Etica

Dizionario di filosofia (2009)

etica


Termine introdotto da Aristotele per designare le sue trattazioni di filosofia della pratica; indica quella parte della filosofia che si occupa del costume, ossia del comportamento umano. Salvo che in alcuni filosofi (per es., in Hegel), e. è sinonimo di morale, in quanto i due termini si riferiscono alla disciplina che si occupa del «Costume» (gr. ἦϑος; lat. mos). In senso ampio, l’e. può essere intesa come quel ramo della filosofia che si occupa di qualsiasi forma di comportamento umano, politico, giuridico o morale; in senso stretto, invece, l’e. va distinta sia dalla politica sia dal diritto, in quanto ramo della filosofia che si occupa più specificamente della sfera delle azioni buone o cattive e non già di quelle giuridicamente permesse o proibite o di quelle politicamente più adeguate.

La nascita dell’etica nel mondo antico

In senso propriamente filosofico, l’e. sorge nel mondo classico quando cade la fede nell’esistenza di norme obiettive, dettate dalla religione o dal costume, e cioè con la sofistica, che sostituisce a tale fede l’idea della legge come posta dall’uomo, e quindi dall’uomo stesso risolubile, così che non c’è norma d’azione che non sia imposta o accettata per un vantaggio. Sofisti come Prodico, Ippia, Antifonte, Trasimaco misero in luce le contraddizioni dell’e. tradizionale, sottolineando l’origine umana e non divina dei valori riconducibili all’imposizione o dello Stato o di gruppi di cittadini più forti. I sofisti, in contrasto con l’opinione più diffusa, sostennero anche la tesi dell’insegnabilità della virtù e si impegnarono a elaborare particolari tecniche retoriche rivolte a ottenere la persuasione a proposito della superiorità di determinati valori. A sofisti come Ippia si può fare risalire la contrapposizione tra la legge, espressione del potere prevalente in una determinata società, e una più profonda morale recuperabile con l’appello alla vera natura dell’uomo. Il relativismo che stava a fondamento della morale dei sofisti fu messo in discussione da Socrate, considerato il fondatore della scienza etica. Secondo Socrate la ricerca filosofica si deve volgere a ciò che può essere considerato universalmente come bene. L’universale, scoperto da Socrate, è essenzialmente l’universale etico, e cioè propriamente i concetti con cui principalmente si regolano e giudicano le azioni. Socrate insegna che il vero vantaggio coincide con il vero bene, e cioè che il bene dell’individuo si risolve necessariamente nel bene universale. Il cosiddetto intellettualismo etico di Socrate (cioè il concetto che chi conosce il bene lo fa, e chi non lo fa agisce in tal modo non per libera scelta ma per ignoranza del vero bene) va inteso non tanto come teoria di un conoscere che determina irresistibilmente l’azione, quanto come teoria che non intende sovraordinare l’intelletto alla volontà, la conoscenza del bene alla realizzazione di esso, bensì rilevare che autentica conoscenza del bene è solo quella che è già per sé stessa amore e volizione del bene, e non inerte contemplazione di esso.

Platone

Tra i socratici, chi meglio capì l’insegnamento del maestro, nel suo moralismo rigoroso e insieme nel suo concreto senso eudemonistico della vita, fu Platone, per il quale il problema morale restò al centro di tutta la filosofia. Ma il concetto socratico trapassò nell’«idea», divenendo forma non più soltanto del mondo umano ma anche di quello naturale; e così l’originaria unità del teorico e del pratico si ruppe, e ne nacque l’interna tragedia dell’e. platonica. Da una parte, la concezione dell’idea come fine dell’azione conservò un’importanza tale da presentare tutto il sistema delle idee come piramide di specificazioni progressive della idea suprema del bene e da orientare verso di esso teleologicamente il mondo e, dal punto di vista delle passioni, l’uomo, il quale viene spinto dal miglior ἒρος a una sempre maggiore attività contemplativa delle idee. Ma, dall’altra, questa contemplazione delle idee si presentò anche nell’aspetto dell’unico sapere vero, che l’anima può raggiungere solo quando si stacca dal regno della fallace opinione, cioè del senso e del corpo; e respinge quindi da sé tutto quel mondo affettivo che, legandola alle cose, ne distrae lo sguardo dalla visione della perfetta verità. E il contrasto si acuiva, assumendo forma sistematica, nella concezione psicologica che contrapponeva, nell’anima, la parte razionale, sede della conoscenza, a quella irrazionale, sede degli affetti, a sua volta divisa nella sfera degli impulsi (ϑυμοειδές) e in quella dei desideri (ἐπιϑυμητικόν); concezione confermata dalla teoria politica della tripartizione dello Stato, che a essa si conformava. Dall’accentuazione di uno dei termini dell’antitesi nacque il ripiegamento platonico sull’antica escatologia orfico-pitagorica, negatrice della vita presente per una vita oltremondana; la vita divenne studium mortis, distacco progressivo dal corpo dell’esule anima immortale, che nell’iperuranio aveva già contemplato le idee e ora, ricordandosene, aspirava a ritornarvi.

