Etica

Enciclopedia del Novecento (1977)

Etica

Pietro Piovani

di Pietro Piovani

Etica

sommario: 1. Introduzione. 2. Alla ricerca dell'oggettività dei valori. 3. Mobilità, relatività, storicità. 4. Autonomia e ambiguità. 5. Logica del disordine e chiarificazione totale. 6. Considerazioni conclusive. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il Novecento è, caratteristicamente, tempo di negazioni, problematizzazioni, ripensamenti, rinnegamenti; quindi, le stesse terminologie più usuali e consolidate sono incerte nei loro significati, insicure nelle loro designazioni. Tuttavia, da qualunque punto di vista ci si ponga, a qualunque conclusione si possa cercare di pervenire, il fatto di un'esperienza qualificata come ‛morale', che tende a distinguere tra comportamenti ritenuti conformi alla moralità e comportamenti ritenuti difformi dalla moralità, rimane - almeno come fatto - una connotazione che designa una volontà di distinzione propria dell'uomo. Quale che sia il suo valore, quella esperienza, con la sua semplice esistenza, costituisce un complesso di questioni che, nell'insieme, può indicarsi come problema morale. L'‛etica' è la riflessione, più o meno programmatica, più o meno sistematica, su questo problema.

La circospezione terminologica che induce oggi l'etica a presentarsi in maniera tanto poco compromettente, teoreticamente tanto poco impegnativa, dà già il senso dell'atmosfera di problematicità in cui si muovono le esperienze e le riflessioni del Novecento, il quale - per dire paradossalmente così - ha più che mai incerte tutte le sue certezze, perciò le vive con irrequietezza.

Detto questo, già non è più lecito domandarsi se esista un'etica del Novecento individuabile come tale. Se ne abbiamo subito - senza nemmeno volerlo - indicata la Stimmung iper-problematica, ne abbiamo ammesso già la particolare esistenza individuata. A rigore, la riflessione etica, postasi universalmente in cospetto del problema filosofico della morale, non dovrebbe tingersi dei colori del tempo in cui compie la sua riflessione; eppure c'è uno stile etico dei vari secoli come c'è un loro stile artistico.

S'intende che la misura del secolo vale approssimativamente: è una qualificazione storico-temporale che solo molto convenzionalmente concorda con i termini della pura cronologia. S'intende che nessun appello allo Zeitgeist autorizza l'adesione a un conformismo che pretenda assurdamente escludere da un tempo tutto ciò che non sembri conformarsi all'asserito spirito di quello, ignorando difformità, varietà, diversità, contraddizioni, che sono la variegata molteplicità che compone, nelle differenze, l'unità vivente di un organismo. Però, eventi e idee caratteristici, nel loro predominare più o meno transitorio, finiscono col dare al periodo di circa cento anni, in cui cinque generazioni si avvicendano, una qualche comunanza di caratteri che, senza artificio, è lecito guardare in una sua interiore, pur composita, unità. Per questo, nonostante il grosso rischio delle comode e accomodanti generalizzazioni, le indicazioni che si riferiscono, per necessità d'esposizione, all'etica del IV secolo a. C., o del Settecento, o dell'Ottocento hanno una loro utilità espressiva che, se non dimentichi quel tanto di convenzionale che irriducibilmente ha in sé, va oltre la pura convenzionalità della datazione per qualificarsi nella significazione storica che, appunto, riesce a designare sbrigativamente la prevalenza di un gruppo di temi e toni qualificanti il periodo esaminato.

Il Novecento - per suo conto - è un secolo particolarmente disposto a prender coscienza della propria problematicità, dentro la configurazione di una fisionomia unitaria. Non per niente, anche suoi rappresentativi pensatori, tutt'altro che abituati a vedere hegelianamente la filosofia come tematizzazione del tempo storico elevato al pensiero, giudicano altamente auspicabile un metodo d'indagine rivolto a raggiungere l'autocomprensione attraverso il chiarimento della situazione attuale: specialmente nella Krisis, perfino E. Husserl si sente tenuto a formulare simile auspicio e a seguire simile metodo, riconoscendo che gli uomini attuali sono occupati a riflettere sulla loro ‛attualità' (v. Husserl, 1954; tr. it., p. 88). Nè questa specifica meditazione, in tal modo, si limita temporalmente autocondizionandosi, o accetta di recludersi nel circolo del contingente. La riflessione morale non può prescindere dalle esperienze dell'ethos del proprio tempo, ma le approfondisce soltanto se sappia trascenderle. Ciò è vero, almeno, per i grandi filosofi etici. Non casualmente, è stato uno dei più penetranti pensatori del sec. XX, E. Cassirer, a osserva- re, nel più ‛morale' dei suoi libri, nel Saggio sull'uomo: ‟È caratteristico di tutti i grandi filosofi etici il fatto di non pensare in termini di pura attualità. Le loro idee non possono avanzare di un solo passo senza allargare e anche trascendere i confini del mondo attuale" (v. Cassirer, 1944; tr. it., p. 95). Ogni comprensione storica, del resto, richiede una fantasia che, allargando e ingrandendo, comparando e valicando, sappia sospingere l'esame oltre l'immediatezza dell'esaminato. Tale richiesta, se vale sempre, vale specialmente per un tempo che può addirittura conoscere il proprio autentico stile nella mancanza di uno stile, nella propria incapacità di inventare forme idonee a solidificare il flusso del vivere. Infatti, se vive in una ‛vita senza forme' - secondo una tesi di G. Simmel - il nostro tempo men che mai ha stabili formazioni etiche cui appoggiarsi o costumi da assumere a modello universalizzato (v. Simmel, 1921; tr. it., p. 30).

Non disporre di assetti morali solidificati, di convinzioni incardinate in salde istituzioni è uno stato di inferiorità per la riflessione etica? A prima vista pare ovvio che sia così. La fondamentale angoscia del Novecento sembra, infatti, una crisi dei concetti etici come tali: di qui l'insicurezza delle norme, la perplessità della condotta da seguire. Una constatazione di J. Ortega y Gasset nella Ribellione delle masse potrebbe trovare echi e conferme nelle direzioni più varie: ‟Siamo nudi, soli, senza tradizione, senza più norme di condotta" (v. Ortega y Gasset, 1930; tr. it., p. 29). Al di là della stessa filosofia, l'arte narrativa sviluppa il tema fino a radicalizzarlo, fino a riconoscere, come insinua R. Musil nell'Uomo senza qualità, che, in tempi di stravolte incertezze, scrivere un romanzo possa essere un mezzo di ricerca etica più convincente dell'elaborazione di un trattato di morale. Infatti ‟oggi non si può vincere l'impressione che i concetti e le regole della vita morale siano soltanto allegorie strabollite, intorno alle quali ondeggia un vapore insopportabilmente untoso di umanitarismo [...]. Questo non riguarda tanto il quesito se l'uomo sia buono o cattivo quanto il fatto che esso ha perduto il collegamento tra vetta e bassura" (v. Musil, 1930; tr. it., vol. I, p. 692). La crisi della civiltà appare quale crisi di valori etici e viceversa. Qualche anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, che è poi la seconda grande guerra europea, J. Huizinga, nel suo libro più diffuso, può rilevare: ‟Tutto ben considerato, non esiste una ragione sufficiente per parlare di un livello morale più basso che in altre epoche della civiltà occidentale. Quelle che però sono sensibilmente intaccate sono le norme della moralità in genere, la stessa teoria della morale. Qui si ha piena ragione di parlare di un fenomeno di crisi, più pericoloso forse dell'indebolimento intellettuale [...]. Il singolo, se vuol ricercare su che cosa riposi la legge morale, corre gran pericolo di vedere lodato il totale abbandono di ciò che finora riconosceva istintivamente come norma morale" (v. Huizinga, 1935; tr. it., p. 85). Qualche anno prima, nel 1927, nel famoso saggio L'avvenire di un'illusione, S. Freud non a caso aveva visto vacillare perfino la base su cui si appoggiava tradizionalmente la validità del ‛non uccidere': ‟Se non è lecito ammazzare il prossimo solo perché il buon Dio lo ha vietato e ci punirà severamente in questa o nell'altra vita, e se scopriamo peraltro che il buon Dio non esiste e non abbiamo da temere alcun castigo, non v'è dubbio che a questo punto l'ammazziamo senza esitazione e possiamo venir trattenuti dal farlo soltanto da una forza terrena" (v. Freud, 1927; tr. it., p. 179). Inquietudini come queste, durante e dopo le esperienze neobelluine della guerra, a metà del Novecento vedono, se possibile, accresciuta la loro carica di drammaticità. Tuttavia esse, se autorizzano C. G. Jung a parlare di ‟una generale nevrotizzazione dell'uomo moderno" (v. Jung, 1933; tr. it., p. 232), permettono anche a M. Blondel di aver fiducia nelle possibilità vittoriose di una ‟lotta per la civiltà" riaperta, con ritrovata consapevolezza, nel cuore stesso del secolo, rivelatosi capace di inenarrabili orrori ma anche di agguerrite resistenze.

Codesta ambivalenza, che decadenze e grandezze morali sottolineano in maniera tanto vistosa, prova da sola che un tempo di perplessità, di angosce, di dubbi - tali da investire i fondamenti della moralità - non è un tempo refrattario o avverso al pensiero etico. Tutt'altro: si potrebbe sostenere, anzi, che sono proprio le perplessità di un secolo alla ricerca di nuovi fondamenti dei valori a dare rinnovata dignità alle meditazioni della filosofia morale. Si potrebbe sostenere che questa, a uno sguardo complessivo, finisce con l'apparire, nel declino del Novecento, attiva nel suo bilancio teoretico, come forse non era più stata dai primi del secolo XIX, che avevano accolto, trasformato, criticato, rielaborato discussioni e principi del secondo Settecento. Si potrebbe addirittura sostenere che i tempi di esperienze morali tormentose sono quelli teoreticamente più fecondi per l'etica. Qui, tuttavia, non si tratta di sviluppare simili azzardate ipotesi, quindi non si tratta di prospettare le insidie di quel tanto di grossolano che tutte le grosse tipologizzazioni portano con sé. Molto più semplicemente si può prendere atto di una verità che, se vale per il passaggio dalla morale arcaica alla morale classica nel pensiero greco, vale - mutatis mutandis - anche per il pensiero etico novecentesco: il confronto fra costumi diversi, variamente avvicinati, sollecitamente ravvicinati, dà luogo, oltre che a turbamento, a quella meraviglia che, ancora e sempre, e il miglior fertilizzante d'ogni attività di riflessione.

