905 i primi due avevano esposto nella sezione russa del Salon d'automne. Alcuni quadri di Klee e di Marc partono direttamente dall'esperienza cézanniana; almeno fino al 1909 Klee (v., 1957, n. 856) ama più Cézanne che van Gogh. Un'influenza cubista diretta è nello sfaccettamento di soggetti come la Tigre di Marc (1912) e nel ribaltamento dei piani dei quadri di Macke tra il 1911 e il 1912. Il dinamismo futurista insieme ai cunei luminosi del raggismo russo si riflette in opere di Marc del 1913-1914; e soprattutto è evidente, negli stessi anni, un'influenza di Delaunay contemporaneamente su Marc, Macke e Klee, che contribuirà al formarsi della struttura del cosiddetto ‛quadrato magico' di quest'ultimo. Tutti questi elementi sono trasfigurati in una ricerca che non assume né il dato reale come punto di partenza né la struttura della percezione come punto d'arrivo, ma solo l'espressione della ‛necessità interiore', la comunicazione di una visione spirituale del mondo che può basarsi sulla struttura dell'inconscio come in Klee, sul tema della fuga dall'uomo come in Marc o sul linguaggio di puri segni senza oggetto come in Kandinskij, ma tende sempre e comunque all'astrazione anche quando questa non è programmatica; di qui il rifiuto spesso ribadito del cubismo e del futurismo anche da parte di chi ne utilizza certi schemi compositivi. È in questa cerchia, e non nella Brùcke, che la parola Geist e l'idea della fusione nel cosmo vengono assunte costantemente nel senso sopra accennato.

Dagli artisti del Blaue Reiter non è partita nessuna forma di contestazione della tecnica pittorica, come è avvenuto nell'ambito della ricerca cubista con la pratica del collage e soprattutto con la defezione dadaista (M. Duchamp), o con le ‛serate futuriste' che tendono a dissolvere effettivamente l'opera nell'azione effimera. Essi avvertono però, come risulta dagli articoli dell'almanacco, l'assurdità dell' ‛arte da museo' e del ‛quadro da parete' nella società contemporanea. La soluzione che essi offrono è, per il momento, più teorica che effettiva; effettiva in parte diventerà con il lavoro didattico di Kandinskij e Klee al Bauhaus e con la relazione istituita tra la ricerca figurativa, la funzionalità architettonica e la strutturalità del design. La soluzione per ora consiste nel recupero di un' ‛arte monumentale', di una Gesamtkunstwerk che è aspirazione alla sintesi di tutte le arti e all'identificazione di arte e vita in un atteggiamento estetico integrale. Qui vanno tenute presenti almeno due radici: la coralità e l'aspirazione al trascendente dell'arte medievale (ossia il ‛mito della cattedrale' come sintesi delle arti, ripreso nell'architettura espressionista e nel programma del Bauhaus), e la Gesamtkunstwerk wagneriana. Per Kandinskij l'opera d'arte totale deve realizzarsi nel teatro, sintesi dinamica di suono musicale, danza, colore e parola; ed egli stesso tenta di realizzarla in Il suono giallo e di teorizzarla nel saggio Sulla composizione scenica, ambedue pubblicati in Der blaue Reiter.

Il rapporto con la musica, appoggiato dalla ripresa di una vecchia teoria sulla corrispondenza tra colori e suoni musicali, è fondamentale per tutti gli artisti del Blaue Reiter e soprattutto per Kandinskij e Klee; ricordiamo l'importanza dell'inserimento degli scritti di Th. von Hartmann, L. Sabaneev e soprattutto A. Schönberg nell'almanacco. La rivisitazione wagneriana rimanda all'area simbolista, mentre un rapporto diretto tra pittura e musica è meditato anche da Matisse e Vlaminck; e all'area simbolista si collegano molte altre cose. Anche se non bisogna confondere le parole sintetista e sintetico, va tenuto presente che in vari saggi Kandinskij definirà l'arte nuova ‛sintetica' in opposizione a quella ‛analitica' della tradizione precedente, compreso l'impressionismo, e nell'articolo del 1911 Worringer riunisce tutti gli artisti innovatori nella definizione ‟espressionisti e sintetisti", tra i quali quindi non fa molta differenza; oltre al pensiero di Kandinskij, le teorie sul colore abbozzate in tono quasi scherzoso da Macke e Marc in due lettere del dicembre 1910 (v., 1964, pp. 25-30) rimandano, rispettivamente, alla corrispondenza tra pittura e musica e alla teoria della Einfùhlung; dal postimpressionismo proviene la dialettica di astrazione ed empatia, e non solo nel senso indicato dal Worringer: nei primi quadri astratti di Kandinskij i segni si caricano di un valore ‛empatetico', Marc preferisce le allusioni organiche, plastiche, dinamiche nei quadri astratti e diventa invece ‛cristallino' dove conserva il tema animalistico.

Non è possibile in questa sede seguire le direzioni individuali degli artisti, così caratterizzate e profondamente diverse tra loro. Bisogna però ancora ricordare che, se rifiutano di porsi il problema della forma, cercano però tutti l'affinamento dei mezzi di comunicazione. Una vera e propria angoscia per la non raggiunta conquista del colore, seguita poi dall'esaltazione del successo, è espressa da Klee (v., 1957, n. 810; solo durante il viaggio a Kairouan nel 1914 potrà dire ‟il colore mi ha conquistato") e da Marc tra il 1908 e il 1910. Kubin è altrettanto disperato di non possedere una ‛forma', finché questa gli si rivela quasi come un processo liberatorio quando scrive di getto il romanzo L'altra parte (1908), ricco di spunti autobiografici relativi alla storia del suo inconscio. Il problema della conquista del colore diventa drammatico per questi artisti perché esso, a differenza di quanto si proponeva il colore puramente costruttivo, armonico, autosufficiente dei fauves e il colore psicologico dei pittori della Brücke, si carica di una più complessa funzione costruttivo-architettonica, che comprende il riferimento a dati psicologici universali e a un valore cosmico, assoluto.

La rivista ‟Der Sturm" è fondata nello stesso periodo in cui si stacca dal gruppo berlinese Secessione la Nuova secessione, appoggiata da Walden; nella sua galleria esporranno, accanto alle tante rappresentanze straniere, gli artisti del gruppo di Dresda e di quello di Monaco. Da questo momento Berlino resterà il nuovo centro della vita artistica; e intorno a questo momento si fissa, come si è visto, la definizione stessa di espressionismo. L'attività della rivista accentua ancor più il carattere di apertura europea e la disponibilità ad affrontare il problema del rapporto con la scienza e tutte le altre manifestazioni culturali; mentre Kandinskij e Marc, da parte loro, stanno progettando un secondo almanacco, mai più realizzato a causa della guerra, dedicato proprio ai rapporti tra arte e scienza. E qui che si forma il legame con l'espressionismo degli austriaci, con Loos, autore di numerosi articoli, e Kokoschka, di cui si pubblicano vari disegni e, nel luglio 1910, il dramma Assassinio, speranza delle donne; si prende posizione contro il nazionalismo di Vinnen e dei suoi compagni; si pubblicano i manifesti dei futuristi, che espongono a Berlino nel 1912, e frequenti articoli sugli artisti francesi.

La posizione espressa da vari autori sul rapporto tra arte e progresso scientifico, anche se tutt'altro che unitaria, assume un carattere modernistico-progressista con sortite rivoluzionarie, che formerà la base ideologica di alcuni architetti espressionisti e del Rauhaus. In polemica con la rivista ‟Kunst und Künstler" e il suo direttore K. Scheffier, si rifiuta l'idea di una fine dell'arte uccisa dalla tecnica, dalla massa e dal concetto dell'utile e ci si getta con ottimistico entusiasmo a scoprire funzioni e valori artistici non contro, ma dentro il progresso scientifico. Se impotente è la protesta integrale, cieca è questa fiducia in una troppo facile alleanza, come cieco è l'errore di chi in buona fede accetta gli ideali del Werkbund e più tardi il compromesso del Bauhaus. Anche per questo, forse, più tardi Walden partirà per la Russia e, a differenza di Kandinskij e tanti altri, per non far più ritorno. Poche sono le testimonianze di una coscienza dell'inattualità di un'arte libera nel vigente sistema di produzione; si parla tanto di Nietzsche e non di Morris, di conquiste e non di contraddizioni. In questi anni anteguerra quasi solitaria si leva la voce di Loos che ammonisce contro l'architettura come arte, l'arte come ‟ornamento e delitto", strumento della moda e quindi strumento di una gestione dell'industria il cui scopo è il mutare continuo dello stile per l'incremento della produzione e del profitto; ma anche Loos, in fondo, non affronta direttamente il problema della produzione e si limita, a torto o a ragione, a un'ascetica rinuncia all'arte. A favore dell'ingegnere contro l'architetto come astratta figura di creatore di forme si esprime ancbe J. A. Lux (Der Ingenieur, in ‟Der Sturm", giugno 1911, n. 66), l'autore della monografia su O. Wagner (1914).

Intanto si affronta il problema con cui Gropius va già cimentandosi: la didattica della forma artistica e l'arte applicata. È a questo punto che il problema dell'arte come comunicazione si salda a quello della progettazione. È estremamente significativa la vignetta che appare per molti numeri nelle pagine pubblicitarie della rivista: una xilografia reclamizza il MUIM Institut, una scuola diretta da Pechstein e Kirchner, dove si impartisce un insegnamento ‛moderno' sulla pittura e altre tecniche, nonché ‛pittura collegata con l'architettura'. Il momento dell'istinto sembra finito.

Un carattere particolare ha l'espressionismo degli austriaci Kubin, Kokoschka e E. Schiele, anche se importante è il loro contatto con i tedeschi. Diversa è la formazione sul piano figurativo: per Kokoschka e Schiele resterà fondamentale l'influenza del linearismo tortuoso di Klimt; Kubin, che si è dedicato prevalentemente alla grafica, parte, assai più dei tedeschi, dall'esperienza simbolista anche e soprattutto letteraria; le sue opere tra il 1898 e il 1905 sono influenzate in particolare da F. Rops e O. Redon. Ma diverse soprattutto sono la situazione culturale e politica in cui operano. L'Austria è la patria di O. Wagner e di Freud. Dagli architetti viennesi, oltre che da Klimt, gli artisti austriaci ereditano il funzionalismo di una linea scattante e lucida anche quando esprime i contenuti più tormentosi, linea che nemmeno il violento colorismo di Kokoschka sopprime; e allo stesso mondo di Freud appartiene l'analisi psicologica, venata di romanticismo ma sempre spietatamente oggettiva. In Kubin questa si trasforma consapevolmente in uno studio diretto dell'inconscio, soprattutto del materiale onirico, e in una forma di autoterapia che lo collegano al movimento surrealista ancor più che a quello espressionista. Infine, gli espressionisti austriaci non vivono tanto il dramma della libertà e dei valori umani soffocati da una corsa al primato industriale, quanto quello di un mondo in sfacelo, in cui lo splendore bizantino si accompagna a un tradizionalismo decrepito. Non la ricerca di un significato originario dell'esistenza, ma la visione di un crollo già in atto si riflette nel ricorrente tema della morte.

L'unico scultore espressionista può considerarsi E. Barlach, noto anche come autore di drammi e incisore, soprattutto nella tecnica xilografica. Resta appartato dai centri dell'espressionismo figurativo; del movimento egli isola due componenti fondamentali: l'aspirazione religiosa, che lo conduce spesso a temi della storia cristiana e a una forma di protesta sociale nelle figure di povertà e di dolore, e il costante riferimento alla scultura gotica. Idealmente, anche per la prevalenza del fattore letterario sulla ricerca linguistica, si può avvicinare all'espressionismo di finalità esplicitamente sociale di un'artista come K. Kollwitz; e, per l'associazione di religiosità e umanitarismo, le sue opere sono divenute fatalmente uno dei modelli, forse il più noto, dell'arte sacra contemporanea.

Una posizione appartata e differenze notevolissime rispetto al gruppo tedesco, col quale scarsissimi sono i rapporti, ha il cosiddetto ‛espressionismo fiammingo', di cui il più noto rappresentante è C. Permeke. Il suo interesse è volto prevalentemente a ritrarre il popolo e una sorta di rude natura anch'essa di sapore popolano, in composizioni in cui il colore è cupo e denso, caratterizzato spesso da un'asprezza verdastra, da un violento spessore materico e da una costruzione massiccia e monumentale.

Vengono considerati espressionisti, anche se con il movimento in questione poco hanno in comune, altri artisti. P. Modersohn-Becker, che parte dal naturalismo della scuola di Worpswede e rivela poi l'influenza di Gauguin, dipinge immagini di una umanità primitiva, in cui le stesure piatte di colore e l'ingenua ornamentazione sono composte in una severa monumentalità. C. Rohlfs corregge con la deformazione prospettica e l'esasperazione coloristica quel fondamentale impressionismo pesante e materico che era proprio degli epigoni tedeschi del movimento.

Dopo la prima guerra mondiale l'espressionismo figurativo si risolve in altre forme di comunicazione e di protesta. Esso riappare in molti casi nei caratteri originari ogni volta che gli artisti si pongono in contrasto con le tendenze dell'arte ufficiale o con un concetto di arte come ricerca formale, strutturale, astratta, e soprattutto quando si propongono di manifestare nel modo più diretto una protesta politica e sociale o un'analisi realistica di un mondo oppresso dal dolore, dalla dittatura, dalla guerra. È chiaro che in tutti questi casi i riferimenti all'espressionismo hanno un carattere strumentale e sono da intendersi come una sorta di polemico e simbolico revival, mentre storicamente la loro esperienza va inquadrata in condizioni diverse. Così, ad es., nell'ambito della scuola di Parigi, il lituano Ch. Soutine e il bulgaro 3. Pascin rievocano la deformazione e l'esasperazione del segno espressionista per realizzare, il primo, un'immagine tragica e sanguinosa dell'esistenza, il secondo, un senso di disfacimento e di metafisica angoscia; Scipione e M. Mafai introducono il riferimento espressionista nella Scuola romana come mezzo per esprimere una protesta politica e morale.

Già annunciata da alcune opere precedenti alla guerra, si afferma in Germania a partire dal 1920 la Neue Sachlichkeit, che significa nuova oggettività o nuovo realismo ed è stata anche definita da F. Roh, insieme a contemporanee (ma in realtà diverse) ricerche italiane, realismo magico. La tendenza si oppone programmaticamente all'espressionismo, ma a esso per molti versi continua a far riferimento. Il significato del termine si può introdurre con le parole di G. F. Hartlaub, direttore del Museo di Mannheim, dove nel 1925 ha luogo una mostra di opere ‛oggettive': ‟L'espressione deve realmente essere applicata come un marchio al nuovo realismo che ha un sapore socialista. In Germania esso è stato in relazione con il contemporaneo sentimento generale di rassegnazione e di cinismo dopo un periodo di esuberanti speranze (che avevano trovato sbocco nell'espressionismo)" (v. Neue Sachlichkeit, 1925). La tendenza ha in comune con l'espressionismo, soprattutto berlinese, la rivolta sociale, la risoluzione dell'arte nell'impegno morale e la concezione dell'esistenza come dolore e violenza; ma bisogna anche ricordare quanto Kandinskij, sempre sostenitore dell'astrazione nei suoi scritti, affermava in Lo spirituale nell'arte: la vera astrazione e il vero realismo coincidono nella resa di una realtà autentica, non mascherata dalle convenzioni. Degli stessi movimenti i nuovi realisti rifiutano l'illusione di una rivoluzione fondata sull'atto estetico, l'ottimismo, l'evasione dalla concreta realtà sociale e si propongono un'analisi diretta del vero che si pone come denuncia ed è tutt'altro che passiva e rassegnata. L'arte è ancora intesa come comunicazione e non come forma; ma muta l'oggetto della comunicazione e la protesta non s'identifica più con la formazione del mezzo espressivo, bensì lo subordina totalmente, traendolo indifferentemente dagli esempi espressionisti, cubisti o del realismo accademico. Non si ricercano più le relazioni cosmiche o il significato universale dell'esistenza, ma l'ingiustizia, la sofferenza, i vizi di una situazione particolare; i temi sono gli orrori della guerra, lavoratori che soffrono, soldati e borghesi corrotti, la desolazione del mondo dell'industria e le miserie della città, i mezzi preferiti la deformazione della satira e la riproduzione di un brano di vita, spietata, esatta, lucida e quasi iperreale.

Le condizioni da cui si sviluppa la Neue Sachlichkeit sono di ordine politico e sociale, e in seconda istanza discendono da una concezione dell'arte che nasce dalla delusione o dall'impegno diretto di modificare la realtà e che si è già affermata in altre iniziative, come quelle della Novembergruppe: la guerra perduta, il disastro economico, la psicologia del ‛reduce', le speranze rivoluzionarie seguite dal soffocamento sanguinoso dei moti spartachisti (gennaio 1919), l'insoddisfazione per il compromesso socialdemocratico e in particolare per la svolta in senso conservatore segnata dalla politica di G. Stresemann (1924); la rinuncia alle posizioni dell'avanguardia e il ritorno all'ordine accompagnato da una ripresa di temi tradizionali, della figuratività e anche di un classicismo accademico, che ha luogo contemporaneamente in altri paesi anche e soprattutto in un'ottica conservatrice. In questo clima, all'artista restano aperte tre soluzioni, che di fatto s'intrecciano a vicenda: adottare la figurazione come strumento di denuncia (Neue Saehllchkeit), rinunciare all'azione immediata per configurare una ricostruzione proiettata nella dimensione utopica (Novembergruppe), tentare un recupero della funzione sociale dell'arte, intesa come analisi delle strutture visive da utilizzare nella ricostruzione dell'ambiente, ossia nell'architettura, nell'urbanistica, nel design e nella didattica per preparare i relativi operatori (Bauhaus). Nel passo citato Hartlaub afferma anche che ‟questa salutare disillusione trova in Germania la sua più chiara espressione nell'architettura". La nuova oggettività non va quindi contrapposta al ‛formalismo' astratto degli ex-espressionisti Klee, Kandinskij e Feininger che insegnano al Bauhaus, ma rappresenta una diversa soluzione dello stesso problema, come può essere comprovato dal carattere sachlich, sia pure in una finalità diversa, di O. Schlemmer, anche lui insegnante al Bauhaus. D'altra parte una carica utopica è anche nei pittori della Neue Sachlichkeit, e forse proprio uno scarso ancoramento al reale ne determinerà la risoluzione in un atteggiamento ben più evasivo e disimpegnato di quello dei ‛formalisti': in America G. Grosz rinnegherà il proprio impegno sociale, O. Dix inclinerà sempre più verso un'interpretazione magica e surreale e infine verso temi religiosi, M. Beckmann verso un monumentalismo ormai vuoto di protesta.

Sono significativi i rapporti che tutti questi movimenti hanno con dada: Dix e Grosz giungono alla conversione sachlich direttamente dal dada di Berlino. Nella rivista ‟Frühlicht" accanto ai visionari della Novembergruppe si pubblica un articolo di K. Schwitters; rapporti diretti si hanno anche tra i dadaisti e il Bauhaus. Questa è la controprova che all'origine di tutti i diversi tentativi di soluzione c'è comunque il rifiuto dell'arte come produzione di un valore, destinato a divenire feticcio e merce per il fruitore borghese; ma nello stesso tempo si riafferma, anche dietro l'apparenza dell'anonimia, il valore del lavoro dell'artista, sia esso il demiurgo che vuol plasmare il nuovo mondo o, più modestamente, il vate che condanna i vincitori e difende i vinti. Nella difesa di questo valore è l'ultima eco dell'individualismo espressionista.

I più noti tra i pittori della Neue Sachlichkeit sono Dix, Grosz e Beckmann. I primi due hanno in comune il realismo deformato dalla satira, l'incisività del segno (che fa spesso preferire la rapidità del disegno e l'incisione alla pittura), ancora fortemente espressionista in certe immagini, e la tendenza alla tipizzazione che si attua con procedimenti geometrizzanti desunti dal cubismo. Con un colore avvampante e la sintesi di cubismo ed espressionismo Grosz realizza, in un'opera come Omaggio a Oskar Panizza, un crudo ritratto storico opposto alle visioni idealizzanti del Blaue Reiter. L'esattezza memore della fotografia isola gli allucinati ritratti di Dix in una luce cruda, raggiungendo spesso un risultato quasi iperreale. Beckmann è più attento alla costruzione della forma attraverso duri piani squadrati, mantenendo livido il colore, e raggiunge soprattutto nei ritratti un effetto di monumentalità antieroica, che riflette un'umanità disincantata, ‛maschere' che non alludono più a una realtà nascosta dietro il visibile.

4. La sintesi delle arti. Architettura e spettacolo

Se l'architettura è costruzione di uno spazio umanamente fruibile, in cui si concretizza nella forma il rapporto con la società e la natura, appare difficilmente concepibile un'architettura espressionista, almeno intendendo il termine nel suo significato più integrale. La pura protesta, il rifiuto della ‛civilizzazione', il soggettivismo e l'introversione, il risalire al nucleo dell'esistenza e il ricercare un inserimento nel corso ininterrotto dell'essere e non nel dato naturale empiricamente percepibile, non producono, almeno direttamente, un'architettura. È logico quindi che le premesse di un'architettura espressionista si siano poste nel momento della risoluzione dell'espressionismo nella dimensione sociale, e siano quindi circa contemporanee alla formazione della Neue Sachlichkeit e del Bauhaus. Tuttavia esiste anche un'architettura prodotta tra il 1907 (data di fondazione del Deutscher Werkbund) e l'inizio della guerra, che presenta, al di là di profonde differenze formali, alcuni caratteri costanti che si possono mettere in relazione con la ricerca contemporanea dei pittori e soprattutto con il dibattito svolto nell'ambito della rivista ‟Der Sturm"; qui tra l'altro A. Behne pubblica nel 1915 l'articolo Expressionistische Architektur in cui cita Loos e Taut come esempi di architetti espressionisti e sostiene il principio della Sachlichkeit.

Il concetto di architettura espressionista è una riscoperta relativamente recente (intorno al 1960) ed è più comunemente riferito ai progetti utopistici e alle rare opere in cui si realizza il rifiuto di ogni canone formale e di ogni condizionamento che possa limitare la libertà dell'espressione: un carattere nettamente pittorico o plastico, forme asimmetriche o irregolari. Si pensi soprattutto alla torre-osservatorio di Einstein di Mendelsohn a Potsdam (1919); e anche al primo e al secondo Goetheanum di Steiner a Dornach (1913-1918 e 1925-1928), all'atrio del colorificio Źchst di Francoforte (1920-1924) di P. Behrens, al Chilehaus di F. Höger ad Amburgo (1923). A nostro avviso è più corretta la posizione di chi ha impostato diversamente il problema e, constatato l'esiguo numero di queste opere e le notevoli differenze tra esse, nonché il rapporto esistente tra l'architettura prerazionalista e razionalista e una certa tendenza dell'espressionismo, preferisce parlare del problema di un'architettura contemporanea all'espressionismo piuttosto che di architettura espressionista, magari contrapposta al razionalismo architettonico.

Si parla di prerazionalismo per un gruppo di architetti che operano prima della guerra: in Austria e in Germania, in particolare, Loos, Behrens, il primo Gropius e, con maggiori limitazioni, van de Velde e Poelzig. Il processo di semplificazione del linguaggio tradizionale, già avviato dagli architetti del gruppo Secessione viennese (O. Wagner, J. Hoffmann, J. M. Olbrich, il cui lavoro a Darmstadt tra il 1899 e il 1908 è un importante canale di comunicazione tra l'esperienza austriaca e quella tedesca) e spesso attuato in termini di nuda aderenza al dato tecnico e funzionale, indica che una tendenza ‛oggettiva' in architettura precede quelli che saranno gli sviluppi e la risoluzione dell'espressionismo pittorico dopo la guerra. Ma, soprattutto in Germania, si nota anche la tendenza a un'interpretazione dichiaratamente simbolica della funzione. Il Deutscher Werkbund, nell'ambito del quale operano i maggiori architetti tedeschi del momento, si propone una collaborazione di arte e industria attraverso il medium dell'artigianato, nel tentativo di una sintesi di qualità e quantità, al fine più o meno esplicito di migliorare il prodotto della lavorazione in serie, aumentarne la richiesta e rendere più competitiva sul mercato europeo l'industria tedesca. Questo aspetto è agli antipodi del significato centrale dell'espressionismo; ma è meglio dire che costituisce un'altra faccia dello stesso problema. Anche per i teorici del Werkbund si tratta di salvare il ‛lavoro di qualità', e quindi in un certo senso lo spirito contro la materia, e sulla tesi industrialistica non tutti sono d'accordo: è nota la controversia del 1914, in cui van de Velde oppone disperatamente il lavoro individualizzato alla tesi della standardizzazione sostenuta da Muthesius (del quale è importante lo studio sistematico della produzione inglese compiuto durante un soggiorno in Inghilterra, e che entra come componente essenziale nel metodo di progettazione del Werkbund). Dalla sua parte sono, tra gli altri, H. Poelzig e Bruno Taut, accanto a A. Endell, H. Obrist, B. Pankok. Il rifiuto della meccanizzazione rappresenta anche una forma di prosecuzione del pensiero morrisiano (ma non del tutto coincidente è l'impegno morale e sociale) fino all'ultimo tentativo di recupero dell'artigianato del primo programma di Gropius per il Bauhaus.

Il primo architetto che è in contatto diretto con l'espressionismo è Loos, amico e sostenitore dell'arte di Kokoschka. Come si è detto, il rifiuto dell'ornamento è il rifiuto morale di una certa gestione dell'industria. E una protesta sociale, una difesa del ‛povero' e un ascetico rifiuto del superfluo è negli scritti come nelle realizzazioni di Loos, in cui tuttavia, soprattutto negli interni, il principio è attuato più con la scarnificazione formale che con la scelta dei materiali. La simmetria nell'impianto degli edifici rivela la matrice classica, che è anche frutto di una consapevole scelta ideologica; ma la nudità degli esterni, con le finestre tutte uguali tagliate nell'intonaco bianco, è un parallelo della riduzione e concentrazione dei mezzi operata dai pittori espressionisti.

Negli edifici industriali di Poelzig e di Behrens il tema è trattato con l'intenzione di esprimere simbolicamente una concezione esaltante del lavoro e del potere tecnologico. Nelle opere di Poelzig il recupero di elementi medievaleggianti, l'uso del cotto, la netta plasticità di certi particolari sortisce effetti di cupa aggressività, anche dove è da valutare la libertà planimetrica e il rispetto funzionale. Behrens si può considerare la prima figura di designer al servizio di un'industria, la AEG, per cui progetta non solo gli edifici ma anche gli oggetti da produrre in serie, degni di stare alla pari di quelli del Bauhaus per la strutturale connessione di funzionalità ed essenzialità formale; ed è anche un importante anello di congiunzione tra le tendenze funzionaliste dello Jugendstil e il Bauhaus: nel suo studio lavorano per un certo periodo anche i giovani Gropius e Mies e, più brevemente, Le Corbusier. Nella fabbrica di turbine AEG (Berlino, 1909), come in tutta l'opera di Behrens, il punto di riferimento è ancora classico, ma non per la carica utopica di Loos, bensì per un'esaltazione quasi morale del lavoro nell'industria, nuovo centro di potere e nuovo tempio dello spirito.

La padronanza delle nuove tecniche conduce a risultati notevoli, come la grande volta di costoloni in cemento armato del Palazzo del centenario di M. Berg a Breslavia (1912); nello stesso tempo esse vengono esaltate con ingenuo sapore mistico, come nel padiglione dell'acciaio a Lipsia (1913) e nel padiglione per le industrie tedesche del vetro per l'Esposizione di Colonia (1914) di Bruno Taut, che anticipa il tema dell'architettura di cristallo del momento utopistico ed è da porre in stretta relazione con la Glasarchitektur di P. Scheerbart, pubblicata in ‟Der Sturm"; mentre nello stesso arco di tempo Marc, Macke e Klee scompongono la luce in composizioni cristalline. Non parliamo qui di A. Perret e T. Garnier; ma si deve notare che il diverso atteggiamento da loro assunto nei confronti della tecnica rispetto ai tedeschi e agli austriaci corrisponde in parte alle differenze riscontrate tra i fauves e gli espressionisti: considerazione oggettiva della tecnica specifica, tendenza a un equilibrio classico, rinuncia a un simbolismo che rimandi a significati al di là dell'oggetto, e tutto ciò anche nell'idea urbanistica di Garnier, dove l'impegno ideologico-formale è fondamentale.

Intanto l'Officina Fagus (Alfeld a. d. Leine, 1911) e il modello di fabbrica per l'Esposizione di Colonia (1914) di Gropius, partendo dalle stesse premesse di un Behrens o un Taut, e anch'esse non estranee a un'interpretazione simbolica, trasformano radicalmente il metodo di progettazione, sviluppandolo intorno alla considerazione della funzione, del movimento e del lavoro umano di cui saranno teatro. È già l'inizio di un'altra fase della storia dell'architettura.

Il primo movimento nella cultura espressionista in cui si pone direttamente il problema dell'architettura è la Novembergruppe, nata nel novembre 1918, nel clima di cui già si è detto. Subito dopo nasce il suo organo esecutivo, lo Arbeitsrat für Kunst (Consiglio di lavoro per l'arte), le cui prime iniziative sono la pubblicazione del programma di architettura di Bruno Taut (Natale 1918) e di una circolare con un programma e i nomi degli aderenti (marzo 1919) e l'allestimento della ‛mostra di architetti sconosciuti' (aprile 1919), introdotta da tre brevi scritti di Gropius, Bruno Taut e del critico Behne. Oltre a questi nomi, tra gli aderenti e simpatizzanti troviamo critici, intellettuali, letterati, musicisti, pittori, scultori, architetti; tra questi ultimi i più noti sono M. Taut, O. Bartning, A. Meyer, E. Mendelsohn, L. Hilberseimer, C. Krayl, i fratelli H. e W. Luckhardt, H. Poelzig, H. Finsterlin (in realtà un pittore che ha disegnato prevalentemente architetture utopistiche); tra i collaboratori della rivista ‟Frühlicht" diretta da Bruno Taut (1920- 1922) troviamo anche H. Scharoun, mentre una partecipazione più marginale è fornita da Behrens e Mies van der Rohe. Sono presenti tutti gli artisti già protagonisti della Brücke, mentre del gruppo del B/aue Reiter c'è solo Campendonck: Marc e Macke erano morti in guerra, Kandinskij è in Russia. Il riferimento all'espressionismo non è di ordine formale: l'appello è rivolto a cubisti, futuristi e impressionisti senza distinzioni; ma è di ordine morale e investe il concetto stesso dell'arte, unico mezzo per ricostruire un mondo dello ‛spirito'. La circolare del 1919 inizia con la definizione dell'architettura come ‟l'espressione cristallina dei pensieri più nobili degli uomini, del loro ardore, della loro umanità, della loro fede, della loro religione". Caratteri fondamentali e comuni a tutto il gruppo sono un certo impegno sociale e l'utopismo.

Quest'ultimo non va inteso solo nel senso che i disegni di pittori e architetti presentino progetti irrealizzabili: la dimensione utopica è posta come condizione del programma stesso, sia pure limitata a una fase transitoria. In questo momento il problema dell'alloggio, del restauro e della ricostruzione degli edifici pubblici distrutti e di una ristrutturazione urbanistica è grave e urgente; inoltre si avverte che, non solo a causa della crisi economica contingente, l'arte non occupa più una posizione centrale nel mondo contemporaneo. Non è più un'intuizione o un timore, come prima della guerra; è una consapevolezza. E questa posizione si vuole a tutti i costi recuperare; si avverte che la forma stessa coincide con l'utopia, e questa forma si vuole al tempo stesso distruggere frammentandola in mille ricordi revivalistici (il gotico, il barocco, il Settecento, il liberty, l'Oriente, l'Egitto e addirittura, come in Finsterlin, la preistoria del genere umano) e salvare con la strenua difesa della sua superiorità spirituale. E dunque lo stesso problema dei pittori espressionisti trasportato su un terreno solo apparentemente più concreto; ed è lo stesso problema, ma diversamente impostato, delle contemporanee esperienze russe certamente note al gruppo. In ‟Frühlicht" oltre a scritti di Scheerbart, a riproduzioni di edifici di A. Gaudi, a un progetto fantastico ottenuto con assemblaggio materico di Schwitters, a un articolo di J. J. P. Oud, è pubblicato (primavera 1922) un articolo sull'architettura in Russia e un altro sul progetto di V. Tatlin per il Monumento alla Terza Internazionale. Dalla Russia Kandinskij, impegnato nella sezione arti figurative, lancia appelli per costituire l'edificio mondiale delle arti" e nel 1920 pubblica un articolo che contiene; tra l'altro, una breve relazione sul programma della Novembergruppe. Ber era partito per la Germania nel dicembre 1918.; per suo tramite si dovevano raccogliere adesioni al programma di unificazione delle forze rivoluzionarie nell'arte. Nell'estate 1919 arriva alla sezione la risposta positiva dello Arbeitsrat (la cui stessa denominazione si rifà a quella di Soviet) firmata da Bruno Taut, Gropius, Klein, Pechstein (v. Kandinskij, 1970; tr. it., vol. Il, pp. 54-59).

I fini del lavoro utopistico sono così riassunti nella circolare del marzo 1919: ‟Arte e popolo debbono formare un'unità. L'arte non deve più essere godimento di pochi, ma felicità e vita per la massa. L'alleanza delle arti sotto le ali di una grande architettura è la meta". I luoghi di mediazione tra le arti e il popolo saranno le ‛case del popolo' e la condizione per raggiungere lo scopo è una trasformazione della didattica, che non dovrà più distinguere tra la preparazione dell'architetto, dello scultore, del pittore e dell'artigiano e dovrà fondarsi sul lavoro pratico in officina.

Le concezioni politiche dei vari membri dello Arbeitsrat, cui si è già accennato all'inizio di questo scritto, divergono in alcuni punti, ma concordano nell'identificazione di un comunismo cosmico, una sorta di neocristianesimo primitivo e un forte spirito libertario. Frequenti, soprattutto in ‟Frühlicht", sono le citazioni dal Nuovo Testamento e da Meister Eckhart, ma anche da mistici orientali. Da quasi tutti è espressa in maggiore o in minor misura un'ideologia antiurbana, sia nelle teorie che a livello di immagini, e spesso si fa riferimento diretto alle città ideali della tradizione del socialismo utopistico, ai familisteri, alla garden city; La dissoluzione delle città di Bruno Taut deriva in gran parte dalle teorie di Kropotkin. L'arte deve assumere un carattere pubblico, ma rifiutare qualunque costrizione da parte dello Stato. L'arte è il fine, la rivoluzione politica il mezzo: questa ‟deve essere utilizzata per la liberazione dell'arte".

Nei disegni dei novembristi, i cui temi ricorrenti sono la casa del popolo, la cattedrale, il teatro, il monumento ai caduti della rivoluzione, la città ideale, si sono distinte fin dall'inizio due direzioni, una ‛cristallina' e una ‛organica . e ancora la dialettica di astrazione ed empatia. Da un lato troviamo Bruno Taut, che si sceglie lo pseudonimo di Glas (vetro): simbolo della purezza, della luce, della comunicazione tra interno ed esterno e dell'aspirazione a un'unità cosmica; i suoi disegni per edifici, come le trasformazioni del globo terrestre (Architettura alpina), per lo più rigorosamente geometrici, si cristallizzano in forme stellari, cariche di contenuti simbolici, o si appuntiscono verso il cielo con un recupero enfatico del gotico. Nella stessa direzione lavorano il fratello Max Taut, forse già dimostrando quella tendenza all'oggettività (come sostiene F. Borsi) che sarà del lavoro successivo; i fratelli H. e W. Luckhardt, anch'essi spesso inclini a una forma di razionalismo in progetti meno irrealizzabili. Il più fanatico del cristallo è W. Hablik, che inventa una struttura prismatica da realizzarsi in vetro, cemento e ferro e composta da cubi sovrapposti secondo assi direzionali rotanti. Gli ‛organici' invece rifiutano la geometria euclidea e le forme regolari, accentuano la plasticità, il principio della crescita dell'edificio dall'interno, scelgono forme zoomorfiche e antropomorfiche con riferimento ai fossili e ai banchi corallini. Il più noto, e forse il pioniere in questo, è Mendelsohn; Finsterlin sogna un nuovo modo di abitare in case senza pareti verticali e linee rette, senza rigide divisioni in vani, dove i mobili sono sostituiti da contenitori escrescenti dai muri e il cemento o la plastica avvolgono lo spazio in una continuità non interrotta da finestre o porte. Vicino a Finsterlin, anche per l'oscurità con cui descrive la sua idea architettonica intesa come creazione incessante, è P. Goesch. Lo stesso rifiuto della geometria precostituita è in H. Häring e Scharoun, che poi troveranno modo di conciliare il principio organico con la successiva fase razionalista.