Aristotele

A tale estremo non giunse Aristotele, che, non accettando la dimostrazione platonica dell’immortalità dell’anima, serbò la sua e. nei limiti di questo mondo. Ma il dualismo del teoretico e del pratico si ripeté egualmente in lui, ed ebbe un riconoscimento esplicito nella distinzione delle virtù etiche dalle dianoetiche (➔), le prime destinate a sovrintendere la vita degli affetti e delle passioni, le altre quella, più altamente umana, della ragione, confermando la superiorità del teoretico rispetto al pratico, del conoscere rispetto al fare. L’ampia trattazione etica di Aristotele fu rivolta a fondare il bene non tanto su un’idea di perfezione assoluta, quanto piuttosto su una definizione della natura propria dell’uomo. Fine supremo della condotta umana è la felicità (eudemonismo), che potrà essere raggiunta adeguando il comportamento alle esigenze tipiche della natura umana. Una volta colto il carattere essenzialmente razionale dell’uomo, Aristotele ne deriva la conseguenza etica di indicare la felicità nella vita secondo ragione. È solo con il prevalere delle facoltà razionali e con la realizzazione delle virtù dianoetiche (quali la sapienza, la scienza, l’intelletto, l’arte, la saggezza) che l’uomo può essere felice. Aristotele riconosce del resto che gli uomini non sono sempre guidati dalle facoltà intellettuali, ma che spesso sono anzi prevalenti in essi gli impulsi sensibili. Tuttavia, anche quando sono gli impulsi sensibili a determinare le scelte, è possibile indicare una forma di comportamento virtuoso. Avremo infatti le diverse virtù etiche (per es., il coraggio, la temperanza, la liberalità, la mansuetudine) che consistono nel dominare i diversi impulsi sensibili secondo un criterio del «giusto mezzo» che esclude gli estremi, viziosi o per difetto o per eccesso. Aristotele riconosce un ruolo privilegiato alla giustizia, che in quanto «conformità alla legge» è la perfezione della virtù.

Edonismo e rigorismo

Anche nell’etica postaristotelica resta ferma la tendenza a identificare il bene supremo per l’uomo nel raggiungimento della felicità. Aristippo di Cirene interpretò la qualificazione socratica del bene come assolutamente desiderabile nel senso che tutto quanto piacesse fosse anche buono; di qui la sua e. prettamente edonistica (➔ edonismo), che nel seguace Egesia precipitò poi in pessimismo. L’edonismo instaurato da Epicuro fu invece anzitutto esigenza di liberazione dell’uomo dal timore di superiori fini, o volontà, che dominassero il mondo: attribuì agli dei, in nome della loro perfezione, una beata inerzia e disinteresse, e concepì la natura, per poterne escludere ogni elemento teleologico, sullo schema dell’atomismo democriteo, cercando insieme di evitare, con la teoria della casuale deviazione degli atomi, la ferrea necessità meccanica in cui quello veniva a cadere. Epicuro cercò di affrancare l’uomo dal terrore della morte, insegnandogli che non avrebbe mai potuto averne percezione reale, perché quando essa ci fosse stata, non ci sarebbe stato più lui a sentirla. L’uomo restava così pienamente libero, slegato dalle cose; correlativamente il piacere veniva a consistere in una tranquilla e contenta calma dell’animo, pago di sé e non spinto a uscire da sé per occuparsi del mondo. Questo ascetismo edonistico degli epicurei finiva così per coincidere, nel suo ideale di «atarassia» (➔), con l’ideale di «apatia» e di «indifferenza» proprio di quell’ascetismo rigoristico dei cinici, che nelle sue premesse teoriche e storiche gli era invece nettamente antitetico. Anche questo rigorismo, o ideale dell’αῢτάρκεια «autosufficienza», e l’altro ideale, da esso dipendente, dell’ἀδιαφορία «indifferenza» (che, togliendo agli oggetti dell’esperienza ogni calore affettivo, impedisce loro di scuotere l’animo dal suo immoto equilibrio), nacquero da un’interpretazione unilaterale dell’ideale socratico dell’αῢταρχία «autogoverno». Il cinismo assicurava così all’uomo la più completa libertà; ma, al tempo stesso, affrancandolo da ogni motivo d’azione, gliela rendeva perfettamente inutile. A questa teologizzazione cinica dell’io reagì lo stoicismo, pur nell’accettazione dell’ideale cinico dell’autarchia e dell’indifferenza, in quanto panteisticamente vide nel mondo stesso il divino e nell’accadere il realizzarsi di un fato (➔) razionale, che nulla poteva alterare e di fronte a cui non restava se non la virtù dell’accettazione. Col neoplatonismo, infine, si ebbe una ripresa di motivi tipici dell’e. platonica, ma con un’accentuata impronta mistica: la dottrina delle virtù è così trasfigurata in funzione dell’ideale dell’ascesi (ricongiunzione con Dio), che, pur includendo come suoi momenti l’amore e l’arte, culmina tuttavia nell’ineffabilità dell’estasi.