Se mai, c'è il rischio che il Novecento, per il suo vivere, a ritmo particolarmente veloce, esperienze differenziate particolarmente intense, per una specie di difesa passiva narcotizzi il proprio senso di stupore di fronte al nuovo e al diverso, rinunciando a scoprirlo, discuterlo, capirlo. La svagata facilità del suo neoterismo e del suo esotismo mostra, infatti, che questo grave rischio esiste, così come esiste - in relazione - il pericolo che l'accettazione distratta del nuovo e del diverso dia luogo a un accoglimento che, inglobando il ‛differente' senza autentica comprensione, favorisca la semplicistica semplicità di rapporti tutti superficiali, omogeneizzando costumi accoglienti e costumi accolti nella più conformistica delle uniformità, in seno a cui i mores, facilitando contatti socialmente epidermici, valgano assai meno di abitudini neotribali, subrituali, tanto demitizzate da essere rozzamente banali, e solo per questo incapaci sia di sacertà sia di empietà. L'abitudine meccanizzata al nuovo, tuttavia, è una delle reazioni possibili di fronte al nuovo: il moralista deve tenerne conto nell'ambito di una società dinamica, chiedendo lumi, se occorra, al sociologo, il quale è più adatto a capire quali siano i fenomeni tipici di un'età di mutamento veloce. L'uomo ‛de-localizzato' del Novecento, reso sgomento dal continuo mutamento dei modelli di comportamento, finisce col fare un'abitudine della sua stessa impossibilità di vivere dentro abitudini consolidate e protette: questo è solo un aspetto di quella che è stata definita da K. Mannheim la ‟crisi delle valutazioni", osservata nell'orizzonte della rinnovata mobilità sociale, e messa in rapporto con lo stato d'ansietà dell'uomo del sec. XX e con quella ‟fuga dalla libertà" diagnosticata da E. Fromm dentro il quadro clinico di una ‟società malata". Il soggetto, strappato ai condizionamenti ancestrali, sradicato dall'atavico, ha paura della libertà, non vuole essere liberato e si abbandona a qualunque forza nuova che, accogliendolo, tutelandolo, surroghi i condizionamenti abbattuti (v. Mannheim, 1929; tr. it., pp. 422 e 429).

Ma anche simili forme di falsificato accoglimento del diverso, di inettitudine all'autentica comprensione del nuovo, propongono una fenomenologia dell'esperienza morale che, senza dubbio, è preziosa per l'etica. Nella positività o nella negatività delle reazioni possibili, la sensibilità del Novecento al mutamento dei valori feconda la meditazione della filosofia morale invitando a confronti radicali. Qualunque cosa si debba pensare delle colorite suggestioni di libri brillanti come quello di O. Spengler sul Tramonto dell'Occidente, è innegabile che la fine della visione europeocentrica della vita (che conclude un processo avviato nel secolo XVII col passaggio preilluministico e illuministico dalla stabilità al movimento), se non implica una trasfigurazione di tutti i valori, impone una totale revisione di valori, che, nobilitando l'etica, l'obbliga a riarmarsi teoreticamente, ad attrezzarsi per compiti nuovi.

2. Alla ricerca dell'oggettività dei valori

Il confronto tra valori diversi, confronto che è stimolo di ogni riflessione morale, nel Novecento si trova innanzi un campo di sperimentazione fin troppo ampio da utilizzare per i suoi approfondimenti e le sue spiegazioni. La molteplicità delle esperienze etiche è come squadernata in vetrina per comodo del moralista che sappia approfittarne. Sarebbe ingiusto opinare che l'etica del Novecento non abbia saputo trarne profitto. Al contrario, nessuna delle sue riflessioni significative appare priva di un suo modo nuovo di affrontare i problemi: essi non vengono più dedotti, ma spiati, seguiti, colti sul fatto. Un pensatore come H. Bergson, tutt'altro che estraneo alla lezione di J. S. Mill e di H. Spencer, fa tesoro dell'insegnamento del positivismo - da lui, anche in etica, sia recepito sia criticato e respinto - non esponendo principi, non illustrando le basi dell'etica dentro un ordine morale e sociale da riformare e tuttavia stabilmente sussistente. La sua mente corre alla visione di esperienze vicine e lontane, presenti e remote, che la seconda generazione positivistica ha messo in evidenza grazie a una metodologia più ambiziosa di conoscenze specifiche approfondite che di leggi generali formulate. Non a caso Bergson è tra i primi a intendere quanto la filosofia della morale possa imparare da alcune indicazioni di E. Durkheim o da alcune scoperte di L. Lévy-Bruhl. Le due fonti della morale e della religione - opera discutibile nelle impostazioni e nelle conclusioni ma destinata a rimanere tra le più alte e rappresentative testimonianze della meditazione etica del secolo - è un libro che mostra un interesse nuovo alle strutture sociali, alle formazioni di gruppi, alla realtà delle categorie e delle classi, alle distinzioni delle lingue, ai processi delle tecniche, alle differenziazioni della mentalità primitiva e della mentalità progredita, insomma alla sostanziale attività dell'homo faber, perché è un libro che nasce da una oculata volontà di confronto tra esperienze morali diverse. Già per Bergson la morale non è un sistema di obbligazioni da commentare, ma un complesso di azioni da intendere nelle ragioni stesse del loro genetico esistere. Inserito dentro una crisi dell'autorità, il filosofo morale non si chiede tanto ‛che cosa' siano le obbligazioni e come si qualifichino e distinguano, bensi ‛perché' siano. Anzi, non è l'obbligazione come tale, ma l'interdizione che domanda a Bergson d'essere giustificata (v. Bergson, 1932; tr. it., p. 3). Nella crisi delle ubbidienze tradizionali, il primo quesito è: perché ubbidiamo? Per questo aspetto, gli interrogativi iniziali del Bergson de Le due fonti sulle ragioni dell'interdetto, del vietato, del represso sono non lontani da quelli di Freud. Certo, la separazione tra ‛religione statica' e ‛religione dinamica', tra ‛morale chiusa' e ‛morale aperta' ha il torto di dividere ciò che pur tende a spiegare nella sua unità, però l'insistenza sulla vita sociale come sistema di abitudini contribuisce allo smontaggio di articolazioni morali e sociali che così sono radiografate nelle loro giunture nascoste, in un'analisi che, in sede etica, è una ragguardevole innovazione metodologica. Questa possibilità di scomposizione del sociale e del morale attraverso esistenze valutate e inesistenze notate può dar ragione a M. Merleau-Ponty, che, nell'Elogio della filosofia, ha voluto sottolineare come operi in Bergson un senso del negativo che gli consente di vedere, sotto la superficie monistica delle intenzioni teoretiche, le lacerazioni delle ambivalenze e delle ambiguità (v. Merleau-Ponty, 1953; tr. it., pp. 22 e 36). Le quali, forse, sussistono sotto le apparenti armonie conclusive de Le due fonti non a causa della opposizione dialettica di pressione e aspirazione, ma nonostante quella.

Comunque sia di ciò, non v'ha dubbio che, specialmente con l'opera che dà al pensiero di Bergson l'attesa sistemazione in campo etico, psicologia e sociologia fanno il loro ingresso, plenissimo jure, nelle trattazioni di filosofia morale propriamente detta. E non importa che - come accade - più che apparirvi con le nuove tesi in corso di felice elaborazione vi appaiano con i risultati di indagini compiute, per lo più, in un periodo precedente; importa che la legittimità di un ricorso a discipline diverse eppure vicine sia pienamente, autorevolmente consacrata.

Né codesta consacrazione ratifica, ipso facto, il valore intrinseco dei frequenti sconfinamenti in territorio etico degli psicologi più aperti ai problemi filosofici. Al contrario, se si sottoponga a specifico esame la dottrina, per esempio, di Freud ‛moralista' (come ha fatto per esteso P. H. Rieff), se ne colgono con facilità le dissonanze e perfino le imprevedibili consonanze. Con segno uguale e contrario, la difesa dell'anima attuata da Jung, la sua polemica contro la cosiddetta ‛psicologia senza anima riescono a superare i prudenti limiti psicanalitici di una metodologia talvolta più scientistica che scientifica per approdare a dottrine di tipo spiritualistico certo pensose e vivaci, ma pericolosamente avviate verso divagazioni fatte più di talento che di rigore. Perfino le sempre pacate argomentazioni di A. Adler, che, rispetto agli altri due maestri della psicologia del profondo, si presentano persuasivamente come una terza via, allorché si discostano dalle puntuali interpretazioni appoggiate, con illuminanti visioni generali, a casi e problemi specifici, per abbandonarsi a trattazioni volte ad abbracciare l'interezza del fenomeno psichico, etico, pedagogico, sembrano proporre uno psicologismo riformatore che rasenta l'ingenuità. È quel che accade, infatti, al libro di Adler più impegnato in questo sforzo etico-pedagogico: Conoscenza dell'uomo.

Probabilmente, vale per la filosofia morale quel che vale per tutta la filosofia: la scoperta psicologica del ‛subconscio' e della sua complessa problematica impone a ogni gnoseologia - diretta o indiretta - di tener conto di una bidimensionalità del conoscere che mal si concilia con ogni residuo razionalismo intellettualistico d'impronta cartesiana; ma la nuova dimensione conoscitiva va tenuta presente come dato ineliminabile da cui ormai la filosofia non ha più diritto di prescindere, non va utilizzata quale decisiva leva idonea a sollevare tutte le soluzioni che si propongano - più o meno volenterosamente - come coerenti con le impostazioni della stessa rinnovata psicologia.

Anche in etica, non è la psicologia che deve farsi filosofia, ma è la filosofia che deve rendere omaggio obbligatorio alla maggiore importanza conoscitiva assunta dalla ormai adulta scienza psicologica, riconoscendo che di alcune conquiste di questa scienza non le è più permesso fare a meno nelle sue valutazioni. Naturalmente, per chi si ponga dal punto di vista di impostazioni tradizionali, di fronte a ciò non resta che lamentare, da un lato, che perfino la logica si sia psicologizzata, dall'altro, che l'etica si sia avviata verso la completa psicologizzazione dei valori. Questi lamenti, che appartengono, in genere, a una visione prenovecentesca della gnoseologia e dell'etica, rimbalzano - singolarmente - anche in spregiudicate filosofie del Novecento, dando luogo ad atteggiamenti e mentalità presenti, per esempio, in E. Husserl, in M. Heidegger, in N. Hartmann, in M. Scheler, e teorizzati, in sostanza, in alcune posizioni degli ultimi due. M. Scheler, che nelle sue pagine meno sistematiche e più nervosamente rapide ha passaggi e spunti vivaci e sensibili quasi soffocati nelle troppo costruite opere maggiori, nella sua stessa idea di morale tenta salvare la libertà delle preferenze dei soggetti con la sovrastante ‛inseità' dei valori, non senza un'irresolubile contraddittorietà di fondo: ‟Una morale è un sistema di regole di preferenza tra i valori in sé, un sistema che va scoperto come costituzione morale di un popolo e di un'epoca al di là dei loro apprezzamenti concreti" (v. Scheler, 1919; tr. it., p. 70). Dove già si avverte in mezzo a quanti ostacoli si muova un'‛etica materiale' che, dopo Kant e contro Kant, non voglia rinunciare alla libertà dei criteri morali preferenziali, tuttavia salvando l'assolutezza predeterminabile dei contenuti dei valori. Per salvarla, Scheler e Hartmann sono assillati dalla costante, malcelata preoccupazione di mettere al sicuro i valori in sé relegandoli in un regno appartato, che sia una specie di deposito ontologico in cui i liberi utenti soggettivi siano sempre sicuri di rinvenirli, appena vogliano. Perché questo sia possibile, occorre sostenere - come sostiene Hartmann nella sua Etica (una delle trattazioni più vaste e organiche del Novecento) - che ‟i valori non sono categorie ontiche", però hanno un loro autonomo essere assoluto. Se hanno questo essere, è lecito sostenere: ‟L'essere per me dei beni si fonda già sull'essere in sé dei valori di beni; è proprio dell'essere dei beni". ‟Non è la persona a costituire il valore, ma sono i valori a costituire la persona". È altrettanto ammissibile esprimere la convinzione che queste teorizzazioni si accordino con la dottrina classica della virtù, la quale, nella sua tradizione, sarebbe una vera etica materiale dei valori disconosciuta soltanto da Kant e dai suoi epigoni, colpevoli - sempre secondo Hartmann - di avere scavato ‟l'abisso che ci separa dalle grandi tradizioni dell'antichità e del Medio Evo". Tuttavia, se questo è vero, sempre più arduo diventà sostenere che la base del regno dei valori appartenga a una fenomenologia dei costumi, non a una dottrina dell'essere graduabile nelle sue forme morali ( v. Hartmann, 1926; tr. it., pp. 180, 184, 185 e 200). La salvezza dell'assolutezza dell'autonomo regno dei valori inevitabilmente richiede il ritorno in seno all'ontologia classica. Infatti, quali che siano le parole usate in proposito da Hartmann, tutti i suoi maggiori interpreti giudicano che quel ritorno non manchi nel suo pensiero. L'instaurazione antikantiana della inseità dei valori non può essere che restaurazione.