Pur nel comune atteggiamento utopico, che si può considerare come una positiva fase di meditazione linguistica al di fuori dei ‛compromessi' della professione, fase poi rinnegata nel successivo richiamo all'ordine, oppure (e ci sembra più esatto) come una fuga dalla realtà nell'arte intesa come artificio, fase che il residuo utopismo del Bauhaus trasforma ma non risolve, si può fare un'altra distinzione: tra un'architettura intesa come forma, creazione di un oggetto da contemplare, e un'architettura intesa come processo di modificazione del reale, come metodo di strutturazione dell'abitare connesso all'analisi sociale, tendenzialmente identificantesi con l'urbanistica (v. Junghanns, 1971; cfr. anche M. Tafuri, Progetto e utopia, Bari 1973, in particolare pp. 92-112). Questa seconda tendenza, in cui sono collocabili i Taut, i Luckhardt, ma anche un ‛organico' come Häring, è più progressista, o meno reazionaria, e può considerarsi un ponte di passaggio al razionalismo.

Se la storia del Bauhaus non rientra in questo scritto, ciò non significa che essa esuli da un discorso sull'espressionismo. Il Bauhaus è fondato nell'aprile 1919: il suo manifesto, steso da Gropius, è circa contemporaneo alla circolare dello Arbeitsrat. Il contenuto è pressoché identico, come il tono mistico ed entusiasta; è abbandonata solo la rinuncia programmatica all'azione. D'altra parte, soprattutto nei primi anni, il Bauhaus è più un luogo di ricerca che un centro di progettazione. Si può anche dire che nel Bauhaus si portino avanti perfino le incertezze e le contraddizioni della Novembergruppe, e se dal radicalismo si è passati al compromesso, la dimensione utopica e fondamentalmente apolitica (non asociale) non è mutata. La stessa soluzione dei quartieri operai, per esempio, il tema della Siedlung, che significa originariamente ‛colonia rurale', non ha del tutto superato l'ideologia antiurbana dei novembristi. Il tipo del grattacielo di Mies nasce in pieno clima novembrista, con i primi disegni pubblicati in ‟Frühlicht" (il progetto per uffici per la Friedrichsstrasse a Berlino è del 1919). Il Monumento ai caduti di marzo di Gropius (1920-1921) e quello a K. Liebknecht e R. Luxemburg di Mies (1926) sono ancora, soprattutto il primo, nella linea novembrista; ‛espressionista' per molti aspetti è la Casa Sommerfeld di Gropius (1921). Ma i rapporti con l'espressionismo non si esauriscono qui. Innanzi tutto, a parte il cosiddetto stile romantico-nazionale, l'unica architettura nata dalla cultura espressionista è quella razionalista. Non contrastano con gli ideali dei pittori il funzionalismo e la nudità della forma: se per Mies ‟la forma in se stessa non esiste", la stessa cosa aveva detto Kandinskij nel 1912. La riduzione dell'architettura a espressione della funzione corrisponde a quella dell'arte figurativa a comunicazione; nello stretto rapporto istituito tra ricerca grafica e pittorica e progettazione di uno spazio artificiale, che va dal quartiere al tappeto, alle stoviglie, si realizza la migliore componente dell'idea di Gesamtkunstwerk, quella che proviene non da Wagner ma, per vie meno dirette, da Morris attraverso lo Jugendstlil. Nel Bauhaus è solo avvenuto il passaggio dall'individuale al sociale, senza il quale un'architettura espressionista non poteva esistere.

Ad onta di ogni proposito antiaccademico e di ogni rottura con la tradizione, nell'utopismo architettonico e nella cosiddetta architettura espressionista è fortissimo il legame con la tradizione immediata e il recupero in forma revivalistica di ‛stili' lontani nel tempo. Il plasticismo, la continuità di struttura e forma espressiva, le allusioni naturalistiche e il senso spirituale che anima la materia, tipici della Torre di Einstein di Mendelsohn, delle due costruzioni del Goetheanum di Steiner (soprattutto il secondo), dei modelli di Finsterlin, trovano un riferimento preciso nelle opere di Gaudi e in alcuni lavori di H. Obrist; elementi ‛floreali' stilizzati si trovano perfino in Bruno Taut e in W. Luckhardt, ossia tra i più rigorosi sostenitori della geometria, come pure numerose forme che ricordano i disegni di Wagner e la sua scuola. Si potrebbe addirittura interpretare (seguendo il Pevsner) l'architettura espressionista come la prosecuzione e l'enfatizzazione di motivi dello Jugendstil e del modernismo europeo. C'è poi un nuovo recupero, anzi un'orgia di motivi eclettici, assunti in due significati diversi e alterni: uno simbolistico e uno funzionalistico. A parte i ricordi esotici, la corrente ‛organica' degli utopisti fa costante riferimento al barocco, quella ‛cristallina' al classico e in tutti è la nostalgia del gotico, in particolare della cattedrale (una cattedrale è nella xilografia di Feininger sul frontespizio del programma del Bauhaus) come simbolo del lavoro collettivo e dell'aspirazione religiosa. Il recupero dell'eclettismo in chiave funzionalistica riporta soprattutto a Fr. Schinkel, considerato maestro insuperabile, ad es., da Loos, Bruno Taut, Mies.

Ci sono poi alcune tendenze locali in cui il recupero del romanico e del gotico è assunto in chiave anticlassica e nazionalistica. Il loro rapporto con l'espressionismo esiste, ma non va sopravvalutato: la ricerca dell'originario e della spiritualità nordica che trova la sua massima espressione nel Medioevo non avviene, per la maggior parte degli espressionisti, a livello di revival: Marc medita sulle vetrate del duomo di Strasburgo senza far quadri goticheggianti, Bruno Taut pensa alla cattedrale gotica riesumando piante settecentesche.

Negli stessi anni in cui si sviluppa l'espressionismo pittorico è importante a Monaco la scuola di Th. Fischer, che realizza le sue chiese in ferro e cemento armato e in forme neoromaniche; è frequentata da architetti come Bruno Taut e P. Bonatz. Uno degli edifici ‛espressionisti' più celebrati è il Chilehaus di F. Höger ad Amburgo (1923), il cui perimetro murario s'incurva come la forma di una nave terminando nello spigolo acuto della ‛prua', e dove la nostalgia gotica si avverte nel verticalismo delle nervature, nel motivo del porticato, nel colore dei mattoni e nella decorazione scultorea coi suoi archi acuti.

Il recupero dei temi medievali ha particolare fortuna negli anni venti ed è confluito nel cosiddetto stile romantico-nazionale. Nel 1919, nel discorso tenuto in occasione della riapertura del Werkbund, Poelzig sostiene: ‟L'architettura è il prodotto di una mentalità nazionale, e la deplorevole condizione delle città tedesche negli ultimi anni è stata il risultato di una connessione psichica col suolo nativo, che non esiste più. Il nostro intento è di ristabilirla". L'espressionismo non è tutto questo, ma è anche questo; è anche la prefigurazione tragicamente ingenua del principio nazista del Blut und Boden.

D'interesse particolare, perché si riallaccia direttamente al tema della cattedrale, è l'architettura chiesastica che nasce in questo periodo, radice di una tradizione che arriva fino a noi, con tutt'altra freschezza che nei prototipi di O. Bartning e D. Böhm, i quali lavorano in parallelo con una precisa intenzionalità religiosa. Bartning è uno dei protagonisti della Novembergruppe e in seguito progetta edifici di varie destinazioni, tra cui case rurali goticheggianti, e lavora anche accanto a Gropius per il quartiere Siemensstadt a Berlino; la sua fama è legata soprattutto al programma di un nuovo tipo di chiesa protestante, in cui polemicamente rifiuta il classico e adotta un gotico essenziale e ‛moderno', secondo la sua formula ‟los von Rom Kirchen" (basta con le chiese di Roma). Nel 1921 progetta la ‛chiesa stellare', non eseguita: i modelli, o forse meglio i paralleli, sono Bruno Taut e Hablik, la struttura è in acciaio. Stessi modelli e stessa struttura, ma in una pianta basilicale e un accento più monumentale, ricompaiono nella chiesa per l'esposizione Pressa a Colonia (1928) e, di nuovo in pianta circolare, nella chiesa della Resurrezione a Essen (1929-1930). Böhm, di cui due progetti di chiese sono pubblicati nel volume Arte delle chiese cristocentriche. Un progetto di Gesamtkunstwerk liturgica di J. van Acken (Gladbeck, 1922), si propone di riformare il tipo della chiesa cattolica, tentando di conciliare i due principi dell'altare come centro simbolico e strutturale e della navata come percorso verso la meta dell'altare. Nelle sue chiese l'acciaio e il cemento armato sono piegati, nella ritmica successione di arcate ogivali o paraboliche che si svolge in una discreta penombra (l'opposto della luce delle costruzioni in vetro di Bartning) a esprimere un rinnovato senso religioso e mistico.

Se il problema primario dell'espressionismo consiste nella comunicazione, nel superamento dell'arte da museo, nel ritorno a forme primitive e dirette di espressione artistica, nella fusione delle arti in una manifestazione totale, nell'identificazione dell'atto artistico nell'uomo stesso e nei suoi gesti, nel proposito di educare allo spirito la massa, il genere più adatto a realizzare tutto questo doveva rivelarsi quello teatrale e cinematografico. La maggior diffusione dell'espressionismo nello spettacolo ha luogo dopo la prima guerra mondiale, contemporaneamente al passaggio dalla dimensione individuale a quella sociale; e negli stessi anni sono anche più precisi i contatti tra questa soluzione del Gesamtkunstwerk e l'altra, che consiste nella sua risoluzione nell'architettura. Il tramite tra il teatro, il cinema e le ricerche figurative e architettoniche è costituito dalla scenografia. Scenografo teatrale è C. Klein, uno dei quattro membri ‛dirigenti' dello Arbeitsrat für Kunst, scenografi d'occasione sono Bruno Taut e soprattutto Poelzig (Il Golem), che dedica molte sue fantasie architettoniche a un progetto per il teatro di Salisburgo (1921), con il fiammeggiante interno ellittico e il porticato a spirale che mette in comunicazione l'interno e l'esterno, mirando a fondere il teatro coperto e l'arena, e che alleggerisce l'interno del teatro di Berlino (1919) con un rivestimento a stalattiti, abolito durante il nazismo, al limite tra l'arredo architettonico e l'allestimento scenico. Il Weltbaumeister di Bruno Taut è un progetto di rappresentazione scenica; e in una lettera della Gläserne Kette (8 luglio 1920) egli indica un progetto di film ‟in due millenni" dal titolo, tratto da Andersen, Le galosce della felicità: non debbono esservi didascalie, gli attori non parlano nè scrivono, ma si esprimono con la pantomima e movimenti ritmici, il cambio di scena deve avvenire a scatti o gradualmente, di modo che una scena si sviluppi dall'altra. Questa tecnica fa ricordare che nello stesso anno H. Richter, l'inquieto sperimentatore, uno dei tanti passato da Sturm a dada, realizza Preludio, un breve film astratto costituito dall'animazione di un rotolo di disegni. Fondamentale era già stato il teatro per l'attività di Kokoschka e di Barlach. I progetti espressionisti di sintesi delle arti iniziano con La composizione scenica di Kandinskij e terminano con il progetto di Gropius del Teatro totale per E. Piscator (1926), in cui il problema della comunicazione si trasforma in quello di eliminare la separazione tra pubblico e scena, e forse oltre, con la realizzazione della Filarmonia di Berlino (1956-1963), sognata da Scharoun durante tutto l'intervallo tra la fondazione della Novembergruppe e il secondo dopoguerra.

Se il dramma nella produzione letteraria ha caratteri ben definiti, la scenografia e il cinema dell'espressionismo, come l'architettura, non hanno un comune denominatore formale, ma di attitudine e intenzionalità, per cui qualcuno nega a rigore l'esistenza di film integralmente espressionisÙ (v. Eisner, 1952). Elementi impressionisti, cubisti e futuristi si mescolano alla deformazione espressionista, mentre agiscono più che altro come stimolo indiretto, meno di quanto era già avvenuto per gli architetti, l'esperienza dada e quella russa.

La scenografia, che conta tra i suoi precedenti diretti più le esperienze di A. Appia e E. G. Craig che quelle dei pittori espressionisti, tende ad abolire non solo ogni riferimento naturalistico ma anche la forma come tale, creando in alcuni casi un vuoto che isola e potenzia la figura dell'attore, in altri casi, analogamente all'esperienza futurista e come aveva già pensato Kandinskij, creando la scena con la proiezione di fasci luminosi intermittenti e in movimento. L'esperienza più originale sarà, ormai fuori dell'area espressionista vera e propria, quella di Schlemmer, che fonderà nei suoi costumi allestimento scenico e gesto dell'attore, allusione meccanica e rigore formalistico.

Nel cinema (muto) frequenti sono le sequenze fondate su effetti luminosi dinamici, forse, a livello figurativo, influenzate dalle opere di Feininger (come suppone Myers: v., 1957; tr. it., p. 254), le scene con brani naturali e architettonici deformati e instabili, gli scorci e gli effetti diagonali, i gesti spezzati e automatici, le situazioni assurde e angosciose. I temi hanno, rispetto al teatro, una tendenza irrealistica, popolare-fiabesca o mitica, molto maggiore; fonte d'ispirazione per tutto il moderno cinema dell'orrore, sono tutti all'insegna della morte, del sogno, dell'assurdo, del mito: l'assassinio e l'ipnosi, il tema definito da Mittner del ‟mago cattivo", simbolo della magia nera della scienza e preannuncio del dittatore (Il gabinetto del dottor Caligari di R. Wiene, 1919), il male che si dissolve nella luce (Nosferatu il vampiro, di Fr. W. Murnau, 1922), il mostro distruttore (Il Golem di P. Wegener, 1920), il mito faustiano (Faust di Murnau, 1926), quello dell'epopea wagneriana (I Nibelungi di Fr. Lang, 1925), la lotta di classe con risoluzione pacifista e umanitaria (Metropolis di Fr. Lang, 1926); film, questi due ultimi, ormai decisamente fuori dell'espressionismo e anzi in opposizione a esso. Se è vero che il cinema riflette più di ogni altra arte la psicologia collettiva, questa è un'antologia di tutti i complessi di una generazione sospesa tra l'orrore di una guerra e il presentimento della dittatura (v. Kracauer, 1947). Anche nell'arte cinematografica, nella diffusione e nella popolarità, fino ai nostri giorni, di certi motivi e certe tecniche (non sempre quelli qualitativamente più alti), l'espressionismo si rivela il momento di avvio di una condizione e una problematica tuttora aperta; un tentativo di soluzione che, giusto o falso che sia parlare di un suo fallimento, va analizzato per essere superato e non, cedendo a un facile fascino, posto come oggetto di nostalgici ritorni.

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Espressionismo letterario

di Gianfranco Contini

sommario: 1. Espressionismo storico e metaforico. 2. L'espressionismo tedesco. 3. Espressività dell'espressionismo (particolarmente Stramm, Benn e Becher). 4. Heym, Trakl. 5. Irradiazione dell'espressionismo. 6 Estensione dell'espressionismo nella romanistica tedesca. Heiss, Spitzer, Richter. 7. Altri ‛espressionisti' francesi (Céline, Audiberti, Michaux). 8. Joyce. 9. Espressionismo lirico in Pessoa.  10. Espressionismo italiano attorno alla ‟Voce" (Rèbora, Pea, Onofri, Boine).  11. Espressionismo gaddiano. 12. Per una linea espressionistica in Italia. □ Bibliografia.

1. Espressionismo storico e metaforico

Lo scopo che si propone il presente articolo non è affatto quello di ripristinare il termine in esponente nella sua ristretta originaria proprietà cronologica, geografica e intenzionale; è invece quello di precisare per via contestuale la portata corrente di valore polare, e per così dire categoriale, che esso è venuto assumendo nell'uso vulgato degli ultimi decenni. Benché non risulti che la vigente catacresi abbia suscitato le proteste di un etimologizzante purismo, la definizione lata e metaforica non soltanto si differenzia e affranca dalla aneddoticamente esatta, ma anzi ha avuto bisogno, per nascere, che questa dimettesse ogni attualità presente. Solo dopo la fine o la trasformazione dell'espressionismo storico - fine postumamente accelerata dalla condanna politica che procurò di travolgerne anche fisicamente i ricordi sotto l'etichetta di ‛arte degenerata' (entartete Kunst) - è stato possibile e legittimo adibire il vocabolo in funzione generalizzante.

Il processo metaforico è stato graduale, dalle arti figurative, e principalmente dalla pittura, in territorio germanico, alle arti della parola nella stessa area e finalmente alla caratterizzazione di istituti linguistici generali, che tuttavia ha luogo inizialmente nella critica sempre tedesca e successivamente nella cultura a cui la componente germanica è stata essenziale. La curva si può dire compiuta quando si parla dell'espressionismo di Gadda o magari di Boine (benché quest'ultimo nome, attraverso il referto del germanista Amoretti, faccia a tempo a comparire di sbieco in uno dei primi scritti che portino determinatamente la categoria fuori del territorio letterario germanico, quello dello Spitzer), e a ritroso quando l'applicazione metaforica è fatta, mettiamo, a Quevedo, a Rabelais, a Jacopone, a Lucano. A ritroso, o viceversa per prolungamento, se il massimo frutto dell'espressionismo ecumenico potrebbe ritrovarsi nelle parti più scavate dell' Ulysses di Joyce (per non dire di Finnegans Wake), cominciato del resto in piena epoca espressionistica e nella Trieste austro-ungarica. Tuttavia né in terreno anglosassone nè in Francia o in Spagna autori della propria tradizione si vedrebbero attribuire la qualificazione che letteralmente appartiene a un Heym, a un Trakl, a un Becher, a un Benn, mentre in Germania l'instante ricordo della scuola storicamente intesa, se non inibisce, come prova la prassi del Heiss e dello Spitzer, certo frena l'estensione tanto nell'ordine geografico quanto in quello nozionale: mai l'espressionismo potrebbe avvicinarsi al significato d'una semplice oltranza espressiva.

L'iniziale estensione metaforica ha luogo nell'ambito figurativo, quando si può discorrere di espressionismo non solo per un Grünewald, che finalmente si muove, pur configurando una morfologia-limite, nell'ambito culturale d'origine, ma, poniamo, per un Vitale da Bologna. Non a caso l'estensione appare normale, per non dire consunta, in un critico come Roberto Longhi, del quale è nota la frequentazione giovanile con gli scritti di W. Worringer, cioè proprio del critico che applicò precocemente (1911) quel termine, pazienza a van Gogh e al primo Matisse, ma nientemeno che a Cèzanne: implicando, di conseguenza, nel vocabolo una pregnanza costruttiva e assegnandogli un patronato automatico sul cubismo e sua discendenza. Pure significativo il commercio del Longhi, grazie anche al suo sodalizio con Umberto Barbaro, con l'avanguardia cinematografica, e particolarmente con l'espressionismo filmico il cui più celebre rappresentante è Il gabinetto del dottor Caligari: l'appassionato interesse per il quale non importa di necessità una concomitante adesione alla pittura di Nolde, Marc, Macke, della Brucke o del Blaue Reiter. L'inclusione nell'espressionismo d'un'arte di movimento fa intendere per il suo verso più giusto l'uso della metafora pittorica. Se un capolavoro espressionistico è detto per esempio il San Giorgio di Vitale, ciò vale quanto opporlo a uno spettacolo permanente nello spazio, non necessariamente ‛classico' ma anche sottoposto all'eventuale cifratura della ‛maniera': espressionismo è il precario frutto d'una forza scatenata, una momentanea deformazione sollecitata da un movimento, in altre parole una spazialità che includa il tempo. E fin qui appare chiara l'opposizione dell'espressionismo alla classicità e la sua distinzione dal manierismo (anche se il manierismo, in senso esteso o anche in senso proprio, per esempio più d'una volta col Pontormo o col Rosso, ha potuto produrre capidopera espressionistici): questo perché lo si è già ricevuto in coniatura estensiva e metaforica. Ma, tenendolo più vicino al suo ovvio etimo verbale e al suo etimo culturale, l'espressionismo seguita a opporsi all'im-pressionismo (come nel titolo dato dal pittore francese J.-A. Hervé a una sua serie, 1901, e soprattutto nella botta polemica, ‟Questo è ancora impressionismo? - No, è espressionismo", sorta all'interno della Sezession). Se impressionismo è fenomenismo scientificamente ineccepibile, non enunciazione d'una realtà permanente attraverso il tempo, ma fissaggio formale d'un istante labile fermato perché non collazionato con le convenzioni extrapercettive della realtà permanente, esso trascende la tradizione ma è passibile di costituirsi in tradizione nuova. Se si bada a tradurlo in istituzioni grammaticali, come per la prima volta fu tentato dalla scuola linguistica di Ginevra (ed è singolare che l'iniziativa sia stata presa dal Bally, la cui esperienza mosse dal confronto istituzionale tra il francese e il tedesco, cioè tra la forma linguistica che inventò l'impressionismo e quella che inventò l'espressionismo), l'impressionismo appare, nell'ambito d'uno stile nominale, caratterizzato dalla promozione dell'aggettivo a sostanza. L'inclusione del tempo come dimensione spaziale - che, ben oltre l'espressionismo in senso stretto, non smetterà di inerire all'autore figurativo più clamante del secolo, Picasso - potrà tradursi in termini grammaticali solo nella categoria del verbo: in tedesco non per niente chiamato Zeitwort, e parola-del-tempo'. Questa riflessione sull'uso figurativo porta dunque immediatamente, anche se di necessità sommariamente, a stabilire equivalenze linguistiche prima che ad altri visibili a critici tedeschi, lo Spitzer appunto. A proposito di quello che egli considera uno scrittore espressionista francese, Jules Romains, lo Spitzer scrive infatti: [...] Il romanticismo tedesco usa piuttosto l'aggettivo e il verbo, Herder e lo Sturm und Drang anzitutto il verbo, il classicismo tedesco piuttosto il sostantivo"; e prosegue citando con lode quest'affermazione di un manifesto di Marinetti: ‟L'adjectif portant en lui un principe de nuance est incompatible avec notre vision dynamique, puisqu'il suppose un arrêt, une méditation". Questa intelligente affermazione legittima una riduzione del fenomenismo impressionistico all'aggettivo (anche se eventualmente trasportato all'astratto, come nel famoso esempio del Bally ‟une biancheur de colonnes" per des colonnes bianches) e dà ragione di quel tanto di permanente (‟un arrêt, une méditation") che gli inerisce. Il nuovo confine contro cui si erge brutalmente l'espressionismo storico - e, per traslato, l'espressionismo categoriale - lascia di là una contemplazione non soltanto classica ma impressionistica.

2. L'espressionismo tedesco

Se si chiede quale sia il tertium comparationis della letteratura propriamente e confessatamente espressionistica, cioè di quella non già fiorita, ma scoppiata, in Germania nel periodo che K. Pinthus e G. Benn identificarono col decennio 1910-1920, e che si potrà dilatare solo di pochi anni nell'una o nell'altra direzione, la risposta rischia di esser fornita solo dalla tematica. Letteratura di urlo e distruzione, dunque; ma qui s'arresta la concordia degli interpreti. Un testimone sintonizzato come il Pinthus, amico di tutti gli espressionisti (o almeno dei sopravvissuti alla prima guerra), che restringe il suo panorama alla lirica, crede, operando ancora in periodo espressionistico (fine 1919), di potere da voci così profondamente eterogenee ricavare un bilancio unitario, tanto da sottointitolare la sua antologia Symphonie jüngster Dichtung [Sinfonia dell'ultima poesia] e da organizzarla, attingendo a tutti, come una vera sinfonia in quattro tempi. Se il primo è Sturz und Schrei [Impeto e urlo], il secondo è Erweckung des Herzens [Risveglio del cuore], e se il terzo è Aufruhr und Empörung [Rivolta e indignazione], il finale è Liebe den Menschen [Ama l'uomo]: ciò vuol dire che, per il simpatetico spettatore, alla distruzione segue la ricostruzione, che egli ravvisa, partecipandovi, in uno slancio di umanitaria solidarietà. Infatti il titolo, per parodia wagneriana, di Menschheitsdämmerung [Crepuscolo dell'umanità], è da intendersi, a mente dell'autore stesso, come tramonto seguito da una nuova alba. È interessante constatare come a questa interpretazione ottimistica e non nichilistica tacitamente e insomma pacificamente aderiscano i primi estensori tedeschi della categoria di espressionismo ad altre letterature. Ma sulla chiusura del circolo, e dunque sulla consistenza del presunto ultimo tempo, esprime automaticamente perplessità il semplice riconoscimento sentimentale dello slancio messianico, quale il Pinthus documentò, ristampando il suo fondamentale breviario quarant'anni dopo (e sottointitolandolo ormai Ein Dokument des Expressionismus), nelle dichiarazioni rese al termine della loro vita dai due opposti (ma tutt'altro che nemici) superstiti del movimento, J.R. Becher (1891-1958), spartachista e comunista ufficiale, bardo della Repubblica Democratica Tedesca, e G. Benn (1886-1956), fugacemente filonazista poi oppositore e perseguitato, riconosciuto nella Germania Federale (come nell'opinione universale) quale il maggior poeta contemporaneo di lingua tedesca. Il Becher ammette che il movimento non fu capace di realizzare poeticamente la cusaniana coincidentia oppositorum: ‟non abbiamo incarnato in nessuna opera classica l'idea del Simultanismus, lo spirito di un panteismo espressionistico"; per Benn l'espressionismo ‟piantò la sua bandiera sulla Bastiglia, sul Cremlino, sul Golgota, solo sull'Olimpo o altro territorio classico non riuscì a portarla".

Ancora più netto in questa direzione negativa lo studioso che all'espressionismo giunga da fuori, con interesse scientifico scevro di complicità, come da noi, da ultimo in fitti paragrafi della sua Storia, il sistematico e informatissimo Mittner. Il paesaggio che esce dalla sua descrizione, in quanto fondata, oltre e meglio che sui lirici, sui drammaturghi e sui narratori non attivi anche in forma lirica (Sorge, Kaiser, Toller, Unruh, Bronnen ecc., e inoltre Kokoschka e Barlach in quanto autori di teatro; Döblin, Einstein, Kubin, Klabund, Frank ecc.), è un paesaggio di violenza e di rivolta, ora nel grottesco ora nel crudele, contro la norma (familiare, sessuale, sociale, politica) prima e più che contro la forma: Urschrei [urlo primitivo], strazio, distruzione e autodistruzione, parricidio, incesto, stupro, ‛complessi' - il tutto ovviamente in ambito archetipico e con valore essenzialmente traslato - sono le categorie che accaparrano l'interesse dei produttori di letteratura piuttosto che le innovazioni di carattere tecnico. Anche per il Pinthus e per lo stesso Benn l'espressionismo (poetico) è in sostanza solo la primogenita delle avanguardie europee (nel senso che il Croce chiamava la Germania romantica la figlia primogenita dell'Europa), ma lo sguardo generalizzante portato dagli storici della cultura, pur prescindendo dai grandi eventi del pensiero anzitutto tedesco che si possono considerare consonanti all'espressionismo (la fenomenologia, la psicanalisi, la relatività generale, la fisica quantistica), dell'espressionismo vede in primis l'aspetto figurativo, più precisamente (nonostante scultori come Barlach) quello pittorico (gruppo della Brücke - Kirchner, Heckel, Schmidt-Rottluff - e Nolde, Der Blaue Reiter - Kandinskij, Marc, Macke, Klee -, Kokoschka ecc.) e l'aspetto musicale, cioè la musica atonale e la seriale, per eccellenza la dodecafonica (Schönberg, Webern, Berg, Krenek), dunque campi di risultati sicuramente ‛chiusi' e non sperimentali. La letterarietà comunque appare nettamente subordinata nel rispetto di quella totalità espressiva che perseguiva la messinscena di Reinhardt, Schreyer e poi Piscator: una realizzazione transeunte e in movimento dalla quale certamente sorge, ma per noi ormai fissato nella smorfia deformatrice del Gabinetto del dottor Caligari e dei film più famosi (quelli di Wegener, Lang, Leni, Murnau ecc.), il cinema espressionistico; mentre addirittura tende a risolversi nel pragma di quel figurino che fu, nella stessa meticcia formazione del composto, il Politerat.

Perciò il termine di espressionismo, che già Stadler riconosceva traslato dalle arti figurative (e il Mittner bene sottolinea come ciò accadesse - a opera del critico O. zur Linde - nel medesimo anno, 1911, in cui, giusta il rilievo di Fritz Martini, Wilhelm Worringer, sulla rivista di Walden ‟Ler Sturm", lo estendeva all'interno della pittura stessa, in direzione di van Gogh, di Matisse e addirittura di Cézanne), per avere quel più largo impiego categoriale nelle arti della parola che risponde a una diffusa opportunità critica, dev'essere legato a precisi istituti stilistici. Situazioni come questa iniziale di Ophelia di Georg Heym: ‟Im Haar ein Nest von jungen Wasserratten, /Und die beringten Hände auf der Flut/ Wie Flossen, also treibt sie durch den Schatten / Des grossen Urwalds, der im Wasser ruht. //" [‟Con nei capelli un nido di piccoli topi d'acqua / e le mani inanellate sopra le onde / come pinne: così varca per l'ombra / della gran foresta vergine, che nell'acqua posa"] o quest'altra bellica di Albert Ehrenstein (Der Kriegsgott): ‟Geschosse zerhacken euere Frauen, / Auf den Boden / Verstreut sind die Hoden / Euerer Söhne / Wie die Korner von Gurken" [‟Proiettili squarciano le vostre donne, / per terra / sono sparsi i testicoli / dei vostri figli / come la semente dei cetrioli"] sono situazioni espressionistiche, piuttosto medie che estreme, ma esposte in un linguaggio normale e in metri della tradizione, in un caso quartine impeccabili (soggette solo a una tenue variante nello schema delle rime), nell'altro versi moderatamente liberi con sparse rime (come la significativa di Hoden, perfettamente neutro quale in nessuna lingua neolatina, con Boden): esse non si presterebbero ad alcuna estensione. Il sincretismo del movimento consente infatti le più varie partenze culturali e ritmiche, dall'iperbole decadente baudelairiana e ‛maledetta' (particolarmente Heym) e da quella estetizzante georgiana e quasi dannunziana (particolarmente Trakl), attuabili al limite in sonetti e strofi (quartine, terzine ecc.) regolari o lievemente sollecitate, al binarismo tipico della poesia biblica (almeno nella LaskerSchtiler), al ‛verso lungo' di ascendenza whitmaniana (come in Stadler e Rubiner), al verso moderatamente libero e a quello accentuato in direzione futuristica (Stramm): una composizione oggettuale, in cui momento per momento si raggruma una grande elasticità di movenze, è ottenuta in modi molto diversi e quasi opposti dai due più veri poeti, Trakl e Benn. Nessun espressionista ha puntato su una poetica barocca della meraviglia (benché anche Benn tolleri il paragone col barocco), ma a nessuno è riuscito di usare una grana linguistica che non fosse, semanticamente come fonicamente, resistente e ruvida. All'interno di questa si pone l'obiettivo di precisare quella ‟dissipazione della lingua" mirante alla ‟dissipazione del mondo" che appunto Benn, descrivendola come fine della sua generazione, ha enunciato in modo espressionistico chiamandola (nella rapida ma importante prefazione, più sotto citata, del 1955 alla raccolta antologica Lyrik des expressiontstischen Jahrzehnts (Lirica del decennio espressionistico]) ‟Zerschleuaerung der Sprache": il vocabolo normale è Verschleuderung, il cambiamento di prefisso accentua vorticosamente la carica distruttiva.

3. Espressività dell'espressionismo (particolarmente Stramm, Benn e Becher)

Una nota del Mittner (v., 1971, p. 1197, n. 28) condensa assai bene quanto dell'espressionismo è linguisticamente espressionistico, e ne traccia con ciò una percettibile ed estensibile immagine: ‟Frequenti sono naturalmente [...] i verbi che denotano un urlo e un urto, una lacerazione e una rottura (brechen, rompere; stossen, urtare, e reissen, lacerare; opposti agli impressionistici wehen, alitare; schweben, levitare, e gleiten, scivolare): tale predilezione è rafforzata da vari procedimenti metrici e grammaticali. La violenza del moto si riflette in forti enjambements: ‛Imperativ / schnellt stell empor' (‛L'imperativo / scatta dritto verso l'alto') dice Becher nella poesia Die neue Syntax (La nuova sintassi) dedicata tutta all'intensificazione espressionistica delle forme grammaticali; in unioni verbali già reperibili nello Sturm und Drang, come niederreisst, aufbäumt per reisst nieder, bäumt auf; nella creazione di nuovi composti verbali con zer-. Heynicke ad esempio colloca fra zerschlagen e zerwühlen uno zerpeitschen [su peitschen, frustare); Stramm giunse a creare uno schamzerpart. (Il proto poco espressionista corresse questo composto in schamzerstört e Stramm ritenne necessario spiegare il senso del suo nuovo composto a H[erwarth] Walden [fondatore della rivista espressionista ‟Der Sturm", secondo marito della Schüler) nella lettera del 7 luglio 1914: ‛Scham und Empörung ringen miteinander und die Scham zerdrückt' [‛Vergogna e rivolta colluttano fra loro e la vergogna schiaccia'] secondo il suo senso linguistico il valore di empören non è in em-, ma in *pören, anzi nel semplice nesso fonico pö, che egli probabilmente sentiva analogo alle interiezioni di sdegno con un suono labiale come pfui, buh, ecc.). Di una particolare predilezione godono gli intransitivi transitivati, cioè arbitrariamente rafforzati da un oggetto: ‛Fenster grinst Verrat' (‛La finestra sogghigna tradimento'), ‛Mutterschösse gähnen Kindestod' (‛Grembi di madre sbadigliano morte di figlio') in Stramm. L'assolutizzazione del verbo è ottenuta con l'uso di accatastare infiniti (intere poesie di Stramm contengono soltanto infiniti con o senza l'iniziale maiuscola, di cui è difficile dire se siano verbi o nomi), con la predilezione del participio (di cui Becher nella poesia già citata ben rileva la funzione architettonica di ponte, di un ponte quanto mai vibrante: ‛Ein Brückenpartizip muss schwingen' [‛Un participio-ponte deve vibrare]). Ma l'espressionismo cerca soprattutto di giungere all'essenza del verbo isolandone la radice mediante la soppressione del prefisso (armt, stummt, sempre in Stramm, per umarmt, verstummt) e del suffisso, in particolare del suffisso del participio (‛schmiege Nacht' [nella lirica Abendgang] per schmiegsame o sich schmiegende; ‛schlafe Erde [ibid.] per schlafende; ‛krampfes Grauen' [ibid.] per krampfendes; persino ‛kreuze Arme' per gekreuzte). L'ermetismo espressionistico giunge persino a coniugare il nome, colmandolo con ciò di una misteriosa sostanza vitalistica: ‛du aus Tiefen mondet Finsternisse' (che si potrebbe rendere all'incirca con la perifrasi ‛il tuo essere dalle sue profondità luneggia oscurità' cioè sprigiona da sé oscurità lunari', Schreyer); ‛Flimmer / tränet / glast / Vergessen' (intendi: ‛il tremolio - degli occhi che contemplano una tomba - fa sgorgare lagrime, ma le lagrime diventano subito vitree, lagrime dell'insensibilità e dell'oblio', Stramm)".