L’etica cristiana

Su una concezione religiosa nuova si fonda l’e. cristiana: essa è dominata dall’idea della paternità di Dio, innanzi al quale gli uomini sono tutti eguali e tutti fratelli; Egli è creatore buono e padre misericordioso, che non commisura la sua longanimità ai meriti umani, ma «fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» aprendo a tutti le porte del suo regno. L’ideale etico sta tutto nell’attingere la perfezione stessa di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il padre vostro che è nei cieli» (Matteo 5, 48). Ma questo richiamo alla suprema perfezione non esprime un aristocratico e individualistico ideale, ma si traduce in un comandamento di amore per gli altri: «amatevi l’un l’altro come io vi ho amato». Si affermava così la nuova e. cristiana che, inserita in un messaggio di universale riscatto, fa cadere ogni distinzione etnica e sociale, e scopre una nuova dignità dell’uomo, chiamando anche gli umili, gli ignoranti, i peccatori al più alto ideale di perfezione morale. A fondamento della nuova e. è posto l’esempio del sacrificio di Cristo, e, proprio in rapporto all’evento della croce, Paolo di Tarso sviluppa una decisiva motivazione dell’e. cristiana: quella della fede, per cui l’uomo va considerato giusto davanti a Dio non in base all’osservanza della legge, ma in base alla sua fede in un Dio che offre indistintamente a tutti gli uomini («giudei e greci») la salvezza. Inserendosi nella civiltà del mondo ellenistico, il cristianesimo doveva necessariamente misurarsi con la cultura greca e ne assorbì motivi essenziali per adeguarli alla nuova concezione della vita e del mondo. Come nel campo della speculazione teologica, così in quello dell’e. il cristianesimo fece propri, in un primo momento, i motivi centrali del platonismo: il richiamo all’interiorità, alla trascendenza e all’ascetismo. Ma questi, pur esprimendosi, come nei padri greci e in Agostino, in termini del linguaggio platonico, assumono ora un nuovo significato: nell’«uomo interiore» il cristianesimo scopre non il ricordo di una forma immutabile, ma l’immagine stessa del Dio creatore, il quale è presente a ciascuno con la luce dell’intelletto e della grazia. Nell’e. cristiana dei primi secoli, esemplificata da Agostino e da Origene, prevale un orientamento svalutativo della realtà mondana, ereditato dal neoplatonismo. Agostino mette in primo piano il problema della salvezza, che è dono della grazia divina; ma poiché la salvezza è un fatto interiore, l’e. cristiana si concentra sulle condizioni soggettive e interiori dell’azione morale, cioè sulle intenzioni piuttosto che sugli effetti. Successivamente, Tommaso d’Aquino, proponendo anche sul piano etico la sua grande sintesi tra cristianesimo e aristotelismo, costruirà uno dei primi completi sistemi di e. cristiana. Tommaso pone nell’intelletto la radice della libera scelta della volontà (che è un «appetito razionale»): a esso spetta la conoscenza del bene, fine cui tende ogni essere razionale, e dei mezzi per raggiungerlo. Viene così affermato il netto primato dell’intelletto sulla volontà, in quanto l’intelletto è il fondamento della libertà e ogni atto libero è connesso con un giudizio. L’e. presuppone la presenza nel soggetto di «abiti» e fuori da esso della legge divina; un’impronta di quest’ultima è presente in ogni individuo, ed è la legge naturale («lex naturalis nihil aliud est quam partecipatio legis aeternae in rationali creatura») i cui principi l’uomo scopre grazie alla ragione. Questa e. naturale, per la sua intrinseca tensione verso il bene, trova il suo completamento nell’e. cristiana della redenzione, in quanto l’insegnamento morale dei filosofi trova il suo pieno completamento nell’accettazione volontaria dell’autorità di Dio.

