Etica medica

Dizionario di Medicina (2010)

etica medica

Gilberto Corbellini

Storia dell’etica medica

I principi e i valori che, sin dall’antichità, hanno governato la pratica professionale della medicina (attraverso i giuramenti e i codici deontologici) obbligavano il medico ad agire sempre per il massimo beneficio del paziente, vietando qualsiasi intervento che potesse arrecargli danno o che andasse contro i valori morali prevalenti nella società. Naturalmente, i contesti culturali erano diversi, quindi anche i criteri e i valori. L’etica medica antica metteva l’accento sul carattere e le virtù richieste al medico che esercitava l’arte. Egli doveva avere un certo portamento, che ne definisse il profilo o stile professionale (etichetta), includendo l’essere in buona salute, non sovrappeso, allegro, sereno, riservato ma deciso, ed educato.

Il giuramento di Ippocrate e i codici deontologici

Il cosiddetto giuramento di Ippocrate, le cui prescrizioni nell’antichità vincolavano comunque solo la setta dei medici ippocratici, e i codici professionali dei medici hanno rappresentato sino a metà del 20° sec. gli unici riferimenti etici normativi per il medico: in tal senso le sole garanzie per i pazienti circa la correttezza e la benevolenza del medico erano rappresentate dal controllo esercitato dalla stessa comunità medica attraverso la selezione professionale. I codici deontologici definivano solo regole di comportamento che, tuttavia, sino a quando la medicina non venne in possesso di rimedi e metodi di ricerca davvero efficaci, funzionarono relativamente bene come guide per una condotta moralmente corretta. Dall’11º sec. l’etica medica occidentale adottò i valori morali della religione cattolica, e l’accento si spostò sui doveri e i principi cui un buon medico deve ubbidire, ossia sulla dimensione professionale. Nel Medioevo si fece strada il concetto pragmatico che la pratica della medicina fosse un privilegio che richiedeva formazione e abilità, e che quindi implicasse responsabilità, nonché il principio che il medico dovesse prendersi cura anche dei casi gravi o senza speranza, cosicché l’imperativo di prolungare la vita diventava una responsabilità medica.

L’etica medica e il metodo sperimentale

Nell’età post-illuminista l’etica medica acquisì i temi legati ai rapporti tra medico e società, per includere problemi di giustizia, professionalità e politica sanitaria. Con l’avvento del metodo sperimentale e l’emergere della figura del medico-ricercatore, ossia quando la medicina cominciò a disporre di trattamenti davvero efficaci e di un potente metodo di ricerca in grado di migliorare le conoscenze sulla funzionalità normale e patologica dell’organismo, le regole precedenti si rivelarono inadeguate a evitare la contaminazione ideologica della medicina e a rappresentare le ambizioni dei ricercatori a guadagnarsi un prestigio scientifico attraverso la sperimentazione sull’uomo.

Dal Codice di Norimberga alla Dichiarazione di Helsinki

L’evento traumatico che determinò una svolta nell’etica medica fu la scoperta dei crimini commessi dai medici nei campi di concentramento nazisti. Questi medici giustificavano la loro condotta immorale richiamandosi al dovere del medico di ubbidire, come gli altri cittadini, alle leggi dello Stato e al principio utilitaristico secondo il quale, durante un conflitto, la ricerca deve anteporre gli interessi della società a quelli del singolo. Nel corso del dibattimento processuale contro i medici nazisti emerse che anche al di fuori della Germania erano state condotte sperimentazioni su soggetti umani, contrari a un’etica rispettosa dei diritti fondamentali della persona. Ciò indusse il tribunale di Norimberga, chiamato a giudicare i crimini del nazismo, a includere nella sentenza un decalogo etico per ogni ricerca clinica su soggetti umani. Il Codice di Norimberga (1947) affermava innanzi tutto che il «consenso volontario» era il presupposto «essenziale» per una condotta moralmente accettabile della sperimentazione con soggetti umani. Nel 1948 venne votata dall’Associazione medica mondiale la Dichiarazione di Ginevra, che aggiornava in chiave laica i contenuti del giuramento di Ippocrate e impegnava il medico a non utilizzare, nemmeno «sotto costrizione», le sue conoscenze contro le leggi dell’umanità. Ma nemmeno questi vincoli e impegni solenni bastarono a evitare che maturassero nuovi conflitti tra le istanze della ricerca biomedica e quelle della società. L’Associazione medica mondiale ribadiva, nella Dichiarazione di Helsinki del 1964 (accettata con qualche resistenza da una parte della comunità medica statunitense), il concetto che solo il consenso esplicitopoteva giustificare moralmente la ricerca sui soggetti umani e che «nella ricerca medica gli interessi della scienza e quelli della società non devono mai prevalere sul benessere del soggetto».

La centralità del soggetto in cura

A partire dagli anni Sessanta del 20° sec. alcuni teologi e filosofi morali cominciarono a mettere in discussione la possibilità che un’etica medica basata sui principi morali dei codici deontologici potesse assicurare il rispetto dei diritti individuali delle persone. Per i filosofi morali, e per molti teologi e giuristi, i medici potevano legittimamente reclamare una competenza sui fatti della scienza medica, ma non sul riconoscimento dei principi etici e dei valori che dovevano guidare le scelte. In particolare, i valori del paziente dovevano essere considerati decisivi, e questi doveva essere trattato come persona capace di scelta autonoma: in tal senso, qualsiasi tentativo del medico di ampliare la sua competenza scientifica era giudicato un errore morale di paternalismo. La nuova etica biomedica, o bioetica, si sviluppava in quegli anni soprattutto a partire dai presupposti filosofico-giuridici del consenso informato e dalla possibilità che il paziente avesse il diritto di rifiutare, sulla base del proprio sistema di valori, il trattamento terapeutico.

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