Giustamente, qui dove dell'espressionismo è messo in evidenza l'aspetto linguistico, il massimo rilievo viene conferito ad August Stramm (1874-1915), che, benché travolto anche lui (cadde, come altri dei suoi colleghi, in guerra) dalla tragica fine toccata alla generazione del ‛primo' (Hocho Früh- di Pinthus) espressionismo, e interpretata quasi una risposta cosmica alla violenza della provocazione e come della profezia espressiva, raggiunse, nei drammi ma soprattutto nelle raccolte poetiche Du e Die Menschheit e nella postuma Tropfblut, una maturità eccezionale, solo simbolicamente imputabile alla minor giovinezza anagrafica. I descritti procedimenti riduttivi e concentrativi dello Stramm lirico si attuano nel quadro di brevi condensatissimi enunciati ritmicamente franti attorno ai nuclei semantici, come non accade in nessun altro espressionista (solo vaghe affinità in qualche verso ‛breve' di Schickele, Hasenclever, Heynicke), ma secondo un procedimento - forse non gli è estranea l'influenza del futurismo, ben accertata in Stramm - a cui sarà sorprendentemente vicino il primo Ungaretti, dai contenuti linguistici peraltro tanto normali. Il ripiegamento su di sé nel caso di Stramm è però solo accentuato dall'evento della guerra (le sue poesie di guerra sono quasi una feroce prefigurazione del Porto sepolto), poiché l'ascesi espressiva già aveva avuto una motivazione erotica. Così in Untreu [Infedele]: ‟Dein Lachein weint in meiner Brust / Die glutverbissenen Lippen eisen / Im Atem wittert Laubwelk! / Dein Blick versargt / Und / Hastet polternd Worte drauf. / Vergessen / Bröckeln nach die Hände! / Frei / Buhlt dein Kleidsaum / Schlenkrig / Drüber rüber! //" [‟Il tuo sorriso mi piange nel petto / le labbra roventemente addentate ghiacciano / nel fiato odora l'appassimento. / Il tuo sguardo mette in bara / e / sopra affretta fragorosamente parole. / Dimentiche / si sbriciolano dietro le mani. / Libero / civetta l'orlo della tua veste / ondulando / via"].

Una falsariga di traduzione è necessariamente tanto più inadeguata a una resa didattica perfino primaria in quanto, anche senza tener conto dell'intrasferibile fonosimbolismo (come qui l'iterazione di ei, l'assonanza di í. e in -verbissenen Lippen e wittert, di ó.. .e in polternd Worte, di á.. e in Atem. ..Laubwelk), l'autore associa alla condensazione l'ammicco, traducibile semmai solo a prezzo di surrogazioni, come accadrà per il poliglotta Joyce o il coltissimo Pizzuto, in Stramm però svolto rigorosamente nei confini d'una sola lingua. Qui diventa significativo addirittura che Lächeln sia, come non potrebbe non essere in tedesco, un infinito sostantivato, ciò che è a carico della citata tendenziale indistinzione di nome e verbo. Esso determina per contatto col verbo weint un ossimoro moderato, in preparazione del violento fra glut- e eisen, dei quali termini il desostantivale (senza prefisso) è abbastanza raro da poter essere considerato una reinvenzione, mentre l'innovante composto ha l'aria di modificare un ordinario blutverbissen, 'morso a sangue'. E una ‛modifica' del genere, sull'ordinario Laubwerk, ‟fogliame", sembra presentare Laubwelk, questo inaudito aggettivo (welk) sostantivato. Altra innovazione è il verbo versargen, a surrogazione quasi metamorfica del banale einsargen, mentre hasten, ‟affrettarsi", è violentato in transitivo. Questi arricchimenti della funzione soprattutto verbale non devono occultare sotto la luce della loro straordinaria evidenza l'aspra seppur indiretta disputa tra i pronomi, conforme al gioco dell'ich, del wir e soprattutto del Du (titolo infatti della raccolta): basti pensare che Du, oggettivato come nome proprio, può essere addirittura titolare di terza persona (la poesia Wunder comincia ‟Du steht! Du steht!" e chiude il circolo col normalizzato ‟Du / Stehst") e figurare indeclinato in funzione di complemento (ivi ‟Du bannt die Zeit" [‟Tu proclama sacro il tempo"] ecc., nella chiusa di Dämmerung [Crepuscolo] ‟Unermesslichkeit strömt / Zerreisst / Mich / In / Du! / Du!" [‟Infinità scorre / mi I squarcia / in / tu !/ tu!"). Questa tematica si ritrova del resto allo stato puro nei drammi di Stramm, dove ha il suo caso- limite anche il linguaggio dell'espressionismo teatrale, procedente per battute pregnanti e spesso integrate. Scrive il Mittner (v., 1971, p. 1275): quello che in Schönberg [nel dramma Erwartung, 1909, su libretto di Marie Pappenheim], come già in Wilde ed altri, era il lungo monologo sadico e poi sentimentale della donna sul cadavere dell'uomo amato e odiato, è condensato da Stramm [in Kräfte nel grido triplice ed uno che chiude il dramma: 'Du, Dich, Ich'. (In termini di linguaggio logico i tre pronomi dicono all'incirca: 'Tu giaci ora immobile. Te hanno ucciso. Fui io a voler la tua morte'). - All'inizio di Geschehen l'uomo, 'Er', incontra successivamente cinque donne: le prime cinquanta battute, assai più mimiche che parlate, contengono esclusivamente i pronomi ich, du, wer, i nomi Mann e Frau, i verbi herrschen (comandare) e quälen (torturare), e inoltre una sola proposizione compiuta, che non potrebbe essere più caratteristica per definire la nuda sostanza lirica di tanti drammi espressionisti: 'Ich habe Angst' (Ho paura)". Più sottilmente nella poesia Untreu la prima persona appare, mediante possessivo, solo al primo verso (‟in meiner Brust"), in opposizione alla seconda (‟Dein Lachein"). È la seconda persona la cui attività domina il componimento, segnalandosi agli inizi (‟Dein Lächeln", ‟Dein Blick", ‟...dein Kleidsaum") di ognuno dei tre membri, contrassegnati tipograficamente dall'esclamativo finale, in cui si snoda la lirica (sono membri contesti di più periodi sintattici, ci sia, come dopo drauf, o manchi, come dopo Brust e eisen, il punto tipografico). La prima persona è la persona taciuta: è certo che il senso comune la vedrebbe oggetto del neologistico versargt, ma precisamente il fatto che manchi assolutizza l'azione in quel verbo rappresentata e l'affranca dall'hic et nunc, o più esattamente da ogni specifico oggetto. Strutturalmente si evince che i sostantivi articolati, le labbra, il fiato, le mani, sono tutti comuni e non assegnabili a questo o quello dei due amanti ora nemici. E se ne conclude che il luogo comune secondo cui l'espressionismo si manifesta essenzialmente in quella pars orationis che è il verbo, senz'essere erroneo, è troppo semplificante: comunque il verbo, stingente sulle altre partes, non come vettore di dinamicità, ma come descrittore di uno stato fenomenologica- mente analizzato. Il confine grammaticale per lo Stramm non è del resto nel verbo, ma in forme fonosimboliche come le agglutinazioni consonantiche scovate dalla critica in Menschheit: ‟Pstn Pstn / Hsstn Hsstn I Winzge Schirre" [ingranaggi - in linguaggio normale Geschirre - minimi).

Se quello che, parafrasando espressioni benniane (‟Io tedesco" ecc.), si potrebbe chiamare l'Io espressionistico, cioè la ricerca della frontiera dell'Io presso gli espressionisti, trova una manifestazione estrema in Stramm (sotto il profilo dell'incomunicabilità), questa sorta di ‛dramma pronominale' è largamente attestata nel movimento. A rigore ne è una forma grammaticalmente negativa il semplice enunciato antropomorfico del tipo ‟Die Häuser haben Augen aufgetan" [‟Le case hanno schiuso gli occhi"], incpit di Paul Zech, o ‟Die Strasse wiegt sich nun in unserm Gange [...]Der Sternenhimmel wie entgittert winkt" [‟La strada si culla ora nel nostro andare (...) Lo stellato ammicca come liberato dalla grata"] di Alfred Wolfenstein (Andante der Freundschaft); più carico quello doloroso di Albert Ehrenstein ‟So schneit auf mich die tote Zeit [...] Weib wird Zeit" [‟Così nevica su di me il tempo morto [...] Donna diventa tempo"] o invece il gaudioso, ad apertura d'una notissima poesia della Lasker-Schüler, ‟Deine Seele, die die meine liebet, / Ist verwirkt mit ihr im Teppichtibet" [‟La tua anima, che ama la mia, / è tutta tessuta con lei nel Tibet del tappeto"]. Positivamente non infrequente l'identificazione del mondo nell'Io, così in Becher l'iterato ‟Ich bin der Wald" [‟Io sono la foresta"] (Der Wald) o il violento ‟In einer letzten Sanftmut Kürbis wurzele ich" [‟In un'ultima mansuetudine zucca io mi radico"] (Klage und Frage), o in Dàubler ‟Da werd ich Teppich, sammetrote Au" [‟Allora divento tappeto, prato rosso vellutato"] (Die Buche), o in Wilhelm Klemm ‟Ich wuchs hinauf in die hohen Himmel" [‟Crebbi negli alti cieli"] (Reifung), o in Werfel ‟Scherben wir alle, werden im Weinen Gefäss" [‟Noi tutti a pezzi nel piangere diventiamo vasi"] (Die Trane); un grado più oltre si ha la sostantivazione dell'Io (non di rado opposto al pure sostantivato Tu), come nel ‟Segel-ch" [io-vela] degli spettri in Däubler (Überraschung), o in Zech: ‟Reisst mir die Zunge aus: so habe ich noch Hände, / zu loben dieses inselhafte Sein. / Es wird ganz Ich und geht in mich hinein, / als wüchsen ihm aus meiner Stirn die Wände" [‟Strappatemi la lingua: mi restano ancora mani / da lodare quest'essere in forma d'isola. / Diventa tutto Io e mi penetra / come se dalla mia fronte gli crescessero le pareti"] (Der Wald), o nello stesso autore ‟Das Du in mir, das Ich in Dir / lebt ungetrennt" [‟Il Tu in me, l'Io in te / vive inseparato"] (Das ist die Stunde), o in Kurt Heynicke ‟wir schenken einander das Ich und das Du" [‟ci doniamo a vicenda l'Io e il Tu"] (Freundschaft); un caso estremo si ha con Karl Otten (che altrove proclama ‟Allein das Ich ist schuld!" [‟Solo l'Io ha colpa"], Für Martinet), dov'è ritrovato nel parlare con Dio il tipico rapporto Io-Tu della mistica (‟Sage ich Dich / Bin ich nicht ich" [‟Se dico Te, / io non sono io''], ‟Hinter der Stirn meiner Brust / Ein neues Herz das Dich schlägt" [‟Dietro la fronte del mio petto / un nuovo cuore batte Te"], ecc., Gott).

Ma nella sostantivazione dell'Io si individua uno dei temi-chiave del linguaggio benniano, così nelle poesie come in alcune importanti prose che, affini ai versi per struttura sintattica e lessicale (Benn tuttavia proclamava, lo si sa da una risposta all'inchiesta di ‟Transition" sulla ‛malattia della parola', che ‟Solo il poeta lirico, il grande lirico, sa che cosa sia realmente la parola"), più didascalicamente indulgono a una descrizione antropologica. Si tratta fondamentalmente della conferenza Das moderne Ich (1920), della prosa Das letzte Ich (1921), dello scritto autobiografico Epilog und lyrisches Ich (1927, per la parte che qui importa). ‟La biografia dell'Io non è scritta", così nella prima lettura, ma si traccia velocemente una ‟storia del rapporto fra mondo e Io" fino all'avvento di Dioniso é all'arrivo di Narciso sull'ovidiana ‛onda stigia', nella quale contempla se stesso: come dirà più tardi, ‟l'onda fluente senza io (ichlos)", in cui si attua l'antitesi ‟mai e sempre". In Lyrisches Ich è rappresentato con grandiosa tragicità il disfacimento dell'Io, le tendenze regressive mediante la parola, più esattamente i sostantivi (ciò che infatti risponde al cumulo sostantivale più o meno paratattico di cui consta la più irta pagina di Benn, come del resto la più oratoriamente clamante del pur tanto diverso Becher): ‟sentimento di disformazione" (Entformungsgefühl). Le attestazioni poetiche si allineano lungo un vasto arco di tempo, da molto prima a verosimilmente molto dopo: si va dall'‟in Dorn des Ich" [‟negli spini dell'Io"] (Strand) all'‟Ich-Zerfall" [‟decadenza dell'Io"] e allo ‟Zersprengtes Ich" [‟Io spaccato"] della droga (Kokain), che anche produce le alterazioni dell' ‟Ichgefühl" [‟senso dell'lo"] (O Nacht-), da Das spate Ich [‟Il tardo Io"] all'Ich-Begriff" [‟concetto di Io"] in Synthese (che sarebbe da citare per intero), dal grido ‟Ich bin ganz unvernichtbar!" [‟Sono del tutto indistruttibile"] di Blumen alla spaccatura ‟zwischen ich und du" [‟fra io e tu"] di Der Sänger, dal ‟dunkleres Du" [‟tu più buio"] di Dir auch- al ‟Verlorenes Ich" [Io perduto] e al ‟gezeichnete Ich" [‟Io segnato dal sigillo"] di Nur zwei Dinge. Valga l'intero contesto di Schöpfung [Creazione]: ‟Aus Dschungeln, krokodilverschlammten I six days - wer weiss, wer kennt den Ort -, / nach all dem Schluck-und Schreiverdammten: / das erste Ich, das erste Wort. Il Ein Wort, ein Ich, ein Flaum, ein Feuer, / ein Faekelblau, ein Sternenstrich - / woher, wohin - ins Ungeheuer ‛ von leerem Raum um Wort, um Ich". [‟Da giungle, da una sei giorni impantanata in coccodrilli - chi sa, chi conosce il luogo -, dopo tutta la dannazione di sorso e di grido: il primo Io, la prima parola. Una parola, un Io, una lanugine, un fuoco, un azzurro di fiaccola, una fila di stelle - da dove, verso dove - nell'immensità dello spazio vuoto attorno alla parola, all'Io"]. (Di passata non si ometta di notare l'urto della novità linguistica contro l'esattezza di isocolia e rime).

Il ‟Worte, Worte - Substantive" di Benn dichiara l'evidenza già tipografica delle maiuscole (contrassegno tedesco dei sostantivi) nella pagina, anche prosastica, di Benn e negli inni, salmi, litanie populiste di Becher, specie là dove i nuovi composti sono scissi nei loro ingredienti (in Benn, dove la cosa è meno sistematica, Worte- Wolkenbrüchen, Ding-Gewerde, Schädel-Fisch ecc., ma in Becher gli innumerevoli Limonen-Farm, Distel-Exil, Ruinen-Keller, Strahl-Prophet ecc.). Si aggiunga la frequenza delle brevissime proposizioni nominali, talora di un membro solo, e fra molti in Becher l'uso della maiuscola al capoverso, che dà anche una visività (carattere inerente più propriamente alle composizioni futuriste, come poi alle Calligrammes, per culminare e farsi esclusivo nel lettrisme e in Cummings) a una poesia eminentemente sonora e in realtà spesso recitata (come peraltro nelle ‛serate futuriste'). Ma i frammenti del caos (e Chaos s'intitola appunto una poesia caotica di Benn: singolare che un solo espressionista, Werfel, sia stato schedato prima dallo Schumann nel suo contributo sull'enumerative style e poi dallo Spitzer che ne prende occasione per il celebre saggio su La enumeraciòn caòtica en la poesia moderna [1945, ora in Lingüística e historia literaria, Madrid 1955]) si organizzano in qualche sintassi: questa parola ricorre così in Becher (Die neue Syntax) come in Benn (‟krank von der Syntax mythischem Du" [‟malato del mitico tu della sintassi"]). Una formula caratteristica è l'enunciazione dell'inizio fittamente nominale, come in Becher: ‟Verfluchtes Jahrhundert ! Chaotisch !Gesanglos !I Ausgehängt du Mensch, magerster der Köder, zwischen Qual Nebei- Wahn Blitz. I Geblendet. Ein Knecht. Durchfurcht. Tobsüchtig. Aussatz und Säure. / Mit entzsücndetem Aug. Tollwut im Eckzahn. Pfeifen den Fieberhorns. Il" [‟Secolo maledetto ! caotico ! senza canto ! / Sospeso tu uomo, magrissima fra le esche, in mezzo a tormento nebulosa follia folgore. / Abbagliato. Un servo. Grinzoso. Furioso. Lebbra e acidità. / Con occhio infiammato. Frenesia nel canino. Di sibilante cornufebbre"] (Mensch stehe auf). O come in Benn (ma nell'esempio scelto il procedimento ‛impressionistico' accumula approssimazioni successive a rendere una sensazione complessiva eppur ben precisa, nel caso la percezione dell'abbronzatura): ‟Braun wie Kognak. Braun wie Laub. Rotbraun. Malaiengelb. I DZug Berlin-Trelleborg und die Ostseebäder. // Fleiseh, das nackt ging. / Bis in den Mund gebraunt vom Meer. / Reif gesenkt, zu griechischem Giück. //" [‟Marrone come cognac. Marrone come fogliame. Rosso marrone. Giallo malese. / Diretto Berlino-Trelleborg e spiagge baltiche. // Carne che andò nuda. I Abbronzata dal mare fino in bocca. / Calata a maturazione, per una greca felicità"] (D-Zug). Segue un discorso ipotattico, eventualmente ancora interrotto da paratassi, in Becher particolarmente più spesso interiettive. La commistione di paratassi e ipotassi ha anche altre formule, per vero meno espressionistiche (nel senso di espressionismo dell'Io), come nella famosa poesia ferroviaria di Ernst Stad.. ler Fahrt über die Kölner Rheinbrücke bei Nacht [Passaggio notturno sul ponte del Reno a Colonia], dove una descrizione ipotatticamente avviata sfocia, in qualche modo fonosimbolicamente, in un finale paratattico: ‟Und dann die langen Einsamkeiten. Nackte Ufer. Stille. Nacht. Besinnung. Einkehr. Kommunion. Und Glut und Drang / Zum Letzten, Segnenden. Zum Zeugungsfest. Zur Wollust. Zum Gebet. Zum Meer. Zum Untergang." [tr. Mittner: ‟E poi le lunghe solitudini. Sponde nude. Silenzio. Notte. Ravvedimento. Rientro in se'. Comunione. E ardore e slancio / Verso un che di estremo, benedicente. Verso la festa della generazione. La voluttà. La preghiera. Il mare. Il naufragio"].

4. Heym, Trakl

Nella citata prefazione del 1955 Benn ricorda come l'anno precedente un critico (Helmut Uhlig) distinguesse, e ciò alimentava i suoi dubbi classificatori, espressionismo da espressività, due predicati per niente coestensivi. Si può ormai concludere che alla resa grammaticale quanto di espressivo è nell'espressionismo e lo abilita a metafora critica metastorica, per un verso è incluso nell'opera di Stramm, per l'altro di Becher e del grande Benn. Eppure capita di trovare costituita una terna Heym-Trakl-Stadler come tipica della poesia espressionistica (evidentemente col pensiero al limite cronologico costituito dalla loro morte tragica e precoce), o di leggere che Benn e Heym (l'accostamento è dell'autorevole Sörgel) sono i fondatori dell'espressionismo letterario: legittimo dunque chiedersi se Heym e Trakl siano stati innovatori linguistici. La risposta non può essere che assai debolmente affermativa. Di Georg Heym (1887-1912), questo ‛sacerdote degli orrori', Stadier additò plausibilmente ‟la durezza troppo rigida della forma", appena attenuata nella postuma Umbra vitae: ‟la rigida regolarità dei suoi ritmi [ma ciò vale per ogni altro aspetto formale], che rinserrano un caos in fermento ed ebullizione sotto una forma concisa e altrettanto imperturbata"; la sua lontananza dall'espressionismo proverbiale è indicata anche da Benn. Qualche torsione, presumibilmente condizionata da valori ritmici, cui consuonano nella lirica altri stridori, può al massimo avvertirsi (siamo già in Umbra vitae) nella prolessi di quest'inizio: ‟Deine Wimpern, die langen, / Deiner Augen dunkele Wasser, / Lass mich tauchen darein" [‛Le tue ciglia lunghe, / dei tuoi occhi le buie acque, / lasciamici tuffare"], con Deine Wimpern... ripreso da darein invece di * In deine ecc.

Nemmeno Georg Trakl (1887-1914) è ribelle, nonché agli schemi, allo spirito della tradizione, principalmente al senso ritmico hölderliniano. Rarissime le sue deviazioni linguistiche, quali i ‟sorprendenti e stranianti" (così il Mittner) femminili, incarnazione dell'androginia, Jünglingin, Fremdlingin, Mönchin (in Das Herz ‛'Die goldne Gestalt / Der Jüngllngin" [‟la dorata figura / del giovinetto- femmina"], a chiusa di Die Schwermut ‟Die stille Mönchin" [‟il tacito monaco-donna"], nella prosa Offenbarung und Untergang ‟der schwarze Schatten der Fremdlingin" [‟la nera ombra dello straniero-donna"]); quali i comparativi assoluti (‟potenziativi" li dice il Mittner) che insorgono nell'ultima poesia dall'orrendo fronte galiziano, Grodek, ‟O stolzere Trauer!" [‟troppo orgoglioso lutto"] e ‟die Sonne / Düstrer hinrollt" [‟il sole rotola via più scuro (del solito)"] (ma già in An einen Frühverstorbenen ‟seltsam verpuppt / In seine stillere Kindheit" [tr. Pocar: ‟stranamente incrisalidato / nella sua infanzia più quieta"]). In rapporto agli istituti tipici dell'espressionismo (del tipo benniano e becheriano), un composto come Sturm-Erbarmen è sicuramente eccezionale, mentre con estrema frequenza e in poesia e in prosa appare la consecuzione di frase nominale, all'inizio e in successive riprese, e frase verbale. Sia ad esempio In den Nachmittag geflüstert [Mormorato nel pomeriggio]: ‟Sonne, herbstlich dünn und zag, / Und das Obstfällt von den Bäumen." [‟Sole, autunnalmente esile e timido, / e le frutta cadono dagli alberi"]. Ma ancora nella seconda quartina: ‟Sterbeklänge von Metall; / Und ein weisses Tier bricht nieder." [‟Rintocchi funebri di metallo; / e una bianca bestia crolla"]. E anche nella finale: ‟Dämmerung voll Ruh und Wein; / Traurige Gitarren rinnen." [‟Crepuscolo pieno di pace e di vino; / tristi chitarre stillano"]. Se per quest'addizione impressionistico-sintattica Trakl appartiene all'espressionismo non soltanto tedesco (la figura stilistica si esalterà ad esempio in Joyce), un particolare in apparenza infimo sembra più atto a dirigere l'interpretazione. Premesso che gli enjambements non abbondano nella pratica degli espressionisti (un ‟durch- I donnert" di Albert Ehrenstein è una vera rarità) e che in Trakl stesso non mancano le formule come ‟gehen / Nieder", ‟blähen / Segei sich", ‟girrt / Der Föhn", a detrimento però del tipo ‟sanfite / Wiese" (Lichtenstein) o in seiner / Seele" (Klemm), se ne inferisce che perfino la divisione ‟aus den blauen / Augen der Liebenden" [‟dagli azzurri / occhi degli amanti"] (Der Herbst des Einsamen) assume un significato: quello di mettere in rilievo l'attributo cromatico, qui naturalisticamente ben normale, anzi emblematico, ma che tale rimarrebbe anche quando, come spesso in Trakl, sembrasse abnorme, fornito di fallaci analogie contenutistiche coi cavalli blu di Marc o gli alberi rossi di Schmidt-Rottluff (e qui importa meno l'interpretazione plurisensa che, in un saggio uscito nel 1953 su ‟Merkur", quel pensatore espressionista che fu in sostanza Martin Heidegger fornì del colore trakliano). Quell'attributo cromatico viene così staccato dal ben lineato oggetto che riempie, talché la prevalenza di sostantivo e aggettivo ritiene ancora del naturalismo tradizionale piuttosto che della velocità vorticosa con cui fa valanga la sostantivazione espressionistica. Se ne conferma che il più specifico dato linguistico dell'espressionismo sia la riduzione deformante alle radici e la selva di sostanze in cui si urta emergendo da una realtà buia.

5. Irradiazione dell'espressionismo

La testimonianza del maggiore scrittore dell'espressionismo è sempre utile per tracciare i confini di ciò che merita questo predicato, nella misura stessa in cui, come protagonista, dichiara la sua ingenua perplessità davanti a un'etichetta assegnata dall'esterno. Pur senza scordare che per Benn il solo competente a trattare della ‛parola' è il poeta lirico, andrà raccolta la sua testimonianza anche sulla prosa. E per lui la più affascinante prosa del cosiddetto espressionismo resta quella dei primi libri di Kasimir Edschmid (teorico anche della visionarietà espressiornstic a), Sechs Mündungen e Timur; più affascinante, egli precisa, perfino della ‟gigantesca, carica, densa" di Alfred Döblin. Resta comunque il fatto che della seconda ondata espressionistica, coincidente con la repubblica di Weimar, il rappresentante più popolare - anzi il solo prodotto letterario espressionistico che sia divenuto un bestseller - sia Berlin Alexanderplatz (1929) di Döblin. Quest'opera, per la quale si è parlato di simultaneità e di futurismo berlinese, ‟innica ed estatica", e un vasto organismo di collages, di racconto, di conversazione dialettale, di dialettalità rifluita sul narratore, di tumultuoso descrittivismo ‛epico', volto alla resa d'una collettività, che ha fatto evocare con inopportuna approssimazione il nome di Joyce, e con maggior proprietà l'analogia, se non l'influenza, dell'epica newyorkese di John Dos Passos, per allora Manhattan Transfer (1925), cui si sarebbe aggiunta nel decennio seguente la trilogia U.S.A. La coincidenza tecnica di questi scrittori instaura un vero espressionismo ecumenico del decennio postbellico, la cui matrice, per quanto è della Germania, è pur sempre nel primo espressionismo: calcolata anche l'incidenza di personalità plurilinguisticamente colte, vi predomina uno svolgimento in vaso linguisticamente chiuso; basti pensare che Benn non sapeva nè l'inglese nè praticamente il francese, e che i simbolisti, e lo stesso Rimbaud, gli erano noti in traduzione. Le monoglottie espressionistiche si svolgono in parallelismo non per nulla metastorico, e l'espressionismo primogenito ed eponimo si lega in strutture di tradizione linguistica per cui il tedesco può apparire come naturalmente espressionistico (è l'illusione extrastilistica non estranea allo stesso Spitzer), e la sua letteratura, nonostante l'interruzione della lotta anche fisica all'entartete Kunst nell'intervallo nazista (ma Ernst Jünger, per esempio nella prosa di Auf den Marmoriclippen, non è poi tanto remoto da modi espressionistici), come un prolungamento naturale dell'espressionismo. Solo un filo linguistico, e non ideologico, permette tuttavia di riconoscere che parlare di espressionismo a proposito anche dei versi del primo Brecht non è pertinente, mentre l'esperienza espressionistica è vitalmente presupposta da una lirica supremamente raffinata com'era quella di Paul Celan o da un grottesco sanguigno e magari fecale com'è quello di Günter Grass, di sempre disponibile inventività.

L'irradiazione dell'espressionismo tedesco si ravvisa per solito in modo elementare. Certo il Pinthus ricorda opportunamente la collaborazione di Wystan Hugh Auden, del suo amico e coautore Christopher Isherwood e di Stephen Spender con gli espressionisti e le loro traduzioni, il soggiorno di lavoro di Thornton Wilder in Germania, il tirocinio di Tennessee Williams sotto Piscator a New York, talché il loro influsso, o quello di T.S. Eliot, di Saint-John Perse, di Garcia Lorca, sulla generazione tedesca del secondo dopoguerra sarebbe in qualche modo un espressionismo di ritorno; si può aggiungere che Auden (in tedesco) trovò, a detrimento del non amato Eliot, il favore di Benn, che lo situava sulla linea Perse-Pound-Henry Miller (e risalendo addietro Lautréamont, Beckford ecc.). Si capisce che l'unità di misura qui è rappresentata dalla sintassi delle immagini, dalla ‟erapinosa simultaneità e cosmica arbitrarietà associativa" (come il Pinthus stesso dice per Benn), col qual criterio tutta la letteratura di punta del secolo, e in particolare quella che per tradizione protestante o ebraica o per nuovo cattolicesimo (Claudel, Péguy) soggiace alla lettura della Bibbia, si trova coinvolta. Anche la tensione spasmodica, che ad esempio distingue dagli altri verseggiatori di lingua spagnola il rivoluzionario peruviano César Vallejo, costituirebbe già un criterio selettivo.

Ma la vera selezione dev'essere opera propriamente formale, e a tal fine riescono preziose le definizioni di Benn, naturalmente inclusive della motivazione, per refutare automaticamente l'interpretazione formalistica più volte avanzata, per solito a scopo denigratorio, dell'espressionismo. Tali definizioni sono contenute nel coraggioso scritto apologetico del 1933 Bekenntnis zum Expressionismus [Professione di espressionismo], in gran parte letteralmente ripreso nell'introduzione del 1955 all'antologia (di esecuzione editoriale) Lyrik des expressionistischen Jahrzents. L'espressionismo connota, al pari della fisica moderna con la sua disintegrazione dell'atomo, un'epoca aperta, come la precedente dall'inchiesta kantiana circa la possibilità dell'esperienza, dalla domanda circa la possibilità della Gestaltung (che si può rendere provvisoriamente con ‛strutturazione formale'). Ed è lo stile, chiamato altrove futurismo o cubismo, ‟polimorfo nella sua inflessione empirica, unitario nel suo atteggiamento fondamentale di distruzione della realtà, di spietata penetrazione alla radice delle cose [Andie-Wurzel-der-Dinge-Gehen], fin là dove esse non possono più essere rinviate al processo psicologico, individualmente e sensualmente colorate, falsate, ammorbidite, convertibili, ma nel perenne silenzio acausale dell'Io assoluto aspettano la rara chiamata dello spirito creativo". Più stringenti però ai fini della verbalità le descrizioni dei grandi predecessori: il Goethe particolarmente del secondo Faust, con la relazione non più tematica ma puramente espressiva tra i singoli versi; Nietzsche, la cui esistenza (nella sola redazione del 1955) fu ‟un lacerare con parole la propria essenza interiore, un impulso a esprimersi, formulare, abbagliare, sfolgorare con ogni rischio e senza riguardo ai risultati, un'estinzione del contenuto a profitto dell'espressione"; soprattutto il Hölderlin dei frammenti, dov'è un ‟carico della parola, delle poche parole, con un'immensa raccolta di tensione creativa, o piuttosto una cattura di parole sotto tensione, e queste parole catturate del tutto misticamente continuano poi a vivere con un potere di suggestione positivamente inesplicabile". Su questi fondamenti Benn può costruire a ritroso una linea di espressionismo tedesco ante litteram, in cui inscrive col Goethe tardo (qui l'espressa citazione esemplificativa ‟Entzahnte Kiefer schnattern und das schlotternde Gebein, / Trunkener vom letzten Strahl" [‟schiamazzano mascelle sdentate e ossami ciondolanti, I ebbri dell'ultimo raggio"]), Nietzsche e il Hölderlin dei Bruchstücke, il Kleist della Penthesilea, Carl (fratello maggiore di Gerhardt) Hauptmann (per il quale parla di ‟Ausdruckdichtung", preziosa indicazione dell'equivalenza di espressionismo e poesia espressiva), il tardo ottocentista Hermann Conradi; da altre arti Benn convoca un aspetto di Wagner con Cézanne, van Gogh, Munch. Ciò costituisce un'indubbia limitazione extralinguistica (la lista delle presenze figurative e musicali ingloba più o meno tutta l'avanguardia del primo Novecento), ma la limitazione si accentua con l'omaggio all'iniziatore Marinetti (il ‟Marinetti", ‟il profeta", come, ‟da scrittore del suo indirizzo", lo chiama nell'indirizzo di saluto rivoltogli a Berlino nel 1934, per il momento ancora con implicazioni politiche). In sostanza si tratta del mero programma contenuto in un manifesto del ‟Figaro" (benché nell'Adresse si lodi, certo fiduciariamente, la Strophik degli inni del festeggiato): ora il testo del 1955 specifica alcuni precetti grammaticali, fra gli altri ‟il faut abolir l'adjectif" e ‟détruire le ‛Je' dans la littérature", che solo in modo non elementare, cioè con riferimento al ‟Worte, Worte - Substantive" e all'Ich come coscienza trascendentale surrogata all'io empirico (passaggio concentrato nel verso di Der junge Hebbel ‟Aber ich will Ich werden!", che risale al 1913), possono essere applicati all'espressionismo benniano.

Un'indicazione significativa di affinità elettiva si ricava finalmente dalle scelte operate dagli autori espressionisti in quanto traduttori (prescindendosi anche da quelli che furono fecondi e non unilaterali, come Zech dal francese - fra l'altro di Verhaeren - e dallo spagnolo, Wolfenstein dal francese e dall'inglese). Basti annotare che Stadier, alsaziano, tradusse Jammes e Péguy (corse poi la leggenda che Stadler e Péguy si riconoscessero dall'opposta parte del fronte dove sarebbero presto caduti, e si scambiassero dei bigliettini...); Becher adattò Majakovskij; Iwan Goll, anche lui alsaziano e poeta bilingue, si adoperò per la versione tedesca di Ulysses.

6. Estensione dell'espressionismo nella romanistica tedesca. Heiss, Spitzer, Richter

Se è giusto dare il primo luogo all'espressionismo germanico, sembra opportuno seguire subito dopo l'estensione che la critica universitaria tedesca, in piena epoca weimariana, fece del concetto alla letteratura francese, conferendo poi risalto a personalità di questa letteratura che, entrate in scena più tardi, meritano ancor meglio quella designazione metaforica; si esemplificherà quindi con un grande prosatore e un grande poeta di altre culture linguistiche la possibilità di esperire la dilatazione della categoria; infine si verificherà l'accessione alla letteratura italiana e si traccerà un programma di ulteriore ricerca.

Non è certo un caso che l'estensione della categoria stilistico-grammaticale di espressionismo a una letteratura non germanica - estensione che è cominciata dalla francese contemporanea - sia opera di accademici di lingua tedesca e si assesti con l'inventore stesso della ‟critica stilistica" (Stilkritik) e anche della sua definizione verbale, Leo Spitzer. Tale codificazione ha luogo in forma non generale ma monografica, nel saggio (dal titolo allusivamente vossleriano) Der Unanimismus Jules Romains' im Spiegel seiner Sprache (Eine Vorstudie zur Sprache des franzòsischen Expressionismus), che fu pubblicato nel 1924 su una rivista specialistica, poi incluso nel II volume, dedicato alle Stilsprachen o lingue d'autore che gli danno il sottotitolo, delle celebri Stilstudien (1928). L'esame dello Spitzer si fonda esclusivamente sulle opere giovanili di Romains (1908-1913) in ‛stile collettivistico', più esattamente ‛unanimistico', cioè le poesie di La vie unanime, le narrazioni Mort de quelqu'un e Les copains e il dramma in versi L'armée dans la ville, senza accompagnare lo scrittore nella successiva e oggi più nota svolta in senso ‛classico'.