Umanesimo e Rinascimento

Nell’Umanesimo e nel Rinascimento l’accentuarsi degli interessi civili, la polemica contro aspetti della spiritualità medievale (in partic. contro l’ascetismo), la rivendicazione di un fare politico autonomo rispetto alla legge morale, il ritorno ai filosofi antichi, riportano al centro delle discussioni sull’uomo e sul suo comportamento temi dell’e. classica, soprattutto aristotelica e postaristotelica (epicurea), mentre in campo teologico le controversie dell’età della Riforma spostano la speculazione etica sui temi della grazia e della predestinazione. Nel Rinascimento, mentre l’e. cristiana, fuori delle discussioni teologiche, vive in molti movimenti di pietà popolare e nell’esperienza di grandi mistici, l’orientamento della cultura fuori della Chiesa verso un deciso soggettivismo e un coerente empirismo indirizza il pensiero morale a una concezione individualistica ed edonistica. Ne è un esempio l’esaltazione della virtus come attività puramente umana e civile, che accetta i limiti terreni e si distacca da ogni preoccupazione metafisica: l’affermazione di questa virtus è alla base di ogni celebrazione umanistica della dignitas hominis, e trova il suo massimo riconoscimento in Machiavelli, che stacca l’azione politica da quella morale; un ulteriore esempio è offerto dalla fortuna dell’edonismo epicureo, da Valla ai libertini del Cinquecento e Seicento. La condotta dell’uomo è oggetto di un’accurata, ed essenzialmente pessimistica, analisi da parte dei grandi moralisti francesi del Cinquecento e Seicento (Montaigne, Charron, La Rochefoucault, e anche Pascal) che mettono in luce la fondamentale fragilità della natura umana e il relativismo di valori profondamente condizionati dalla «coutume», cioè dalla cultura e dalla società.

Seicento

Con Cartesio si fa strada l’idea di una descrizione scientifica delle «passioni dell’anima», e dunque del comportamento umano, secondo il modello meccanicistico proprio della scienza moderna. All’orientamento meccanicistico e neoepicureo reagirono in Francia Pascal e i giansenisti, rinnovando l’e. cristiana pensata da Agostino. In Inghilterra, Bacone lasciò l’e. fuori dalla sua riforma del metodo scientifico; al centro della sua riflessione troviamo invece il tema dell’impegno nel mondo dell’uomo, che vede aprirsi prospettive nuove, e forse illimitate, grazie ai progressi della scienza e alle applicazioni tecniche. Il tema di una legge universale (la legge di natura intesa come dettame della retta ragione) e della ricerca del bene sociale ritorna nelle opere sul diritto naturale di Grozio e Pufendorf (➔ giusnaturalismo). La legge naturale, al cui interno è difficile distinguere per questi pensatori le componenti morali da quelle giuridiche, viene considerata come fornita di un’evidenza analoga a quella delle verità matematiche e in entrambi i casi la ragione umana ne ha conoscenza a priori. Mentre per Grozio la natura è la fonte di leggi che hanno una validità assoluta, in base alle quali sarà poi possibile valutare le leggi positive emanate dallo Stato, diversa è la soluzione prospettata da Hobbes. Per il filosofo inglese nella natura umana l’impulso più forte è quello della ricerca della propria conservazione e del proprio utile, mentre non è riscontrabile alcuna spontanea spinta altruistica («homo homini lupus»). Gli obblighi morali, non riconducibili alla tendenza individuale al piacere, sono quindi il risultato delle imposizioni di una forza, quella del sovrano, che mira, attraverso le norme da lui imposte, alla conservazione dell’ordine e della pace. Contro la dottrina di Hobbes presero posizione gli esponenti della scuola neoplatonica di Cambridge (in partic. Cudworth e More) insistendo sull’assolutezza dei valori etici. Ancora in contrasto con Hobbes, Cumberland pone al fondo della vita etica una ricerca del «bene comune di tutti» suffragata da sanzioni divine. La tendenza alla propria conservazione viene posta al centro dell’e. anche da Spinoza, per il quale tutte le valutazioni umane che non riconoscono e accettano l’ordine razionale necessario del mondo sono insignificanti e l’uomo virtuoso, come il saggio stoico, deve proporsi di dominare le passioni e seguire la ragione. Compito etico dell’uomo è, dunque, fare consapevolmente quello che non potrebbe non fare perché determinato dalla necessità naturale. Per Locke l’obiettivo delle norme etiche, che si formano in relazione a esperienze di piacere e di dolore, è quello di permettere la conservazione della società e di garantire il rispetto reciproco delle libertà e dei diritti fondamentali dell’individuo.