La diffidenza verso la collaborazione intensificata di psicologia e di etica e il timore verso la soggettivizzazione dei valori procedono di pari passo, in un movimento parallelo che favorisce l'impulso verso una ritrovata oggettività. L'inseità dei valori garantita da Hartmann ne fornisce un esempio significativo, ma non isolato. Perfino il vecchio, fondamentale suggerimento hegeliano, volto a mettere in luce la necessità della coscienza di oltrepassare la soggettività in un'azione che corposamente la consolidi e assicuri, realizzandola effettivamente nell'oggettività di un ethos, sospinge anche acuti e sottili sostenitori della radicale socialità della morale verso posizioni che, talvolta, sembrano voler ridurre l'oggettivazione a una nuova oggettività, rassicurata non solo nella storicità del sociale, ma perfino nell'essenzialità fisica della natura, osservata, appunto, con l'ausilio della ritrovata ontologia proposta da Hartmann. È sempre la preoccupazione di dare un fondamento solido alle conoscenze e ai valori a guidare itinerari di questo tipo che, frequentemente, sono, o sembrano, vere involuzioni: tale è sembrata, per esempio, la carriera speculativa di O. Lukàcs, dalle appuntite critiche di Storia e coscienza di classe, nate nel clima culturale del primo dopoguerra europeo, fino alle dichiarazioni neoontologiche dei suoi ultimi anni (v. AA. VV., 1967; tr. it., p. 25). Per questo verso, l'antico suggerimento hegeliano sulla realizzazione della soggettività della coscienza nelle determinazioni oggettive di un ethos appare meglio difeso da ogni snaturata angustia neooggettivistica se considerato a contatto con la perizia dialettica della Scuola di Franco- forte. È sì una perizia che spesso rasenta il funambolismo concettuale, però se ne serve per la salvazione ostinata di una libertà di analisi altrimenti inagibile, consentendo a M. Horkheimer (in una delle opere più significative sulla situazione etico-sociale del Novecento) di rimanere fedele a una convinzione chiaramente teorizzata: ‟Il tema del nostro tempo è quello della conservazione dell'io" (v. Horkheimer, 1947; tr. it., p. 112); e consentendo a Th. W. Adorno, nel suo libro più esplicito e impegnativo, di combattere apertamente contro ogni ‟metafisica della conciliazione di universale e particolare", per la difesa di una dialetticità veramente antinomica che metta l'individuato, il differenziato ‟al riparo dal totale" (v. Adorno, 1966; tr. it., pp. 304 e 368), al riparo da ogni conciliazione imposta dall'ottimismo intellettualisticamente concettualizzante. Una dialettica siffatta è la più idonea a facilitare il recupero dei minima moralia, valutandi in sé. Così, la Scuola di Francoforte, nonostante gli sfuggenti ripieghi e le raffinate riserve mentali, riesce a chiarire che neppure la socialità si presta a garantire il ritorno a valori oggettivi: l'oggettivazione non è oggettività, data o restaurata una volta per tutte. Così, nonostante le sue sfumate, calcolate polivalenze, la Scuola di Francoforte aiuta l'emancipazione del materialismo dialettico da conclusioni etiche grossolanamente dogmatiche: lo smascheramento dell'‟inganno delle varie fiabe della moralità", proclamato da Lenin nel 1920, se è l'annuncio di una morale che, più marxisticamente di Marx, sia ‟interamente subordinata alla lotta di classe" e coincida col servizio rivoluzionario ‟per la distruzione dell'antica società sfruttatrice" e ‟la costruzione della nuova società comunista" (v. Lenin, 1967, vol. XXXI, p. 280), non deve fare nemmeno della rivoluzione ipostatizzata il luogo materialisticamente neometafisico dei valori ormai conoscibili nei loro contenuti. La dialettica negativa - critica non soltanto di Hegel ma di molti risultati della Sinistra hegeliana - avverte che risolutiva può essere soltanto la rivoluzione che non custodisca i veri, ma li ricerchi, continuamente verificandoli in un'aperta filosofia della prassi.

Tale dialetticità, che certamente guadagna in penetrazione di pensiero tutto quello che perde in catechismo per l'azione, si allontana più volte dalla lettera di Marx e del marxismo per adeguarsi, con spirito marxiano, ai modi e alle strutture di una società in rapida evoluzione, i quali vietano rigidezze etiche e teoretiche legate a schemi cancellati dalla realtà sociale trasformata. Anche la sociologia della conoscenza, partita dalla sopravvalutazione dell'essere sociale e propensa a giudicare che l'individuo non pensi, ma sia pensato dalla società, quindi sia condizionato dal suo status nelle scelte morali, deve, con un processo di decantazione progressiva, connesso alla sua stessa indagine sociologica, pervenire alla tesi che vede tutta la società caratteristica del secolo XX come un'intima crisi di ogni status, quindi avviata verso nuove, gravi difficoltà per la stessa sua interna varietà competitiva di gruppi e tendenze, in una raggiunta maturazione multidimensionale che impedisce di valutare la società come un totale. È la conclusione cui arriva il pensatore del Novecento che, attraverso la sociologia della conoscenza (ma con l'occhio sempre teso verso i probemi dell'etica), forse più acutamente di ogni altro ha ripensato la famosa relazione posta da Marx tra coscienza ed essere sociale, quindi il rapporto tra l'utopia e l'ideologia: K. Mannheim.

Nella inquietante anarchia dei valori, la tentazione di una restaurazione di valori oggettivi, che siano sicuri nella loro presunta assolutezza, si affaccia continuamente, nelle formulazioni più varie, ora orientata verso un neooggettivismo naturalistico ora orientata verso un neooggettivismo sociale, in una cospirazione di temi che, qualche volta, rivela incontri speculativi inattesi eppure significativi. Se Mannheim mette in relazione la formazione della filosofia come ideologia con la crisi dell'‟ordine oggettivo della realtà", cioè con l'avvento del pensiero moderno in cui i pensanti si trovano soli di fronte a ‟una pluralità di eventi disparati", che si muove in un ‟caos" che ha perduto il suo ‟mondo" (v. Mannheim, 1929; tr. it., p. 67), K. Löwith, in Wissen, Glaube und Skepsis, fa risalire a Pascal e Kant, a Kierkegaard e Nietzsche, ad Heidegger e Sartre la responsabilità concettuale della liquidazione della necessaria idea di cosmo, senza la quale la filosofia perde lo sfondo cosmologico comune in cui muoversi. Esclusosi dall'universo rifiutato, l'uomo moderno è ‟privo di patria fisica e metafisica". Per suo conto, quasi col proposito di stendere una rete di protezione capace di salvare a volo l'uomo heideggeriano, abbandonato alle occasioni dell'esistenza in cui si trova ‟gettato", Löwith si adopera a procurare nuovo credito a un cosmo che sia fisicamente e metafisicamente la sede essenziale e naturale dell'uomo. ‟Chi potrebbe senz'altro affermare che noi non si viva più in un cosmo perché tutti i passeri filosofici cinguettano dai tetti, che siamo senza dimora e che il mondo è una specie di esplosione, in cui non si riesce nemmeno a sapere che cosa propriamente sia esploso?" (v. Löwith, 1956; tr. it., p. 88). Eppure, nessuno meglio di chi esprima un simile stato d'animo sa che a disintegrarsi è stata proprio quell'armonia fisica e metafisica di cui viene proposta, infatti, la volenterosa ricomposizione in un restauro, più che difficile, disperato. Le asprezze polemiche verso le filosofie che constatano la rottura di quell'armonia non bastano certo a modificare una realtà: lo stesso Löwith chiede che si torni dalla storia, che è dell'uomo, alla natura, che è del cosmo, perché sa che il problema è ritrovare una nozione di natura che è perduta e che non appartiene più alla filosofia anche perché non appartiene più alla fisica. Non ha senso (con rovesciamento di tesi heideggeriane, tutto immerso dentro l'heideggerismo) favorire l'allontanamento della riflessione della filosofia dalla riflessione delle scienze per poi auspicare un ritorno a idee legate a una collaborazione di filosofia e di scienza che, nei termini reclamati, non c'è più e, su queste basi, non può rinnovarsi, a causa delle modificazioni stesse delle scienze, dei loro teoremi e metodi.

La singolarità dell'appello (reiterato ma non compiutamente teorizzato) all'‛apriti Sesamo' di una physis contrapposta alla storia invoca un ordine naturale che consenta di ritrovare valori oggettivi, precisamente collocati in una gerarchia cosmica che li sorregga e li spieghi. Codesta critica allo storicismo in nome di una specie di metafisica naturalistica è alla ricerca di una natura che sia l'ubi consistam di un'oggettività neogiusnaturalistica. Tuttavia, perfino le speranze del giusnaturalismo più esplicito dubitano che il diritto naturale disponga, oggi, di una natura cui rifarsi. L. Strauss è persuaso che il rifiuto del giusnaturalismo coincida col regno dispotico dell'arbitrio, sia ‟una cosa sola col nichilismo"; tuttavia ha il sospetto che il diritto naturale sia ‟connesso a una concezione teleologica dell'universo", quindi deve almeno ammettere: ‟La visione teleologica dell'universo, di cui la visione teleologica dell'uomo è una parte, sembrerebbe demolita dalla moderna scienza naturale" (v. Strauss, 1952; tr. it., pp. 20 e 23). Del resto, in vista di queste difficoltà, lo stesso diritto naturale d'estrazione neotomistica, appena prenda sufficiente contatto con la problematica del pensiero moderno, preferisce veleggiare verso mete spiritualistiche più generiche: non a caso, dopo J. Maritain, gli influssi di E. Mounier cercano il fondamento della morale in una ‛ontologia della persona' che, con le sue insistenze personalistiche, pur dentro il quadro della ontologia tradizionale, sembra voler mettere in mostra più la parte che il tutto. Lo spirito di collaborazione e di conciliazione che anima queste correnti del neogiusnaturalismo, pur quando faccia soverchio affidamento sui renouvellements possibles (v. Maritain, 1960, p. 557), è una sottintesa domanda di urgente aiuto teoretico, in seno alla crisi dei principi tradizionali male evocati, male ritoccati, imprudentemente smossi.