Come suo predecessore lo Spitzer riconosce un altro francesista tedesco, Hanns Heiss, nello scritto, risarcito da un capitolo composto per un volume collettivo mai stampato, Vom Naturalismus zum Expressionismus. Ausschnitte aus der modernen französischen Literatur. L'epigrafe di espressionismo, ovviamente incoraggiata dal parallelismo cronologico col movimento tedesco, è introdotta apoditticamente, senza che ciò implichi alcun contatto culturale: il Heiss ravvisa, tra i fattori dell'evoluzione che alterò il sistema parnassiano-naturalistico, solo numerati elementi esterni, la poesia nordamericana, il romanzo russo e il teatro scandinavo (nel quale non è esplicitamente detto se si comprenda Strindberg, solo precedente citabile all'agitazione del dramma espressionistico). Evidentemente l'etichetta è, nella sua stessa genericità, qualcosa talmente familiare al pubblico tedesco che non occorrono speciali definizioni perché essa venga applicata (giacché si tratta di questi due soli autori) a Jules Romains e a Emile Verhaeren. Sono in sostanza due lirici (posto che non era ancora presagibile in Romains il futuro autore del romanzo-fiume Les hommes de bonne volonté): di Mort de quelqu'un, storia della progressiva evanescenza d'un morto nella memoria collettiva, il Heiss scrive che ‟si esita a parlare di romanzo", e più che nei romanzi la novità di Romains - novità che si attua in opposizione alla visione tradizionale, quasi fosse quella d'una razza scesa da un altro pianeta, produttrice di deformazioni affini all' ‟intrico di vicoli oscillanti e crollanti file di case davanti a cui uno è spaesato nella pittura futurista, cubista, espressionista" - appare al Heiss nei versi in cui si esprime la beatitudine di strapparsi all'angustia dell'io soggettivo per foggiarsi sul ritmo di più vasti esseri, ‟randes bêtes divines". Il Romains di ‟La salle le pondit comme un oeuf" o di ‟Les maisons de la périphérie se vidèrent d'abord; les portes faisaient un à un des hommes vêtus de noir, comme une chèvrefait ses crottes et jusqu'à épuisement. Cette espèce d'envie gagna les maisons de proche en proche. À quatre heures toutes s'étaient soulagées" (esempi ricavati da Les copains) oltrepassa per il Heiss, psicologo del resto e non linguista, la mera figura retorica. L'atteggiamento di Romains solo approssimativamente si potrebbe dire panteismo, antropomorfismo, ecc. La sua visione scopre ovunque analogie e rapporti insospettati e, animando la natura, riconosce in tutti i fenomeni un gioco di forze vive e concepisce tutta la vita come creazione continua, incessante sorgere, divenire e passare, gonfiarsi e riassorbirsi di immagini sovrumane, le quali esistono come unità, anche se non abbiamo per loro un nome. Unità non è più l'uomo singolo, la cosa singola, il locale singolo; ma da uomini, cose e locali nascono perennemente per condensazione nuove entità con una coscienza comune e una volontà comune, i cui corpi informi sono tenuti insieme dalla voglia di essere uno e da un medesimo ritmo: entità nelle quali vibra, quando più tesa quando più distesa, la vie unanime, finché muoiono decomponendosi nei loro singoli elementi". Quando il Heiss parlava dunque di espressionismo, intendeva riferirsi a una qualunque visualizzazione dell'avanguardia figurativa che secondo le regioni poteva chiamarsi futurista o cubista, ma che nella Germania weimariana più plausibilmente si designava a quel modo.

Il beneficio del tempo e soprattutto la successiva linea reattiva dello scrittore, ripiegato su un facondo umanitarismo, hanno, come si suol dire, ridimensionato la funzione di capofila qui assegnata a Romains. Il suo apporto merita di essere misurato con gli strumenti della linguistica piuttosto che descritto psicologicamente; e qui interverrà lo Spitzer. Ma un altro rappresentante di quello che il Heiss chiamava espressionismo - e qui si tratta anzitutto di trovare un termine antitetico a naturalismo - è da lui sottoposto a sopravvalutazione nel quadro complessivo, quel simpatico produttore di ‛linea estatica' che fu Émile Verhaeren (il quale non per niente si suole annoverare tra i precursori del Romains unanimista). Il Heiss nota giustamente che quanto separa dal naturalismo il Verhaeren celebratore della vita moderna è il fatto che egli non la descriva ma prolunghi il suo io nel cosmo (‟Je ne distingue plus le monde de moi-même", ‛tToute la vie est dans l'essor"), non poeticizzi il mondo contemporaneo ma ne scopra la nuova poeticità. Egli peraltro mette in ombra il cantore delle ‛città tentacolari' a profitto di quello panico: l'‟enivrement de vie élémentaire" che illumina anche la scelta procurata da André Gide. Qui il Heiss giunge a qualche constatazione linguistica più circostanziata, tanto sulla libertà acquistata dai ritmi e sulla sintassi franta, interiettiva, apostrofante, quanto sulle parole chiave (bouillir, bouger, bondir, s'exalter, ivre, fou, fervent, effort, élan, fièvre, furie, extase, fino al neologismo s'illimi- ter) e sul peso gettato sul verbo. Ma il critico, tutto intento alla generalizzazione di un del resto pregevole panorama complessivo, non può procedere che per opposizioni equipollenti, espressionismo contro naturalismo, affermazione contro negazione, dinamico contro statico, attività contro quietismo, altruismo contro egoismo, ottimismo contro pessimismo. È singolare che sia proprio un tedesco dell'epoca weimariana a identificare espressionismo e ottimismo.

Premessa ideale alla ricerca dello Spitzer (cfr. Stilstudien, Il, 118) è la distinzione operata dallo Schuchardt fra il neo- latino come Wortmensch [uomo della parola] e il germanico come Sachmensch [uomo della cosa]; un neolatino ideale gli appare uno scrittore quale Alfred Kerr, tutto dedicato all'auscultazione fonetica e alla mescolanza linguistica (il saggio s'intitola Sprachmengung als Stilmittel und als Ausdruck der Klangphantasie); sì che lo Spitzer conclude: ‟Oggi, in epoca di espressionismo, non è difficile convincere Kerr, impressionista, anzi puntinista, dichiarato, che la ‛lingua' sta piuttosto dalla parte dell'espressionismo, in quanto essa vede i fenomeni dal punto di vista dell'uomo e non cerca di ‛centrarli', e che Kerr spesso ha troppo ‛ricopiato' e troppo poco ‛poetato', troppo analizzato e troppo poco ‛ricomposto' ‟. In altri termini; l'espressionismo gli appare come un fatto conoscitivo di tipo sintetico e oggettuale, più consono alla tradizione della cultura germanica. Lo scrutinio di un espressionismo non tedesco scopre nella nuova lingua una dilatazione delle forme tradizionali, ma anche limiti, rivelati da esempi comparativi, che la stessa tradizione impone.

Lo Spitzer così riepiloga il suo saggio: ‟Jules Romains vede la vita come un perpetuo p a r t o r i r e e m o r i r e, come d i s s o l u z i o n e e crescita, come formazione e trasformazione di gruppi, come reciproca compenetrazione di anima e corpo. Il suo stile rispecchia questa esperienza individuale [motto dello scritto è ‟individuum NON est ineffabile"]: poiché egli ha costruito la sua immagine del mondo senza rispetto della fisica, anche il suo stile deve abbandonare i binari normali della lingua. All'immagine espressionistico-istintiva del mondo corrisponde una lingua espressionistico-istintiva nella sua sintassi e nella sua metafisica". Gli istituti linguistici relativi all'atteggiamento in tal modo tratteggiato possono esser riassunti così: quantificazione e specificazione dei verbi di durata (exister plus, davantage, bien mieux, un peu, plus ardemment o addirittura en patois, d'une certaine façon, vers la femme, o semplicemente in un tempo storico, le groupe des femmes exista; e analogamente le groupe mourut, la chair se dépêche de naître ecc.); uso metaforico di immagini di parto, sputo, vomito, evacuazione (‟La salle le pondit come un oeuf", ‟Le vin s'échappa comme une brusque diarrhée", suinter riferito al sole, a una folla, alla persona di un prete, ecc.) e processi similmente dissolutivi o al contrario ricompositivi (e qui è citata la definizione di Franz Landsberger, Impressionismus und Expressionismus, secondo cui è espressionista chi tende ‟a distruggere la natura per costruire un nuovo mondo dalle sue macerie ); rappresentazioni antropomorfe, per esempio di una strada (‟Apres le boulevard, ce fut soudain une rue épaisse. Les mouvements y étaient tortillés l'un contre l'autre comme les fils de chanvre dans une corde. Le bas des maisons s'étalait en une boutique exubérante qui empiétait sur le trottoir. Pareilles aux glaces d'une chambre qui se regardent et qui se renvoient chaque image comme une balle jusqu'à ce qu'elle aille rebondir dans l'infini, les façades faisaient silencieusement, par-dessus le tumulte de la chaussée, des échanges prompts et excessifs. Les gens passaient ainsi sous une voute d'épées croisées") o di un'agonia (lungo brano che comincia ‟Peu à peu, il ne pensait plus. Il eut dit que son dâme s'échappait de sa téte et coulait dans son torse pour y former une sorte de mare épaisse et lourde"), da cui risulta una parificazione nella resa dei fatti psichici (‟un chagrin net, carré, calme") e corporei (‟les cheveux emphatiques"). Nel trarre le conclusioni generali lo Spitzer è indotto a toccare di tre temi metodologici fondamentali: comparazione di espressionismo pittorico ed espressionismo letterario; entro quest'ultimo, comparazione di espressionismo francese (estrapolato da quello di Romains) ed espressionismo germanico; rapporto di procedimenti espressionistici e procedimenti impressionistici.

Sul primo punto lo Spitzer, che maneggia con agilità gli strumenti bibliografici allora disponibili sull'espressionismo figurativo (Fechter, Hausenstein, Landsberger), parte dalla distinzione di Paul Fechter fra espressionismo pittorico ‛intensivo', volto a produrre paesaggi interiori senza ricorso al mondo esterno, ed espressionismo ‛estensivo', potenziamento del mondo empirico. L'espressionismo letterario (tacitamente ampliato fino a includere il futurismo auspicato nei manifesti marinettiani) terrà allora della direzione estensiva di quello pittorico (tacitamente ampliato fino a includere il cubismo). Le strade antitradizionali aperte allo scrittore sarebbero tre: dissoluzione della sintassi, formazione di nuove parole, dilatazione semantica. Romains si restringe a quest'ultimo partito, intendendosi per soluzione metaforica, al limite, anche quella implicante cambiamenti nella costruzione sintattica (se penser o penser le groupe, dormir l'amour, plein ses musées ecc., assimilabili a innovazioni rilevabili nei versi dell'espressionista austriaco Franz Werfel quali ‟meine Wunden bluten Niederlage" [‟le mie ferite grondano sconfitta"] o ‟er stirbt mich" [‟*muore me"]).

Ambiguo nel suo pensiero fra Romains come persona e come rappresentante della grammatica francese (ciò che rientra nell'ambiguità costitutiva della Stilkritik), lo Spitzer riferisce la rinuncia alle altre due possibilità a difficoltà interne del francese rispetto al tedesco, particolarmente per ciò che è della formazione delle parole (una frase come quella di Theodor Däubler ‟Da plötzhch untertulpt sich eine Tü te" [*D'un tratto si sottotulipana un cartoccio] è impossibile in francese), mentre in sede sintattica taluni canoni marinettiani, frattanto più radicali, osserva lo Spitzer, nel Marinetti programmatico che, non di rado, nel Marinetti autore in proprio, trovano esecuzione in altri autori francesi (per esempio la soppressione della punteggiatura in Apollinaire o i procedimenti interiettivi nel primo Paul Morand) e non in Romains. Quanto all'arte della metafora, mentre riesce più ovvia in tedesco, essa è adibita ad altri fini da Romains e dagli espressionisti tedeschi: ‟L'espressionismo tedesco si attua spesso come grido inarticolato, il francese [si legga Romains] come energia potenziata", in un cosmo sostanzialmente ordinato. Viene citato ad esempio l'excerpto iniziale dato sopra da Mensch stehe auf di Becher (‟Verfluchtes Jahrhundert" ecc.). In questo brano, di più, Nebel-Wahn (e a maggior ragione Fieberhorn) rappresenta una possibilità compositiva sottratta al francese.

La categoria grammaticale tipicamente espressionistica è il verbo, come l'impressionistica l'aggettivo. Con la sua posizione semiclassica, Romains amplia flagrantemente il verbo, ma innova largamente anche nell'aggettivo (‟une fruiterie feuillue, débordante"), pur se l'aggettivo può avere un' origine participiale (appunto débordante) e dunque contenere un principio di azione. Questa polarizzazione vale anche all'interno d'una tradizione linguistica: come Kerr era un neolatino ‛onorario', così entro il gusto germanico Jakob Wassermann si schiera per il verbo, Thomas Mann per l'aggettivo. Ma non si tratta di scontro frontale: in particolare l'espressionismo non si oppone puramente e semplicemente all'impressionismo, ma cresce su una premessa impressionistica e la ingloba. Questa convivenza non è vera solo per Romains, visto che ad esempio il passo di Becher comincia in modo diaristico, e che anzi la dissoluzione sintattica dell'espressionismo tedesco lo porta più facilmente a uno stile ‛telegrafico', iperbole dell'impressionismo. Lo Spitzer ritrova questa fenomenologia in piena pittura, nel grande precursore dell'espressionismo che fu van Gogh. In una lettera van Gogh analizza il proprio procedere nel ritrarre un amico: dapprima lo dipinge fedelmente, poi interviene affettivamente ad accentuarne la biondezza con dell'arancione, del cromo, del giallo limone; per finire sostituisce la neutra parete di fondo con l'infinito fornitogli dal più intenso azzurro della tavolozza (proprio il ‟plafond couleur d'infini" di Romains). Lo Spitzer sottoponeva a un'analisi omologa una poesia di Paul Morand, Le lock-out à Tolède, dove stile diaristico e registrazione fenomenica sono elementi impressionistici, mentre la serie d'immagini (‟Manomètres, insectes crevés", ‟...le minerai asturien, / bétail perdu / sur les voies de garage", ecc.), esposta in versi liberi, è espressionistica. In ‟un abandon Philippe II", uno schema tipicamente impressionistico, con un epiteto anche di gusto impressionistico, lo psicologico abandon sostituisce un'indicazione fisica. ‟Si vede qui all'opera [...] il trascendentalismo, che dilata spiritualmente la forma impressionistica. [...] L'impressionismo trapassa quindi lentamente e impercettibilmente in espressionismo.

In autori quale particolarmente lo Spitzer la definizione di espressionismo è certamente morfologica, ma inserita nella storia: anche esteso alla Francia, esso è pur sempre un carattere della letteratura del primo anteguerra. Ciò corrisponde alla chiarezza quasi cartesiana della sua impostazione, per cui, pur trattando la Stilkritik sempre fatti linguistici interpretati idealisticamente nel loro stato nascente, sono separate anche in distinti volumi, Sprachstile e Stilsprachen, le singole innovazioni grammaticalizzate e i sistemi linguistici innovanti degli individui-autori. A questo sostanziale assorbimento dell'etimologia nella critica letteraria si oppone la totale parificazione operata dai meri linguisti, di cui è un esempio estremo il saggio di Elise Richter Impressionismus, Expressionismus und Grammatik (1927). Il precedente, valido per ogni definizione linguistica dei vari ‛ismi', è nel saggio di Charles Bally Impressionnisme et grammaire (1920, tr. Sp. [col precedente] in El impresionismo en el lenguaje, Buenos Aires 1936), saggio che prescinde da ogni significato letterario dell'impressionismo e oppone fra loro due rappresentazioni linguistiche della realtà, una rispondente a un ‟mode d'aperception phénoméniste ou impressionniste" e una a un ‟mode d'aperception causale ou transitive". Altro precedente di minor entità e secondario al citato è quello in cui altro linguista (ma non linguista puro come l'esponente della scuola ginevrina), Friedrich Schuürr (Sprachwissenschaft und Zeitgeist, 1922), procura di ottenere una definizione anche dell'espressionismo, identificandolo all'intuizione. Diversamente dal Bally, la Richter, pur consapevole del fatto che la grammaticalizzazione può smorzare i tratti innovatori della creazione linguistica iniziale, inalveandola nella banalità del quotidiano, prescinde dalla poi tanto decisiva nozione di écart e da ogni distinzione fra l'‛ismo' linguistico e il corrispondente ‛ismo' letterario in quanto linguisticamente attuato, elaborando una fenomenologia generale in cui collocare gli ‛ismi'. Se la stylistique del Bally (cioè una dottrina che caratterizza psicologicamente delle espressioni in astratto sinonime) considera gli ‛ismi' (nella specie l'impressionismo) come frutto d'un'opzione, la morfologia gnoseologica della Richter, pur appoggiandosi a sua differenza su un'esplicita base idealistica, rischia di riuscire prelinguistica, ed è comunque espressamente prestilistica quando si applica a strutture obbligatorie della lingua: esempio estremo, ‟Si potrebbe dire che ILLE e TU sono impressionistici, EGO espressionistico".

La fenomenologia della Richter, idealista dunque solo per la sua accettazione della creatività linguistica, non nella concezione ingenua della realtà, distingue l'impressionismo (Eindruckskunst del Walzel), riproduzione delle cose in quanto appaiano all'osservatore, dal naturalismo, ‟riproduzione il più possibile esatta del mondo esterno", come dall'espressionismo (Ausdruckskunst), ‟riproduzione di rappresentazioni o di sentimenti suscitati dalle impressioni secondo che esterne o interne". Se il naturalismo si realizzerebbe allo stato puro nell'onomatopea, l'impressionismo caratterizzerebbe certo gli istituti rilevati dal Bally, quali la perifrasi mediante sostantivazione dell'aggettivo (‟une blancheur de colonnes" per des colonnes blanches, anzi già in Euripide λακίδες πέπλων per ‛veli laceri', e il grado ulteriore in cui un jardin de beauté sta per un beau jardin) o la trasformazione del predicato nominale in verbale (tipo rosa rubet per rubra est), e gli altri rilevati dal Lösch (come la prolessi del soggetto in Les officiers, c'est des ingénus (Goncourt]), ma si applicherebbe del pari globalmente ad atteggiamenti letterari quali lo stile telegrafico o l'audizione colorata e ad altri quotidiani quale l'uso del passivo (‛si apre la porta') o del pronome neutro impersonale; è, si ripete, indifferente dal rispetto dell'etimologia categoriale che si abbiano forme grammaticalizzate come ‛Sua Eccellenza' o ancora vergini come nell'esempio di Paul Adam ‟Enfin, pensa la colère du jeune homme". Quanto fragile sia, se del tutto astorica, la distinzione di impressionismo ed espressionismo, mostra il fatto che sono riferiti al primo numerosi esempi solitamente riferibili al secondo, quali alcuni di preponderanza verbale (incluso il tipo rosa rubet) e tutti quelli antropomorfici o, come l'autrice preferisce dire, animistici (compreso il tipo, da lei addotto come triestino, ‛il latte va insieme'). E la Richter stessa provvede a segnalare l'alternanza di procedimenti impressionistici ed espressionistici sia in fatti del linguaggio corrente (parole composte, ordine delle parole) o letterario (forme dello stile indiretto), sia in singoli autori (Rimbaud, Mallarmé) e anche fuori delle arti della parola.

Importerà comunque estrarre dalle pagine della Richter una definizione dell'espressionismo ormai ridotto nello stato di categoria a priori e un'elencazione delle categorie degli istituti che gli sono correlati.

‟L'espressionismo - così scrive la Richter - non si occupa di ciò che è obbiettivamente presente e di come si possa ineccepibilmente constatare questa presenza obbiettiva. Esso dà i l p e n s i e r o e il sentimento soggettivo sulle cose, l‛ i d e a delle cose presente nell'Io speculativo. L'espressionista non dice che cosa accade o che cosa egli vede, ma che cosa lo commuove nello scorgere un processo o una cosa, la sua sensazione personale e il suo giudizio (o eventualmente pregiudizio) sulle cose. Egli prescinde pregiudizialmente da ogni vero di natura; non colloca il mondo esterno in quanto tale nell'ambito della sua rappresentazione; informa del suo stato d'animo in questa o quell'occasione, lo stato in cui l'hanno indirizzato gli eventi esterni, o, per usare l'espressione moderna, come ‛vi reagisce'. L'espressionismo abbraccia ogni modo di palesare il dato interiore e irrazionale. Secondo Rilke l'essenza dell'artista è dire se stesso, l'intimamente proprio, lo specifico (in Worpswede [referto sul cenacolo espressionista di questa località della Bassa Sassonia): ‛Essere qualcuno, come artista, significa poter dire se stesso'). Ma tale è anche l'essenza dello spirito speculativo. [...] Poiché non c'è espressione che corrisponda pienamente all'oggetto rappresentativo dell'esperienza interiore, ne risulterebbe che il singolo lo inventerebbe liberamente. Ma l'ascoltatore come può esser sicuro di ciò che è ivi da intendere? La comprensione è difficile o addirittura impossibile se non è gettato qualche ponte razionale (dichiarazione mediante comparazione). Nella stragrande maggioranza dei casi l'irrazionale viene previamente comunicato mediante un confronto col razionale. [...] Il contenuto della visione interiore puramente soggettiva viene obbiettivato mediante una razionalizzazione e così reso accessibile ad altri. [...) L'attività espressionistica può perciò essere considerata come l'obbiettivazione della visione interiore".

Sono definizioni che naturalmente consuonano ai programmi dell'espressionismo storico a partire dal manifesto principe di Hermann Bahr. E l'attuazione linguistica (o anche retorica) è ritrovata in manifestazioni frequenti altresì nell'espressionismo vero e proprio: la parificazione di eventi interni a processi naturali (Mallarmé, ‟Des crépuscules blancs tiédissent sous mon crâne") e inversamente (Rimbaud, ‟La vitre qui nt là-bas"), la personificazione e metaforizzazione liberamente fantastica (tra gli esempi siano riprodotti almeno quelli di due espressionisti lato sensu come Giraudoux, ‟La pleine lune [...] se donnait le secret d'une lune masquée", e Bloy, ‟l'étonnante lâcheté l'avait saturée de tous les crapauds du mépris et de l'aversion") e al suo culmine la ‟moderna lirica dell'oggetto" (documentata col Notturno dannunziano, coi Neue Gedichte rilkiani, col Cantiques des colonnes (stranamente dato ad altri che Paul Valéry] ecc.). Ma nei singoli istituti l'esempio letterario può essere affiancato dal quotidiano (il primo di Mallarmé da ‟er dampft vor Zorn" [schiuma, letteralm. fuma, di collera)); molti paragrafi hanno realizzazione meramente grammaticale (modificazioni suffissali, per esempio di accrescitivi o diminutivi; dativo ‛etico'; plurale maiestatico, di modestia e simili; determinati usi del congiuntivo o del condizionale o del futuro, ecc. ecc.); ma in molti altri casi la realizzazione è concettuale e pre- o extragrammaticale (così l'‛apoteosi della natura', la tipizzazione, l'uso non storico di un personaggio storico o comunque tradizionale), tanto da consentire alla Richter conclusioni generali come queste: ‛ ...È chiaro che parte straordinaria ha l'espressionismo nella vita linguistica. V'è anzitutto l'atto linguistico originario come globalità, se si prescinde dalle onomatopee e interiezioni. La capacità di riferire a un atto linguistico, e portare così all'esterno, un evento interiore dev'essere riconosciuta come pertinente all'ambito dell'espressionismo. In definitiva è espressionistico ogni mezzo di comunicazione che manifesti una presa di posizione dell'Io innanzi a un processo o a una situazione.

È a questo punto evidente che con la Richter la categoria di espressionismo, eventualmente polarizzata con quella di impressionismo, viene a designare aprioristicamente un aspetto necessario e permanente dell'espressione e perde per il critico buona parte della sua utilità euristica. Questa è infatti legata a un'incompiuta o solo iniziata grammaticalizzazione, anzi si manifesta in quella che la cultura francese chiamerà la nozione di écart. La posizione dello Spitzer appare invece equilibrata in quanto un ‛ismo' e costituito in lui dalla descrizione di un sistema di istituti linguistici relativi a una personalità (il classicismo per Racine) o a un gruppo di cultura comune (il simbolismo francese) o infine a un gruppo virtuale (l'espressionismo appunto per Romains, ma tacitamente per vari suoi vicini oggetto di parallele monografie, quali Philippe o Péguy, senza contare Barbusse). Il suo oggetto è dunque storicamente concreto, ma sempre passibile di estrapolazione generalizzante: obbedisce cioè ai due, dialetticamente composti, requisiti di un'analisi stilistica portata sulla lingua degli autori.

7. Altri ‛espressionisti' francesi (Céline, Audiberti, Michaux)

Nessuno scrittore francese merita con tanto ritardo la qualifica di ‛espressionista' nel senso definito dai francesisti tedeschi (non per niente fece ancora a tempo a richiamare l'attenzione dello Spitzer) quanto Céline (Voyage au bout de la nuit uscì nel 1932, all'ultima opera, il postumo Rigodon, lo scrittore attese fino alla morte, sopraggiunta nel 1961); ma ciò vale anche per uno scrittore in qualsiasi lingua. Se infatti l'espressionismo si qualifica più visibilmente per una rappresentazione antropomorfica del mondo esterno e ‛unanimistica' delle folle, niente è più, per così dire, ortodossamente espressionistico di questa notazione ferroviaria, in una delle prime pagine di Mort a' crédit (stampato nel 1936): ‟La gare c'était dedans comme une boîte, la salle d'attente pleine de fumée avec une lampe d'huile en haut, branleuse au plafond. Ça tousse, ça graillonne [scaracchia] autour du petit poêle, les Yoyageurs, tout empilés, ils grésillent dans leur chaleur. Voici le train qui vrombit, c'est un tonnerre, on dirait qu'il arrache tout. Les voyageurs se trémoussent, se décarcassent [ce la metton tutta), chargent en ouragan les portières". Oppure, dallo stesso libro (dal quale anche la restante documentazione), di questa notazione invece fluviale, nel cui impressionismo prevalgono i verbi: ‟Plus loin, c'est Villeneuve-Saint-Georges ... La travée grise de l' Yvette après les coteaux ... En bas, la campagne ... la plaine ... le vent qui prend son élan ... trébuche au fleuve... tourmente le bateaulavoir... C'est l'infini clapotis... les triolets des branches dans l'eau ... De la vallée ... En vient de partout ... Ça module les brises ..." (nella stessa tonalità la scena che segue del naufragio). O ancora di questo finale marino di capitolo (Dieppe): ‟Encore un coup jusqu'à l'autre ....... Le Phare écarquille la nuit ... L'éclair passe sur le bonhomme ... Le rouleau de la grève aspire les cailloux ... s'écrase ... roule encore ... fracasse ... revient ... crève ..." Quanto alla visualizzazione, non sarà facile in letteratura trovare qualcosa di più vicino del paesaggio di Chatham a un fotogramma di film espressionista (‟Elle [la ville] dégringolait avec ses petites rues" ecc.).

Nella prima citazione la violenza del cromatismo si affida, almeno sussidiariamente, a elementi gergali (quelli che sono stati tradotti fra parentesi), perché la descrizione è tradotta nel linguaggio dell'historicus, un monologo interminato che costituisce la trama di tutto Céline (ma non un monologo interiore, bensì tutto esteriorizzato: un monologo naturalista, tanto più vecchio di Joyce); e l'historicus è potentemente colloquiale, e come usa argot ricorre a una sintassi parlata (‟La gare c'était", ‟les voyageurs [...] ils grésillent"), benché fra tante deformazioni populiste se ne insinui una rigorosamente lirica (‟branleuse"). E di impianto lirico è la struttura che si palesa nelle altre due citazioni e che si subordina alla precedente, invadendo questo e i libri successivi: una triturazione del discorso che è segnalata dai puntini di sospensione dopo ogni segmento impressionistico e risponde a un'abitudine ben ottocentesca (tanto che, se essa si ritrova in Gadda, come del resto in certo Beckett, ancor più appariva in Faldella); proprio lo stile ‛staccato' della recitazione naturalistica da cui, nelle istruzioni per i suoi drammi, voleva preservarli l'ipersintattico, ieraticamente oratorio Claudel (ed è lo stile, fedelmente rispettato per esempio dai Pitoèff, in cui si realizza ancora Pirandello e al quale s'accorda la smorfia espressionistica delle sue didascalie). Un enunciato potentemente metaforico come ‟Le Phare écarquille la nuit" sembrerebbe infatti autosufficiente in una resa poetica frammentistica se non fosse freneticamente incalzato, in un parossismo di spezzature, dai successivi addendi, di varia qualità, che tendono a un impossibile esaurimento e perciò non conoscono limite: se lo scrittore si fermasse, per così dire, al momento buono, avrebbe le qualità da lui più disformi, la selettività e la reticenza di un classico.

Céline porta all'iperbole la rappresentazione delle funzioni corporee da cui il primo espressionismo francese aveva desunto le sue metafore predilette: la sua corporeità orgiasticamente secerne deiezioni, atti sessuali, malattia, vomito, percosse. Se si resistesse a trascrivere ciò che appena si sopporta alla velocità della lettura, sarebbe facile mostrare come, quando uno qualunque di questi brani, per esempio quello sul mal di mare nella traversata della Manica, sembra aver raggiunto il suo culmine (a fine di paragrafo: Sur l'horizon des confitures ... la salade ... le marengo le café-crème ... tout le ragout ... tout dégorge ..."), un'implacabile iterazione (‟Il lui est remonté une carotte un morceau de gras ... et la queue entière d'un rouget .") riempie ancora pagine compatte di materiale similare: l'oltrepassamento della sazietà è tale che Céline varca se stesso con un'appendice continua di parodia quantitativa di se stesso. Una manifestazione espressionistica, che si afferma negando il limite, è perennemente minacciata dall'esito nel grottesco dell'autoimitazione. Per ciò che è di Céline, la sua euristica è tutta tesa alla ripetizione di situazioni parallele, pianerottoli deliranti nel suo flusso (quando naturalmente il flusso non s'intenda come liscio, ma come cellularmente interrotto, ruvido e granulare), e tesa anche qualitativamente, nel senso che la febbre o l'ubriachezza intervengono in aggiunta a provocare nuovi stati visionari, come nel gran pezzo sull'invasione estiva delle Tuileries, di cui si segna qui qualche punto: ‟Mais il survient juste alors toute une armée de cramoisis, une masse compacte, râlante, suifeuse, dégoulinante des quatorze quartiers d'alentour... [...] Au plus profond, toutes les famllles, à la recherche de leurs morceaux dans l'enfer et le brasier des chaleurs... Il giclait des quartiers de viande, des morceaux de fesses, des rognons loin, jusque dessus la rue Royale et puis dans les nuages... [...] Le monstre aux cent mille braguettes, écroulé sur les martyrs, remue la musique dans son ventre ...". Comprensibilmente, gli stati provocati da queste eccezioni fisiologiche acquistano una più probabile legittimità espressiva. In generale l'oltranza di Céline rivela flagrantemente la sua motivazione pratica, la turpe infelicità' della sua sorte che si compensa in un'òstentazione di abiezione: abiezione linguistica per quanto spetta alla presente ricerca, cioè elezione a rovescio tanto nella stratificazione del lessico quanto nella sintassi e nell'‛esecuzione' del discorso. Allegorizza questo autobiografismo, ancora non del tutto letterale (come sarà invece nella trilogia ‛nordica' che chiuderà l'opera del collaborazionista), la prima persona del racconto, non propriamente espressionistica, visto che l'Io degli espressionisti ha un valore mistico, non soggettivo, e che i personaggi del loro teatro sono funzioni senza individuale stato civile.

Sia consentito richiamare ancora l'attenzione su alcuni effetti secondari. All'interno dello stile diretto rari lacerti in stile indiretto mantengono parità di enfasi mediante il ntmico rinnovo di burleschi trinomi (nell'esempio seguente si tratta di rimproveri paterni): ‟Alors c'était l'anathème! Le blasphème atroce! ... Le parjure abominable! ... J'avais pour moi la jeunesse et je foirais [me la facevo addosso] en simagrées? Ah! l'effroyable extravagance! Ah! l'impertinence diabolique! Ah! l'effronterie! Tonnerre de Dieu! J'avais devant moi les belles années! Tous les trésors de l'existence! Et j'allais groumer [mugugnare] sur mon sort! Sur mes petits revers misérables! Ah! Jean-de-la-foutre-bique [dilatazione, mediante bique ‛strega', di jean-foutre]! C'était l'insolence assassine! Le dévergondage absolu! La pourriture inconcevable!"

Senza essere affatto esente da presenze gergali (quelle sempre tradotte fra parentesi), che però si rifugiano soprattutto in interiezioni, come se l'altrui beneducato discorso incespicasse in questi scoppi di furore, lo stile indiretto, quasi per segnare la differenza di livello (il padre sapeva di lettere) rispetto al locutore ordinario che è all'infimo immaginabile, serba un differenziale decoro che è fonte di sicura comicità, particolarmente in quei tali punti di simmetria che sono l'appannaggio retorico di un'antica cultura.

Può però darsi che lo stile indiretto si riferisca a una comunità plebea, come gli abitanti del Passage des Bérésinas minacciati da voci di demolizione. Allora è, proporzionalmente, la percentuale gergale che viene aumentando, come è chiaro anche solo dal centro del passo (che è cominciato propriamente in stile indiretto): ‟De temps a autre, faut bien comprendre, ‛a venait à fermenter un peu dans la bobèche [capoccia] des miteux [poveracci], des dròles de mensonges, commeça sur le pas des boutiques, surtout les jours de canicule ... Ça venait comme des bulles dans leur bourrichon [cranio] crever en surface... avant les orages de septembre... Alors, ils se montaient des bobards [frottole], des entourloupes (balle] monumentes [per monumentales], ils révaient tous de réussites, de carambouilles [inghippi] formidables... Ils se voyaient expropriés, c'était des fantasmes! persécutés par l'État! Ils ballonnaient [si gonfiavano d'aria], ils se détraquaient la pendule [davano di fuori], complétement bluffés [sbalestrati], soufflés de bagornes [pieni di storie] ... eux qu'étaient pâlots d'habitude ils tournaient au cramoisi ...".

Una patente alternanza dei due registri è nella pagina sulle morti possibili, che investe il maestro di anatomia patologica, uomo di squisito umanesimo, nel suo crudele miscuglio di argot e di inevitabili termini tecnici, una volta (‟la ‛troisième'") letteralmente e le altre idealinente (‟la Rolandique" ecc.) messi fra virgolette, perché anche l'aristocraticità delle lingue speciali è vista dal sottinsù della vita inferiore: ‟Ça sera-t-il une artériole qui pétera [scoppierà] dans l'encéphale? Au détour de la Rolandique?... Dans le petit repli de la ‛troisième'?... On l'a souvent regardé avec Metitpois à la Morgue cet endroit-là ... ‛Ça fait minuscule un ictus ... Un petit cratère comme une épingle dans le gris des sillons L'âme y a passé, le phénol et tout. Ça sera peut-étre hélas un nèo-fongueux du rectum ... Je donnerais beaucoup pour l'artériole ... Á la bonne vôtre! ... Avec Metitpois, un vrai maltre, on y a passé bien des dimanches à fouiller comme ça les sillons ... pour les manières qu'on a de mourir ... Ça le passionnait ce vieux daron [principale] ... Il voulait se faire une idée. Il faisait tous les voeux personnels pour une inonodation pépère [tranquilla] des deux ventricules à la fois quand sa cloche sonnerait... Il était chargé d'honneurs!...