Settecento

Edonistica e individualistica fu – anche nel secolo successivo – l’e. dell’empirismo inglese, da Hume fino all’utilitarismo etico di Adamo Smith, orientamenti tutti che cercano, nell’esaltazione dell’individuo e della sua particolare volontà, il fondamento autonomo della morale contro l’universalità di una legge metafisicamente fondata. In Inghilterra, alla riduzione soggettivistica e utilitaristica dell’imperativo morale reagì l’e. del sentimento di Shaftesbury e di Hutcheson, che nell’atteggiamento morale vede l’espandersi di un’innata tendenza altruistica (benevolenza), nella quale essenzialmente è fatto consistere il «senso morale». L’idea di questa armonia naturale passa dall’e. all’economia: proprio quegli impulsi individualistici messi in luce da Hobbes diventano, in Smith e in Mandeville, il meccanismo del funzionamento della società civile moderna che ricava la sua spinta a espandersi dall’incastro, ben regolato, degli interessi egoistici. Per Mandeville sono proprio i «vizi» che l’e. vuole reprimere (per es., l’amore per il lusso) a dare origine a una ricchezza e a un benessere che finiscono con il riversarsi su tutti i membri della società. Su questa linea proseguono gli esponenti dell’Illuminismo francese, che contro qualsiasi e. spiritualistica fanno valere una ricerca attiva del piacere e la necessità di un comportamento che adatti l’individuo alla vita sociale (in partic. La Mettrie, Helvétius, Holbach e Montesquieu). Un analogo rifiuto della morale tradizionale si trova in Rousseau, che contro un’e. razionalistica e individualistica auspica una morale liberatoria fondata sui sentimenti e soprattutto sulla pietà naturale (o compassione). Rousseau riprende il tema hobbesiano della completa artificialità delle leggi e dello Stato, ma ne ribalta il significato e indica la soluzione in un richiamo alla natura umana, buona e innocente, che viene corrotta dalla vita in società.

L’etica kantiana

Una decisa reazione contro l’e. utilitaristica viene da Kant. Egli osservò anzitutto che il mondo della natura, oggetto della conoscenza che ne pone le leggi, esclude da sé quella libertà che pure deve postularsi alla base del mondo morale, oggetto della ragione pratica, affinché questo possieda senso e valore. Realtà morale può quindi esserci solo quando la volontà sia, nella sua azione, determinata da un imperativo categorico, e cioè voluto assolutamente e di per sé, senza alcun riguardo ad altri fini. Questa autonomia e assolutezza della legge morale è, per Kant, il segno della sua universalità, del suo carattere a priori. Apriorismo e rigorismo sono così, nell’e. kantiana, coessenziali: e ne nascono anche le sue più gravi difficoltà. Evidenti apparvero subito quelle del rigorismo, il quale veniva a porre l’uomo contro sé stesso, vagheggiando l’ideale etico dell’uomo in perenne combattimento contro le passioni. Tale difficoltà fu del resto avvertita da Kant stesso, che cercò di superarla postulando l’esistenza di un’altra vita e di Dio, come principio del sommo bene, nel quale virtù e felicità, perennemente dissociate nella vita terrena, venissero a coincidere. La filosofia postkantiana approfondisce questi problemi, ora accentuando il concetto di autonomia della morale, ora tornando a un’idea oggettivistica dell’e.: così nell’idealismo etico di Fichte trova pieno sviluppo il concetto kantiano di libertà, ponendo come suprema norma etica l’obbedienza alla pura convinzione razionale della propria coscienza; Hegel invece, in polemica col soggettivismo romantico e il rigorismo kantiano, vede il superamento della moralità individuale nell’eticità che lo Stato incarna e alla quale il soggetto deve sottostare se vuole elevarsi, sopra la sua singolarità, alla sfera dell’ἧϑος. Per Hegel quindi moralità indica l’aspetto soggettivo della condotta umana (per es., le intenzioni e le disposizioni interiori), mentre eticità indica l’insieme dei valori e delle istituzioni realizzati nella storia; forme di eticità sono la famiglia, la società civile e lo Stato.