3. Mobilità, relatività, storicità

Se neppure il giusnaturalismo riconsultato è in grado di garantire la perduta, rimpianta oggettività dei valori, sembra che al Novecento non resti che l'esasperazione di accettazioni o di rifiuti, chiusi nella solitudine solipsistica di una protesta che invano tenta di comunicarsi. Per questo rispetto, si capisce che i tentativi volti a comunicare l'incomunicabile o il mal comunicabile siano compiuti più in sede di espressione artistica che di riflessione filosofica, tuttavia col proposito dichiarato di lanciare o captare messaggi morali, non tutti disposti a muoversi tra i termini antitetici (o contigui) del silenzio osservato dall'incomunicato consapevole o dell'urlo emesso dall'arrabbiato programmatico. In questo ambito agisce una letteratura ‛morale' che, nell'esaurirsi, scade nel cascame di sottoprodotti di facile consumo, ma, nel primo vigoreggiare, annovera modelli originali ineguali per dimensione, però, in ogni caso, tali da risultare invidiabili da ogni secolo. La perdizione del soggetto e il disfacimento del personaggio mettono in scena il dramma dell'autore che, con Pirandello, non sa trovarsi né in centomila né in nessuno, perché si è smarrito dentro quell'uno che, in sé, non riesce più ad essere. L'angoscia dell'incertezza dei valori e l'incomunicabilità della ricerca si traducono nella volontà di godimento effimero ma immediato, che induce l'immoralista di A. Gide a cibarsi di tutti i nutrimenti terrestri che sembrino avvicinano a una conoscenza più raffinata, quindi più disincantata. Apparentemente lontana da quei frutti proibiti, la falsa serenità neogoethiana di Th. Mann gioca lucidamente a imitare le allucinazioni del Doctor Faustus per riuscire a vigilare con la salute di un'intelligenza esperta ormai di conscio e di inconscio la morbosità di un satanismo rifugiato nella naturalità incontrollata. Perduto il controllo di un'intellettualità sottilmente sospesa tra la soddisfazione del comunicato e l'esperimento dell'incomunicabile, là nevrosi spinge Virginia Woolf a rinunciare definitivamente alla sua umana gita al faro per concludere altro viaggio nelle domestiche acque dell'Ouse. Nella rinuncia a ogni sovrana sorveglianza intellettuale, ma con divorante tormento morale, F. Kafka vive l'avventura dei suoi personaggi nell'incubo di corridoi senza uscite, di istruttorie senza processo, di convocazioni senza udienza, di inviti senza ospitalità. Ma l'uomo kafkiano, autentico nella sincerità del suo disperato cercarsi, nonostante le apparenze, forse meno dei suoi fratelli di pensiero e di fantasia si disperde, di fatto, nei labirinti della coscienza inquieta, perché ha un interrogativo dominante che può guidarlo: ‟Come si fa a trovare gli altri se perdiamo noi stessi?" (v. Janouch, 1947; tr. it., p. 77). In maniere profondamente diverse e profondamente analoghe, anche Stephen Dedalus, finalmente ‟restato solo con la sua anima", divenuto l'Ulisse di una nuova Odissea, sulle rotte segnate da J. Joyce, deve ‟farsi la propria saggezza lontano dagli altri, o imparare la saggezza degli altri vagabondando tra le insidie del mondo" (v. Joyce, 1916; tr. it., pp. 170 e 205).

Probabilmente, l'individuo novecentesco si cerca, in Kafka, con più ossessiva disperazione perché si è già trovato o è il più vicino a trovarsi. Nella sua chiaroveggenza, non ha bisogno di andare a tentoni verso un'astratta via di liberazione come l'uomo revolté di A. Camus. Invece, più vicino alla rivolta individuale che alla rivoluzione universale finisce con l'essere il Galilei tutto novecentesco di B. Brecht, che è un inquisito troppo sensibile alle ragioni dell'inquisitore per attingere, nell'agire, la necessaria risolutezza rivoluzionaria.

Letteratura e moralità non riscattano il loro reciproco condizionarsi che nei momenti in cui la poesia sublima i lolo problemi, trasformandoli. Al di qua di questo esito trasfigurante, l'una e l'altra rischiano di rimanere prigioniere di un intellettualismo meno esplicito e perciò più subdolo di quello della filosofia propriamente detta. Ed è un intellettualismo che tanto più aderisce agli abiti letterari quanto più questi cercano di scrollarselo di dosso col ricorso alla falsa energia dell'esaltazione dell'azione. Essa, in ultima analisi, non permette all'Ulisside di G. D'Annunzio di diventare un credibile superuomo; non autorizza l'impeto erotico di D. H. Lawrence a purificarsi nella presunta verginità di una natura falsamente selvaggia; non spoglia i personaggi di H. De Montherlant della loro eloquenza, né quelli di E. Jünger del loro compiaciuto aristocraticismo, né quelli di E. Hemingway della loro esuberanza, che mal nasconde sotto un'artificiosa gioia di vivere un incombente presentimento di dolore; nemmeno riesce a sospingere davvero A. Malraux verso lidi esotici e situazioni eroicamente rivoluzionarie che gli facciano intendere, con la loro vantata eccezionalità didascalica, quale sia effettivamente la condizione umana. La cultura del secolo, anche senza le suggestioni di simili esibizionismi attivistici, dispone già di tutti gli elementi per rendersi conto del fenomeno che - sulla scorta di acute indicazioni provenienti dalla critica storico-filosofica più informata - H. Arendt ha definito ‟il capovolgimento dell'ordine tradizionale di contemplazione e di azione" (v. Arendt, 1958; tr. it., p. 309). L'elogio dell'attivismo più o meno puro, a meno che non si presti a servizievoli strumentalizzazioni, è sempre meno carico di forza di seduzione. Dalla filosofia della prassi, come in generale da ogni filosofia dell'azione, proviene un giudizio che respinge l'attivismo diretto o indiretto, palese o mascherato. Tutto sommato, è un giudizio che coincide con quello di Horkheimer: ‟L'azione per amore dell'azione non è superiore neppure di poco al pensiero per amore del pensiero, anzi gli è forse inferiore" (v. Horkheimer, 1947; tr. it., p. 10). L'avversione del secolo per il pensiero puro non si converte in reale fiducia verso l'azione pura.

La penetrazione della letteratura in campo etico, interessante sempre, e caratteristicamente frequente nel Novecento, favorisce l'indagine morale non quando si avvicini agli estetismi intellettualistici dell'antintellettualità attivistica, ma quando sappia - con sapevolmente e inconsapevolmente - mettere a frutto le perfezionate forme del conoscere e del rappresentare. E se la critica letteraria di un E. Auerbach e la critica storica di un L. Febvre hanno chiarito i loro debiti verso l'impressionismo in generale, la critica morale che non porgesse l'orecchio alle lezioni di coloro che hanno saputo mettere la sensibilità al servizio della nuova micrologia finirebbe col rifiutare suggerimenti essenziali. Per esempio (per un esempio davvero esemplare), il moralista del sec. XX che non capisse i sottintesi etici - espliciti nelle conclusioni - che vivono nelle pagine della Ricerca del tempo perduto sottrarrebbe alla propria analisi il filtro di una testimonianza che, per suo conto, non ignora d'essere il documento di una verità distillata attraverso l'impressione: ‟Le verità che l'intelligenza coglie direttamente, scopertamente, nel mondo della piena luce, hanno qualcosa di meno profondo, di meno necessario, di quelle che la vita ci ha comunicato nostro malgrado sotto la forma d'una impressione". Questo perfezionato possesso di veridicità, insegnando a vedere in rinnovata caleidoscopia i mutamenti che fanno ‟variare anche la luce del cielo morale", può indurre alla ‟trascrizione di un universo che è tutto da ridisegnare" (v. Proust, 1927; tr. it., pp. 175 e 330).

Simili inviti a una nuova ardua trascrizione confermano che; al di là degli estetismi e degli attivismi, la letteratura, posta di fronte all'ansia dei valori vacillanti, prevede il crollo totale eppure non cancella la futura speranza. In molti suoi aspetti, sarebbe disposta a dire con H. Hesse: ‟Credo che il nostro Occidente sia nella quarta età e che Shiva già danzi sopra di noi. Credo che quasi tutto crollerà. Ma credo anche che ricomincerà da principio" (v. Hesse, 1959; tr. it., p. 33).

Del resto, la maggior parte dei movimenti letterari che nella prima metà del Novecento si fanno portavoce del grave, circostante turbamento morale possono proporre un loro metodo divisionistico (per dir così) di lettura e di revisione della realtà, anche perché tra Ottocento e Novecento la filosofia non ha esitato a imboccare strade nuove capaci di affrontare un'integrale ‟critica dei principi" (v. Bréhier, 1951; tr. it., p. 87). Alle spalle della richiesta della trascrizione di un nuovo universo morale, avanzata in termini legati a un'esperienza lato sensu impressionistica, c'è tutta una serie di esperienze speculative nuove. Per esempio, in termini affini, negli ultimi anni del sec. XIX si era espresso W. James, parlando nell'ambito di un movimento notevolmente innovatore e fertile di intuizioni riformatrici quale il pragmatismo: ‟Il nostro orizzonte morale si muove con noi, né mai riusciamo ad avvicinare quella linea dove le onde nere s'incontrano con l'azzurro del cielo" (v. James, 1884; tr. it., p. 222).

Ma come giustificare la fiducia in un avvenire dei valori se scomposizioni e modificazioni, nella sostanza e nel metodo, non fanno che alterare la stessa capacità di un'inchiesta serena, domandandosi perfino se esista ancora un universo etico da osservare e ridisegnare? La relatività anche morale non si annuncia come l'ultima, vera parola della saggezza? Specialmente nei lustri intorno alla prima guerra mondiale il dubbio si fa assillante; nel dopoguerra, a qualche osservatore appassionato, per esempio, in Italia, a un critico sensibile come A. Tilgher, la filosofia del secolo progrediente appare caratterizzata, nelle sue più rappresentative manifestazioni europee, dal relativismo. Voci molteplici autorizzano questo giudizio. Eppure in questo stesso periodo - anno più anno meno - l'esperienza della relatività dei valori, facilitando la comprensione dei mutamenti, aiutando la sopraggiunta rapidità dei confronti, agevolando l'intendimento delle trasfigurazioni, dà alla valutazione etica un più vivo senso di mobilità che si traduce in capacità di più diretto approccio ai problemi nuovi e tradizionali, chiarendo una volta per tutte che prospettivismo dei valori non vuol dire morte dei valori. Questa opinione è tutt'altro che estemporanea: proviene, anzi, da lunghe meditazioni rese accorte dalla molteplicità delle modificazioni del mondo storico. Grazie a queste, la nuova etica nasce collaudata dalla storicità, meglio al riparo dalle tradizionali astrattezze del moralismo. Nella più esperta riflessione etica non è dato più, da tale momento, ignorare un principio acquisito: è valore ciò che vale. La storicità non respinge la moralità, ma la prova. ‟La storia è essa medesima la forza produttiva delle determinazioni di valore, degli ideali, degli scopi, in base a cui viene determinato il significato di uomini e di avvenimenti": l'argomento di W. Dilthey (v. 1910; tr. it., p. 382), che non nega la finitudine del fenomeno storico, ma la promuove a condizione per l'affermazione dell'idealità, diventa in E. Troeltsch il tema di una nuova relatività, comprensibile, appunto, come relativa a valori. L'impossibilità di predeterminazione astratta dei valori impone di riconoscere quale valore o disvalore rechi in sé ogni evento, ogni atto, ogni individualità: codesta individualizzazione difficile, tesa alla determinazione di un significato di valore, non disconosce i valori, ma li esalta come protagonisti di una rinnovata storia del mondo (v. Troeltsch, 1922, p. 211). Il valore non vive che nei valori che faticosamente vivono nella storia, si affermano e si mutano nel suo seno, dando così un senso alle trasmutantisi vicende del divenire umano. Niente di più esasperatamente morale di questo relativismo; niente di meno nichilistico.