Les morts les plus exquises, retenez bien ceci Ferdinand, ce sont celles qui nous saisissent dans les tissus les plus sensibles ...' Il parlait précieux, fignolé, subtil, Metitpois, comme les hommes des années Charcot. Ça lui a pas beaucoup servi la Rolandique, ‛la troisième' et le noyau gris ... Il est mort du coeur finalement, dans des conditions pas pépères... d'un grand coup d'angine de poitrine, d'une crise qu'a duré vingt minutes. Il a bien tenu cent vingt secondes avec tous ses souvenirs classiques, ses résolutions, l'exemple à César... mais pendant dix-huit minutes il a gueulé comme un putois ... Qu'on lui arrache le diaphragme, toutes les tripes vivantes... Qu'on lui passait dix mille lames ouvertes dans l'aorte ... Il essayait de nous les vomir... C'était pas du charre [burla]. Il rampait pour ça dans le salon... Il se défonçait la poitrine... Il rugissait dans son tapis... Malgré la morphine. ‛Ça résonnait dans les étages jusque devant sa maison ... Il a fini sous le piano. Les artérioles du myocarde quand elles éclatent une par une, c'est une harpe pas ordinaire...".

Un'analisi che si spinga appena un po' oltre la superficie grigia e massiccia di questa scrittura rivela dunque varianti notevoli e, magari contro la disposizione prima del critico, da dichiarare magistrali. Tuttavia questa antologizzazione, che fa violenza all'assunto monotono dello scrittore, mette in luce una situazione tipica di ogni espressionismo verbale. Quest'opera, perseguita con così gigantesca solerzia, di traduzione, mai sgarrante, in una lingua fittiziamente divaricata dalla norma, si tratti di Céline come di Folengo o di Rabelais, paga la sua riuscita non con la sua illeggibilità, che sarebbe ipotesi risibile, ma con l'illeggibilità della sua continuità. Non il logos ma la natura di Gadda lo intese perfettamente, che felicemente non riuscì mai a varcare lo stato di frammento narrativo. E lo intese la natura di Joyce, che perseguì una sinfonia articolatissima o una ciclicità eterna. Le costruzioni espressionistiche complete e lineari possono solo infrangersi in segmenti per aver diritto all'ammirazione.

Un'esperienza esasperatamente espressionistica, non contenta alla sintassi surreale delle immagini, ma che esercita la sua violenza sulla verbalità e la fonicità, è anche quella di Jacques Audiberti (1899-1965), particolarmente nell'opera poetica (Race des hommes, Des tonnes de sémence ecc.). Audiberti punta direttamente sulla putrefazione perché essa avvicina la vita alla morte; e poiché la morte è resurrezione, Audiberti accelera il processo, aumentando le possibilità della materia nello scatenamento dei moti autodistruttivi, per affrettare la resurrezione. Qui si giustifica un espressionismo che è forse il solo a potersi dire cristiano. Una raccolta come Toujours (1943) ridonda di questi temi; vi si ritrova compiuto il processo in La souffrance, dove la sofferenza si distrugge prendendo coscienza di sé: ‟La danseuse danse. La danse / ne danse pas. I La danse est immobile au centre de la danse. / La guerre est immobile au milieu des combats. // Le silence parle. Silence! / ‛Je ne suis pas / quand surgit un silence outre moi le silence, / chars et canons a bloc zéro dans leur fracas'. // On souffre. Souffrfr, la souffrance / ne songe pas. I Elle réclame tout, sauf soi sur sa potence. / Absente de l'étoile où tu la dénommas, // que la souffrance, vieille lance, / gerbe de croix, / voie... un figuier, grandeur, bourgeonne, intelligence... / qu'elle voie et la griffe, et la goutte, et le gras, // qu'elle voie... or d'où, la puissance / lui vient, de voir? ... / qu'elle voie homme et Dieu rongés par leur essence / et devant l'os vivant les rats, gourmands, s'asseoir, // alors, subite, la souffrance / tremble de soi. / Elle entreprend sa téméraire connaissance. / Ses ongles dans sa chair defigurent la biloi. // Tu rencontreras la souffrance. / Tu l'aimeras. / Tu l'aimeras toute arráchée a l'innocence. / Elle pleure. Elle a soif. Elle mange ses bras. // À mesure qu'elle s'avance / vers le plus bas I le monde délivré danse, et la danse danse. // La guerre brait de peur devant l'eau des combats".

Eccezioni di espressività s'incontrano pure nello scrittore d'origine belga Henri Michaux; e certo non per il fatto che la sua opera più recente annovera un repertorio di sogni (Façons d'endormi Façons d'éveillé, 1969), dove può figurare una montagna celeste, e dossiers su esperienze con allucinogeni, che importano la dissoluzione dell'Io (‟ 'moi' n'est plus" in L'infini turbulent, 1964), figurazione e tema proverbialmente ‛espressionistici'. Diversamente dagli altri citati, Michaux ha anche dignità di disegnatore, da classificare tranquillamente sotto l'epigrafe surrealistica; ma tale visualizzazione non giova alla sua esegesi, posto che gli autentici surrealisti (Breton, Eluard ecc.) operano nella sfera dell'analogia, mentre il Michaux migliore giunge a peculiarità grammaticali e perciò fa più che sfiorare il capitolo espressionistico. Gli esempi saranno in linea di principio limitati alla sua prima opera, dall'autore stesso antologizzata nella raccolta dal titolo così significativo di L'espace du dedans (1944): un'antologia che si vorrebbe dire ispirata a una poetica magia bianca, mentre altra disposizione guida Épreuves, exorcismes (1945) e poi Face aux verrous (1954), libro principale prima dei noti referti sulle allucinazioni da mescalina. Quattro caratteristiche formali contrassegnano la scrittura di Michaux: l'invenzione di parole immaginarie; la frequente inversione del soggetto; la ripetizione asindetica; la soppressione di mots-outils normalmente obbligatori, pronome soggetto, articolo determinato o indeterminato.

L'invenzione lessicale immaginaria si può esercitare tanto nell'ambito prevalente della descrittività verbale, come in Le grand combat (da Qui je fus): ‟ll l'emparouille et l'endosque contre terre; / Il le rague et le roupète jusqu'à son drâle; Il le pratèle et le libucque et lui barufle les ouillais; I Il le tocarde et le marmine, / Le manage rape à ri et ripe à ra. / Enfin il l'écorcobalisse.", quanto nell'ambito sostantivale aggettivale, come in Dimanche à la campagne (da Lointain intérieur, titolo egualmente programmatico): ‟Jarrettes et Jarnetons s'avancaient sur la route débonnaire. / Darvises et Potamons folâtraient dans les champs. / Une de parmegarde, une de tarmouise, une vieille paricaridelle ramiellée et foruse se hatait vers la ville [...]".

Un caso particolarmente interessante è quello della parola-zero, sorta di plastica del silenzio, quale in En vérité (da Mes propriétés): ‛'(...) En vérité, la femme ce n'est pas moi. / C'est moi le bon chemin qui ne fait rebrousser personne. / C'est moi le bon poignard qui fait deux partout où il passe. / C'est moi qui... / Ce sont les autres qui ne pas...".

L'inversione del soggetto (o dell'oggetto) si attua spesso nel tipo ‟Peu se disputent les chiens, peu les enfants, peu rient e non meno spesso nel tipo prolettico (mise en relief per così dire, fuori declinazione, già attestata nelle Choses vues di Victor Hugo) che si può documentare col caso a più termini ‟Or, le canal de l'urètre, tout ce qui est liquide, oui, mais les cristaux il ne les laisse passer qu'avec un mal de chien".

Estremamente diffusa, beninteso senza contare le banali iterazioni superlative, la ripresa esemplificabile con ‟Mais eux s'en vont prudents, prudents, à pas prudents, méditant sur la Nature, qui a tant, qui a tant de mystères" oppure ‟Forer, forer, étouffer, toujours la glacière-misère. Répit dans la cendre, à peine, à peine; à peine on se souvient".

Viene infine l'assenza di particelle attualizzanti, come (l'esempio è ricavato da Lointain intérieur) ‟Soleil n'arrive qu'à son heure".

Simile assolutizzazione del sostantivo, banale in tedesco letterario (si veda con lo stesso nome: ‛'Sonne aus finsterer Schlucht bricht" [‟Il sole rompe da buia gola"], Trakl; ‟Sonne kniet vor mir" [‟Il sole mi s'inginocchia davanti"), Heynicke), in francese è altamente differenziale.

Queste varie firme lasciate da Michaux nella sua opera cospirano, da punti assai divergenti dell'orizzonte, verso una stessa interpretazione: che è quella d'una magia affabile, addomesticata, casalinga e patetica. Il perfetto amalgama con la realtà, preparato da giochi di parole surrogati a enunciato proprio e dall'alternarsi di serie associate per calembour e di serie sinonime, culmina nell'uso di vocaboli immaginari in funzione normale. La collocazione anomala del soggetto produce un cambiamento effettivo di prospettiva: il soggetto, rimosso dal suo piano ordinario, vige in un pianissimo, preceduto dalla maggior vistosità delle più sentimentali parole di qualità e d'azione. Nella ripetizione asindetica si attua una durata, ma partecipata, rimormorata a se stesso, sia che si riconosca una fatalità, sia che s'incontri una resistenza o si penetri nell'intimo. Di esegesi meno salda l'ultimo punto, che comunque esibisce l'assolutizzazione di verbo e sostantivo, non attualizzati, la materia presa nella sua totalità, non partitiva. Nell'esempio addotto soleil non tende peraltro inevitabilmente verso uno statuto di nome proprio: l'abbondante presenza di verbi senza soggetto può estendersi a ‟n ‛arrive qu'à son heure", sopraggiungente dopo una sorta di esclamazione evocatoria.

La diversa percentuale dei caratteri segnati consente di più singole interpretazioni. Così, essi mancano, salvo un paio di iterazioni, al Voyage en Grande Garabagne, i cui lunghi periodi (dove peraltro compaiono mouche e voile non articolati) sono inconfondibili: tentativo isolato di parodiare un referto scientifico sul mondo magico. D'altra parte con Épreuves e Face (se si eccettua la parte esorcistica, cioè ancora ottimistica e vitale) si ha una complessiva diminuzione dei fenomeni studiati, a ogni modo una modifica dell' equilibrio, per cui alla drastica riduzione della parola immaginaria e alla circoscrizione della ripetizione asindetica, parossistica con ufficio di esorcismo, si oppone la sopravvivenza, anzi un'infeconda crescita, dell'inversione e dell'eliminazione degli attualizzanti, non più dunque associati a fantasia e ritmo: fossile schema che dà un mondo invertito rispetto alla norma, onirico, ma immobile e quasi caricaturale. Questo è del resto il momento in cui l'autore formula la propria poetica irrazionale e la sua giustificazione: alla meccanizzazione si accompagna l'autocoscienza. Come la critica delle varianti, così quella che possiamo dire la critica grammaticale è in grado di descrivere anche processi involutivi, oltrepassando la mera neutra, non assiologica, rilevazione.

Importante è comunque, e da segnare all'attivo, che, rinnovandosi i contenuti (esperienze con gli stupefacenti), la prosa di Michaux sia contrassegnata da innovazioni grammaticali, essenzialmente da alterazioni pre- e suffissali. In Misérable Miracle (1956), a pochi righi di distanza: ‟cristallinement", tiges ambulacraires", ravinements virevoltants". In L'infini turbulent (dove d'altra parte continuano le assolutizzazioni del tipo ‟Singularité gagne"): ‛Infinivertie, elle [cioè la mescalina, ‟la démentielle infinisante"] détranquillise"; ‟mellisation du monde"; ‟dérythmiquement"; ‟olyraillerie. Polyrythmie. Polydévastation". In un passo dello stesso libro si descrive una proprietà linguistica del drogato, che riesce a centrare la parola cache-col solo dopo aver scartato successivamente un'infinità di altri composti, cespuglio di parole a vuoto", quali ouvre-boîtes, pare-brise, cache-sexe, ecc.; ma il fenomeno precedente rappresentava in atto il processo stesso di deformazione. In sostanza l'esperimento chemioterapico si immette in un alveo già scavato sotto la piena luce della coscienza.

8. Joyce

Se espressionismo è violenta sollecitazione linguistica volta a esplorare l'Io più interno, nessun dubbio che l'iperbole ne vada riconosciuta nell' Ulysses di James Joyce (scritto dal 1914 al 1921, pubblicato per intero nel 1922), forse il libro più decisivo di questo secolo, di cui è superfluo rintracciare la discendenza epigonica nella letteratura di lingua inglese (specialmente in America), e a distanza di congrua digestione culturale, quando l'autore aveva spinto per proprio conto l'oltranza espressiva fino a Finnegans Wake (stampato per intero nel 1939), anche in Francia, Italia, Germania ecc., dove la mimesi è tuttora in corso.

A rintracciare il carattere già propriamente (prima che estensivamente) espressionistico della scrittura joyciana si può procedere cominciando da prelievi minori. Per esempio segnalando il trasporto d'una per sé impressionistica onomatopea nel settore flessivo della grammatica, procedura non estranea ad alcune lingue (l'ha studiata il Karcevski per l'interiezione in russo), nel caso specifico agevolata dalla terminazione in dentale, che può anche mimetizzarsi quasi come una desinenza del tempo passato (sllt come jogged). Bloom, l'Ulisse dublinese, così rende e interiormente commenta il rumore della macchina tipografica (in tondo l'onomatopea in funzione verbale): ‟Sllt. The nethermost deck of the first machine jogged forward its flyboard with sllt the first batch of quirefolded papers. Sllt. Almost human the way it sllt to calo attention. Doing its level best to speak. That door too sllt creaking, asking to be shut. Everything speaks in its own way. Sllt". Da notare che questa metamorfosi dell'inorganico in parola s'inquadra per sapiente antitesi in un paragrafo (uno dei tanti, allogati sotto titolature giornalistiche, in cui si suddivide il settimo capitolo, ambientato al giornale) intitolato orthographical, cioè dedicato alla divisione della parola nei suoi componenti grafici ed eventualmente alla loro metaforizzazione (in tondo gli elementi grafici sillabati: ‟It is amusing to view the unpar one ar alleled embarra two ars is it? double ess ment of a harassed pedlar while gauging au the symmetry of a peeled pear under a cemetery wall"). Quanto alla curva di frequenza, non meno sapiente, dell'onomatopea, si va dalle due prime occorrenze inorganiche alle due flessive per chiudere come aveva cominciato, in modo inorganico: documentando direttamente, oltre che nel discorso, lo sforzo della macchina e anche della porta per comunicare (‟Ogni cosa parla a suo modo"). Per l'affermazione di principio della parola antropomorficamente concessa alle cose il passo è già stato speculato (ed. 1952, p. 87) nel notissimo saggio esegetico di Stuart Gilbert (la cui prima edizione ebbe la preventiva approvazione di Joyce stesso), anche se il Gilbert chiama ‟una peculiarità della tecnica joyciana" ciò che per sé sarebbe genericamente espressionistico. In effetti il Gilbert la inquadra nella serie - dove non si tratta più di parole - delle dinamo (‛Beingless beings. Stop!") che ‟pulsano" (throb) autonomamente, del disco della slot-machine che ‟occhieggia" (ogles) agli astanti, della camicia ‟crocifissa" sulla corda, dei luppoli rampicanti avvolti come serpenti. Ma il Gilbert torna a ravvisare il culmine del procedimento quando alcuni oggetti (un ventaglio, un sapone, un cappello e addirittura l'ipostatizzata ‟Fine del Mondo") acquistano la parola nel capitolo sabbatico (il quindicesimo) che si svolge al postribolo, interamente intessuto di dialoghi e didascalie. Così il sapone al limone pronuncia il seguente distico: We ‛re a capital coupie are Bloom and I: / He brightens the earth, I polish the sky".

Ovviamente la tecnica più impressionante di Uliysses, e che come tale apparve fino dalla pubblicazione della sua maggior parte in rivista fra il 1918 e il 1920, fu quella che Valery Larbaud definî appropriatamente ‟monologue intérieur", soliloquio in riproduzione diretta dell'Io con se stesso. Fu Joyce in persona a rivelare al pur coltissimo Larbaud che un precedente del ‟monologue intérieur" si trova in un racconto francese del periodo naturalistico (1887), Les Lauriers sont coupés di Édouard Dujardin. Nella forma più semplice, quella appunto del Dujardin e quella di molta parte dell' Uiysses, il ‛monologo interiore' è un discorso dell'Ego (il pronome espressionista per eccellenza secondo la Richter!) che non differisce morfologicamente, nonostante l'assenza di allocutore, da un altro qualsiasi discorso diretto: sarà un discorso triturato, grondante di frasi nominali o interrotte, ma il divario nella composizione non è qualitativo. Il ‛monologo interiore' è tuttavia qualcosa di molto più articolato, tale da varcare l'evenienza d'una nuova grammaticalizzazione, e per dir tutto il tedio d'una placcatura. Se si prendono i due capitoli interamente monologanti e perciò considerati portatori d'una simmetria esplicita, l'ultimo della prima parte (terzo) all'interno di Stephen-Telemaco e l'ultimo della terza e ultima (decimottavo) all'interno di Molly (Mrs. Marion Bloom)-Penelope, la loro morfologia appare profondamente diversa: il discorso di Stephen si presenta come la trascrizione d'una realtà impressionisticamente appercepita in modo discreto, e così è in sostanza del ‛monologo interiore' di ogni altro eroe maschile, Bloom in particolare; il discorso di Molly si offre come il flusso d'una continuità totale, non si sa se più stato di dormiveglia o stato muliebre, tra i limiti circolari d'un Yes e d'un Yes, blocco sprovvisto di giunzioni sintattiche come di punteggiatura tipografica (nonostante poche divisioni non contrassegnate da maiuscole).

Se per la sua meravigliosa novità il monologo ‛femminile' ebbe a suscitare la più intensa ammirazione e a provocare conati d'imitazione tuttora non estinti, anche perché interpretato a norma, se non delle rozze ‛parole in libertà' del futurismo, del sopravveniente automatismo e delle associazioni (in senso psichiatrico) surrealistiche, non va trascurata la sottigliezza del monologo ‛maschile' nelle sue varie forme. Il soliloquio di Stephen sulla spiaggia si inserisce entro un discorso narrativo in tempo storico (‟Stephen dosed his eyes [...]", ‟Airs romped around him [...]", ‟He had come nearer the edge [...]" ecc. ecc.), dal quale si smotta continuamente senza segnali nè grafici nè sintattici nel discorso interno. Si passa dal he all'I: ‟His pace slackened. Here. Am I going to Aunt Sara's or not?", con prelievo impressionistico della realtà pensata (segue infatti ‟My consubstantial father's voice"), impressionismo di secondo grado, dove il ‛parlato', in stato di lucida veglia, ha la stessa struttura del parlato esterno: la composizione impressionistica in paratassi nominale segna la somma degli atomi della riflessione, discreti se non proprio irrelati (e più allontanati, frattanto, al minor livello culturale di Bloom). È un perenne passaggio dal ‛fuori' al ‛dentro', dal naturalismo minimo dei punti di riferimento al prevalente impressionismo dell'Io, dal quale erompe il capitolo in questione (‟Ineluctabie modality of the visibile: at least that if no more, though through my eyes"), mentre da un pensiero presente (‟Behind. Perhaps there is someone") eromperà nel finale la visione reale in tempo narrante (‟He turned his face [...]"), di un trealberi che silenziosamente veleggia. All'interno del segmento si notano col Gilbert i tentativi di riproduzione, onomatopea organizzata, del discorso marino (‟a fourworded wavespeech: seesoo, hrss, rsseeiss, ooos") e l'approssimazione plurilingue, ma ridotta al comun denominatore (trascina trascines), a una resa ‛motivata' (‟She trudges, schlepps, trains, drags, trascines her load").

Il monologo ‛maschile' non veste sempre le stesse apparenze. Sia ad esempio il decimo capitolo, il quale si suddivide in diciotto sezioni consacrate a seguire altrettanti itinerari contemporanei di vari personaggi per le strade di Dublino e che perciò, dilatando il tema delle precedenti passeggiate di Stephen e di Bloom, fornisce il vertice d'una rappresentazione collettiva. E sia il primo di questi passanti, il gesuita padre Conmee. Neanche lui può fare a meno di pensare e di riferire a se stesso i fenomeni in cui s'imbatte. Ma la partecipazione del suo Io è evidentemente meno intensa, se a ciò è adibito il tempo narrativo e il cosiddetto ‛stile indiretto libero' (‟Father Conmee turned the corner [...] It was a wonder that there was not a tramline [...]"; o, al sentire il vociare dei ragazzi di scuola: ‟He was their rector: his reign was mild"). Altro lo statuto del soliloquio di Bloom; il verbo riferito al soggetto, discorso diretto abbreviato, può essere sprovvisto di pronome (‟Believe he does some literary work [...]", al passato naturalmente ‟I forgot to tap Tom Kernan"); ma in quanto modale, per esempio futuro, equivale all'infinito d'una lingua più flessiva (‟Must answer. Send her a postal order [...] Accept my little present", dove must è come il believe precedente, accept l'imperativo in quanto citato, un successivo ‟Wait. Think over it" l'imperativo rivolto a se stesso); una voce di terza è ridotta a participio, cioè sostantivata (‟Methodist husband. Method in his madness. Eating with a stopwatch"). Un medesimo tipo di stile si attua dunque in più varianti, conforme a quello che bisognerà chiamare un poliglottismo di base.

Il poliglottismo si verifica a un piano più elementare come citazione da varie lingue, o anche come mescolanza ‛macaronica' (‟OMNIUM GATHERUM", ‟Muchibus thankibus", Vobiscuits" ecc.); nell'esempio dato sopra è un saggio di descrizione dinamica; ma il poliglottismo fondamentale, rispetto a quello relativamente esterno, è un poliglottismo interno, sia di onomatopee nella più larga accezione contro linguaggio non motivato, sia di toni e stili e infine idioletti. Tale poliglottismo interno ha il suo proprio macaronismo (in conglomerati come ‟A sudden-at-the-momentthough-from-lingering-illness-often-previously-expectorated-demise") e può evolvere da una deformazione che non stravolge il significato a un ammicco fondato sul solo significante (‟Just mix up a mixture of theolologicophllolological. Mingo, minxi, mictum, mingere"). Nella linearità temporale della parola joyciana (nel senso saussuriano di parole) l'incatenamento semantico può essere sostituito di repente da un concatenamento fonico. La riflessione sull'Io, più esattamente sulla permanenza dell'Io (‟But I, entelechy, form offorms, am I by memory because under everchanging forms"), attraverso il nodo ‟I, I and I. I", evade bruscamente con uno sberleffo sull'omonimia di ‛Io' e ‛vocale I' (‟A.E.I.O.U."). Sicché il plurilinguismo diventa anche bilinguismo di lingua-del-significato e lingua-del-significante. Il capitolo (undecimo) sulle due bariste, attuato come una ‟fuga per canonem" (Gilbert), comincia sotto forma di un coagulo insensato di frasi e lacerti sonori anticipati dal brano stesso.

La poliglottia di Ulysses si corona nel macrocosmo nel suo aspetto stilistico, includendo organicamente brani narrati, monologanti (i ‟says I", ‟says Joe" ecc. del dodicesimo capitolo), dialoganti, catechistici (il penultimo, a domanda e risposta), in vari livelli di monologo interiore discreto e a blocco continuo ecc. Partendo da uno staccato realistico-analitico, si chiude con l'evocazione di un flusso continuo. Ulysses è una summa moderna, dopo la Commedia la prima nuova summa della poliglottia, versata espressionisticamente dentro l'Io (‟I said yes I will Yes") anziché verso un Fuori mentale.

L'epos mitico-dublinese in quattro parti di Finnegans Wake (1922-1939) reca al parossismo alcuni aspetti di Ulysses, e più vistosamente quello che vi apriva la ‟fuga per canonem" delle bariste. La difficoltà ne è enormemente accresciuta e sembra a primo aspetto invarcabile; ma essa riesce rassicurante in confronto alle punte del simbolismo e del cosiddetto ermetismo perché l'oscurità non si lega tanto a nessi soggettivi di immagini e a irripetibili, incomunicabili occasioni liriche quanto alle allusioni linguistiche che si moltiplicano, frattanto oggettivamente deformandolo, lasciandovi tracce misurabili, attorno a ogni elemento della catena parlata. Queste multiple irradiazioni descrivono uno spazio molto complesso e in qualche modo oltrepassano l'obiezione mossa a Ulysses da Ernst Robert Curtius (James Joyce und sein ‛Ulysses', incluso non nella 1a ma solo nella 2a edizione, del 1954, dei Kritische Essays zur europäischen Literatur) circa l'inadeguatezza di un procedimento lineare a rendere il pluristratificato Inconscio. In questo senso il Wake progredisce nell'assunto espressionistico della rappresentazione dell'Io profondo, e per meglio dire degli stessi collettivi archetipi umani. Ma la struttura formale del nuovo mirabile mostro differisce profondamente da quella di Ulysses: pur fornito di parti dialogate, catechistiche ecc., pur grondante di complicate onomatopee e di innumeri liste burlesche (quelle che già in Ulysses evocavano un'abitudine dell'altro massimo espressionista della storia, e questo ben ante litteram, Rabelais), pur aprendone il flusso nel finale rotto e senza punto terminale (‟A way a lone a last a loved a long the"), e anzi, per la ciclicità del flusso, erompendo anche, in minuscola, dal mondo senza confini (‟riverrun, past Eve and Adam's, from swerve ofshore to bend of bay, brings us by a commodious vicus of recirculation back to Howth Castie and Environs."), il Wake è nel complesso in stile narrativo, referenziale.

Perfettamente pianificato, com'è ovvio, il Wake non intende dunque essere una summa stilistica come Ulysses, e a questo antico carattere fa succedere una continuità di comportamento che si realizza nel collegare mentalmente, ma anche fisicamente, per l'alterazione che gli viene inflitta, ogni vocabolo col portatore o i portatori di altre nozioni. Uguale il comportamento, ma inesauribile la fantasia, di modo che la procedura, in sé monotona (come potrebb'essere di ogni impianto manieristico-barocco), fornisce a ogni tratto occasioni di ammirazione. L'insieme è oscuro (e si tratta, per la parte più autorevole della critica, di un'oscurità programmatica, che intende equivalere all'irrazionalità e all'enigmaticità del mondo), ma i lampi vi sono continui.

Si aggiunga che l'operazione allusiva si svolge, oltre che dall'inglese all'inglese e verso numerose altre lingue, anche all'interno di queste: poliglottia che non è necessariamente alienante (l'opera del dublinese, ancorata attorno a Dublino, vuole però trascendere i limiti di una sola lingua e raggiungere linguisticamente ogni esperienza umana), ma anzi in qualche punto, del resto ravvicinato, riesce peculiarmente confidenziale a ogni lettore. Il ‟Colpa di Becco, buon apartita!", che compare in un discorso di Shaun (p. 412), altera in distinte relazioni, ‛verso' il precedente contesto e ‛via' da esso, le formule interiettive corpo di Bacco e buon appetito, poiché vi si trattava di un'impresa deglutitoria (quindi l'appetito) di certe capre, goats (quindi il becco). Analogamente, in un passo assai ricco di deformazioni latine (513), si conforma, rispetto al proverbiale ex ungue leonem in filigrana, l' ‟Ex ugola lenonem" del testo joyciano.

Accanto alla pluralità linguistica (non più, come di norma in Ulysses, stilistica) entro una sola lingua, che certo costituisce un caso-limite o anzi un unicum, risalta uno stato di fatto che interessa l'origine figurativa della categoria espressionistica. Benché la dilatazione temporale della parola raggiunga virtualmente e attualmente dimensioni che ne rendano un'opera mal paragonabile (se non per campioni rappresentativi, in casi di costanza tonale, dei rispettivi macrocosmi) a quelle delle arti figurative, frenate dalla loro spazialità e quindi per la verità realizzate serialmente, il caso particolare di questa deformazione inintermessa ma sempre diversa costituisce il Wake in fattispecie-limite dell'iperbole espressiva. Basti compararlo, si dica, a Guernica (non occorrerebbe meno di interi periodi di Picasso). Un paragone non inappropriato sarebbe del resto quello di Rabelais a Bosch o a Bruegei il Vecchio.

Non è facile esemplificare la plurilingue torsione espressiva di Finnegans Wake perché manca, e probabilmente mancherà per un pezzo, un'esegesi completa e prudente: poco fu pubblicato in vita dell'autore, e perciò coonestato dal suo controllo. Un'analisi dei primi quattro paragrafi è stata fornita nella Skeleton Key di Campbell e Robinson (v., 1947, pp. 28-38), ma va consultata con la più grande cautela perché dà di norma troppo e talora troppo poco. Persuasivo quanto è detto dell'inizio sopra citato, che verte sulla posizione di Dublino rispetto al fiume Liffey e al mare d'Irlanda: trascurando le allusioni di merito (Adam and Eve's è una chiesa sulla Liffey, anche se qui serve per un equivoco coi progenitori, ecc.), sul piano linguistico vicus ‛strada' equivocherà con l'autore della Scienza nuova, la più evidente base culturale del libro, coi suoi corsi e ricorsi (recirculation, infatti); e commodius, oltre al suo ovvio valore (da scrivere, s'intende, -ious), conterrà un riferimento all'imperatore Commodo, citato anche altrove nel Wake, come a un compendio dei vizi della decadenza. Ma si veda una frasetta così semplice come ‟What bidimetolobes sinduced by what tegotetabsolvers!". A parte la troppo facile somma (taciuta come superflua) di sin + induced, giusta è la traduzione di ‛tentatrici' (bid-me-to-loves) e di ‛confesson'; ma più che perplessi lascia il rintracciamento nell'ultimo coagulo verbale di tête-a-téte e fors'anche di teg ‛pecorella' (o ‛donna'), perlomeno quando si omette la formula Ego te absolvo con le possibilità di reduplicazione della dentale. O si veda la ‟peniate war" di Tristano tradotta come ‛late, or recent war of the penis': il punto di partenza è la ‛guerra peninsulare' (combattuta da Wellington contro Napoleone nella penisola iberica), dagli autori citata come ultima superfetazione; ne fanno certi - presenze frequenti nel Wake - le citazioni, fraintese se riferite alla penisola bretone, di North Armorica (naturalmente frammisto con America) e di Europe Minor (su Britannia minor); il verbo peninsulate media rispetto a penisolate, dove sarebbe difficile non riconoscere penis; ma se questo è vero, sarà da escludere la variante *penisolate a war waged with the pen, not by a robust extrovert, but by an isolated, introverted man of letters'.

Qui ci si può fermare, anche se Campbell e Robinson seguitano a dare, sulla prima pagina e mezzo delle oltre seicento, suggerimenti preziosi e glosse temerarie, degne degli anagrammi di Saussure e di certi rebus scovati in Dante. Ma per restare al certo si cerchi, nel Census della Glasheen, il nome del protagonista maschile, Finn (MacCool), non distinguibile da Finnegan, identificabile con H(umphrey) C(himpden) E(arwicker), o della femminile, sua moglie Anna Livia Plurabelle, e sfogliare le decine e anzi centinaia di varianti sotto cui si presentano queste fluide entità mitologiche. Il nome completo della donna si presenta una volta sola, ma poi si veda appy, leppy andplayable", Annah the Allmaziful, the Everliving, the Bringer of Plurabilities", ‟Amnis Limina Permanent", ‟Annushka Lutetiavitch Pufflovah", o ancora ‟appia lippia pluvaville", anny livving plusquebelle", ‟Annabella, Lovabella, Pullabella", ‟Appia Lippia Pluviabilla", ‟Alma Luvia, Pollabella", ‟allaniuvia pulchrabelled", ‟Hanah Levy", ‟Ljffalidebankum", e così di seguito per colonne e colonne. O anche si vedano, dei soli nomi citati, Adam and Eve, Wellington, Napoleon; e finalmente Vico. Eccolo comparire, sotto forma di jambebatiste, in un contesto dove non per nulla si citano anche Quinet e Michelet (‟From quiqui quinet to michemiche chelet and ajambebatiste to a brulobrulo"); addirittura, sanscritizzato, sotto l'aspetto di Jambudvispa Vipra. Di questo flusso eracliteo, in cui il mondo smarrisce (linguisticamente) e riacquista (ontologicamente) la propria identità, Finnegans Wake è un esempio unico nella storia delle letterature.

9. Espressionismo lirico in Pessoa

Se l'innovazione espressionistica, in senso stretto o dilatato, si realizza in lingue rotte alla sperimentazione, è legittimo chiedersi come, in quegli stessi anni, reagiscano lingue ‛minori' di cui è meno nota la pieghevole elasticità alla violenza sollecitatrice. Solo un collegio di specialisti potrebbe rispondere adeguatamente a questa domanda e delineare stabilmente un'‛internazionale' dell'espressionismo. Non è dubbio ad esempio che in essa un luogo importante terrebbe l'ungherese Endre Ady (1877-1919), anche se ovviamente solo un magiarologo saprebbe misurarne la differenzialità. Qui intanto si può delineare il comportamento di quello che, per quanto se ne può giudicare oggi, è forse in assoluto il maggior temperamento poetico della prima metà del secolo, il portoghese Fernando Pessoa (1888-1935); che, intriso di cultura inglese e francese, fece però servire alla sua visione virtualità grammaticali specifiche della sua lingua. Il distacco e la contemplazione delle proprie operazioni poetiche toccò in lui un tal livello di autocoscienza che, con un procedimento schizoide senza paralleli, almeno in questa misura, nella storia dell'espressione poetica, inventò e aggiunse alla sua personalità diretta (il cosiddetto ortònimo) una serie di ben differenziate personalità stilistiche (i cosiddetti heterònimos, chiamati Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Àlvaro de Campos). L'esempio, scelto nell'opera dell'ortónimo, e che è una delle grandi liriche dell'epoca, Chuva oblíqua (del 1914, ma postuma come il più e il meglio di Pessoa, pubblicato solo nel 1942 e anni seguenti), presenta una serie di interferenze fantastiche realizzate in sorprendente affinità col mondo figurativo contemporaneo. Il movimento finale introduce nel contesto d'una sensazione musicale la memorazione cromatica (alla Franz Marc o alla Chagall), perpetuamente variata, d'una palla giocattolo infantile: Prossegue a música, e eis na minha infância / De repente entre mim e o maestro, muro branco, / Vai e vem a boia, ora um câo verde, / Ora um cavalo azul com um jockey amarelo..." [trad. Panarese: Continua la musica, ed ecco nella mia infanzia / di repente tra me ed il maestro, muro bianco, va e viene la palla, ora un cane verde, / ora un cavallo azzurro con un jockey giallo..."] Se il croma del finale è postfauvista, l'attacco offre un'intersezione di piani (orto e strada alberata) realizzata al modo di Boccioni o del Picasso di pari data: Liberto em duplo, abandonei-me da paisagem abaixo... / O vulto do cais é a estrada nitida e calma / Que se levanta e se ergue como um muro, / E os navios passam por dentro dos troncos das árvores / Com uma horizontalidade vertical, / E deixam cair amarras na água pelas folhas uma a uma dentro..." [Doppiamente libero, m'abbandonai giù dal paesaggio... / Il profilo del molo è la strada nitida e calma / che si leva ed erge come un muro, / e le navi passano dentro i tronchi degli alberi / con una orizzontalità verticale, / e lasciano cadere gomene nell'acqua tra le foglie a una a una dentro..."] L'io è il luogo dove si verificano (con traumi all'ordinarietà già, particolarmente, nel primo e nell'ultimo di questi versi) simili incontri abnormi, ed è perciò trattato come uno spazio definito da complementi locali: ‟E vejo no fundo [...] / Esta paisagem toda, renque de árvore, estrada a arder em aquele porto, / E a sombra duma nau [...] que passa / Entre o meu sonho do porto e o meu ver esta paisagem / E chega ao pé de mim, e entra por mim dentro, / E passa para o outro lado da minha alma..." [‟e vedo nel fondo (del porto) / questo paesaggio intero, filare d'alberi, strada ardente in quel porto, / e l'ombra d'una nave che passa / tra il mio sogno del porto e la mia visione di questo paesaggio / e giunge presso di me, ed entra in me, / e passa dall'altra banda dell'anima mia..."] Comincia ad apparire un qualificato complemento infinitivo (o meu ver...), ma questo si sviluppa (nel tipo o eu ver) iteratamente nel movimento che segue; in cui attraverso la pioggia traspare una messa: ‟Alegra-me ouvir a chuva porque e la é o tempio estar aceso, / E as vidraças da igreja vistas de fora sâo o som da chuva ouvido por dentro... // O esplendor do altar-mor éo eu nâopoder quase ver os montes / Através da chuva que é ouro tâo solene na toalha do altar... Il Soa o canto do coro, latino e vento a sacudir-me a vidraça / E sente-se chiar a água no facto de haver coro... // A missa é um automóvel que passa / Através dos fiéis que se ajoelham em hoje ser un dia triste... / [...] o ruído da chuva absorve tudo / Até sò se ouvir a voz do padre água perder-se ao longe / Com o som de rodas de automóvel..." [‟M'allieta ascoltare la pioggia perché è lo stesso tempio acceso, / e le invetriate della chiesa viste dall'esterno sono lo scroscio della pioggia ascoltato dall'interno... Il Lo splendore dell'altar maggiore è la mia quasi impossibilità di vedere i monti / attraverso la pioggia, oro tanto solenne sulla tovaglia dell'altare... 1/ S'innalza il canto del coro, latino e vento che mi scuote l'invetriata / e s'ode l'acqua scrosciare nel modulo del canto corale... // La messa è un'auto che passa / tra i fedeli inginocchiati nell'odierna essenza d'un giorno triste... .... lo scroscio della pioggia assorbe ogni cosa / finché soltanto s'ode la voce del prete acqua che dilegua lontano / col fruscio delle ruote d'auto...": così sempre la meritoria versione del Panarese).