L’Ottocento

Vari, e in polemica contro alcune tesi centrali dell’e. idealistica e hegeliana in partic., furono gli orientamenti della riflessione posteriore. Kierkegaard sostenne l’irriducibile individualità della scelta etica, contrapponendo poi la sfera della vita morale, caratterizzata dalla continuità e dall’impegno per l’universalità, alla vita estetica, dominata dal caso, e alla vita religiosa, come «scandalo» e superamento della dimensione della società. In senso antihegeliano Schopenhauer presentava una morale in netta antitesi con la storia e la società: fine della condotta etica non è l’integrazione nella tradizione, ma piuttosto la negazione completa dei bisogni naturali fino all’annullamento di ogni desiderio e al più completo ascetismo. Marx, dopo avere affermato, in un primo periodo, una morale «umanistica» che riconosceva un valore etico fondamentale al lavoro, giunse a preoccuparsi principalmente di mostrare con le sue analisi (anche in collab. con Engels) la natura sovrastrutturale dell’e. vista non tanto come dipendente da scelte individuali, quanto come espressione degli interessi della classe dominante e come strumento di mistificazione e di camuffamento in termini spiritualistici dei suoi obiettivi sostanzialmente economici. Infine Nietzsche contro i valori, accettati dall’e. cristiana e socialista dell’altruismo, del livellamento, della sottomissione, propone una scelta «im­moralistica» in nome della volontà di potenza, dell’autoaffermazione e della completa liberazione degli istinti. Di natura completamente diversa è lo sviluppo della riflessione sull’e. nella cultura inglese, in cui prevale l’accettazione del principio utilitaristico che vede la condotta morale nella realizzazione della maggiore felicità per il maggiore numero di persone. All’interno dell’e. utilitaristica del 19° sec. si tenta principalmente di determinare con maggiore precisione il calcolo dei piaceri richiesto dalla applicazione del principio fondamentale dell’utilitarismo. Così, mentre con Bentham prevale una concezione puramente quantitativa del calcolo dei piaceri, con J.S. Mill i piaceri vengono distinti non solo per la loro intensità ed estensione, ma anche per la loro qualità. Alla seconda metà del 19° sec. risale il tentativo di Spencer di utilizzare il modello evoluzionistico per rendere conto anche della condotta morale degli uomini. L’insieme dei valori etici viene così visto come uno strumento adottato dagli uomini nelle varie epoche nel tentativo di adattarsi sempre meglio alle condizioni vitali. La stessa coscienza del dovere morale non è altro che il residuo nell’individuo dell’esperienza acquisita dalla specie in questo processo di adattamento. Nella cultura francese troviamo invece, con Comte, la proposta di applicare nelle analisi della morale gli stessi metodi delle scienze fisiche. Questa impostazione positivistica porta Comte a concludere che la condotta morale è quella che tende all’utilità pubblica, che il sentimento dell’eticità è quello della solidarietà e che lo strumento per un’educazione morale è la sociologia.