Naturalmente, per intendere l'importanza di tale svolta bisogna condividerne il sottinteso teoretico comune: la salvezza dei valori non è assicurata dalla conoscenza di quali e quanti siano i valori, di che cosa siano; per la loro presenza, una sola questione veramente preme: se siano, quale che sia il loro configurarsi. Tale verace deontologia presuppone il congedo definitivo di ogni ontologia che si rifletta sulla volontà di definizione delle essenze dei valori.

In questa prospettiva, l'esperienza morale non è più semplice sperimentazione, ma decisiva significazione: un valore non localizzato in una esperienza, non incarnato in un vissuto, è, alla lettera, insignificante: il suo esperito esistere è necessario al suo essere, che non può essere scisso dal suo significare. Nel libro intitolato sintomaticamente L'expérience morale, pubblicato la prima volta nel 1903 e più volte ristampato nei decenni successivi, F. Rauh prende posizione per l'etica di tutto il secolo esortando la filosofia alla concretezza: ‟Invece di fuggire in un'atmosfera immaginaria, respiriamo ogni verità, ogni bellezza. Non conosciamo un centro unico che sia la luce. Essa è tutta in ciascun raggio. Bisogna persuadere l'uomo di questo, insegnandogli così a dettagliare, a particolareggiare la stessa divinità". ‟Molte convinzioni si dissolverebbero, secondo noi, meno facilmente se non si continuasse a credere che un ideale non sia legittimamente giustificato che alla condizione d'essere assoluto o d'essere sospeso a una verità assoluta. A molti uomini basta, per essere scossi nella loro fede, scoprirne la storia. Il loro scetticismo, all'origine, ha una superstizione materialistica dell'eternità". Contro ‟il fantasma della verità una", bisogna rilevare che ‟l'uomo non può sentire l'infinito che in una forma particolare e concentrata. La verità non è fatta dall'insieme di tutte le verità. L'amore vero non è quello che passa di oggetto in oggetto. Soltanto una certezza localizzata soddisfa la coscienza, dà il senso di un possesso pieno" (v. Rauh, 19374, pp. 216- 217). Su uno sfondo culturale notevolmente diverso, sono raggiunte così le conclusioni teorizzate da M. Weber, da lui stesso applicate a morale e società. Per usare le parole del maggiore dei suoi ammiratori e interpreti, ‟Max Weber vide che ogni indagine è particolare e che il totale ci è precluso. Se potessi sapere l'universale delle cose umane [...] potrei derivarne gli eventi particolari come conseguenze necessarie. Io però riconosco sotto relativi angoli visuali regole e norme che toccano soltanto qualche lato del reale; afferro soltanto totalità relative, e non mai il tutto. Sotto qualsiasi forma la realtà è individuale, infinita, inesauribile. Nè esiste uno stato primordiale nel tempo, nè cosmico, né umano, dal quale, in quanto stato generale, non turbato da alcuna contingenza storica, si evolva l'individualità nella storia. La realtà è in ogni tempo ugualmente individuale nella molteplicità storica e infinita" (v. Jaspers, 1932; tr. it., pp. 62-63).

Riconosciuti i diritti della varietà degli ideali nella molteplicità dei valori, la morale si configura fondamentalmente come un sistema di scelte, in cui si colloca in primo piano il problema dei criteri da seguire nello scegliere l'azione retta. La pluralità dei valori cessa d'essere angustia e tormento, diventa condizione di più libera e mobile moralità. S'intende che dover scegliere è sempre inquietante, spesso doloroso, talvolta tragico. Ma l'etica affronta questo destino con nuova consapevolezza. Il fatto accidentale diventa essenziale teoria; quella che era limitazione diventa feconda possibilità di formazione e di modellamento. L'ultimo Simmel, ricollegandosi a tutta la propria speculazione precedente, rimedita e ribadisce: ‟Nei precedenti sistemi morali si era cercato di raggiungere l'unitarietà dell'etico per lo più per mezzo di un fine ultimo, cosicché un conflitto di doveri non sarebbe stato in verità propriamente possibile. Finché c'è uno scopo ultimo, non c'è ancora conflitto di doveri: infatti, data una meta fissa, la scelta della via più adatta deve essere infine possibile". ‟A questa concezione corrisponde il fatto che il conflitto dei doveri venne per lo più evitato e, se trattato, lo fu però sempre come un qualcosa di puramente provvisorio". ‟Fin quando c'è una legge razionalistico-universale, il conflitto è soltanto un momento della via verso il suo adempimento; ma se si separa il dovere stesso da tutti i contenuti del dovere, allora è ben possibile che esso si offra in ugual maniera a contenuti logicamente contraddittori. E allora si dà la possibilità metafisica del conflitto dei doveri". ‟Le istanze etiche si presentano così con la pretesa assoluta di concentrare la vita in un punto, proprio in quello morale". Ma ‟anche il conflitto è una forma di unità, infatti l'unità della lotta è spesso più grande di quella di una pacifica convivenza". Per questo verso, occorre finalmente riconoscere la possibilità etica del conflitto dei doveri: ‟Il conflitto è la scuola in cui l'io si forma" (v. Simmel, 1913; tr. it., pp. 79-80 e 87). ‟Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale, senza possibilità di conciliazione, come tra Dio e il Demonio" (v. Weber, 1917; tr. it., p. 332).

Esauritosi il maestoso sforzo per la creazione di un rigoroso, coerente monoteismo del valore, ritorna un politeismo, in cui i valori si ripresentano come divine idealità che si ripropongono con scoperta drammaticità alle scelte dell'uomo (v. Weber, 1919; tr. it., p. 31). Il compimento di questa scelta, che è impegno di tutta la sua personalità e collaudo della sua visione del mondo, è il suo dovere.

4. Autonomia e ambiguità

In molta parte dell'etica del Novecento domina la persuasione che l'uomo debba ‛verificare' nella propria esistenza, con la propria esistenza, la verità dei valori di cui è portatore e testimone. Così, la morale, nella sua vissuta universalità, verifica i suoi principi di esistenza allo stesso modo in cui ciascuna scienza verifica nella sperimentazione le sue ipotesi e i suoi metodi. In entrambi i casi, la verità non è un dato; non è un fatto se non come farsi: è un verum facere. Qui affinità e vicinanze fra conoscenza scientifica e vita etica sembrano più che mai palesi, nel secolo in cui la doverosa ammirazione per gli splendidi sviluppi del progresso scientifico è tale da rischiare continuamente di cadere nelle involuzioni grossolane della superstizione scientistica. Dentro questa comune vocazione alla verificazione sublimata, pare davvero che il primato dell'homo faber sia consacrato nella pienezza del trionfo. Eppure, sotto la soddisfazione delle comunanze fissate, delle analogie riconfermate, la differenza che dà alla verificazione dei valori etici connotazioni esclusive e capaci di nuovo rigorismo traspare in tutta la sua ritrovata evidenza quando tocchi all'uomo, nella sua essenziale nudità morale, prendere decisioni che riguardano in toto la pienezza della sua condizione. Il primato della coscienza su ogni scienza può chiedere d'essere riaffermato proprio in momenti culminanti della esperienza scientifica, nel corso di scambi, interazioni, collaborazioni conoscitive moventisi nella direzione della cooperazione tra conoscenze, dentro la quale non è negata, ma riesaminata e affinata la distinzione tra scienze naturali e scienze umane.

Nonostante la sicura necessità di tutte le cooperazioni, spontanee o pianificate - doverose, benemerite, proficue - la morale continua a essere marcata dal segno di contraddizione. Non può sfuggirvi perché non può sfuggire a se medesima. Per quanto faccia, l'etica non riesce a costruirsi durevolmente come scienza morale perché la sua scientificità è - per così dire - compromessa dalla illimitatezza cui la sua sistematicità è costretta: verificare l'ipotesi del lavoro dell'esistenza, rendersi conto del suo valore, è calcolare le prix de la vie, un calcolo che si sottrae a ogni economia. Tra i possibili conflitti dei doveri, il Novecento, più penosamente che mai, conosce il conflitto fra i doveri dello scienziato e quelli dell'uomo e impone, nella problematicità radicalizzata, una soluzione che è sofferenza e crisi. Nell'azione e nel pensiero di un fisico come J. R. Oppenheimer, verso la metà del secolo, la questione ha assunto aspetti emblematici. Ma che la scienza morale debba coincidere con la coscienza dell'uomo in quanto tale è verità nota all'etica del Novecento, anche al di fuori e a distanza dai conflitti ipotizzabili o reali. Le scelte in cui i valori morali devono essere verificati impegnano, senza residui, tutto un uomo come uomo. L'etica della responsabilità esige una responsabilità totale. In maniera quasi paradigmatica la riflessione di Weber sostiene la sua tesi al culmine di un'indagine dispiegata senza risparmio metodologico: ‟Dal momento che, nella grande maggioranza dei casi, ogni scopo al quale si tende costa oppure può costare qualcosa, l'autoriflessione di uomini che agiscano con responsabilità non può prescindere dalla reciproca misurazione dello scopo e delle conseguenze dell'agire [...]. Tradurre quella misurazione in una decisione non è certo più un compito possibile della scienza, bensì dell'uomo che agisce volontariamente: egli misura e sceglie tra i valori in questione secondo la propria coscienza e secondo la sua personale concezione del mondo. La scienza può condurre alla coscienza che ogni agire (e naturalmente anche, secondo le circostanze, il non-agire) significa nelle sue conseguenze una presa di posizione in favore di determinati valori, e perciò - il che oggi così volentieri è dimenticato - di regola contro altri. Compiere la scelta è però cosa sua" (v. Weber, 1904; tr. it., pp. 59-60).