Queste litaniate identità acquistano il loro flagrante valore conoscitivo attraverso i membri sintattici infinitivali, sia in funzione di predicato nominale (o templo estar..., o eu nâo poder...) sia di vari complementi (de haver coro, em hoje ser ..., até só se ouvir...), che costituirebbero, come in sostanza puntualmente sono, un sovrano ardimento se non rientrassero in una norma peculiare della grammatica portoghese, per cui l'equilibrio fra la sostanza nomillale e l'azione assume un assetto nuovo, del tutto consono alla rottura espressionistica delle frontiere tradizionali fra nome e verbo, sia statistiche sia qualitative. Si aggiunge che estar, haver ecc. sono infiniti ‛coniugati', benché con desinenza zero perché per caso riferiti tutti a una terza o a una prima singolare, mentre in ogni altra evenienza sarebbero muniti di desinenza personale (come, nello stesso poema, in ‟Eos dois grupos encontram-se e penetram-se / Até formarem só um que é os dois..." = ‟e i due gruppi s'incontrano e si compenetrano / fino a formarne uno solo che è tutti e due"). Il cosiddetto ‛genio della lingua' ha da sempre elaborato per il poeta quest'invenzione morfologico-sintattica, del tutto corrispondente all'eccezionale situazione. È dunque razionale, e non mera pressoché provinciale vischiosità psicologica, che tanto fervore nazionale animi un poeta così raro e squisitamente minoritario.

10. Espressionismo italiano attorno alla ‟Voce" (Rèbora, Pea, Onofri, Boine)

Di espressionismo in senso letterario si è cominciato a parlare in Italia alla fine del secondo anteguerra, in relazione a fatti meno contemporanei che del precedente anteguerra, poi man mano retrospettivamente. In Italia l'avanguardia oltresonora, che connetteva le varie arti, si chiamò infatti futurismo, ebbe limitato interesse linguistico, e consente pertanto di isolare sincere manifestazioni di accusata espressività: se altrove l'espressionismo, in senso relativamente proprio e storico, fa assistere a un prolungamento dell'io nel mondo, dissoluzione dell'uomo nella realtà esterna o assorbimento del reale nell'umano che sia, qui appare evidente il prolungarsi dell'io in un suo corpo linguistico, che si governa con sue nuove leggi e che per definizione non può costituirsi in tradizione, ma che, visto postumamente, escresce con frequenza dalla linea classica del costume espressivo in scapigliatura e protesta, in tentazione di rivoluzione permanente. È finalmente in questo significato metastorico che va intesa la categoria di espressionismo adoperata, ancor prima che elaborata, dalla critica italiana: categoria che, come le sue congeneri, è anzitutto di critica militante.

Il futurismo non fu affatto un fenomeno nazionale, anzi neppure a rigore un fenomeno letterario, posto che la letteratura nasce in confini linguistici e che costitutiva della corrente era la rottura delle frontiere fra le arti, cioè un assunto metalinguistico. Il fondatore del futurismo era un italiano, ma bilingue e di esperienza internazionale, ed efficace primariamente attraverso la parte francese della sua attività. Come altri italiani della sua generazione, Marinetti fu soprattutto un manager e un attivista intellettuale, decisivo nell'ordine pragmatico quanto modesto nell'ordine poietico; ma l'internazionalità della sua predicazione fece sì che il lievito fermentasse non solo in modi diversi, ma di qualità diversa, nelle varie aree linguistiche. Nessuna reagì efficacemente - e s'intende entro i confini della letteratura - quanto la russa: il futurismo e il cubo-futurismo russi, personalità come quelle di Majakovskij, Esenin, Chlebnikov col suo zaùm o lingua transmentale, raggiungono la qualità più alta prodotta da quell'irradiamento e spesso toccano l'ambito dell'espressionismo più su precisato. Più d'una stilla futurista finì nei calici dell'espressionismo primogenito, quello tedesco; così come la discendenza francofona del futurismo, Apollinaire, Dada, più tardi il surrealismo, non si qualificano espressionisti solo perché svolti (nonostante Arp, Bali ecc. in Dada) in un altro ambiente linguistico. In Italia riuscì decisiva l'eterogeneità del verbo predicato nei manifesti del futurismo e della realizzazione esibita dal fondatore e dai più stretti discepoli. La trama impressionistica e metaforica di fondo, il carattere grezzo dell'interiezione restavano troppo al di qua, nelle opere del futurismo italiano, dei centrati rilievi su un nuovo prestigio da attribuire alle varie parti del discorso, sul rapporto del verbo e dell'aggettivo al sostantivo e la funzione nominale del verbo, che si contenevano, per una sorta di intuitiva competenza, nei manifesti del movimento.

E neanche si ebbero riflussi, in Italia, di espressionismo storico, fosse pure in accezione francese. Si eccettua una fugace citazione unanimistica nel primo Ungaretti (Italia: ‟Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni"), a cui sono del resto consentanei i passi d'identificazione col cosmo (‟Il cuore ha prodigato le lucciole / s'è acceso e spento / di verde in verde / ho compitato [...] M'ama non m'ama / mi sono smaltato / di margherite", ecc.): si ricorda che in Ungaretti fu sempre simpatia per la persona di Romains. A fortiori mancarono echi dell'espressionismo letterale nei pochi che ebbero qualche familiarità con le cose di Germania e attuarono lievi alterazioni nel modulo linguistico: Pirandello con la sua dolorosa smorfia (un monologo tanto più risentito è nel Palazzeschi dì Perela'), il ‟Sigfrido dilettante" (Cecchi) Slataper, Campana nei suoi momenti di iterativa balbuzie, tanto più tardi, per certi angosciati paesaggi mitteleuropei, Alvaro Bisogna cercare, in quello stesso decennio prebellico, personalità spontaneamente parallele, non derivate (si pensi al whitmanismo di Péguy nell'eco particolarmente di Jahier): il più infiammato espressionista degli anni vociani fu senza dubbio Boine, anche se, in una morfologia man mano più lontana, soccorrono i nomi di Rèbora, Pea, Onofri.

Ai presenti effetti non importano tanto, dei Frammenti lirici (1913) di Clemente Rèbora, uno dei libri allora più europei, i paralleli referti sull'io (‟Vorrei palesasse il mio cuore / Nel suo ritmo l'umano destino", ‟E immemore di me epico arméggio / Verso conquiste ch'io non griderò" ecc.) quanto le accensioni vernacole (‟L'ignava slaia dei rari passanti, / La schiavitù croia dei carri pesanti", ‟Fastidi grassi tramiamo"), che veneranno poi perfino le eccellenti traduzioni dal russo (‟farfugiiando", ‟far focchiava", ‟piangiutina", parlata ‟mostosa"), e le concomitanti accensioni dei verbi (‟uno sdraia / Passi d'argilla", ‟Mi scardassò la vita", ‟Sbirbó nano i cavallanti", ‟sferza e spoltrisce l'affanno / La vita che bramisce", ‛'Il sol schioccando si spàmpana", ‟Lo spazio zonzando scintilla", ‟razzante pendice / Che rarefà di zanzare", sguscia / Fulminea la vita / E, misuratasi al cielo, / Spennecchia e trabocca e ricade / E rinnova il suo stelo"). Squassato da un impeto religioso che fra qualche decennio si spoglierà in una conversione dominata dal ‛principio di passività' del prete rosminiano, Rèbora si appiglia a ogni sporgenza del suo linguaggio per comunicare il proprio tremito al mondo.

Risorse vernacole, non del lombardo stavolta ma d'un toscano di periferia, sono il principale appannaggio di Enrico Pea, al confronto certo solo pittoresco e folclorico, benché per ora intento a effetti di magia locale, in serie versificate non immemori della Figlia di Jorio. La presenza del terragno versiliese servirà però sempre a misurare i più alti livelli raggiunti dal Pea narratore (o poeta in prosa narrativa): quello che si potrebbe sbagliare per descrittivismo, in uomo che sicuramente ha salda fede nella realtà (nel Volto Santo [1924]: ‟una cordicella a treccetta incrociava il pacco aggalappiato in mezzo, e imprigionato il galappio da un borchiotto di ceralacca, grosso e rosso come un garofano maggese, schiacciato da un palancone"), in realtà è osservazione che trapana le superfici in traccia d'inquietanti segreti (il pacco è un invio fatto al vecchio folle in manicomio, il demente lo ‟sbuzza" e infrange, così che il furore lessicale si proporziona al vento della pazzia: ‟Il borchiotto di ceralacca si sbriciò sul mattonato come un coccero di porcellana"). Sulla visualizzazione rispondente al Pea dei giovanili anni vociani informa, e non, parrebbe, per aneddoto, il fatto che i suoi primi libri (Fole, Montignoso) uscirono con copertine illustrate dal coetaneo e corregionale Lorenzo Viani, un giovane espressionista di provincia. Il sodalizio fu presto incrinato, e Viani (a partire da Ubriachi, 1923) affiancò alla sua pittura dialettale una bozzettistica altrettanto dialettale, quasi per un bordone suburrano alla prosa lirica di Pea. Vagabondi, alcoolizzati, pazzi, prostitute, marinai e altra plebe viareggina trovarono in Viani (i cui ideali erano Richepin e Mirbeau) un cantore potentemente dozzinale che aspetta ancora (ma neanche Pea è più molto letto) il suo momento di fortuna. Lo si può citare ad apertura di libro, per esempio da I vàgeri. Gente d'onore e di rispetto (1927) questa meretrice prostrata innanzi al Volto Santo di Lucca: ‟O Gesù ma ci siete? Avete visto or ora come sono condutta? Semino tutto, perdo tutto: capelli, denti, petto, il corpo mio è ritropio come fossi di continuo pregna, sito come fossi morta. O Gesù ma ci siete? Se ci siete pensate anche a questa sciagurata, tra poco su di me non ci si abbarbica più nemmeno la lellora, son ridutta come un moscaio, per mettersi con me ci vuole proprio uno allupato di carne umana

Singolarità per singolarità, tutt'altra fisionomia occupa Arturo Onofri, sulla ‟Voce" esegeta di Pascoli, con alle spalle molti peccata juventutis di tradizione estetistica, ma avviato, con Orchestrine, a un'esperienza-limite di poème en prose impressionistico. Questa capacità di recupero non lascia peraltro ancora prevedere le innovazioni della poesia iniziatica della sua maturità, le cui premesse programmatiche sono nel volume Nuovo Rinascimento come arte dell'Io. Con giusta gradualità, comprensibile nella sua formazione di umanista, dai relativamente tenui esempi (1927) di Terrestrità del Sole (‟il suo esser-qui", ‛'l'intreccio-a-svolio delle tue vesti", ‟le corde-in-fremito dei reni", ‟Il Voler tuo che tutto-stelle vige", ‟estro-dio", ‛ ecc. ecc., ma già ‟nata [...] da un volersi-potenza", ‟Odi il tuo sorgere-estasi", ‟balénano-mio-corpo", ‟freme-angeli la mole / del nostro sangue", ‟quando il volerci-eternità-nel-tempo / era il non-ancor-nostro unico Amarci") Onofri giunge ai sempre più complessi conglomerati non solo nominali, ma anche verbali, che si documentano al massimo in Zolla ritorna Cosmo (1930): ‟È l'Archai primordiale tutta santa, / nel cui risuonar-dèi fu concepito / dalla volontà d'oro, ch'arde e canta / ogni singolo esistere"; ‟adombrando / visibile in sue masse corporali / l'articolarsi-noi della Parola"; ‟tempera le lotte / del suo quaggiù-purificarsi in croce"; ‟L'ansia che ti tortura [...] crea, martellandoti-anima, assonanze / magiche d'astri, in cui sillabi cuori / in canore cadenze d'esser donna. / Chi ti veglia, e t'aureola d'un volerti-/-diveniente-androgine, è già sposo / tuo, che imbaciabilmente si congiunge / alle tue musicali rimembranze". Qui la violenza fatta al ‛genio della lingua' non si ferma a un eventuale calco di nominalizzazioni normali al tedesco di Husserl o Heidegger, perché giunge a quella che si vorrebbe chiamare avverbializzazione di sostantivi (già in ‟freme-angeli" e quindi oblitera bilateralmente la normale opposizione di nome e verbo: il tutto nella cornice d'una sintassi ricca e drappeggiata, i cui passaggi sono tutta un'analogia pre-ermetica (al modo dei futuri Gatto e Luzi), quando però l'ermetismo s'intenda nel suo originale senso conoscitivo, alchemico e cosmogonico. Il neologismo di forma (‟inspermatisce") o di costrutto (‟che pùllulano membra", ‟ridiluviano in...", ‟rischiumano in...") corona il ‛trans-italiano', imperterrito fino alla teratologia, di Onofri.

Le novità della prosa (incluso il quasi-verso) di Boine sono state sistematicamente schedate; e si possono perciò riassumere i risultati dell'operazione. Tre fatti servono, e servirebbero ciascuno da solo, a localizzare grammaticalmente Boine: la produzione di deverbali; la fusione degli epiteti; l'inversione ritmica degli avverbi. La prima formazione, da verbi per lo più intransitivi o riflessivi, prevale enormemente in Frantumi (postumi, 1918), poemetti in prosa che scandagliano le ‟larve del caos", rispetto alla narrazione autobiografica del Peccato (1914), e così significa un raggelamento dell'azione, del resto sommariamente identificata col peccato. Un esempio estremo è il seguente: ‟Ma che dolore-piacere per tutte l'ossa ammaccate quel tuo rannicchio di sedia ostessa!"; dove non basterà tradurre ‛il rannicchiarsi', ma ‛il potersi rannicchiare su quella tua sedia'. E così ‟sprofondi senza sostanza", ‟sbarri dell'impossibile", ‟sconfino dell'ansia", ‟rispecchio di lago", ‟spalanco di blu" e numerosi altri esempi. Lo stesso colore immobile esce dalle formazioni suffissali (‟festatica aspettanza", ‛'carezzosa prigione della mia mano" ecc.), e anche i neologismi desostantivali (quali ‟così così mi ruscelli di chiarità", ‟d'ogni pena mi stabarro smemorato" ecc.), non di rado infatti in ridondanti figure etimologiche (‟s'inombrano d'ombra", a valle divallo", ‛'svalico i valichi della realtà"), hanno una funzione immobilmente descrittiva. Il secondo dato, la fusione degli aggettivi, già esondante nel Peccato, non si può meglio interpretare che con la formula contenuta nell'autorecensione del romanzo :‟intenzione di esprimere una compresenza di cose diverse nella brevità dell'attimo". In ‟Oh nel sonno voluttà del tuo corpo molle- allacciato col mio!", ‟corpo molle-allacciato" non è, o solo accessoriamente, ‛corpo mollemente allacciato', ma ‛corpo la cui tenerezza si sente nell'avvinghiamento'. La lista, lunghissima (che si può rappresentare con ‟viscide-spalancate occhiaie" o ‟ritorno notturno-silente" o ‟sonno [...]moncoravvolto" per i Frantumi, con ‟amico ignaro-parlante" o ‟il bosco d'olivi contorto-cinereo" o ‟al mucchio, lungi, rotto-colorato della città" per Il peccato), va naturalmente tenuta staccata dal tipo flessivamente distinto ‟ampioscandita", mentre include i casi in cui la funzione, in largo senso, di epiteto sia assunta, a diversi gradi di fusione, da nomi (‟Sei così iride-soffio", ‟lo scoppio-scintille del tuo volto-vecchiaia, il guizzo cilestre del tuo occhio-dolore", ‟riso-rifugio chiarito di te" ecc.). Nell'ultimo caso è in qualche modo il sostantivo che si aggettivizza, facendosi portatore di qualità; e ciò ovviamente contrasta con la normale concezione antiaggettivale e filoverbale che si suole assegnare all'espressionismo (com'è nel futurismo), mentre concorda con l'accennata detrazione di azione al verbo: l'espressionismo di Boine può allora apparire come un espressionismo inverso, pur movendo da un'identica matrice, la (dolorosamente concentrata) riflessione sopra l'azione; allo stesso modo il tanto innovante Boine è impaziente dei neologismi (altrui), ‟smania delle parole di zecca, mai viste, mai udite o rifuse". L'acuita presenza dell'azione come oggetto di riflessione si traduce in un'alterazione ritmica di cui il terzo fenomeno caratterizzante, lo spostamento degli avverbi, è la manifestazione più vistosa nel Peccato (‟non ne conosceva le regole bene", ‟non posso rimaner in convento più", ‛'la cosa diventa romantica qui" ecc.). È evidente che tale inversione si fonda sopra un rallentamento della dizione e un aumento degli incisi (*‟la cosa / qui / diventa romantica", segue la divaricazione dell'avverbio dal verbo): per decomporsi l'azione deve fermarsi. Il fatto ora appuntato è un caso particolare di frangimento ritmico seguito da ricomposizione. L'apocope mantenuta nonostante l'apposizione incidentale in ‟vien, sogno torbido nella mia notte, la larvale sostanza dell'uomo" presuppone il troncamento di apparenza manzoniana che è in ‟perfezion conventuale" ma anche addirittura ‟traballar sgangherato": importa non l'adesione a un ‛culturema' manzoniano, eventualmente parodiato, ma l'adozione d'una massa sillabica che consenta un ritmo determinato, come avviene negli altrimenti cacofonici o non le fosse penoso il [e non *lo] star qui" e (questo nei Frantumi) ‟zitto lo sconderò [e non *nasconderò] a quei laggiù". La spaccatura ritmica dà ugualmente conto di lunghe prolessi o non riprese (‟l'acqua di mare così tanta com'è, mi chiedi perché non ti vien voglia di bere") o riprese fittiziamente (nei Frantumi, come l'altro anacoluto che lo precede di poco: ‟Le gioie improvvise che non sai perché, quelle subito t'alzi e scintilli"). Difficilmente si può trovare un ‛idioletto letterario' così articolato ma intimamente uno, così ben istituzionalizzato, com'è quello di Boine.

11. Espressionismo gaddiano

Dall'espressionismo degli anni vociani, spesso legato (com'è anche o soprattutto il caso del mistico-modernista Boine) a una condizione religiosa, bisogna saltare, poiché di mezzo c'è il neoclassicismo della ‟Ronda", alla fine del secondo anteguerra, quando in materia di sollecitazioni espressive (peraltro non grammaticali né sintattiche e nemmeno strettamente lessicali, ma prettamente analogiche) si vede albeggiare al massimo il cosiddetto ermetismo, in cui traluce, attraverso la lettura dei surrealisti, un qualche riflesso indiretto dell'irrazionalità futurista. Il nuovo espressionista, se lo si può costringere in questi confini, è naturalmente Carlo Emilio Gadda; che, benché presente in ‟Solaria" fino dal 1926 e autore in libro dal 1931, consegue un adeguato riconoscimento solo con le prime puntate (1938 e 1946) della Cognizione e del Pasticciaccio e col volume dell'Adalgisa (1944). Sulle prime parve autore per pochi: ad alzarne la statura presso il pubblico non giovò soltanto la potenza della sua natura, in cui parvero congiunti Rabelais (o Folengo), Joyce e Carlo Porta, ma l'involontaria connivenza con gli squas- santi traumi dei tempi. Non c'è tuttavia, come intorno al 1910, un ambiente disposto all'espressività da cui emerga visibilmente una personalità in sintonia, c'è la demiurgia di una personalità isolata, anche culturalmente indipendente, che strappa l'assenso e che isolata in sostanza rimane. Quando sorge Gadda, gli scrittori più abnormi sono dei certo stimabili barocchi come Antonio Aniante, Marcello Gallian, Beniamino Joppolo, che si riannodano alla poetica surrealistica e alla calligrafia pur agitata di Barilli e della stessa Manzini.

A una considerazione sommaria, una prima fase del narratore riflette linguisticamente, non per mera verosimiglianza naturalistica nel dialogato, ma ibridandosi in un ‛macaronico' dialettale che invade estemporaneamente l'historicus, mentre grumi materici vengono prelevati dal vernacolo, l'ambiente natio: variando però dai ‛disegni milanesi' dell'Adalgisa (e in parte delle Novelle dal Ducato in fiamme, poi Accoppiamenti giudiziosi) il linguaggio dei campestri ‟calibani gutturaloidi", Brianza camuffata da Sudamerica di maniera, nella Cognizione del dolore. A una successiva sosta fiorentina corrisponde un becero convenzionale, nutrito di continuità con vecchi succhi letterari (Leonardo, Machiavelli, Cellini), nel Primo libro dellefavole e in Eros e Priapo. Infine il soggiorno romano giustifica la miscela romanesca, con intrusioni più meridionali ma comunque pluridialettali, in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Nondimeno tutto s'instaura su una differenzialità di base ancora più antica, e anteriore a un qualsiasi aspetto di simbiosi vernacolare. ‟Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s'è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti": così comincia Gadda una sua professione di arte poetica (1931) ristampata poi all'inizio del Castello di Udine (1934); ora, dalla recente pubblicazione di Meditazione milanese (il cui manoscritto risale al 1928, cioè agli anni della sua prima collaborazione a Solaria"), sappiamo che ‟deformazione" è un termine tecnico della sua riflessione, atto a indicare la modificazione che ogni sistema di relazioni subisce nel flusso eracliteo dell'esistere. La deformazione linguistica appare dunque una specificazione poetica di questa deformazione basilare; e, se osservata nel genere della ‛meditazione', cioè in un ambito non narrativo, rivela l'estrema irregolarità ed ecletticità dei materiali e la sinuosità della linea che, a volerla tracciare (ma già l'assunto si paleserà illegittimo), separerebbe il ‛normale' dal deformato. Un indizio minimo, ma estremamente tipico, è la presenza discontinua dell'articolo li (appunto nello scritto Tendo al mio fine, che servirà da microcosmo-campione: ‟li scrittori", ‟li eroi" ecc., ma anche ‟li castrati", ‟li ranocchi" ecc., sempre però in minoranza, arbitrariamente costituita, rispetto a i/gli). Qualitativamente esso si prolunga, ma quantitativamente sempre con mutevole irregolarità, nelle preposizioni articolate ridotte (de', a'), nelle forme non elise (‟della Italia"), negli arcaismi fonici latineggianti (‟inscritto", ‟urtica", ‟proponermi", ‟eloquenzia"), nei morfemi medio-toscani (‟a- rà", ‟vàdino" ,‟chiamorno" ecc.) e via via in ogni sorta di stilemi letterari. Di tutti questi dati, dai minimi (compreso un et) ai massimi, non importa solo l'écart rispetto alla cosiddetta norma ma anche gli effetti di giunzione: de', per esempio, può esser pallidamente letterario in ‟de' sapienti" ma è liricamente e comicamente rilevante in ‟la fulgidità de' kilowattora"; nel paragrafo ‟Sarò il poeta del bene e della virtù, e il famiglio dell'ideale: ma farò sentirvi grugnire il porco nel braco: messi il grifo e le zampe dentro e sotto dal cùmulo della gianda, dirà la sua cupida e sensual fame con le vèntole balbe degli orecchi e immane gaudio di tutto il cilindro del corpo. E fremirà nel suo codino cavaturaccioli" fra i tanti stilemi di varia dimensione (dal minimo di ‟braco" e ‛'fremirà") spicca un lombardismo meramente fonico (ma con in più valore collettivo), ‟gianda", quasi vettore dell'esperienza storica in cui fu vissuto lo spettacolo del maiale grufolante, e spicca a rovescio, unico per la sua nonletterarietà (benché aggettivato in apposizione), il finale cavaturaccioli. Quanto ai valori dialettali, il solitario lombardismo dà però la mano a un toscanismo come dimolti, che artificiosamente prolunga la serie dei toscanismi di vari epoca. Modelli cangianti alla deformazione dell'‟umiliato dal destino", che dunque non manca mai di significare il considerando autobiografico della chirurgia stilistica, sono indifferentemente, almeno per il critico, lo schema carducciano-dannunziano, il puristico-machiavellico e altri ancora, qui perfino Bruno, citato infatti nel testo e che si rivelerebbe comunque ai lodarò, povari e simili.

La persuasione del carattere asimmetrico e composito della deformazione deve valere da prefazione permanente alla lettura anche del Gadda narratore, intriso di aggressiva realtà ma non naturalista. Anzi l'oggetto linguistico può essere speculato in quanto puro, patologico oggetto (Cognizione: ‟Qui moto a luogo si dice scià nei dialetti della Keltikè") e trasceso in un enunciato di lingua speciale. Nello stupendo Incendio di via Keplero (Novelle), di cui si è potuto dire che è l'unica italiana resa unanimistica (‟neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia", preterizione intesa a insinuare, com'è verissimo, che questa è finalmente una simultaneità" attuata e non velleitaria), un'infortunata continua a strillare ‟Sofèghi! Sofèghi; ahi ahi la mia gamba [...J Madonna, Madonna, la gamba, la gamba, sofèghi! sofèghi!": ‛ non finiva più di emettere senarî a coppie dalla bocca scontorta", commenta il narratore, eroicomicamente superando il dato reale nella definizione ispirata a un tecnicismo metrico. Alla risorsa vernacola che nell'Adalgisa e negli altri ‛disegni milanesi' connota matericamente o invece indirettamente il parlato (Cognizione: ‟e teneva anche qualche libro desoravía del cifone") o penetra a ritroso, vincolandolo al suo giusto luogo, il referto dell'historicus (Incendio: ‟ E anche lo sguardo, del resto, velato, immalinconito, affisato lontan lontano dentro il cielo della slòngia, con le due metà superiori dei bulbi celate dalle palpebre ricadenti, in una specie di sonno-della- fronte, anche lo sguardo assumeva una tal quale intonazione di Sacro Cuore, così, un po' alla Keplero"), corrispondono omologhe funzioni delle lingue speciali. Ecco lo scarabeo stercorario dell'Adalgisa: ‟Puntava sulle zampe anteriori e retrocedeva in una sicurezza perfetta, come se ci vedesse dal pigidio" (una didascalia aveva illustrato poco prima il termine [‟con questo vocabolo si dimanda il didietro dei coleotteri, cioè l'ultimo segmento addominale"], mentre se ne adduceva la milanesizzazione a cura dell'Adalgisa, pigidi, fra l'innumerevole nomenclatura tecnica che produceva la rievocazione del defunto marito, naturalista dilettante di ogni collezionismo). Nonostante la leggenda, le materie ‛ingegneresche' non prevalgono in quest'euristica, anzi sono incentivo alla parodia. Di altro ‛disegno milanese', Quattro figlie ebbe e ciascuna regina, scrive in nota l'autore stesso: ‟(...] alla tentata rappresentazione di un ‛interno' si sono voluti adibire, a tratti, i modi mentali e i modi idiomatici propri de' personaggi che in quell'interno esagitavano il loro spirto vitale. L'orditura sintattica, le clausole prosodiche, l'impasto lessicale della discorsa, in più che un passaggio, devono perciò ritenersi funzioni mimetiche del clima, dell'aura di via Pasquirolo o del Pontaccio: che dico, dell'impetus e dello zefiro parlativo i quali dall'ambiente promanano, o prorompono. E ciò non soltanto nel dialogato, ma nella didascalia e nel contesto in genere, quasicché a propria volta l'autore si tuffi nella bagnarola e nell'acqua medesime ove poco prima erano a diguazzare i suoi colombi". Un suo Leitmotiv è rappresentato dalle piastrelle esagonali, di cui si annotano apotema e raggio del circolo circoscritto, soggiungendosi a caricatura che ‟le due misure sono interdipendenti, per il che non occorre aver noi alcuna notizia di trigonometria, ma ci pensa il cervello stesso dell'esagono". Invece quelle mattonelle calamitano le ‟pisce fulminanti della Maria Giuseppa", con le grandiose pagine sulle biandizie alla bambina e le connesse turbe del ricambio della vecchia serva, e il girotondo delle ragazze attorno al padre, ‟sparando su dalle mattonelle come altrettanti razzi, ricadendo poi con le gambe nude e mutandine rosa alle viste sui sandali acciabattati, a sfragellarsi le trombe di Fallopio (dotti ovàrici)". Nel Pasticciaccio ‛dialogato', ‛didascalia' e ‛contesto' esibiscono una ricchezza di mimesi, incluso fra i modelli il loro autore in quanto lirico (come nell'alba sulla campagna romana), che ha fatto la celebrità dell'opera, ma dalla quale si vorrà estrarre solo il ‟tulipano di dita grassottelle", ‟ipotiposi digito-interrogativa", che trascende con icasticità e terminologia pseudo-tecnica lo stesso linguaggio dei gesti.

Tracciata una semplice periferia alle possibili rappresentazioni di Gadda, si constata che al suo interno non sta un'opera compiuta, statica, a tutto tondo, ma, certo non a caso, anzi per un'istintiva volontà più intelligente dell'intelligenza, una serie, con l'eccezione di pochi ‛studi' in sé perfetti, di mirabili frammenti o, nel senso tedesco del termine, ‛torsi' narrativi. I circoli di questo mondo eracliteo, in straordinaria fermentazione di divenire, non si chiudono, ma è consentito solo contemplarne l'intrico in spaccati che, nei punti più interni dove si possono ignorare le tragiche curvature dell'orizzonte, acquisiscono una felice parvenza d'immobilità e una sincera capacità liberatoria. Qui il riso di chi si definì ‟il convoluto Eraclito di via San Simpliciano" si fa irresistibile e benefico, e vi si adempie la contraddetta vitalità di una straordinaria formula espressionistica.

Singolare ventura di Carlo Emilio Gadda, questo grande solitario di cui rapinosamente s'impadronì una sorte non del tutto pertinente, fu di concomitare con la nuova ondata naturalistica del dopoguerra. Gli inizi di Pavese furono contemporaneamente di color locale e di monologo interiore, ma bisogna cercare altrove un incoraggiamento alla ‛mimesi'; nè bisognerà cercarlo in Fenoglio, nemmeno in quello abbastanza pavesiano della Malora: la sua maggior tensione espressiva, anche se non i più assestati successi, si forma, nel postumo Partigiano Johnny, su un impianto curiosamente bilingue, che ripropone in altro modo l'importanza della letteratura allofona in quel discrimine. Se Fenoglio scrive mezzo americano, il problema non è distante da quello degli scrittori a cui l'arte della traduzione insegnò un'espressività che faceva aggio sulla media del testo tradotto: ciò è vero per Pavese e per Vittorini (nel ricorso, anche qui, d'una generazione precedente, di Cecchi, Rèbora, Jahier, Linati ecc. in quanto traduttori), ma è più energicamente vero per Gadda, che per far premio sull'originale scelse nientemeno che Quevedo. Comunque motivazioni molto diverse dalle gaddiane ispirarono gli scrittori che, all'accompagnare con i loro parlari meticci la profonda mutazione sociale del dopoguerra, trovarono un incoraggiamento nella travolgente fortuna toccata agli istituti di Gadda. Senza il Gadda romanesco non si concepirebbero i due romanzi, Ragazzi di vita e Una vita violenta, che Pier Paolo Pasolini, reduce da un felibrige friulano, dedicò al linguaggio, di riduzione basica, degli adolescenti sottoproletari abitanti le borgate romane; e nemmeno i Racconti (e Nuovi racconti) romani, l'esperimento di elzeviri-monologhi in cui Alberto Moravia compose il suo Teofrasto plebeo della capitale. Senza il Gadda lombardo non sarebbero nè Il dio di Roserio e le altre storie populiste milanesi di Gianni Testori, fino al milanese ‛d'invenzione' dell'Ambleto e del Macbetto; Il calzolaio di Vigevano e le altre narrazioni vigevanasche di Lucio Mastronardi, che dà non di rado una consistenza oggettuale alla parlata riprodotta. Ma, con quest'ultima riserva, non si tratta propriamente di manifestazioni espressionistiche: la linea espressionistica è per sua natura discontinua.

Si esita ad annettere, pur estensivamente, all'espressionismo lo scrittore più importante comparso (con Signorina Rosina, 1956) dopo Gadda, il suo coetaneo Antonio Pizzuto, nonostante le metodicamente crescenti innovazioni espressive che sempre più lo apparentano, per violenza di idioletto composto con indescrivibile dovizia culturale, all'ultimo Joyce. Il suo comportamento, e non per mera metafora, vista la flagranza in lui dei valori fonici, ritmici e soprattutto contrappuntistici, è meno quello dello scrittore tradizionale che del compositore dodecafonico, cristallizzante in ghiaccio di canoni una pristina materia passionale. Fino a Ravenna (1962) la fisionomia narrativa, sia pure richiedente, com'egli scrive, ‟una compartecipazione attiva" del lettore, è ancora abbastanza riconoscibile; ma da Paginette (1964) a Giunte e virgole (1976) essa si è trasformata in serie di concentratissimi poemetti narrativi compaginati da nessi mnemonici la cui premeditazione sincopata ed ellittica ricorda, pur essendo geneticamente agli antipodi, la connessione onirica e la libera associazione del poetare surrealistico. L'imprevedibile selettività delle nozioni e delle immagini, crosta più ardua offerta al morso del lettore, porta molto lontano dall'espressionismo, al quale accosta invece l'impavida grammaticalizzazione delle novità linguistiche. Al lessico potentemente egotistico contribuisce l'intera enciclopedia dei toni, dal neologismo più familiare al neologismo più prezioso, nella cui allusività tocca un particolare spicco, rilevato dalla matrice umanistica, al greco di Omero e di Platone; la sintassi si arricchisce di connessioni participiali e di costruzioni affini all'ablativo assoluto come nei più arcaici stati di lingua indoeuropei; ma la soppressione sistematica, da una certa data, del tempo narrativo per eccellenza, il perfetto - e in sostanza anche del presente -, a profitto dell'infinito, e in fatto di ogni persona che non sia la terza (o ‟non-persona", come ha dimostrato Émile Benveniste), instaura una nominalità di tipologia remotissima dall'indoeuropeo, un'indistinzione di nome e verbo parente piuttosto del cinese o del tibetano. Pizzuto ha reinventato per suo conto qualcuno dei principi predicati in astratto dai manifesti futuristi, ma con tutt'altra interpretazione. Scriveva Marinetti: ‟Si deve usare il verbo all'infinito", che ‟può, solo, dare il senso della continuità della vita"; e in realtà in lui, associandosi alla disposizione ‛a caso' dei sostantivi, all'abolizione dell'aggettivo (sostituito dal nome epitetante, ‟donna-golfo") e dell'avverbio, esso contribuiva a uno stile ‛telegrafico', cioè di impressionismo elementare; mentre in Pizzuto conferisce eternità non storica alla memoria. L'eliminazione della persona equivale poi all'assenza di monologo interiore, che è il più accusato tratto distintivo da Joyce. Per questo suo eleatismo Pizzuto risulta più facilmente l'inverso dell'espressionismo.