Novecento

L’eredità di Comte è al centro dell’opera di Durkheim, rivolta a costruire una scienza della morale come «scienza dei costumi», mentre l’inservibilità dei metodi delle scienze fisico-matematiche nello studio dei fenomeni morali fu af­fermata da Windelband, Rickert e Weber. Nella riflessione filosofica del 20° sec. l’obiettivo di proporre una ben precisa tavola di valori passa in secondo piano, rispetto al tentativo di caratterizzare le condizioni proprie dell’esperienza morale. Bergson distingue tra due diverse forme di morale, quella chiusa, rivolta al mantenimento delle abitudini che permettono la conservazione della società, e quella aperta, caratterizzata dall’entusiasmo creativo dei grandi innovatori quali i profeti e i santi. Per quanto riguarda i neoidealisti italiani, Croce si preoccupa principalmente di distinguere l’ambito dell’e. come volizione dell’universale da quello dell’economia come volizione dell’individuale, mentre Gentile indicherà nell’attività creatrice autonoma propria dello spirito una completa congiunzione tra teoria e pratica, giungendo così a identificare la morale con la conoscenza. Nell’opera di Scheler si ha una rigorosa applicazione del metodo fenomenologico all’ambito della morale con l’affermazione dell’esistenza di un’intuizione emotiva immediata come fondamento di ogni scelta etica. Di fronte a questa intuizione si presentano valori assoluti organizzati gerarchicamente in una scala che nasce dalla tensione tra risentimento e amore. Anche secondo Hartmann nella vita etica è in gioco un peculiare tipo di sentimento assiologico che permette di cogliere direttamente gli ideali morali. A ricostruire la genesi psicologica della morale sono rivolte alcune analisi di Freud; i valori morali sono visti come l’interiorizzazione da parte dell’individuo di regole repressive degli istinti e delle pulsioni. D’altro canto Freud riconosce nel processo di sublimazione da cui nasce la condotta morale individuale un elemento essenziale per la genesi della ‘civiltà’. Uno stretto collegamento tra vita etica e scelta viene affermato dagli esponenti dell’esistenzialismo; una scelta aperta verso il recupero dei valori cristiani in alcuni esponenti dell’esistenzialismo religioso come Marcel o verso un concreto impegno etico-politico in esponenti dell’esistenzialismo ateo, come Sartre. Alla presentazione di una teoria naturalistica dell’e. si sono indirizzati gli esponenti del pragmatismo americano. In partic. Dewey ha rivolto le sue critiche alla nozione di fine ultimo della condotta e alla correlativa aspirazione verso un valore morale assoluto: l’e. è caratterizzata, secondo Dewey, da una serie di progetti in vista di una più armonica integrazione dell’uomo nella natura.

La discussione etica nell’ambito della filosofia analitica e del neopositivismo

Il discorso etico di Moore (intuitività e oggettività dei giudizi morali: introduzione del concetto di quasi-proprietà per predicati come ‘buono’, impossibilità di fornire una definizione riduzionistica di predicati morali, pena la «fallacia naturalistica») che aveva esercitato, con la sua impostazione analitica, notevole influenza nell’ambito anglosassone, è stato rimesso totalmente in discussione dalla radicale critica neopositivistica, rappresentata soprattutto da Ayer. Secondo questa teoria il linguaggio etico è linguaggio non riducibile in schemi logici, in quanto non si rintracciano in esso né proposizioni puramente logiche né proposizioni fattuali: esso è dunque linguaggio che convoglia emozioni puramente soggettive (già in Russell si possono rintracciare i precedenti di una simile posizione). Di fronte all’impossibilità di ricomprendere nell’ambito della filosofia neopositivistica qualsiasi discorso di tipo non strettamente scientifico, quello etico in partic., si è tentato, soprattutto in Inghilterra, nel periodo immediatamente seguente alla Seconda guerra mondiale, il recupero del linguaggio etico alla dimensione del linguaggio significante, mettendo a punto una serie di tecniche analitiche che assumono come base di partenza il linguaggio comune. Così, Stevenson interpreta il discorso etico, mediante l’introduzione di modelli di analisi, secondo un duplice aspetto: da un lato come discorso apprezzativo-persuasorio, pragmaticamente volto a indurre nell’ascoltatore quelle modifiche di apprezzamento e di valutazione che lo allineerebbero alle posizioni di chi se ne serve, e dall’altro come discorso riducibile all’indicativo, cioè informativo-dichiarativo. Toulmin, considerando invece il linguaggio morale riferito al contesto sociale, come espressione di bisogni e di soddisfazioni, propone una logica autonoma e particolare del discorso etico. Hare infine, studiando l’articolarsi del linguaggio morale in quanto linguaggio specifico dotato di senso imperativo-ottativo, o parte normatica o neustica, e contenuto fattuale, o parte frastica, giunge a proporre la nozione di linguaggio prescrittivo universalizzabile al cui interno, accanto alle stesse regole formali che garantiscono in altri tipi di discorso la non contraddittorietà, operano anche regole empiriche per un controllo fattuale di certi giudizi. Su posizioni analoghe è anche P.H. Nowell-Smith. In armonia con l’impostazione generale della filosofia oxoniense, questo tipo di ricerche risulta applicazione al discorso etico di una concezione del linguaggio che, abbandonate le posizioni neopositivistiche, si riallaccia strettamente alle concezioni dell’ultimo Wittgenstein.