In questa responsabilità tutta addossata - alla fine - sull'agente, considerato nella sua solitudine senza conforti, osservato in una finitudine che può farsi - se voglia e se sappia - un agire che, al di fuori di ogni trascendenza, può infinitamente trascendersi, si compendia, filosoficamente riformato e innovato, un rigorismo che viene di lontano e fa maturare, nell'etica contemporanea, gli spunti più fertili della morale moderna, che sono, infatti, luterani, calvinistici, giansenistici, pietistici nelle loro origini. L'io della nuova morale esistenziale deve trovare, come l'io kantiano, la forza per ascendere a un principio di universalità; ma, per le esperienze culturali già bruciate che ha alle spalle, non ha più la possibilità di universalizzare se medesimo sostanzializzandosi nell'ipostasi di una ‛Iità' che lo promuova a soggetto assoluto con un gigantismo gnoseologico ed etico che è espropriazione, non effettiva liberazione. Come l'uomo contemporaneo, l'io della filosofia esistenziale è vincolato irremovibilmente a una condizione tutta dolorosamente umana, da cui non c'è assolutezza neometafisica che possa trarlo fuori con le universalizzazioni lecite agli interventi di un deus ex machina idealistico. Certo, se l'io kantiano può evadere dalla severissima situazione in cui si è collocato ingigantendosi in un Noi che superi l'uomo nell'Umanità, l'io contemporaneo può ingrandirsi coincidendo con ipostasi in cui si riconosca: Nazione, Stato, Razza, Società, Classe, Storia. Ma queste evasioni lo portano fuori della condizione esistenziale, in luoghi intellettuali diversi e avversi, nei quali invano tenta spesso di trasferire i resti deformati di una terminologia esistenzialistica. La logica della condizione esistenziale, per il suo stesso rigorismo, di fatto rifiuta con intransigenza ogni collaborazione a chi voglia deformarla traslocandola in sedi concettuali estranee. È pronta, anzi, ad affrontare molte rinunce pur di rimanere fedele integralmente a se medesima. Ci sono parole di Jaspers in cui, involontariamente, le distanze dalla lezione di Kant sembrano potersi misurare quasi in maniera esemplificativa: ‟Non è possibile dedurre in modo soddisfacente da un comando o da una proibizione universale l'azione richiesta da una situazione concreta. Nella mutevole situazione storica la guida dell'azione è piuttosto ravvisata nell'istanza immediata e indeducibile del non-potere-che-fare-così. In questo caso, ciò che il singolo crede di sentire come ciò che deve fare è sempre abbandonato all'incertezza. Nel cuore di questo ascolto della guida di Dio si insinua il rischio dell'errore, e deve perciò regnare la modestia. Questo esclude la sicurezza del proprio convincimento, impedisce la universalizzazione del proprio agire ad esigenza per tutti, rimuove il fanatismo. Anche l'estrema chiarezza circa la via da seguire sotto la guida di Dio non può trasmutarsi nel convincimento che questa via sia l'unica vera per tutti. Nella stessa certezza della decisione, realizzantesi nel mondo, non può fare a meno di annidarsi un velo di dubbio" (v. Jaspers, 1950; tr. it., pp. 110-111).

In una condizione esistenziale che voglia trascendersi senza deformarsi, cioè rimanendo fedele alla propria inalienabile esistenzialità, l'insicurezza angosciosa è la premessa dell'assicurarsi etico. Chi si assicura volgendo le spalle a quella insicurezza si affida a tutele infide, rischiose, alienanti. L'autenticazione dell'Essere, che è nell'esserci, dipende dalla cura; non può tradire il senso di insicurezza che solo gli consente di comprendere la realtà, che non coincide con l'integrità di un esterno reale, ma lo penetra grazie a un conoscere che non proviene dal rapporto col mondano, con un essere-per-la-vita, bensì con un essere-per-la-morte, tale da non temere ogni tensione esistenziale nella sua autenticità. Senza questa tensione si può percorrere soltanto la via dell'inautenticazione. Esclusivamente in questa tensione è l'effettiva positività che sappia aspirare all'essere nel senso in cui deve: ‟Soltanto l'orientamento dell'esistenzialità, ‛interpretata' in modo ontologicamente ‛positivo', dà la garanzia che nel corso concreto dell'analisi della ‛coscienza' o della ‛vita' non si ponga alla base della ricerca un qualunque e indifferente senso di realtà" (v. Heidegger, 1927; tr. it., p. 225). Codesta forma di indifferenza, che sarebbe agli antipodi dell'angoscia, liberando dall'insicurezza, farebbe uscire dall'orbita dell'esistenzialità. Tutto lo Heidegger successivo a Essere e tempo, che è alla ricerca di una fondazione non realistica di una nuova ontologia, rimane nell'ambito dell'esistenzialismo, non si dona per intero a un nuovo Essere totalizzante; magari preferisce perdersi fra ‟sentieri che non menano da nessuna parte", preferisce consapevolmente saggiare il terreno di vie senza sbocco, piuttosto che cedere alle seduzioni di un ritorno all'ontologismo di tipo tradizionale; si comporta così perché, grazie alla premessa esistenziale, non può affidare il suo destino a sicurezze date.

Per questo, nonostante tutto, Jaspers e Heidegger sono gli autori che non vengono meno alla loro vocazione esistenzialistica. Mettono invece in crisi tale vocazione gli autori che abbandonano il timore e il tremore dell'insicurezza esistenziale, garanzia di tensione autentica, per farsi garantire conclusivamente da un Ente che certamente li rassicuri: è quel che accade alla falsa dialetticità del rapporto io-tu di O. H. Marcel, in cui il ‟vincolo del tu" cerca e trova il supporto di un superiore vincolante; è quel che accade alla ribadita dialogicità di Buber, che rinuncia alla ‟forza dialogica della situazione" quando ritiene di poter ‟concludere che Dio porta la propria assolutezza nella relazione con l'uomo" (v. Buber, 1923; tr. it., pp. 126 e 265): un'assolutezza portata da Dio esclude l'uomo dalla sua condizione esistenziale.

In confronto con queste assolutezze ritrovate, la morale di Sartre, condannata alla libertà, appare più atta a rimanere en situation, nell'intimità di una tensione consapevole del suo affacciarsi al baratro ineliminabile della néantisation (v. Jeanson, 1947, pp. 298 ss.), in più d'un caso disposta ad abbandonare l'ambiguità piuttosto che a mantenerla ad ogni costo, come pure proclama. La vera ambiguità è una situazione difficile e austera. Sembra essere meglio consapevole di ciò S. de Beauvoir, la quale, partendo dalle suggestioni sartriane di L'Essere e il Nulla, conosce forse più d'ogni altro le condizioni necessarie poste per completarla, non per negarla: ‟Per riprendere l'espressione di Kant, il valore di un atto non risiede nella sua conformità a un modello esteriore, ma nella sua verità interiore". ‟La morale non fornisce ricette. Si possono proporre solamente dei metodi". ‟Il bene di un individuo o di un gruppo di individui merita d'essere assunto come un fine assoluto della nostra azione, ma noi non siamo autorizzati a decidere a priori di questo bene. Positivamente, il precetto sarà di trattare l'altro come una libertà e ciò in vista della sua libertà". ‟Riprendendo per proprio conto la rivolta di Descartes contro il genio maligno, l'orgoglio della canna pensante di fronte all'universo che la schiaccia, questa morale afferma che, nonostante i suoi limiti, attraverso questi, a ciascuno spetta realizzare la sua esistenza come un assoluto. Quali che siano le dimensioni vertiginose del mondo che ci circonda, lo spessore della nostra ignoranza, i rischi di catastrofi a venire e la nostra debolezza individuale in seno all'immensa collettività, resta il fatto che noi siamo liberi, oggi e assolutamente, se scegliamo di volere la nostra esistenza nella sua finitezza aperta sull'infinito". L'ambiguità, che non è l'equivocità, non è l'assurdità, l'ambiguità che implica la preoccupazione che l'antilogia sia affrontata non elusa dal logo, che l'antitesi sia contrapposta alla tesi senza meccanica conciliazione nella sintesi immancabile, l'ambiguità esistenziale, insomma, ammonisce che ‟l'azione deve essere vissuta nella sua verità, cioè nella coscienza delle antinomie che comporta" (v. de Beauvoir, 1947; tr. it., pp. 104, 107, 110, 113 e 126).

Così l'ambiguità si difende dal dogmatismo delle assolutezze e resiste a tutti i riduzionismi rivolti ad annullare le individualità racchiuse nelle contingenze: ‟La coscienza metafisica e morale muore a contatto con l'assoluto perché è essa stessa - al di là del mondo piatto della coscienza abitudinaria o addormentata - la viva connessione di me con me e di me con gli altri". ‟La contingenza di tutto quel che esiste e di tutto quel che vale non è una piccola verità a cui far posto, bene o male, in un anfratto del sistema, ma è la condizione di una visione metafisica del mondo". Infatti, in questo senso, ‟la metafisica non è una costruzione di concetti con i quali cercheremo di rendere meno sensibili i nostri paradossi; ma è l'esperienza che ne facciamo in ogni situazione della storia personale e collettiva e delle azioni che, assumendole, le trasformeranno in ragione" (v. Merleau-Ponty, 1948; tr. it., p. 119). Specialmente nelle sue posizioni etiche, la filosofia dell'esistenza, anche quando sia tutt'altro che vicina a insegnamenti di Jaspers, finisce coll'essere dominata da un convincimento illustrato specialmente dalla speculazione jaspersiana: ‟Sta ad ogni uomo realizzare se stesso". La morale si presenta sempre più chiaramente, in questa visione, come realizzazione dell'umano.

5. Logica del disordine e chiarificazione totale

L'insistenza sulla intenzionalità, sulla tensione, sulla varietà delle situazioni da penetrare, l'avversione alla precettistica, il rifiuto di ogni filosofia che pretenda essere possesso di verità anziché ricerca, non sembrano fatti per abolire crisi, disordine, molteplicità, bensì per comprenderne le ragioni, per esortare a un dinamismo di rapporti che si abitui ad accettarle. L'elogio dell'ambiguità come tentata dialettica aperta è davvero tipico: l'uomo del Novecento preferisce affrontare l'antinomicità permanente, guardarla con lucidità spietata, piuttosto che nasconderla nelle pieghe di un'armonia che, in un falso superamento degli opposti, emargini i contrasti, li attutisca o nasconda nella inconsistente solvibilità di soluzioni mistificate.

Fondamentalmente l'etica novecentesca non è un'etica di armonie restaurate ma di contrasti affrontati. La volontà di cogliere, nella concretezza, l'azione, la prassi, l'esistenza induce le correnti più varie del pensiero contemporaneo a stare in guardia contro ogni specie di concettualizzazione che avvii la riflessione a fare astrazione dalla realtà ineliminabile del contingente. Quasi simbolicamente, all'inizio del secolo, la proposta di M. Blondel per la fondazione di una logica della vita morale ammette che un linguaggio adeguato all'esperienza morale debba guardarsi dalla eliminazione programmatica delle antitesi, debba saper rimanere aderente alla dolorosa realtà dello stesso incompiuto, del medesimo disordinato. La logica della morale deve essere diversa proprio per questo: ‟Mentre l'ἀπόϕασις sopprime il concetto negato senza che gliene rimanga traccia, la στέρησις lascia nella potenza che poteva realizzarla le stimmate dell'atto che recide". ‟Noi abbiamo dunque bisogno di una logica reale che contenga ciò che la logica formale esclude come se non esistesse, di una scienza che ritrovi, per mezzo della riflessione, il nexus di tutti gli stati e perfino di tutti gli errori, la legge intrinseca, la norma immanente che renda intelligibili tutti gli svolgimenti opposti della vita e li giudichi in modo assoluto, comprendendo anche quelli che non saprebbe assolvere. Vi è una logica del disordine" (v. Blondel, 1903; tr. it., pp. 32-34). Questo è già un sostanziale riconoscimento del duplice, dell'ambiguo, del bipolare, del bidimensionale, ineliminabile dalla sofferenza del vivere, tipicamente riflessa nell'esperienza etica, quindi bisognosa di maniere espressive che sappiano rappresentarla specificamente come consapevolezza del significato di un'esperienza vissuta.

Per una rappresentazione idonea, conviene adeguare la logica ampliata a tale irriducibile materiale di riflessione, rendendola aderente alle sue sinuose, articolate dimensioni, oppure conviene eliminare dalla possibilità stessa della riflessione ogni prassi morale, riluttante all'impiego di misure tutte formalmente logiche? Il dilemma rispecchia le due soluzioni che possono essere date a uno stesso problema. L'unicità del problema fa sì che lo stesso autore possa muoversi fra le due risposte differenti: è quel che capita, di fatto, a Dewey che, per non essere riuscito a trovare un tipo di discorso adeguato al reale, meno concettualizzato di quello preparato o inaugurato da Socrate (v. Dewey, 1920; tr. it., pp. 96, 107 e 156), cerca adeguarsi a metri di valutazione che siano ricavati dalle esperienze metodologiche delle scienze fisico-matematiche, ritenuti applicabili alle misure dell'esperienza morale (v. Dewey, 1939; tr. it., p. 101).