12. Per una linea espressionistica in Italia

Ma la parte svolta da Gadda sulla scena letteraria promoveva un'urgente domanda di carattere storico: quali analoghi ha la ‛funzione Gadda' e di che (discontinui) segmenti si compone la sua linea anticlassica? I precedenti locali di Gadda si faceva presto a rintracciarli, benché poco rilevanti ai suoi fini, nella Scapigliatura lombarda conclusa in Lucini e nel giovane Linati; nel Linati per esempio del suo primo libro, Il tribunale verde (1906), dettato da ‟un confuso e delizioso panteismo". Ma la Scapigliatura lombarda, nei suoi autori più proverbiali tutt'altro che calligrafica, ebbe almeno uno scrittore rilevante, e certamente attivo su Gadda, in Carlo Dossi, da L'Altrieri (1868) a La desinenza in a (1878). L'espressività caricaturale e umoristica del precoce Dossi fu probabilmente efficace sulla prosa, segnatamente la narrativa, del napoletano Vittorio Imbriani e sicuramente su un gruppo, ora saldamente assicurato a ogni buon lettore italiano, del limitrofo Piemonte: quella che è stata chiamata ‛Scapigliatura piemontese'. Ad essa, fra l'altro, poteva risalire letteralmente lo stesso Gadda, che ne conosceva il più popolare frutto, Alpinisti ciabattoni di Achille Giovanni Cagna; ma tanto più gaddiano avanti lettera è il caposcuola, Giovanni Faldella, che nella parte migliore della sua produzione narrativa, fra Il male dell'arte (1874) e Sant'Isidoro (1910), è convulso nel disegno e deformante nel colore, di derivazione ora dialettale ora letteraria ora neologistica per estensione abusiva, da far classificare come umanisticamente composto lo stesso Dossi. Un passo come quello che segue (strappato da La giustizia del mondo, del 1884) merita a ogni effetto la definizione di espressionistico: ‟Vento [il cavallo] fustigato da Sansone vinceva l'omonimo... Cessavano di dietro le native colline, lurche all'occhio di Tristano... Ed eccogli davanti le montagne limpide, splendide, turgide nel tramonto... Schizzavano d'erezione. Il fondo del cielo azzurro d'argento e verde d'argento... - La becca del Cervino, un'illuminazione sassea, ricurva, come l'impugnatura di un contrabasso... Nubi a strati, a drappi, del più acceso Solferino... pesci rossi, melanciane rosse, tappeti di uova rosse per un giocoliere celeste... rosso di vino, rosso di sangue... Una luce gialla battente sui visi, sul bestiame, sui carri, sui paracarri che Vento sprazzava indietro... un riflesso stridente d'incendio ... [...] - Un nuovo mondo di vino, di sangue, di fuoco, d'orgia e di vendetta era là: invitava, chiamava, aspettava Tristano" (G. Faldella, Un serpe, Storielle in giro, III: La giustizia del mondo, Torino 1884, pp. 70-I). Espressionistica qui non è puramente la visualizzazione, per denominarla da un suo grande contemporaneo, vangoghiana, ma soprattutto la coincidenza di acme formale e acme tematica, e anzi, per uno stilista (anticlassico) come Faldella, si dirà: il parossismo psicologico condizionato dal parossismo formale.

Naturalmente la ricerca degli analoghi va condotta ancora a ritroso. Se gli Scapigliati sono un precedente vicino nel tempo, un precedente culturale di grande evidenza è la poesia macaronica. Folengo è un nodo capitale, poiché, mentre per un verso la sperimentazione bi- o plurilingue di cui essa si nutre si attesta in manifestazioni eterogenee del medesimo ambiente, come il linguaggio pedantesco (dal polifilesco al fidenziano) e il pavano, veste della prima poesia veramente dialettale d'Italia, per un altro dà la mano al grande predecessore non italiano, Rabelais, la cui ilare violenza è, come in lui stesso, crisi linguistica nello stesso momento che gnoseologico-morale.

La poesia dialettale non contribuisce all'espressionismo qui definito, cioè a un'espressività di crisi, se non in forma polemica. Dante, che nel suo stile ‛comico' come enciclopedia di stili definita dalla variante inferiore includeva, ma sottomettendole, le virtualità che un giorno si sarebbero dette espressionistiche (e che ai suoi tempi si liberano allo stato puro nel grottesco e nella tautologia di cui è principe Jacopone da Todi), teorizza una poesia dialettale come parodia o ‟improperium" coeva da sempre alla poesia aulica. Col cosiddetto Cielo d'Alcamo, con la canzone del Castra ecc. egli costruisce una prima linea di controcanto espressivo, che sarebbe attraente prolungare per i secoli successivi e che si suggerisce di estendere a ogni letteratura, quantunque condizione preliminare di indagine fruttuosa sia, nella dialettica della ricerca stilistica, che si tratti di una letteratura, come in sommo grado quella italiana, intensamente letteraria. Questo studio, che si affiancherebbe alle brillanti escursioni di Gustav René Hocke in traccia del manierismo e dell'‛alchimia linguistica' fuori di confini storici (ivi del resto l'espressionismo, in particolare Benn, ha già il suo posto segnato), potrebbe, appunto per questa considerazione, prolungarsi utilmente anche nell'opposta direzione, verso le letterature classiche. È stata infatti già tentata (dal La Penna) un'applicazione categoriale al latino; da allargare con risultati presumibilmente importanti a quel vivaio d'ogni sollecitazione espressiva che è stata periodicamente la letteratura latina del Medioevo. Così l'‟esprit d'observation" nel senso proustiano conduce dalla percezione monografica del fatto alla definizione d'una questione ricorrente entro la quale inserirlo.

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Espressionismo musicale

di Ugo Duse

sommario: 1. Definizione. 2. Antecedenti storici. 3. Evoluzione dell'espressionismo musicale. 4. Il ritorno all'ordine. 5. Espressionismo e atonalità.  6. I rapporti con la tradizione. 7. Poetica dell'espressionismo musicale. 8. Considerazioni conclusive. □ Bibliografia.

1. Definizione

L'espressionismo musicale è l'insieme delle esperienze più o meno omogenee maturate tra il 1906 e il 1925 in alcuni musicisti, soprattutto tedeschi, i quali le avallarono dal punto di vista teorico con le idee sostenute nella Harmonielehre di A. Schönberg del 1911 e negli scritti apparsi in Der blaue Reiter, almanacco curato da V. Kandinskij e Fr. Marc, edito a Monaco nel 1912.

Riduttivamente da parte di alcuni storici, esteti e sociologi della musica si identifica con l'espressionismo musicale la seconda Scuola di Vienna (Schönberg, Berg, Webern) e, in definitiva, la fase di gestazione della dodecafonia. Da questa angolatura, mentre la data di inizio non subisce spostamento alcuno, l'esaurirsi del movimento viene a coincidere con la morte di Schönberg o con l'affermarsi del Circolo di Darmstadt. Infatti i musicisti di Darmstadt indicarono nell'ultimo Webern il ‛ponte' tra la Scuola di Vienna e la loro e consacrarono questa convinzione nel famoso saggio di P. Bouiez Schönberg est mort.

Queste definizioni, di per sé, non possono rendere pienamente ragione di ciò che definiscono. In effetti la prospettiva storica in cui la definizione viene pensata è in questo caso assai più lontana di quanto non indichino le date dal momento in cui si manifestò e si affermò ciò che oggi chiamiamo espressionismo musicale. La sua comprensione diviene quasi possibile solo se si tengono ben presenti gli equivalenti pittorici e letterari e si inquadra questo insieme nella più ampia fenomenologia del futurismo italiano, del surrealismo francese e di altri movimenti artistici che in qualche misura a essi hanno fatto capo. Ciò è tanto più necessario proprio per valutare la verosimiglianza di certe interpretazioni correnti, secondo le quali ‟se si prescinde dallo specifico colore che l'avanguardia assume nelle varie culture e se ne considerano l'appello centrale, le ragioni di fondo, è indubbio che quei movimenti rappresentino una presa di coscienza affatto analoga" (v. Bortolotto, 1966, p. 329). Si accetti o no questo punto di vista, e vedremo come esso sia piuttosto da respingere; l'esigenza del confronto rimane per la mappa storica che necessariamente rivendica.

Questa impostazione considera ovviamente allora solo nella sua illusorietà la ‛categoria' dell'espressionismo musicale, come proiezione di una falsa coscienza di sé nel fenomeno. Inoltre: qualsiasi tentativo di trasferire, di volta in volta, dalla letteratura, dalle arti visive l'analisi del linguaggio o della gestualità espressionisti nella musica, se ha, entro certi liiniti, un senso unificante, cozza però contro la non ancora conosciuta logica del linguaggio musicale, analiticamente indagabile solo a un livello grammaticale. Le sue scelte ‛logiche' sono infatti solo morfologiche, hanno valore soltanto all'interno di una data forma, sono pure convenzioni anche se gratificate di spiegazioni e giustificazioni storiche.

Quando si nega, come fanno gli espressionisti, il carattere mimetico della musica, si dichiara per ciò stesso l'impossibilità di esprimere musicalmente qualsiasi cosa comprensibile in termini logici, scientifici, proprio per la mancanza di un parametro logico nella musica. L'interiorità, ciò che per il mistico è vero proprio perché non razionalizzabile, è conseguentemente l'unica sfera affine alla musica. Se lo sconosciuto razionale del vero ha qualche cosa di comune con la ancora sconosciuta logica della musica, allora la musica è l'interiorità fatta arte, non la sua rappresentazione o imitazione, non una mimesi che sottenderebbe sempre una relazione naturalistica.

Malgrado tale radicalismo antipositivistico, questo atteggiamento può essere ricondotto alla ‛logica dei sentimenti' di T. Ribot. È perciò arbitrario affermare che per gli espressionisti la musica cerca la rappresentazione del mondo dei sentimenti nella particolare forma dell'affetto portato all'esaltazione, dell'agitazione interiore" (v. Wörner e Mannzen, 1949, p. 1656), perché per l'espressionista la musica, se è veramente tale, è affetto portato all'esaltazione, agitazione interiore, tutto ciò che è dentro, e quindi vero, non la sua rappresentazione.

La non mimeticità della musica è chiaramente affermata nel saggio di Schönberg Das Verhältnis zum Text comparso su Der blaue Reiter: ‟Un paio di anni fa provai profonda vergogna scoprendo che, per alcuni Lieder di Schubert, a me ben noti, non avevo mai avuto la minima idea dell'argomento trattato dal testo poetico. Ma quando poi ebbi letto le poesie, mi accorsi che non ne avevo ricavato alcun elemento per la comprensione di quei Lieder, perché esse non mi costringevano minimamente a modificare l'idea che m'ero fatta della musica. Al contrario, mi accorsi che, senza conoscere la poesia, ne avevo afferrato il contenuto, il contenuto vero, forse più profondamente che se fossi restato aderente alla superficie dei veri e propri pensieri espressi dalle parole. Ma ancor più decisivo di questa esperienza fu per me il fatto di scrivere molti dei miei Lieder nell'ebbrezza della sonorità iniziale delle prime parole, senza preoccuparmi minimamente dell'ulteriore sviluppo della composizione poetica, anzi senza neppure comprenderlo nell'esaltazione della creazione, e solo qualche giorno dopo, rendendomi ragione del contenuto poetico del Lied, con mio profondo stupore, risultò che mai avevo reso omaggio tanto bene al poeta come quando, trasportato dal primo e immediato contatto con la sonorità iniziale, intuivo tutto ciò che da questa, con assoluta necessità, doveva derivare" (v. Schönberg, 1912, p. 31). La musica è in grado di afferrare la cosa in sé, di travalicare il muro del fenomeno, e questa sua capacità è riconducibile al campo dell'esperienza. L'intuizione è privilegiata rispetto a ogni altra attività conoscitiva, proprio perché sta alla base del processo creativo: questi sono postulati romantici non misconoscibili. Il nuovo, se mai, sta nella circostanza che alcuni musicisti li hanno fatti propri per rivedere a fondo le convenzioni della musica, trasformarne profondamente le strutture morfologiche.

Il radicalismo perseguito nel negare qualsiasi funzione mimetica alla musica restò più nelle enunciazioni che nei fatti. I testi musicati dagli espressionisti portarono in realtà ai contenuti più attenzione di quanto non fosse lecito attendersi; le loro composizioni anzi divennero un tutt'uno con quei testi, postulando l'analisi congiunta: e poiché quei testi pretesero essi stessi di essere parte della più profonda interiorità dell'io, quella musica diventò non solo un'espressione mimetica, ma una sovradeterminazione della mimesi. È caratteristica dell'espressionismo musicale una notevole mancanza di rigore teoretico, che d'altronde si presenterebbe come una contradictio in adiecto per chi proclama il primato dell'intuizione; tuttavia è bene sottolineare che la poetica espressionistica è l'aspetto meno importante del complesso fenomeno.

2. Antecedenti storici

L'antinomia tra musica come forma e musica come espressione è alle origini dell'espressionismo musicale. Essa ne accompagna lo sviluppo nel senso che condiziona non solo i mezzi espressivi e le teorizzazioni degli espressionisti, ma anche i caratteri comuni delle reazioni neoclassicista e della Gebrauchsmusik.

Gli espressionisti muovono indubbiamente sul piano teorico da F. von Hausegger, secondo il quale l'espressione è l'essenza della musica, anzi espressione filtrata e sublimata. Tale punto di partenza si oppone radicalmente alla teoria di Hanslick delle forme sonore in movimento quali unico contenuto della musica. Tuttavia, nel momento della negazione di ogni contenuto extra-musicale romanticamente inteso, gli espressionisti fanno propria anche la posizione di Hanslick. Questa constatazione salda, al di là di ogni dubbio, l'espressionismo al romanticismo.

Il presupposto che l'interiorità è espressa soprattutto dall'arte sembra non privilegiare particolarmente la musica. E infatti l'espressionismo è un fenomeno soprattutto letterario, pittorico, cinematografico e musicale. Tuttavia il gesto, la dinamica espressiva, le forzature morfologiche, sia in ambito letterario che pittorico e cinematografico, ubbidiscono a una visione e a una pratica contrappuntistiche. Il primato romantico della musica sulle altre arti viene così recuperato identificando il linguaggio alogico o metalogico dell'interiorità con il linguaggio musicale e teorizzando per la poesia, la pittura e il cinematografo la necessità di dilatare i rispettivi linguaggi in quella stessa direzione per esprimere il più alto grado di soggettività.

L'interiorità come verità, come modo di vivere il mondo, è una ipertrofia dell'io. Così venne sempre considerata da quei pensatori occidentali che non avessero accettato il punto di vista soggettivistico. Ipertrofia è eccesso, esagerazione. Ovunque incontriamo un giudizio di esagerazione, riduttività all'io, riduttività partendo dalle posizioni dell'io, ipertrofia soggettivistica, in tutta la storia della critica d'arte, vediamo che l'oggetto della critica presenta tratti accoglibili come espressionisti dalla sensibilità moderna. Di qui la possibilità di una storia dell'espressionismo in generale e di quello musicale in particolare, almeno a partire da quando la critica musicale venne ad affacciarsi sulla scena della storia della musica, sia pure in maniera non autonoma, nelle opere dei teorici musicali al tempo della massima fioritura della scuola fiamminga. Le accuse di intemperanze che Glareano rivolge a Josquin des Prés si collocano su questa linea; analogamente le critiche di Artusi a Cipriano de Rore, Gesualdo da Venosa e Monteverdi. Le aspre censure con cui Scheibe crede di bollare il disordine formale nelle opere del periodo lipsiense di Bach rientrano in questa logica.

La circostanza per cui ciò che costituì motivo di scandalo in Josquin, de Rore, Gesualdo e Monteverdi venne poi a caratterizzare elementi peculiari del barocco, allo stesso modo che l'accentuato cromatismo dell'ultimo Bach fu recuperato contro l'Affektenlehre dal romanticismo hoffmanniano, non è casuale. Tutto quanto apre nuove vie all'arte non può inizialmente presentarsi se non come unicamente pensato, un a priori, anche se in qualche caso (vedi Monteverdi) il punto di partenza è decisamente naturalistico, donde una rottura degli equilibri tra il pensante e il pensato: il pensiero diviene oggetto a se stesso, la sua attività dilatata verso l'interno. L'esasperazione e la veemenza che accompagnano questo processo si potenziano della consapevolezza dell'isolamento e dell'incomprensione; di qui il senso di angoscia, smarrimento e dolore che sempre caratterizzano questi parti. La critica del presente, tanto più del presente musicale, viene condotta in ogni epoca col mettere innanzi tutto in discussione il modo di esprimersi universalmente accettato, le forme, e scatena inevitabilmente da parte della cultura ufficiale l'accusa di incoerenza e di caoticità, di incomprensibilità, di confusione mentale.

L'epoca successiva stabilizza più o meno pacificamente ciò che la precedente definì intemperanza, incoerenza; ne fa anzi i propri tratti distintivi. Relativamente alla musica, dall'operazione assorbimento restano però di solito esclusi come elementi di disordine permanente, e pertanto inaccettabili per l'establishment, il cromatismo lineare, quello tensionale adottato per opposizione di accordi, la dissoluzione e l'istantaneità della forma, l'aforisticità che ne consegue, un uso alterato della voce umana. Vengono invece accolti e riplasmati nelle nuove condizioni, cioè prima nello spirito barocco, poi in quello del romanticismo, i grandi intervalli delle melodie, la divergente conduzione delle parti verso gli estremi dell'acuto e del grave in funzione espressiva, le divagazioni armoniche vieppiù lontane dalla tonalità di partenza, l'atematismo, la sottolineatura del fattore timbrico e della percussione, la poliritmia, la simbolistica accordale.

Questi due raggruppamenti danno un quadro abbastanza completo dei mezzi artistici che furono, soprattutto dalla critica conservatrice, indicati come abnormi manifestazioni per l'ordine musicale esistente. Il primo comprende quelli che potremmo definire veramente dirompenti, e quindi necessari nelle fasi acute di transizione. Il secondo, quelli che, per ragioni di una certa unità stilistica sui generis determinata dalla tradizione dell'antitradizione, si accompagnano ai primi.

Almeno due decisive crisi di crescenza della musica occidentale sono state attraversate e profondamente segnate, nei criteri compositivi allora seguiti dagli innovatori, da elementi che ritroviamo nell'espressionismo musicale del Novecento. Anch'esso è una fase di transizione e, sulla base dell'analisi delle costanti stilistiche che caratterizzano questa crisi di sviluppo, bisogna convenire che Wagner, soprattutto con Tristan und Isolde, presenta una sintomatologia assai chiara dei prodromi del fenomeno: qui infatti elementi dirompenti come il cromatismo in tutte le sue manifestazioni e l'abdicazione formale della struttura del melodramma si accompagnano ad altri elementi caratteristici quali l'ipertrofia della timbrica strumentale, l'assolutizzazione del motivo conduttore, la simbologia accordale, si che vengono convogliate in un'unica intenzione artistica esperienze espressionistiche del grande cromatismo più antico, del superamento formale e del divagare armonico proprie dell'ultimo Bach, specialmente nella mediazione beethoveniana, e conquiste espressive dei più vicini Weber, Liszt e Berlioz.

Lo scacco degli sforzi infruttuosi di mezzo secolo per superare ordinatamente il punto morto del dopo Tristano, gli approdi tristaneggianti del più significativo impressionismo francese, soprattutto con Pelléas et Mélisande, l'esaurimento delle capacità espressive del rigoroso diatonicismo mahleriano maturano le condizioni dell'esplosione espressionista. È perciò fuor di dubbio che si tratti essenzialmente di un fenomeno di crisi. Che denunci se stessa ben oltre i limiti della musica, è secondario; altrettanto chiaro deve essere che il suo insorgere non è obbligatoriamente un fatto patologico: essa appartiene, come le analoghe precedenti, dalle quali trae un'ulteriore propria giustificazione storica, al campo più ricco e vasto della genetica e della fisiologia dell'arte.

3. Evoluzione dell'espressionismo musicale

Una periodizzazione dell'espressionismo musicale è intimamente legata a una delle due prospettive nelle quali può essere inquadrato. Le due prospettive sono ovviamente schemi: esistono infatti molti gradi intermedi tra di esse e a ognuna si può far corrispondere un periodo. Stuckenschmidt fonde addirittura insieme le due prospettive. Poiché qui si considera riduttiva quella che fa coincidere il fenomeno con la Scuola viennese, il problema si pone per la prima. Possiamo individuare due fasi, una eminentemente tonale, l'altra eminentemente atonale. Usiamo quest'ultimo termine, malgrado i rilievi fatti da Schbnberg, poiché nella pratica è universalmente impiegato.

La prima fase ha in comune con le precedenti crisi molti mezzi espressivi, ma sembra cercare una via d'uscita ancora in un ambito tonale, pur con interventi innovatori in campo armonico. Insofferenze della forma, sua dilatazione, divagazioni armoniche sempre più ardite, ricorso sempre più frequente alla dissonanza, recupero dell'intervallo di quarta soprattutto nella formazione dell'accordo, riflessione e teorizzazione sulla precarietà della situazione armonica raggiunta sono le sue peculiarità; questo periodo si può far iniziare con la Settima sinfonia di G. Mahler, e in modo particolare il primo e il terzo tempo, e concludere con il Quartetto d'archi in fa diesis minore op. 10 di Schönberg. Tra di essi più significativamente si collocano Le poème de l'extase di Skrjabin, la Kammersymphonie op. 9 di Schönberg, Elektra di Strauss, la Passacaglia op. 1 di Webern. Lo scritto teorico più importante è Entwurf einer neuen Åsthetik der Tonkunst di Busoni. Queste opere godono oggi tutte di larga notorietà, ma almeno per Elektra nessuno più parla di espressionismo. Ciò è dovuto alla valutazione delle successive scelte musicali di Strauss, valutazione che fa dimenticare anche le strutture poliarmoniche dell'accordo conduttore di tutto il melodramma. Certa critica tende a ridurre al minimo anche l'apporto di Skrjabin, il cui misticismo conclamato disturba oggi interpretazioni pseudoprogressiste dell'espressionismo musicale; in tal modo essa ignora che l'estasi skrjabiniana è l'equivalente dell'estraniamento espressionista, perché viene raggiunta per superare l'opposizione tra l'anima e l'oggetto, per unificare misticamente interiorità e mondo, per eliminare qualsiasi contorno tra tema e motivo; e soprattutto ignora i successivi traguardi da lui raggiunti. Egli paga così il suo disprezzo per la musica popolare, il suo misticismo erotico e la sua metafisica visionaria, il suo individualismo esasperato, che pure furono tratti caratteristici di tutto il movimento cui di diritto storicamente appartiene.

La tardiva sistematizzazione di queste esperienze si trova nel Manuale di armonia di Schönberg, che appare quando quel periodo è già concluso da tre anni e il suo autore sta raggiungendo il culmine della maturità espressionista. Nel Manuale di armonia si ha un'interpretazione dello sviluppo del linguaggio musicale che giustifica le conquiste successive dell'espressionismo. Gli ultimi tre capitoli trattano delle scale per toni interi e dei relativi accordi di cinque e sei suoni, di quelli per quarte, di una valutazione estetica di quelli a sei e più suoni; in altre parole, dell'armonia di Debussy, del diverso uso e della diversa funzione degli accordi per quarte in Debussy - con la conclusione che l'impiego sistematico da parte degli impressionisti di quella scala e di questi accordi inflaccidisce l'espressione (v. Schönberg, 1911; tr. it., p. 492) e, nel migliore dei casi, si prospetta come effetto armonico puramente impressionistico, ben lontano dal ‟compenetrare l'intera costruzione armonica" (ibid., p. 505) come si dà, per esempio, nella Sinfonia da camera op. 9 e nelle composizioni di Berg e di Webern. Nell'ultimo capitolo compare quella professione di fede che costituisce una parte non ignorabile del complesso e mai scritto manifesto dell'espressionismo musicale: ‟Quando compongo decido solo in base al mio sentimento, al mio sentimento della forma, che mi dice quello che devo scrivere, mentre tutto il resto rimane escluso. Ogni accordo che scrivo obbedisce a un'impellente costrizione, alla spinta della mia costrizione espressiva, ma forse anche a quella di una logica inesorabile, ma inconscia, insita nella costruzione armonica. Sono fermamente convinto che questa logica esiste anche qui, almeno nella misura in cui esisteva nei settori più antichi dell'armonia. Prova di ciò è che le correzioni derivate da considerazioni formali esteriori, a cui la coscienza dell'artista inclina fin troppo spesso, finiscono col rovinare l'idea musicale.

Questo mi dimostra che l'idea stessa era necessaria, che le sue armonie sono parte costitutiva dell'idea in cui non è possibile mutare nulla" (ibid., p. 523). Il quattordicesimo capitolo del manuale, Ai confini della tonalità, trae la sua grande importanza dall'analisi, condotta principalmente su Wagner, del carattere ambiguo e corrosivo che sono venuti assumendo gli accordi di settima diminuita, le triadi eccedenti, le successioni di accordi alterati e vaganti.

Il secondo periodo si apre con Fünftehn Gedichte aus Das Buch der hängenden Gärten op. 15 e si può far concludere con l'op. 26, il Quintetto per flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno. Le opere più significative di questa fase sono: ancora di Schönberg i Fünf Orchestersücke op. 16, i Sechs kleine Klavierstücke op. 19, e Herzgewächse op. 20, per soprano leggero, celesta, armonium e arpa, i Vier Lieder per voce e orchestra op. 22, i Fünf Klavierstücke op. 23, la Serenade per clarinetto basso, mandolino, chitarra, viola, violino, violoncello e voce di baritono op. 24, la Suite per pianoforte op. 25, ma soprattutto Erwartung, monodramma per voce di soprano e orchestra op. 17, Die glückhche Hand, dramma musicale per baritono, coro misto e orchestra op. 18, e Pierrot lunaire, melodramma - tre volte sette poesie - per voce recitante, pianoforte, flauto (ottavino), clarinetto (clarinetto basso), violino (viola) e violoncello op. 21; di Skrjabin il Prometheus (Le poème du feu) op. 60 per pianoforte e orchestra, le sonate per pianoforte a partire dall'op. 62, i poemi per pianoforte a partire dall'op. 61, i preludi per pianoforte op. 67 e op. 74; di Bartók Allegro Barbaro e 14 Bagatellen op. 6 per pianoforte, Der wunderbare Mandarin op. 19, il secondo Quartetto per archi op. 17; di Berg la Sonata per pianoforte op. 1, il Quintetto d'archi op. 3, i Fünf Orchesterlieder nach Ansichtskartentexten von P. Altenberg op. 4, i Vier Stücke per clarinetto e pianoforte op. 5, i Drei Orchesterstücke op. 6, il Wozzeck; di Webern i Fünf Sätze e le Sechs Bagatellen per quartetto d'archi op. 5 e op. 9, i Sechs Stücke per orchestra op. 6 e i Fünf Stücke per orchestra op. 10, i Vier Stücke per violino e pianoforte op. 7; di Busoni la Berceuse élégiaque; di G. F. Malipiero Panthea.

Opere che solitamente si definiscono espressioniste sono state scritte anche in seguito; tuttavia il loro carattere epigonico sta in ciò: che l'espressionismo musicale era ormai universalmente accettato, che i suoi maggiori rappresentanti si orientavano o si erano già orientati in altre direzioni, talora divergenti tra loro; che, infine, i loro autori approdarono tutti, come per esempio prima Krenek e poi Dallapiccola, alla tecnica dodecafonica, rivelando il carattere della loro posizione, di riverberazione in Křenek, di ripercorrimento storico in Dallapiccola.

Il momento centrale di questo periodo è il 1912, l'anno del Cavaliere azzurro e dei Pierrot lunaire. In effetti, tutto quanto di nuovo l'espressionismo doveva dire è già detto in quell'anno; ciò che segue è arricchimento, affinamento, ricerca stilistica, ricerca di eventuali implicazioni, tentativo di superare certe antinomie: problemi, a ben guardare, lontani (se non addirittura all'opposto) da quelli originari del movimento. Ciò che doveva essere spezzato (la forma), distrutto (la tonalità), emancipato (la dissonanza), radicalmente rinnovato (la melodia), liberato dalla costrizione formale (il ritmo), è già stato allora spezzato, distrutto, emancipato, rinnovato, liberato. Dal 1912 fino al primo dopoguerra è tutta una lunga parabola discendente, piena ancora di idee e di germi fecondi, ma che prepara la fine o, quanto meno, l'evoluzione verso l'ordine. Poiché l'espressionismo musicale è anzitutto rifiuto dell'ordine, di qualsiasi ordine, a favore dell'intuizione formale, la ricerca di soluzioni formali da rendere obbligatorie al nuovo status è la sua abdicazione.

Dal 1909 al 1912, dal Libro dei giardini pensili al Pierrot lunaire, attraverso Über das Geistige in der Kunst di Kandinskij, la prima mostra del Cavaliere azzurro a Monaco, con i quadri di Fr. Marc che dovevano ogni sera essere ripuliti dagli sputi dei visitatori, se l'espressionismo non brucia completamente se stesso, solo allora è grande fiammata, prima di disperdersi in illuminanti, durature, ma pur sempre effimere scintille. Lo stesso fenomeno non si ha nè in letteratura nè in pittura nè nel cinematografo. Se l'occasione per la conflagrazione espressionista è data dalla rivolta antiimpressionista maturata nel quadro dell'attività del gruppo dresdiano Die Brücke, la natura mimetica della musica romantica invece è molto particolare rispetto alle altre arti. La musica romantica era vissuta nell'antinomia e dell'antinomia forma-pura espressione, che comunque escludeva l'imitazione della natura. L'impressionismo musicale aveva già minato la tonalità; i suoi rapporti con il corrispondente movimento pittorico sono molto meno stretti dei rapporti tra l'espressionismo pittorico e quello musicale. La galleria di Chabrier contiene le opere di Monet, Renoir, Sisley, Manet e Cèzanne; ma lui oscilla da Wagner alle ricerche modali: aderisce alla corrente, non alle necessità dell'epoca. L'approdo di Debussy alle raffinatezze dannunziane svela un altro volto dell'impressionismo, quello che eredita l'imaginifica del decadentismo.

Di contro può essere subito rilevato un tratto peculiare dell'espressionismo: il rifiuto non di tutto ciò che precede, ma del presente, l'estraniamento non dal mondo con la sua storia e le sue conquiste civili e artistiche, ma dalle sue attualità, ritenute innaturali, che si dovrebbero vivere se non ci si rivoltasse. Ciò lo distingue nettamente dal futurismo, dal surrealismo, dal cubismo e movimenti consimili. Niente che ad esso assomigliasse avrebbe mai potuto conquistare Stravinskij, Milhaud, Honegger. Certamente questi e altri musicisti furono talora influenzati da ciò che si faceva a Vienna e a Berlino, ma vissero quelle esperienze come un inevitabile riflesso artistico dell'epoca. Dietro l'espressionismo musicale c'è l'inconfondibile irrazionalismo della Mitteleuropa. Ci sono il culto cattolico, le nazionalità oppresse, la disperazione tutta intellettuale della frustrante diaspora degli intellettuali ebrei; c'è, contro la protervia della musa timotea del futurismo, il modello di Hans Sachs proposto da Wagner e ricordato da Schönberg agli allievi: ci si rivolta cioè non contro la vecchia poesia, ma contro i cattivi maestri.

I musicisti che si richiamano all'espressionismo spezzano la forma cui sono stati artisticamente educati, distruggono la tonalità in cui sono stati cresciuti, con dolore, con rimpianto, ma convinti dell'ineluttabilità storica della loro missione. In Skrjabin l'estasi va conquistata; l'estraniamento dall'oggetto dei viennesi è un'intuizione frutto di una grande educazione.

4. Il ritorno all'ordine

Ci si è frequentemente riferiti a questo periodo come a un periodo di esperimenti che si sarebbe concluso con l'individuazione dodecafonica. Il pattern sociologico esige la continuità, il progresso all'infinito: a questa esigenza ubbidisce una visione della dodecafonia come inevitabile punto di approdo dell'espressionismo. In ultima analisi è la sociologia del reale che sempre si identifica con il razionale. Se per alcuni musicisti questo periodo può essere anche valutato come sperimentale (Hindemith, per esempio), per la maggioranza di quelli che hanno aderito alla poetica di Der blaue Reiter non si può dire altrettanto; nè in una valutazione d'insieme si possono mettere sullo stesso piano episodi di vita e vite intere.

Poiché d'altronde la musica dei nostri giorni, con la cui ottica noi valutiamo storicamente il fenomeno, non ha una esclusiva matrice espressionista, occorre sottolineare che il periodo in questione fu esente da caratteristiche che invece in essa si trovano, e si esauri non tanto nello sperimentare, ma per coerente rinuncia a evolversi in quella direzione; ripiegò infatti più o meno ordinatamente sulla ricerca formale e - tenendo conto delle posizioni da cui era partito - questo ripiegamento fu un compromesso. Ciò vale soprattutto per Schönberg, che già Adler nel suo Handbuch der Musikgeschichte del 1924 indicava come il maggior rappresentante degli espressionisti, e per i suoi allievi Berg e Webern. Mentre infatti gli altri musicisti che caratterizzarono nel primo e nel secondo periodo il movimento espressionista o rientrarono nella tonalità, o cercarono nel folclore altre soluzioni, o approdarono a conclusioni oggettivistiche, o, come Skrjabin, vennero a mancare, il solo gruppo viennese rimase fedele alla musica come espressione, alla poetica dell'interiorità. Per questo gli era estraneo lo sperimentalismo, non potendovi essere alcun rapporto tra immediatezza del sentire e atteggiamento sperimentale.

Tuttavia la stessa intransigente fedeltà a un ideale di musica come verità interiore, l'inevitabile chiusura solipsistica che questo habitus implica portano come conseguenza, assieme alla negazione della forma, l'esaltazione dell'istinto formale: ogni espressione del vero interiore doveva essere intuita in una sua forma particolare, irripetibile quanto lo era quel frammento di verità e individualità; l'originalità di quel vero colta d'istinto veniva èspressa in una forma ad hoc altrettanto originale e assoluta. Questo rifiuto della forma come veicolo di comunicazione minacciava gli espressionisti di un pericolo di naufragio in un mare d'acqua bollente - come si esprimeva Schönberg - un mare che bruciava dentro ad artisti che non sapevano nuotare controcorrente. Essi si posero quindi il problema: o rinunziare all'espressione dell'interiorità, considerare conclusa, almeno momentaneamente, questa fase musicale, come era accaduto almeno altre due volte, accontentandosi di consolidare conquiste importanti come l'emancipazione della dissonanza e un certo grado di atonalità, ovvero cercare e dare all'espressione sonora nuovi principi formali. Fu questa soluzione a prevalere. I nuovi principi formali dovevano mettere fine al caos, impedire, in fondo, che nel continuare del caos andassero perdute conquiste veramente decisive. In tal senso non si potrebbe neppure parlare di compromesso. Non c'erano più possibilità, solo una necessità. Ma questa posizione, comunque la si voglia esaminare, svela di per sé la propria sostanza compromissoria. Si ritorna alla forma perché altrimenti non si comunica l'idea musicale, anzi, al limite, senza forma non c'è nemmeno idea musicale (v. Webern, 1960). È chiaro che l'espressione allo stato puro, il grido originario, si sono già, sia pure musicalmente, concettualizzati, e in quanto concetti sono destinati alla comunicazione perché ubbidiscono alle convenzioni che la informano.