Gli sviluppi della seconda metà del Novecento

L’ultimo trentennio del 20° sec. ha registrato una svolta radicale verso concezioni etiche di tipo normativo, cioè con pretese a delineare la natura direttiva e oggettiva delle richieste della morale. Questa direzione, inaugurata dalla teoria della giustizia di Rawls, è caratterizzata dall’utilizzazione dei risultati raggiunti in ambiti esterni alla filosofia, come, per es., in economia e nella teoria dei giochi, discipline normative miranti a dare una risposta a problemi di coordinamento di comportamenti individuali caratterizzati da interessi discordanti. In tale prospettiva, Rawls ha ripreso il modello contrattualista (nell’interpretazione kantiana), elaborandone una versione alla luce dei problemi della scelta razionale; successivamente ha mostrato tuttavia come egli fosse più interessato a ricercare una forma di consenso «per sovrapposizione», vale a dire un’area in cui le premesse siano comuni sin da principio, piuttosto che a formulare un argomento per arrivare a conclusioni morali comuni a partire da premesse discordanti. Sulla linea di pensiero messa a disposizione dalla teoria della scelta razionale, D. Gauthier ha sostenuto che compito della teoria morale è quello di fondare la considerazione imparziale degli interessi coinvolti senza assumere nient’altro oltre le condizioni e gli interessi reali che caratterizzano gli individui. I risultati acquisiti dalla teoria della scelta razionale sono stati utilizzati anche all’interno di un’impostazione riconducibile all’utilitarismo clas­sico, per es. nella teoria del comportamento razionale adottata dall’economia marginalista. La nozio- ne filosofica di ‘piacere’ è stata sostituita, in tale versione dell’utilitarismo, da quella economica di ‘preferenza’, a cui è possibile applicare gli strumenti della teoria dei giochi. Harsanyi ha sostenuto che l’e. è una branca di tale disciplina che si occupa dei giudizi di preferenza basati su criteri impersonali e imparziali, che coincidono con la massimizzazione del livello medio di utilità di tutti gli individui. Chi ha mantenuto la formulazione classica della teoria del valore utilitarista in termini edonistici si è affidato invece agli strumenti della psicologia: così R.B. Brandt ha concepito il processo di scelta razionale come un meccanismo di «psicoterapia cognitiva» sui propri desideri e avversioni. Anziché proporsi di formulare principi che consentano di coordinare interessi particolari, alcune teorie morali hanno ritenuto di dover rintracciare i fondamenti universali dell’e. e, in questa prospettiva, una via molto percorsa è quella basata sulla nozione di diritto morale. A tale nozione, alquanto svalutata sia dalla teoria utilitarista, che la svuotava di contenuto normativo poiché ne riconduceva la giustificazione alla massimizzazione della felicità generale, sia dalla riflessione giuspositivista, che tendeva a separare nettamente le considerazioni etiche dalle questioni di diritto, si è fatto appello anche in assenza di una sua codificazione istituzionale. Da una parte ciò ha costituito una strategia di smascheramento di situazioni di discriminazione non percepite pubblicamente. Dall’altra si sono sviluppate vere e proprie teorie dei diritti: alcune di natura formale, come quella di Nozick, volte ad affermare il diritto all’autonomia dell’azione individuale rispetto all’interferenza statale; altre di natura sostanziale, come quelle di Dworkin, Gewirth e Thomson, fondate sul diritto alla rivendicazione di eguali opportunità per tutti gli individui. In altri casi, come nelle riflessioni di Apel e di Habermas, si è individuato il fondamento universale dell’e. nella comunicazione intersoggettiva, le cui condizioni a priori sarebbero date dal riconoscimento reciproco tra gli individui. L’orientamento normativo ha spinto in generale a formulare concezioni realiste della natura dell’e., per le quali la fondatezza dei giudizi morali risiede in una sfera di realtà indipendente dalla mente umana. Se da una parte le teorie dei diritti concepiscono le proprietà morali in termini di rispondenza a un’oggettività pratica, dall’altra lo sviluppo della teoria utilitarista ha spinto a formulare concezioni realiste di tipo naturalistico: si è ritenuto che la storia naturale dei modelli di condotta morale assuma l’aspetto di una rivendicazione di benessere per un numero sempre maggiore di individui (così D.O. Brink e P. Railton). La sfida presentata dai casi singoli è stata raccolta dall’e. applicata, vale a dire dalla riflessione su problemi concreti, che si è andata consolidando in settori disciplinari, come la bioetica ( ➔), l’e. ambientale e l’e. degli affari. Essa non assume sempre la forma dell’applicazione delle teorie morali alle situazioni concrete, anche se spesso ciò accade; in partic., l’utilitarismo ha giocato un ruolo importante nella definizione di questioni centrali della bioetica o della considerazione morale degli animali, come ha mostrato in partic. P. Singer.