Del resto, trovare un modo per chiarire una volta per tutte il significato delle proposizioni morali, che sono le più importanti della vita, portare a termine lo sforzo incominciato da Socrate nella ricerca di proposizioni morali chiare e univoche è il proposito che regge molta parte dello sforzo di chiarimento etico neopositivistico. M. Schlick lamenta che, nell'ordine delle cose morali, regni ai giorni nostri la stessa confusione che ai tempi di Socrate, laddove nelle cose della materia la conoscenza ha compiuto ben altri progressi grazie all'uso di mezzi conoscitivi adeguati (v. Schlick, 1938, p. 396). Maestri di logica matematica e di epistemologia avvertono in vario modo il disagio, l'ostacolo del discorso etico, quasi che il maneggiare proposizioni inesatte come quelle morali obblighi a un continuo discostarsi dall'esattismo proprio delle proposizioni più caratteristiche del metodo scientifico inteso in senso matematistico. È questo disagio che convince B. Russell a ricorrere spesso, in cospetto di questioni morali, a un tono brillante che ricorda - o vorrebbe ricordare - quello di D. Hume saggista e che, di fatto, appare legato a una mentalità di tipo settecentesco. Il medesimo disagio convince l'altro autore dei Principia mathematica, A. N. Whitehead, a cercare le origini delle idee morali ricostruendo il lungo percorso del loro avventuroso cammino, che le colora indelebilmente di striature variopinte, resistenti a ogni lessicale decolorazione chiarificatrice, quindi obbligando l'interprete a fare i conti con le varie realtà dominate dal simbolismo (v. Whitehead, 1927; tr. it., p. 65).

L'appello a una simbologia contrapposta a una semeiotica che circoscriva il felice dominio dell'esatto segno matematico è un mezzo a cui si può ricorrere per spiegare la corposa presenza di esperienze come quelle morali e quelle religiose, sfuggenti alle dimensioni di una razionalità tutta logicamente controllata sulla base di protocolli inequivocabilmente convenuti. In questo quadro, la costruzione della filosofia come nuova enciclopedia delle scienze conoscibili e comunicabili attraverso convenzioni restringe il dominio della conoscenza filosofica, singolarmente espellendone vaste zone, già acquisite da plurisecolari sforzi gnoseologici e metodologici compiuti da una lunga tradizione. Nessun riduzionismo filosofico più riduttivo di questo, che cerca di far coincidere l'etica col ragionamento etico, rinnovando le fatiche per la fondazione di una morale come scienza. Non a caso i Principia ethica - opera che nella cultura anglosassone ha avuto enorme influsso sugli studi di etica del Novecento - si presentano come i ‟prolegomeni a ogni etica futura che voglia presentarsi come scienza" (v. Moore, 1903; tr. it., p. 37). Tuttavia, G. E. Moore, più legato a J. Bentham e a J. S. Mill di quel che vorrebbe, non riesce a vedere la propria scienza che come una riformata, migliorata eudemonologia. Il suo proposito centrale rimane il perseguimento del bene come ideale: ‟L'ideale migliore che possiamo costruire sarà quello stato di cose che contiene il maggior numero di elementi dotati di valore positivo" (ibid., p. 288); le sue riflessioni più acute derivano da un'approfondita revisione del calcolo possibile degli elementi positivi, revisione dominata dalla convinzione che ogni unità organica contenga un insieme di elementi negativi che non può essere astrattamente separato dal tutto di cui partecipa. Comunque sia, tale tecnica di analisi del ragionamento etico attende che le proposizioni morali le siano offerte dal senso comune; neppure si pone il problema di una sintassi adeguata a tale analisi: epistemologia novecentesca e linguaggio matematico rimangono al di qua dei suoi interessi. I quali, infatti, sono più traditi che migliorati allorché, partendo da essi, la filosofia morale analitica ambisce sovrapporvi preoccupazioni metodologicamente assai più scaltrite, quasi completamente estranee a Moore e alle sue origini culturali. Tutta la chiarificazione debitrice a molti aspetti dei Principia ethica, per la sua duplicità, o involontaria doppiezza, di origini, anche in seguito ha col lavoro concreto delle scienze fisiche e della matematica contemporanee contatti più superficiali di quel che pretenda e, pure per questo suo interno limite, anziché raggiungere le altitudini del grandioso chiarimento, rimane al livello della grossa semplificazione. Molto di semplicistico, infatti, conservano le discussioni - persuasive, spesso, nei particolari - che dissertano sui limiti di controllabilità razionale del morale, destinato, in quote maggiori o minori, ad essere espulso dalla sfera del controllabile protocollarmente, quindi dal filosofico. L'imbarazzo di queste scelte limitanti è evidente in studi acutamente pensati come Etica e linguaggio di C. L. Stevenson o come Linguaggio, verità e logica (o, ancor più, come Il concetto di persona) di A. J. Ayer.

Il confinamento dei valori etici nel non-analizzabile, nel meramente persuasori, nell'emozionale è un'artificiosa limitazione dello spazio conoscitivo della filosofia: una limitazione che, in più d'una vicenda, sembra non convincere neppure i suoi fautori, molte volte tanto più energici nelle loro drastiche tesi quanto meno persuasi, e sempre occupati a spostare i pali confinari che circondano la loro ristretta concezione della razionalità. La meritoria attività di pulizia del linguaggio filosofico, nascente da un sacro- santo fastidio nei confronti della vacuità altisonante di discorsi gonfi di spiritualissima e generica eloquenza, finisce col sottrarre alla variegata polivalenza dell'esistere troppi suoi colori, sbiadisce ogni possibilità di conoscenza della varietà dei valori se si presenta nella funzione di autoclave del vissuto. Da un lato, un'etica ridotta ad antisettiche proposizioni analizzabili, significanti, è un'etica letteralmente e metaforicamente svalutata; da un altro lato, un'etica sospinta verso la pura parenetica delle persuasioni analiticamente non-significanti è una forza che, sottratta alla conoscenza, rimane pericolosamente abbandonata a se stessa, sospinta verso una incontrollabilità che rischia di autorizzarne, o giustificarne, gli esiti più passionali.

Il lavoro di igiene lessicale svolto nei confronti del linguaggio morale, pur visto nel suo aspetto di utilizzazione semplificatrice, attesta una difficoltà di comunicazione dei valori che costituisce, tuttavia, un segno in se stesso notevole. Ma, al livello della semplificazione, ha troppi aspetti per cui si limita alla marginale buona volontà delle analisi più ingenue. Però, dentro questo atteggiamento che, nella critica proposizionale movente da Moore, scade facilmente nell'ovvio o nel prolisso, c'è un versante in cui - contro la semplicità della revisione grammaticalistica delle proposizioni morali - ritorna il tragico, per rivendicare con pienezza i suoi antichi diritti in campo etico: è il versante wittgensteiniano. Qui la volenterosa pretesa di fare dell'etica una scienza è rifiutata una volta per tutte. Qui il ruolo dell'inesprimibilità etica è contrapposto - in contenuta drammaticità speculativa - alla discorsiva facilità delle analisi delle proposizioni logicamente corrette o scorrette. ‟L'etica, in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è la testimonianza di una tendenza dell'animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, mettere in ridicolo" (v. Wittgenstein, 1966; tr. it., pp. 18-19). Qui la consegna del tacere si specifica e chiarisce non tanto nella ragionata avversione contro le solite chiacchiere sull'etica, ma nel riconoscimento della fascinosa supremazia dell'inesprimibile etico, che è tanto profondamente filosofico da non permettere, addirittura, una filosofia morale: ‟Se un uomo potesse scrivere un libro di etica che fosse veramente un libro di etica, questo libro, distruggerebbe, con un'esplosione, tutti gli altri libri del mondo. Le nostre parole, usate come noi le usiamo nella scienza, sono strumenti capaci solo di contenere e di trasmettere significato e senso, senso e significato naturali. L'etica, se è qualcosa, è soprannaturale" (ibid., pp. 11 e 24). L'etica non può essere espressa perché dovrebbe parlare - se potesse parlare - un linguaggio tanto intimo da essere inesprimibile. Il bene assoluto è una chimera; ma è la caccia a questa chimera che rende umana l'esistenza dell'uomo. Qui l'arresto dell'esperienza logica e matematica, perfettamente possedute, è una coerente constatazione di inesprimibilità che non svaluta la concretezza morale, ma la pone al vertice dei valori del vivere. Tutta la logica del Tractatus si ferma davanti alla soglia dell'inesprimibile etico perché vi culmina. Per questo, ‟l'argomento del libro è etico", secondo una sconcertante dichiarazione dell'autore, che chiede di essere letto per quello che ha scritto e per quello che non ha scritto (v. Wittgenstein, 1967; tr. it., p. 115). L'enigma della vita non può essere sciolto logicamente: ‟È chiaro che l'etica non può formularsi" perché ‟l'etica è trascendentale" (v. Wittgenstein, 1933; tr. it., pp. 79-81). Tutta l'ansia logica del Tractatus, alla luce di questa chiarita inesprimibilità, può essere vista come un austero sforzo che liberi la strada dell'itinerario dalla parola al silenzio. La chiarificazione logica diventa, qui, una decontaminazione: la premessa possibile alla catarsi che prepari la trasfigurazione di tutti i valori. Perfino su questa via, il Novecento ritrova, al termine, Nietzsche (v. Wittgenstein, 1967; tr. it., p: 105). Singolarmente, dietro Wittgenstein o dietro Heidegger, si profila sempre l'ombra di Nietzsche: nel suo nome il silenzio del logo si fonde con la morte di Dio.

Se, con la mediazione di K. Barth, tutta la teologia che teorizza la morte di Dio si avvale soprattutto di formulazioni e maniere di Heidegger, con la mediazione postbarthiana di P. Van Buren, è una consonanza col tema di Wittgenstein a chiarire che il silenzio su Dio permetterà ai nuovi teologi di raggiungere il silenzio di Dio. L'insigne tradizione della teologia negativa tocca, così, in direzioni diverse dalle sue antiche previsioni, la negatività assoluta.

Se accettano di uscire dai rigidi confini del puro silenzio (che pochi pensatori del secolo servono col rigore monastico del clerc Wittgenstein), etica e teologia, ormai più abituate agli incontri eccezionali che ai vecchi consueti scontri quotidiani, sono disposte a ritornare alla parola non tanto per restaurare o rinnovare la teoria quanto per rinvigorire la fede nell'escatologia. Il ‟linguaggio di una nuova giustizia", auspicato da D. Bonhoeffer in Resistenza e resa, nell'attesa dell'avvento del regno di Dio non si differenzia per tratti profondi dalle pagine più mosse di Ateismo nel cristianesimo di E. Bloch: ‟L'onda finale sovversiva ed escatologica è travolgente, con l'exodus intrapreso, con il regno utopico nel tutto novum della sponda, fino alla frase di Agostino: Dies septimus nos ipsi erimus; nel giorno settimo che non è ancora venuto noi saremo noi stessi nella nostra comunità come nella nostra natura" (v. Bloch, 1968; tr. it., pp. 32-33). In questa visione della dialettica come dramma di vita, in questa forma di ambiguità novamente reclamata, non evitata, morale e religione rifiutano di entrare nelle dotte conversazioni di quello che lo stesso Bloch ironicamente chiama (un po' intendendo un po' fraintendendo) il ‟salotto di Bultmann, uomo moderno" (ibid., p. 76). In questo orizzonte, esse non chiedono demitizzazioni, ma rinnovati miti. Infatti, se il sacro non fosse, le dissacrazioni non sarebbero.