La preoccupazione di far conoscere ad altri le proprie esperienze interiori è la fuga terrorizzata di fronte alle conseguenze di una solitudine, di un radicalismo solipsistico, dei quali non si vede la fine, ma si paventano le conseguenze. Dal caotico, dal profondo baratro dell'io informali nella loro vitalità emerge lo schema, la forma non-solo-artistica. L'individuazione dodecafonica fu presentata come metodo di comporre con dodici suoni che non stanno in relazione che fra loro; in realtà questo fu il principio compositivo del periodo espressionista. La dodecafonia è un metodo che mette in relazione tra loro i dodici suoni del totale cromatico non per un loro interno organizzarsi di volta in volta sulla base delle esigenze espressive, ma nel momento in cui si forma la relazione in base a leggi predeterminate, rigorose. Così l'ordine, da lui considerato mai fine a se stesso, ma soluzione di necessità, è il punto d'approdo dell'esponente più rappresentativo di un movimento che nel 1912, in Der blaue Reiter, teorizzava l'anarchia nella musica (v. Hartmann, 1912). Ancora una volta la paura dell'ignoto aveva vinto; il sostrato religioso dell'espressionismo era venuto alla superficie con tutte le sue contraddizioni e l'esigenza di un principio gerarchico. D'altronde, distrutta l'armonia, sconvolti i principi melodici, ripudiata la forma, mai tuttavia erano stati posti in discussione il sistema temperato, i suoi strumenti, le sue delimitazioni grammaticali; Schönberg anzi aveva nettamente respinto le ricerche di Busoni sui terzi di tono. Per questo l'espressionismo musicale è ancora un modo di esprimersi nei limiti del temperamento equabile fissato da Bach e da Rameau, e quindi un'affermazione del vero interiore non incondizionatamente diretta, come invece pretendevano gli espressionisti, e assoluta, ma mediata da un'interpretazione del suono e del mondo sonoro conseguente al razionalismo del XVII secolo.

La dodecafonia andò a cercare i propri principi formali nel contrappunto fiammingo. Non poté, in definitiva, che riproporre un ordine già collaudato. In quest'ordine, liberamente scelto e non frutto di assoluta necessità, Schönberg dichiarò di sentirsi libero, più libero di quando componeva senza norme, nello spirito dello Sturm und Drang espressionista. Annotò sul suo manoscritto in margine all'Adagio del Quintetto per fiati op. 26: ‟Credo che Goethe sarebbe soddisfatto di me". Ed è senz'altro vero, soprattutto per il principio di autorità che la proposizione mette in evidenza. Se un tempo doveva ubbidire solo alle leggi dell'interiorità, in seguito il primo posto fu preso dall'idea direttrice secondo cui andavano innanzi tutto rispettati i sensi degli altri, i quali possono essere aggrediti solo da un qualche cosa di formalizzato; l'idea centrale fu quella di trovare il mezzo di comunicazione adatto, la serie e i modi in cui dev'essere trattata; ciò finì col realizzare un compromesso di fondo tra l'idea che si doveva esprimere, e che era già il frutto di una mediazione, con l'idea direttrice del veicolo comunicante. Nemmeno più, quindi, l'ordine fine a se stesso come natura della musica, ma per rendere accessibili nella propria interiorità se stessi agli altri: ciò che agli inizi del movimento sarebbe stato del tutto inammissibile.

5. Espressionismo e atonalità

Per molti anni e dalla maggioranza degli storici della musica l'espressionismo musicale venne confuso con l'atonalità, ovvero l'atonalità fu concepita e ritenuta la sua conquista peculiare, e già nel Manuale d'armonia Schönberg entra nel vivo della polemica per precisare i suoi discordanti punti di vista sul termine e sull'intera questione.

Se, per comodità, intendiamo atonale una musica con una linea melodica senza la tonica e un'armonia che non si fonda su alcuna tonalità, vediamo subito che una parte notevole della produzione musicale espressionista non risponde a queste caratteristiche. Per chiarire tale affermazione precisiamo che neppure il più piccolo segmento di una linea melodica deve presentare, per potersi definire in tutto atonale, alcuna relazione tonale: non si può neppure dare, tra due note successive, la possibilità di una percezione di cadenza o comunque di rapporto con una tonica sottintesa; inoltre, dal punto di vista armonico, nessuna relazione funzionale deve percepirsi negli accordi tra loro, o con una eventuale triade di tonica sottintesa.

L'accordo mistico di Skrjabin, do-fa diesis-si bemolle-mi-la-re, si scompone linearmente in due segmenti: do-sol bemolle-si bemolle, cadenza sospesa di mi bemolle minore (VI-II-V) e mi-la-re, cadenza perfetta di re minore, per la precedente attrazione del si bemolle (II-V-I); se fa diesis (sol bemolle) e la si considerano poi eventualmente ritardi di sol, anche la posizione verticale può interpretarsi come nona di dominante di fa maggiore.

È stato osservato che le sei note sono l'8°, il 9°, il 10°, l'11°, il 13°, il 14° armonico di do: questo significherebbe che l'accordo non si fonda sui criteri dell'alterazione tonale, ma su basi fisiche e perciò scientifiche (v. Stuckenschmidt, Neue Musik..., 1951). In realtà sono presenti il 1°, il 5° e il 7° armonico di do (quest'ultimo in virtù del temperamento della scala), ovverossia una settima di dominante di fa senza la quinta, cui si sovrappongono il 1°, il 3° e il 5° armonico di re, opportunamente abbassati all'ottava; nel contesto di una simile tensione, si individuano come la triade di dominante di sol minore. Infatti l'abitudine-attitudine di un orecchio musicalmente coltivato tende a scomporre l'accordo, dopo una prima percezione globale, orizzontalmente e poi a simultaneizzare verticalmente gli intervalli.

Noi definiamo mistico l'accordo di Skrjabin solo per rispettare le intenzioni dell'autore. Stando così le cose, ogni analisi contraddice l'espressività di cui esso si carica presentandosi come una successione di quarte, anziché di terze, malgrado la nostra tendenza a ricondurlo alla normalità. Ma il nostro orecchio è un giudice conservatore: se i dettami che deve applicare offrono appena appena una qualche ambiguità, subito li interpreta alla luce della normatività più antica. Le quarte si oppongono alle terze in una ipotetica assuefazione accordale che in realtà non c'è, mentre sono ben radicate in noi, e perché ‟ombre delle quinte" (Cartesio) e come ambito tonale nella risposta al soggetto di fuga. Poiché nella musica il primato storico e percettivo è della melodia, noi tendiamo a individuare nell'accordo di Skrjabin un allargamento, un artificio melodico integrativo, e percepiamo innanzi tutto le strutture formali ‛buone' della melodia. Ciò anche per la semplice ragione che non possiamo da soli cantare polifonicamente. Ora l'accordo di Skrjabin è, per il nostro orecchio, una mimetizzazione ottenuta con un procedimento bitonale; quindi non solo esso non è atonale, ma, all'analisi auditiva che non sbaglia mai, presenta una tonalità arricchita. In esso avvertiamo subito e innanzi tutto la presenza di più sensibili. Questo vuol dire che la tonalità esce rafforzata e non indebolita, perché la sensibile è la caratteristica fondamentale della tonalità. Se la tonalità si riduce a un unico rapporto di tonica e dominante, allora essa non esisteva già più da molto tempo: non poteva bastare il ritorno alla tonica dopo un vagabondaggio di ‛decine e decine di battute; ma la tonalità è una regola generale e le leggi della Gestalt vengono meglio alla luce nelle situazioni di ambiguità (rapporto figura-sfondo, mimetizzazioni, effetti trazione-spinta, effetto trasparenza, ecc.).

Solo ottusità e pigrizia armoniche possono sentire come atonale, specie dopo Wagner, l'accordo di Skrjabin. Schönberg aveva quindi ragione quando affermava nel 1921: ‟Non si è studiato il problema se ciò a cui lo schiudersi di queste nuove sonorità dà vita non sia appunto la tonalità di una serie di dodici note, anzi probabilmente lo è, e allora questo sarebbe un fenomeno parallelo alla circostanza che ha dato luogo ai modi gregoriani, a proposito della quale ho detto che ‛si sentiva l'attrazione di una tonica, ma non si sapeva quale fosse, e allora le si provavano tutte'. Qui non la si sente affatto, eppure ciò nonostante probabilmente essa esiste. Volendo per forza trovare dei nomi, si potrebbe pensare ai termini ‛politonale' o ‛pantonale': ma prima di tutto bisognerebbe stabilire se questa musica non è semplicemente tonale" (v. Schönberg, 1911; tr. it., p. 509, nota 1).

Come la fine dell'illusione dell'esistenza di un sistema tonale fu decretata dal dato sperimentale che l'orecchio individua perfettamente un'unica qualità strutturale anche nelle varie tonalità trasposte - e d'altro canto l'uso di trasportare i Lieder nelle più svariate tonalità aveva già indicato come superata tutta la simbologia che le accompagnava - così la presenza di una stessa dominante per il maggiore e il minore, con conseguente priorità della sensibile tonale sulla sensibile modale, aveva fatto dire a Busoni: ‟Arriviamo di necessità alla coscienza dell'unità del nostro sistema tonale. I concetti di affine e di estraneo cadono, e con ciò tutta l'ingarbugliata teoria di gradi e relazioni. Noi abbiamo un'unica tonalità, ma essa è di un genere ben misero" (v. Busoni, 19542, p. 147). Dobbiamo così mettere accanto agli accordi vaganti, alle settime diminuite, alle triadi eccedenti, alle successioni di accordi alterati anche la raggiunta coscienza della povertà del sistema tonale, coscienza non estranea neppure a quelli che, come Hindemith, si schierarono dalla parte della restaurazione. L'emancipazione dalla dissonanza in un sistema che ha i semitoni cromatici uguali a quelli diatonici non può che risolversi in politonalità, perché tutte le note risuonano alla comune coscienza tonale come potenziali sensibili, specialmente quando gli intervalli sono molto piccoli o si collocano a distanze di settima, di nona o di tritono.

L'esempio dell'accordo mistico può essere esteso a tutta la musica cosiddetta atonale degli espressionisti. Solo l'adozione del metodo dodecafonico, e neppure questo come regola generale (vedi Berg), irrigidisce, o sembra irrigidire, certe situazioni contrappuntistiche in una sfera difficilmente riconducibile a una tonalità anche allargata; le regole rigorose imposte al compositore per ricondurlo a un ordine formale infatti sfuggono alle leggi gestaltiche, postulando eventualmente interpretazioni diverse. Purtuttavia nella scelta della serie molto rimane, per l'occhio, del mondo tonale.

Soprattutto in Schönberg, in Berg, in Webern, in Skrjabin ‛atonali' le successioni melodiche, talora per responsabilità armoniche, richiamano tonalità ben precise. C'è chi vede là un'allusione ironica a realtà sonore assenti (v. Bortolotto, 1966), ma ciò comporterebbe la volontà di sottoporre a frustrazione l'ascoltatore, atteggiamento, questo, del tutto estraneo alla prospettiva espressionista. In realtà siamo in presenza di una concatenazione di modulazioni che l'orecchio vive come cadenze, anche se influenzato da un nostro atteggiamento intellettuale che condivide come necessario, oppure accetta come inevitabile, o ancora ammette come valido questo criterio di assenza d'ogni criterio tradizionale nella composizione politonale.

D'altronde oggi la nostra disposizione non ha nulla in comune con quella degli storici e dei critici della musicà di mezzo secolo fa, perché noi oggi conosciamo il punto di arrivo di Schönberg e della sua scuola e viviamo in mezzo alla nuova musica che non è l'erede di quella scuola, ma caso mai, e solo per qualche aspetto, delle teorizzazioni dell'ultimo Webern. Per noi oggi la Berceuse élégiaque non è molto più tonale di tanta parte di Erwartung, le distanze tra la Sinfonia da camera op. 9 di Schönberg e, prescindendo dal loro carattere aforistico, i Sei pezzi per orchestra op. 6 di Webern sono molto minori di quanto gli occhi suggeriscano.

Nella politonalità degli espressionisti noi cogliamo il rimpianto di cose semplici, il rimpianto dell'elegante banalità quotidiana che a certi livelli sociali si chiamò belle époque, forse anche la consapevolezza di una grande avventura miziatasi al di là della tranquillità, o senza la tranquillità, del ritorno a casa. Solo infatti nel nuovo establishment del riconoscimento americano Schönberg ammetterà che ‟on revient toujours". Altri musicisti invece, per nulla vicini all'espressionismo, come Ch. Ives e E. Varèse, raggiunsero l'atonalità più schietta senza le ambiguità e i rimpianti dei mitteleuropei; ma diversa era la visione del mondo che guidava il loro orecchio e la loro mano.

L'equivoco atonalità = espressionismo è determinato soprattutto da ciò: che gli esegeti e gli apologeti dei compositori espressionisti, incredibilmente, videro in Schönberg soprattutto il grande musicista che attuò un ultimo sviluppo del romanticismo e portò il cromatismo all'estrema conseguenza dell'atonalità, senza accorgersi o senza preoccuparsi troppo del fatto che questa era la valutazione di Les six (punto 3 del loro manifesto), sostenitori della restaurazione dell'armonia diatonica e della tonalità più intransigente (punto 4) del classicismo francese (punto 2).

Si è così adottato il giudizio degli amici di Cocteau, quello di un movimento nato nel seno di una borghesia vincitrice di una guerra imperialistica, su di un fenomeno apparso prima di quella guerra, e per di più sorto nell'ambito della parte sconfitta, espressione quindi di una cultura completamente sconfitta, come era quella della Mitteleuropa, ovverossia la cultura degli imperi centrali. Perché quel giudizio sia stato adottato quasi universalmente e sia possibile ancor oggi, malgrado quanto hanno scritto e composto Schönberg e i suoi allievi, è razionalmente spiegabile solo come lapsus patologico della vita quotidiana di conservatori sornioni travestiti da corifei dell'avanguardia.

6. I rapporti con la tradizione

I massimi esponenti della Scuola viennese non ritennero mai di collocarsi sulla stessa linea dei futuristi e dell'avanguardia francese. Essi si consideravano i continuatori del classicismo viennese e del romanticismo in particolare e, più in generale, i continuatori della grande tradizione polifonica fiamminga. Questa loro convinzione appare evidente, oltre che nelle loro composizioni, nel culto di Mahler, che ebbe ad archetipo stilistico i fiamminghi; nella rivalutazione di Brahms, che i postwagneriani avevano sempre misconosciuto; nell'interpretazione di Beethoven come massimo erede di Bach e perfetto realizzatore della forma classica, espressa soprattutto nel periodo e nella frase di otto battute. Le battaglie combattute, le polemiche provocate o subite furono sempre in difesa di una tradizione della quale gli altri tendevano a ignorare i valori. Non sostanzialmente diversa la posizione di Skrjabin: tutto il senso della sua svolta antičajkovskijana, del suo allontanarsi dal pianismo chopiniano, sta in una valutazione molto soggettiva dell'inquinamento portato nella musica vera' dalla musica popolare. In lui emergono le tentazioni faustiane comuni tanto al classicismo quanto al romanticismo, sia pure in prospettive diverse. La sua ripugnanza verso la musica popolare consegue da una ben precisa concezione della cultura e dell'arte come fatto di cultura quali risultati di un processo di continuo superamento, di eliminazione del superfluo, di enucleazione di costanti e di loro sublimazioni.

In maniera pregnante il romanticismo degli espressionisti si manifesta nella teatralità drammatica delle loro scelte espressive. Il Poema del fuoco prevede come parte integrante della sua esecuzione la proiezione su di uno schermo di sequenze di colori; Erwartung è una scena lirica risolta teatralmente per far partecipare lo spettatore alla trasfigurazione del mondo esterno realizzata dall'angoscia interiore di un unico personaggio; Die glückhche Hand affida a una dosata gestualità e a una minuziosa messinscena un simbolismo grevemente romantico che solo in quel modo può reggersi; in Der wunderbare Mandarin l'assoluto primato della sessualità esteso sino al miracolo si proietta nella pantomima; Wozzeck è un melodramma tradizionale, con il suo recupero di forme ‛chiuse' e il suo lirismo spiegato.

Anche la citazione è un mezzo rappresentativo: O du lieber Augustin (Scherzo del Quartetto op. 10 di Schönberg), le misure il e 12 del Il dei Cinque pezzi per quartetto d'archi op. 5 di Webern (tema dell'Adagio della Nona di Bruckner), la mis. 24 del V pezzo (Scherzo della Quinta di Mahler), misure 11, 12, 13, 14 e poi 32 del IV dei Sei pezzi per orchestra op. 10 (Der Abschied prima, e I tempo della Nona sinfonia di Mahler poi), solo per citare alcuni casi, assolvono a una funzione rievocativa, creano uno sfondo scenico.

Non minore continuità con la tradizione presenta la scelta della forma liederistica. Gran parte della produzione dei tre viennesi è liederistica; anzi, liederistica è quasi sempre la fase di preparazione per nuovi passi in avanti. Nel Lied viene realizzato, o tende a prospettarsi, quell'estraniamento dal rapporto tradizionale con il testo che prepara all'essenzialità delle composizioni strumentali. Sotto molti aspetti, viene seguita la stessa via di Mahler.

Infine, ultima ma non per importanza, la Sprechstimme schönberghiana: un intervento sul modo di parlare che deve stabilire un nuovo rapporto con il testo. Il tono parlato sfiora la nota, sfuggendola subito: è una forma di gestualità vocale che, nel rifiuto di sostenere la nota, riflette la stanchezza, l'usura della parola, e quindi la necessità della mediazione musicale per comprenderla; e questa è la linea teorica di Wolf.

Il Pierrot lunaire, considerato assieme a Le sacre du printemps di Stravinskij il punto di volta della musica nella prima metà del secolo, è senza dubbio l'acme dell'espressionismo musicale. In esso infatti si estrinsecano in massimo grado tutte le caratteristiche fondamentali della musica espressionistica ma anche tutti gli elementi della sua fedeltà alla tradizione, ivi compreso il sottendimento tonale di cui si è già parlato. Innanzitutto la scelta del testo: un ciclo di 21 poesie, opera di Giraud, simbolista della Parnasse de la Jeune Belgique, tutto sommato mediocri e di dubbio gusto, con fughe nel nonsense prive di grazia e cerebralmente dozzinali. Questa scelta da parte di Schönberg ci appare proprio una parodia del melodramma ottocentesco: la narrazione delle traversie della più patetica tra le maschere svela i limiti e l'impotenza dell'eroe idealizzato della borghesia, allo stesso modo che Von heute auf morgen svela le ridicolaggini dell'ideale borghese dell'amor coniugale come moda e convenzione. E se la critica si ferma alla superficie non ci si deve meravigliare: gli intellettuali viennesi, disillusi nella loro volontà di leadership dal fallimento del ‛48, continuarono per oltre mezzo secolo a cullarsi nel gusto della parodia. Questa specie di sinfonia fantastica del piccolo borghese presenta in secondo luogo un recupero formale dal punto di vista della simmetria e quindi un superamento negativo dell'immediatezza espressiva. Le tre parti sono composte ciascuna di sette arie, che nel testo accennano anche alla possibilità di essere, con il ‛daccapo', una possibilità regolarmente frustrata: tre atti e un solo protagonista dolciastro e anacronistico. Se in Erwartung il delirare della donna è alla fine giustificato dal ritrovamento del cadavere dell'amato, se in Die glückhche Hand la solitudine dell'uomo è conseguenza della determinazione con cui lotta, Pierrot è la patologia della fantasia perpetuamente sospesa tra velleità di rivincita e nostalgie ai limiti della regressione psichica. L'altalena si conclude con l'immancabile ritorno a casa, una casa che è anche quella di Arlecchino, amante di Colombina. Pierrot ha finito la sua belle époque e torna tra Bembo e Serio a essere Pierrotto. E le sue traversie sono presentate con una ferocia senza limite, sia come condizione disperata dell'involuzione narcisistica, sia come crollo di valori, tanto più tragico quanto più si tratta di valori inesistenti. Il vecchio profumo del tempo delle fiabe, un tempo in cui si raccontava in mi maggiore, è l'ultima immagine, ma sembra piuttosto l'aura premonitrice di un'altra crisi comiziale. In terzo luogo c'è un recupero anche della forma in senso stretto: Mondestrunken non è atematico, poiché viene costruito sul tema di un Lied di Berg (Nacht dai Sieben frühe Lieder) una terza sopra e sul motivo del Naturlaut della Terza sinfonia di Mahler (quarto movimento a 6), e queste due strutture sono poi trattate la prima canonicamente, la seconda in pizzicato ostinato. Valse de Chopin è un valzer lento, Nacht una passacaglia, Mondfleck un canone cancrizzante che conclude con una cadenza sospesa di fa diesis minore, Serenade un altro valzer lento, Heimfahrt una barcarola, O alter Dufi una canzone strofica variata tripartita. La composizione nel suo insieme è polifonica e vi prevale lo stile imitativo. Con Pierror lunaire il ritorno all'ordine è un fatto compiuto e non è impossibile che ciò non sia estraneo al successo sempre incontrato dall'opera.

Un cenno a parte meritano le idee di Webern, studioso della polifonia fiamminga e di Bach come suo ultimo erede. Webern concepisce l'evoluzione musicale come un processo di continuo allargamento del campo, nello spirito della problematica che aveva investito più la scienza che le arti. L'emancipazione della dissonanza e lo sbocco atonale sono una conseguenza del fatto che noi arriviamo a scoprire sempre nuove leggi della natura in rapporto al senso dell'udito, e che esse sono le leggi della musica perché ‟la musica è la natura con le sue leggi in rapporto al senso dell'udito" (v. Webern, 1960; tr. it., p. 23). Egli inoltre ritiene fondamentale il principio di comprensibilità dell'idea musicale. Il musicista deve innanzi tutto ‛farsi capire'. Dunque la sua posizione mette in evidenza che nell'espressionismo confluiscono posizioni teoriche notevolmente discordanti. Questa concezione weberniana spiega anche la ragione per cui l'avanguardia del dopoguerra s'i è richiamata a lui piuttosto che agli altri viennesi. Egli è l'unico del gruppo grazie al quale, in una certa misura, è possibile stabilire un rapporto tra espressionismo e la nuova musica dei giorni nostri, anche senza la mediazione obbligata della dodecafonia. La nuova musica, ricorrendo all'elettronica, realizzando suoni sempre più differenziati nella percussione dei materiali più disparati, è già uscita dal sistema temperato, che i più radicali usano ormai come semplice mezzo di contrasto. Essa si colloca pertanto sulla scia dello sperimentalismo acustico, della psicologia acustica, considerando chiaramente la musica come la natura con le sue leggi in rapporto al senso dell'udito; sul piano strettamente musicale essa deve a E. Varèse, e in una certa misura anche a O. Messiaen, molto più di quanto non debba alla scuola di Schònberg.

7. Poetica dell'espressionismo musicale

L'attività dell'artista è istintiva; poca influenza vi prende la coscienza, ed egli ha la sensazione che ciò che fa gli sia dettato da dentro, che egli lo faccia solo obbedendo alla volontà di qualche forza che è in lui e di cui ignora le leggi" (v. Schönberg, 1911; tr. it., p. 521). Queste parole di Schönberg sintetizzano la poetica dell'espressionismo musicale, anticipando. quelle di Th. H. Hartmann: ‟Il compositore vuole esprimere ciò che in quel momento corrisponde alla volontà della sua intima intuizione. Può facilmente accadere che egli ricorra per necessità a una combinazione di suoni che la teoria contemporanea definisce cacofonica. È chiaro che questo giudizio teorico non può venir giudicato in questo caso un impedimento. L'artista è al contrario costretto a ricorrere a quella combinazione, perché la sua voce interiore glielo impone" (v. Hartniann, 1912, p. 44). L'artista cerca con l'istinto e ciò significa che l'intelletto deve essere considerato un limite alla piena espansione delle capacità creative dell'istinto. Tutte le regole nell'arte in generale, e nella musica in particolare, sono il frutto di operazioni intellettuali. L'artista, affidandosi alla voce interiore che lo guida, non si pone al di qua, ma al di là dei risultati cui è pervenuto l'intelletto. L'istinto supera le costrizioni che l'intelletto ha imposto alla musica proprio perché l'intelletto stesso ha spiegato storicamente la loro opportunità senza tuttavia essere riuscito à dimostrarne la necessità.

L'armonia tradizionale si fonda sul principio della prevalenza dei primi armonici sugli altri. Essi hanno una forza di attrazione insostituibile e questa può anche essere una legge, scoperta dall'uomo a uno stadio di sviluppo della musica, quando più oltre non si poteva andare. Anche altre leggi, come quella di gravità, innegabilmente sono universali. Ma l'uomo avanza e ne scopre di nuove, in un certo senso ancora più importanti - che gli permettono di eluderne altre -, per esempio quella di gravità, vincendo la forza di gravità. Così il compositore scopre che i principi armonici non sono l'ultima riva, ma che si può andare ben oltre; scopre che il senso dell'udito può liberarsi dei presupposti psicologicamente indotti del diatonicismo, dal momento che si è già liberato in passato di altri condizionamenti. Soppresse le funzioni tonali in armonia e gli schemi di modulazione nella melodia, scomparsa la cadenza, a questo punto non ha più senso neppure il tema: l'amorfismo diventa inevitabile. Guida l'attività compositiva una totale libertà, che deve risaltare anche nel rapporto con il testo, rivelarsi nella mancanza di qualsiasi vincolo nella scelta dei suoni. Sono queste le conclusioni cui arrivano Schönberg e Kulbin nei loro articoli in Der blaue Reiter.

L'essenzialità della folgorazione interiore che l'istinto porta alla luce è espressa anche dalla massima concentrazione che si realizza nella mancanza di ripetizioni, nel divieto dell'uso di accordi prefiguranti una tonalità, nella riduzione dei mezzi. Teoricamente si può dare questa spiegazione: la ripetizione di una successione di note costituisce un tema; così pure quella di una stessa nota, perché viene a creare un centro d'attrazione; l'uso di determinati accordi rimanda alle funzioni tradizionali. Il sentimento che esprime se stesso rifiuta l'ambiguità di polisensi, aspira all'unità di verità ed espressione, rinuncia alla ripetizione come elemento indispensabile per la comprensione dell'idea musicale. La verità interiore, che è nello stesso tempo il tutto e un suo frammento, trova nell'aforisma musicale la sua realizzazione più compiuta.

Il processo riduttivo dei mezzi che, antiteticamente all'ipertrofia strumentale dell'ultimo Ottocento, accompagnò l'evolversi dell'espressionismo musicale, non ha invece una elaborazione teorica. Non è difficile tuttavia comprenderlo in questa poetica, ove si consideri che un generale principio di economia è presupposto dalla chiarezza con cui l'interiorità deve essere espressa. Allo stesso principio, anche se qui soccorre la mediazione dell'idea, ubbidisce la Klangfarbenmelodie: non riduzione dei mezzi che producono il suono, ma riduzione e coneentrazione della qualità del suono al solo parametro timbrico.

A. Webern è stato con le composizioni opp. 5, 6, 7, 8, 9, 10, li il più consequenziario assertore, anche in contrasto con certe sue posizioni teoriche, di questa poetica che, per la maggioranza dei critici, trova invece la sua espressione più compiuta nell'op. 19 di Schönberg; essa è originalmente rintracciabile compiutamente in alcuni capitoli del Manuale di armonia e in Der blaue Reiter. Il resto è per lo più un coacervo di generalizzazioni postulate dalle arti visive e dalla letteratura di chi alla scuola di Schònberg o all'espressionismo musicale ha voluto richiamarsi. Si tratta spesso di sovrapposizioni devianti. Non si può parlare della poetica dell'espressionismo musicale, infatti, come di una reazione all'impressionismo, dal momento che in uno dei suoi maggiori rappresentanti, Berg, la lezione di Debussy è più che evidente; e neppure di uomo in rivolta contro l'ordine imperante: la rivolta c'è, ma in termini strettamente musicali. Stato, Chiesa, morale, società, sono tutti chiamati in causa da Wozzeck, vecchio di un secolo: in realtà Berg attira Büchner nell'area espressionista, ed è la condizione dell'uomo di allora che fa di Büchner l'artista della protesta sociale, perché si pensa solo alla sua biografia politica, dimentican-, done l'aspetto scientifico, alla luce del quale egli è probabilmente soprattutto un positivista interessato alle anormalità della psiche, siano esse endogene o indotte, secondo una prospettiva sociologica: l'autore di Woyzeck è anche l'autore de La novella di Lenz. Nemmeno ha senso concepirlo come una sistemazione della categoria dell'eccessivo, del parossistico, del nevrotico, della deformazione cercata, dal momento che gli furono estranei tutti gli atteggiamenti clowneschi dell'espressionismo letterario (Lukács).

Una valutazione estetica positiva della dissonanza si registra non infrequentemente nello sviluppo del linguaggio musicale: nel passaggio dal gregoriano alla polifonia, dissonanze e consonanze sono quasi sullo stesso piano; se non nella stessa misura, il fenomeno si verificò anche quando il cromatismo di Cipriano de Rore e di Gesualdo preparò l'ambiente più idoneo per l'accettazione della nuova legge armonica; d'altro canto essa stessa nel suo costituirsi passò attraverso le arditissime armonizzazioni bachiane dei corali. Particolari rapporti con il testo caratterizzano sempre crisi di crescenza della musica: si pensi alla pratica dell'ochetus, e poi a Petrus de Cruce. Derivare quindi dall'estraniamento o dalla forzatura del testo, come dalla dissonanza, una valutazione dell'espressionismo musicale quale categoria artistica del dolore vuol dire ignorare le originali tecniche protopolifoniche, i mottetti tettonici del Trecento e, sul piano estetico, non fare un passo ‛avanti rispetto ai Problemata di Aristotele.

Se consideriamo infine i diversi atteggiamenti pratici delle più eminenti personalità dell'espressionismo musicale in relazione alla grave crisi dei quindici anni che vanno dal 1930 al 1945, nemmeno una morale comune può essere invocata a caratterizzare dall'esterno questa poetica, che in definitiva è stata, anche nelle sue contraddizioni, la più coerente, la più individualisticamente e la meno socialmente impegnata delle poetiche del sentimento in ambito musicale, e che risente soprattutto del fatto di essersi maturata in un periodo in cui gli intellettuali della Mitteleuropa si immergevano nella grande scoperta del secolo, la psicanalisi, cercando di risolvere nei suoi meandri o nelle varie psicologie del profondo che ne derivarono i loro insolubili problemi.

8. Considerazioni conclusive

L'espressionismo musicale, come l'espressionismo in genere, è stato considerato innanzi tutto il punto d'approdo del romanticismo e secondariamente, in questo contesto, un tratto caratteristico dell'arte dell'Occidente, un movimento spontaneo di protesta contro la società capitalistica e il suo ordine a livello della sovrastruttura, una propaggine del decadentismo, una corrente il cui antinaturalismo è di origine schizotimica.

La polemica che si sviluppò tra marxisti a proposito di quello letterario lo coinvolse di fatto. A. Seghers prima ed E. Bloch poi si opposero a Lukács che vedeva il movimento come un fenomeno di decadenza e di imputridimento dell'arte borghese; in particolare Bloch sostenne che l'espressionismo aveva condotto una battaglia umanistica contro l'arte accademica, per una maggiore apertura verso il popolare e il primitivo e che perciò, sotto questo proffio, si era presentato come un movimento d'avanguardia pur nell'ambito del capitalismo morente, un movimento che anticipava certe evoluzioni della sovrastruttura. Anche se parte da premesse diverse, Adorno giunge sostanzialmente alle stesse conclusioni. Ma l'affermazione di Bloch che ‟l'espressionismo non manifestò mai una boria aristocratica, al contrario: Der blaue Reiter riprodusse le pitture su vetro di Mornau, scopri per primo questa commovente e demoniaca arte contadina, i disegni dei bambini e dei carcerati, gli sconvolgenti documenti degli alienati, l'arte dei primitivi" (v. Bloch, 1962, p. 272), comunque la si voglia giudicare, certamente non si attaglia all'espressionismo musicale. Der blaue Reiter pubblicò 144 fotografie, 55 delle quali rappresentano opere di impressionisti, di espressionisti o comunque di contemporanei; le rimanenti 89 si riferiscono: 17 all'arte esotica, 23 a quella primitiva, 25 a un'arte popolaresca, 9 a disegni infantili, 4 a disegni di soggetti manifestamente patologici e lì a prodotti artistici antichi o medievali. La scelta, partitamente, dice ben poco: l'esotismo è caro agli impressionisti, il primitivismo ai fauves, i disegni degli alienati cominciarono allora a uscire dall'ambito scientifico per entrare nella moda. Ma questi elementi vanno valutati nell'insieme e soprattutto nel contesto dell'articolo di Kandinskij in Der blaue Reiter, Ûber die Formfrage, ove viene rienunciata la poetica pascoliana del fanciullino, con il diavolo sullo sfondo, e la parola d'ordine esorcizzante: ‟lasciate che i fanciulli vengano a me, perché di essi è il regno dei cieli" (v. Kandinskij, Über die..., 1912, p. 94). Tutto ciò lascia molti dubbi che si possa trattare di una posizione d'avanguardia. In secondo luogo, esso è intenzionalmente aristocratico, e infatti non lo tradiscono, anche quando lo dichiarano superato, coloro che all'ideale aristocratico rimangono saldamente attaccati: Schönberg, Berg, Webern. In questo senso, quasi nello spirito delle Intempestive nietzschiane, può essere considerato una corrente antiborghese. Come è potuto accadere che il pensiero aristocratico di Hobbes sia o possa essere valutato oggettivamente più avanzato del pensiero borghese di Locke, in quanto ai rappresentanti della vecchia classe dirigente non fanno schermo le illusioni che accompagnano una classe al suo emergere, così i traguardi raggiunti dall'espressionismo musicale sono stabilmente acquisiti ‛solo' dalla coscienza musicale più evoluta, perché essa è ‛la sola' in grado di afferrare che a livello della sovrastruttura gli attacchi allo status quo e le demolizioni sono condotti anche inconsapevolmente dagli intellettuali della classe dirigente. Le cosiddette classi subalterne, con la loro cultura, non hanno niente su questo piano da contrapporre che non sia rurale e conservatore e perciò inutilizzabile. E quindi errato anche il giudizio di coloro che, come Lukács, Vogeler e Balázs, insistono sul carattere piccolo borghese della rivolta espressionista.

Fu definito arte degenerata dai nazisti che lo coinvolsero nella condanna dell'espressionismo pittorico e letterario: le argomentazioni teoriche dei lor'o ideologi non si discostano da quelle dei neoclassicisti. A tutt'oggi è avversato nell'URSS perché nella vasta libertà compositiva che caratterizza le opere dei suoi rappresentanti non si prefigura alcun interno ordinamento gerarchico, quale invece l'ideologia ufficiale di quel Paese, avendo abbandonato la teoria marxista dell'estinzione dello Stato, tende a esaltare, quasi dato di fatto metafisico, nelle poetiche del realismo socialista.

Il Novecento vive grandi conquiste musicali che non si sono ancora probabilmente concluse. L'espressionismo musicale è, al di fuori dell'ideologismo con cui è stato aggredito e mistificato, la prima importante manifestazione del processo di rinnovamento del linguaggio musicale moderno. Ne costituisce la pars destruens, con tutti i limiti e le contraddizioni che una tale pratica comporta. Risultante quintessenziata della cultura musicale mitteleuropea, anche con il suo provincialismo teoretico, ci appare oggi come la più coerente manifestazione del romanticismo piuttosto che il suo punto d'approdo.

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