In cospetto dell'utopico riabilitato il moralista ha ragione di rimanere dubbioso tra riconoscimenti e timori; ma forse R. Niebuhr nella sua dubbiosità va oltre il segno: suo compito, infatti, è superare la perplessità, non limitarsi a esprimerla conclusivamente. Tuttavia, anche per questo, il suo atteggiamento critico è sintomatico: ‟Viviamo in un epoca in cui si accusa facilmente l'idealismo morale personale di essere un'ipocrisia, il che spesso è vero; in un'epoca in cui l'onestà è possibile solo se si situa ai margini del cinismo. Tutto ciò è veramente tragico. Per questo la coscienza individuale sente non come un lusso, ma come una necessità dello spirito, il suo dovere di elevarsi al di sopra del mondo della natura e del sistema delle relazioni collettive. Eppure c'è della bellezza nella nostra tragedia. Almeno ci siamo sbarazzati di alcune illusioni. Non possiamo più comprarci le soddisfazioni più profonde che si possano ottenere nella vita individuale a prezzo della ingiustizia sociale. Non possiamo costruirci la nostra scala personale per il paradiso lasciando la vicenda umana nel suo complesso irredenta dai suoi eccessi e dalle sue corruzioni. In quest'opera di redenzione gli agenti più efficaci saranno gli uomini che hanno sostituito alle vecchie alcune nuove illusioni. La più importante di queste illusioni è quella secondo cui la vita collettiva dell'uomo può essere organizzata in modo conforme alla più completa giustizia. È un'illusione di non poco rilievo: la giustizia non può essere realizzata nemmeno per approssimazione se la speranza di un suo perfetto compimento non genera nell'animo degli uomini una sublime pazzia. Solo questa pazzia può combattere con il potere malefico e con la malvagità spirituale delle alte sfere. Tale illusione è pericolosa perché incoraggia un terribile fanatismo; deve perciò essere posta sotto il controllo della ragione. C'è solo da sperare che quest'ultima non la distrugga prima che la sua opera sia compiuta" (v. Niebuhr, 1932; tr. it., pp. 193-195).

6. Considerazioni conclusive

L'etica del Novecento appare, a uno sguardo complessivo, severa. Le accuse di M. de Unamuno a un'etica superficialmente ottimistica, troppe volte abitudinaria e fiduciosa, ignara del sentimento tragico della vita, formulate in anni anteriori alla prima guerra mondiale, si confanno assai più a molte correnti dominanti nel tardo Ottocento che al pensiero novecentesco. In ogni caso, a parte confronti approssimati, un senso di severità è immanente alla maggior parte delle più rappresentative posizioni etiche del Novecento. La presentazione che ne abbiamo fatto lo prova, lo conferma. Non si tratta di un'impressione critica parziale od opinabile, ma di un dato che un quadro generale, pur sintetico, può agevolmente attestare. Come si spiega, allora, in contrasto con la riflessione etica del secolo, con le sue dottrine significative, un costume che, specialmente nel secondo cinquantennio, ha caratteri dominanti del tutto diversi, ispirati in maniera vistosa a un edonismo empirico ridotto all'indulgentismo più lassistico, tendenzialmente mal disposto verso ogni obbligo, ogni inibizione, ogni dovere? A voler indicare con una sola parola la mentalità che esprime codesto costume dilagato si potrebbe parlare di permissivismo. Niente di più lontano dal rigore del dovere, niente di più vicino alla rudimentale ambizione del ‛tutto sia permesso'. Senza un sistema di ragionate e ragionevoli rinunce accettate (modificabili, riformabili, mutevoli) nessun ordinamento etico e sociale può reggersi perché nessuna individualità può strutturarsi senza mediazioni che, oltrepassando l'immediatezza, la garantiscano dalla mera labilità, che è dell'inorganico, dell'informe, dell'inassociato o del dissociato. Si può condividere quanto si vuole l'opportuna, non peregrina, critica all'imperativismo, al precettismo etico, ma la normatività è indispensabile come esigenza di criteri di riferimento che permettano il compimento dell'agire. Quali che siano o debbano essere i criteri in sé, la normatività come tale è ineliminabile; Questa ovvia verità è stata, nel Novecento, confermata, non smentita dalle più progredite dottrine sociologiche e psicologiche. L'etica può, certamente, schierarsi dalla parte di coloro che diffidano dell'assillante preponderanza dell'invito esasperato al senso del dovere ed esortano a liberarsi dal ‟timore dinanzi alla pienezza della vita quotidiana" (v. Bonhoeffer, 1949; tr. it., p. 227). Innegabilmente, non c'è etica contemporanea che accetti di essere ridotta a ricettario moralistico. Tuttavia non c'è etica che possa fare a meno di richiedere, per la sua attuazione, rinunce e sacrifici. D'altro canto, un secolo che rifiutasse ogni ascesi non potrebbe partecipare, come il Novecento fortemente partecipa, dell'aspirazione di grandi trasformazioni sociali guidate da spirito di giustizia. Se non c'è etica senza ascetica, l'ascesi civile è più che mai indispensabile a ogni morale innovatrice e rivoluzionaria, che infatti non può esistere se non abbia i suoi eroi. Il permissivismo totale, di contro, non può sconfinare che nell'assurdismo come rinunciataria evasione, come diserzione dalla lotta dell'esistenza, come indifferentismo e atonia.

Di fronte alla semplicità di tali considerazioni, in che modo si spiega il lassismo diffuso nel costume novecentesco, il successo di ogni tesi che appena sia in condizione di fornire approssimativi alibi morali alla elusione delle responsabilità personali, alla diminuzione di fatica, di impegno, di energia, di slancio? Quali le ragioni dello scarto - vissuto dal secolo - tra un'etica che si compendia nell'elogio della tensione e un costume che dilaga nell'edonismo spicciolo, più o meno connesso alla gregale prosaicità consumistica? Lo scarto, invero, non esclude la relazione tra severità etica e lassismo pratico. La relazione esiste e può essere agevolmente, pur frettolosamente, colta.

Un'etica che pretenda, in maniera caratteristica, la tensione di ognuno, impegnato ad affermare e difendere la sua qualità di uomo in un mondo tutto umano, è tanto severa da risultare spietata. Non ammette distrazioni, vacanze, rinvii, aiuti, conforti. Nella tensionalità etica del Novecento rivive un rigorismo che, come abbiamo accennato, è proprio dell'intransigenza che anima originariamente tutta quanta l'etica moderna. La morale tradizionale era, fondamentalmente, una cosmologia: nella maestosa totalità del cosmo distribuiva pesi e contrappesi che prevedevano, per il soggetto affaticato, incluso in quelle dimensioni, compensi, lenimenti, sostegni e pause. La morale nuova è, fondamentalmente, una umanologia: mobile motore ne è l'uomo e solo l'uomo: non gli è consentito arrestarsi. Escluso ogni totalismo includente, rimane l'impegno totale di ognuno; esso impone un integrale agonismo perenne: l'esistenza è espansione della personalità, tesa nello sforzo del costante miglioramento. Se così non fosse, l'umanologia verrebbe meno, sarebbe costretta a chiedere ausili fisici e metafisici che, accettando di sostenere il soggetto umano, lo includerebbero di nuovo dentro realtà a lui esterne. Perciò l'uomo rifiuta queste tutele; ma, se le rifiuta, deve accettare di esistere in uno stato di perenne, nobilissima, consapevole precarietà, in cui non c'è stabilità conquistata che non appartenga all'equilibrio instabile della condizione umana. Perciò, ‟sulle grandi strade della nostra civiltà, non ci sono zone di sosta: tutti devono continuare a correre" (v. Horkheimer, 1947; tr. it., p. 137). La morale umanologica non può non essere severa fino alla crudeltà. Non a caso, al debole, al malato, all'inadeguato, all'inabile non ha parole di consolazione da dire. Se le dicesse, contraddirebbe la severa legge di sforzo e di lavoro che austeramente la domina e che si riflette e culmina, emblematicamente, nel lavoro morale personale che ogni uomo, per realizzare se stesso, deve indefettibilmente compiere.

Di fronte a tanta intransigenza, si capisce che gli uomini finiscano col trovare disumana questa umanologia e si rifugino nelle distrazioni dell'edonismo più banale. Il mobilismo etico senza sosta e senza conforti rischia di gettare i più ai margini del logorante agone esistenziale, pronti a cedere a qualunque seduzione che prometta o lasci intravvedere riposanti disimpegni o future, assolute stabilità, in facili miraggi che, nascendo dalla disperazione, possono conoscere l'illusione non la speranza. È vano credere che, nella faticosa corsa della vita, sia dato uscire di pista ai viventi che vogliano rimanere tali.

A nessuno è concesso sottrarsi al proprio compito agonistico, che è il primordiale dovere esistenziale. Ma la consapevolezza intima di questa ineluttabilità non è di tutti perché non è da tutti. Secondo la remota indicazione accettata e rinnovata dalla morale pietistica, giunta, specie attraverso Kant, alla dura severità dell'etica del Novecento, sapere sopportare con pienezza di dignità e chiarezza di coscienza l'inesorabile peso della responsabilità morale è degli eletti. L'etica del Novecento pretende convincere tutti a farsi degni di questa elezione con la piena assunzione delle responsabilità esistenziali, accettate e provate nel quotidiano impegno. Questa pretesa ha in sé qualcosa di eroicamente utopistico che, irrimediabilmente, dà luogo, per contraccolpo, all'aumento del numero degli evasori morali, dei disertori dalla battaglia della vita, dei nuovi lapsi. Eppure per tale pretesa, volta a rendere tutti degni pienamente di sopportare il peso della responsabilità morale, l'etica novecentesca si realizza in una idealità che la nobilita, inducendola a un programma che, in un sol tempo, la qualifica e la trascende. È un programma che - già estendendosi alteri saeculo - conferma in se medesimo l'intenzionalità teorizzata. Nel suo complesso, l'etica del Novecento, per essere se stessa, deve essere più di se stessa: deve dilatarsi, oltrepassarsi. Nel secolo, più che mai, il contrasto tra il costume quale è e i propositi dominanti nelle teorie etiche si palesa nella sua interna polemicità. Ma così, forse, il Novecento rende particolarmente evidente una differenza tra pratica morale e principi etici che appartiene funzionalmente alla universale dialettica della moralità e che, col suo sussistere, aiuta la morale non tanto a riconoscere, a esprimere un dato mos quanto a promuoverlo, a stimolarlo, a evocarlo, a trasformarlo. In fondo, sempre, le idee etiche o idealizzano o non sono se medesime: nel Novecento con particolare consapevolezza conoscono i limiti e la portata della loro strutturale funzione, che è di idealizzazione del reale. L'etica del Novecento sa di essere nient'altro che un processo di conversione di carenze, di deficienze, di imperfezioni. La sua chiaroveggenza non implica una resa, ma sottintende il riconoscimento dell'umana necessità di una tensione universale che induca ognuno a oltrepassare l'immediatezza del finito, con decisioni idonee a trasformare i voleri in valori.

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