Etologia

Enciclopedia del Novecento (1977)

Etologia

Danilo Mainardi

di Danilo Mainardi

Etologia

sommario: 1. L'etologia come scienza naturale. 2. Il comportamento direttamente controllato per via genetica e l'evoluzione del comportamento. 3. Il comportamento appreso. 4. Attività di mantenimento. 5. La socialità. 6. Biocomunicazione. 7. L'apprendimento sociale e le origini della cultura. 8. L'uso di arnesi. 9. Patologia del comportamento. □ Bibliografia.

1. L'etologia come scienza naturale

L'etologia rappresenta l'approccio naturalistico allo studio del comportamento animale. Si affianca, in questo senso, come metodologie e come finalità, alle altre discipline naturalistiche quali per esempio la zoologia sistematica, l'anatomia comparata, la fisiologia generale, l'ecologia. Come tutte queste scienze essa ha fortemente risentito del pensiero di Charles Darwin che nel 1872 pubblicò un libro sull'espressione dei sentimenti nell'uomo e negli altri animali (v. Ghiselin, 1973). È appunto l'impostazione naturalistica degli etologi che fa loro considerare l'oggetto del loro interesse, cioè il comportamento, come un aspetto del fenotipo dell'animale. In questo senso perciò il comportamento deve essere descritto, e deve esserne studiato il valore di sopravvivenza, per l'individuo e per la specie, nel contesto ambientale in cui l'animale s'è andato adattando. Da ciò deriva il costante riferimento all'ambiente naturale che l'etologo fa a livello interpretativo. Ciò non deve d'altro canto indurre a presupporre che gli studi etologici debbano necessariamente aver luogo, come talora erroneamente s'è pensato, esclusivamente in natura. Alla fase descrittiva, che mira alla costruzione di un ‛etogramma', e cioè all'esatta elencazione di tutti i moduli comportamentali di un animale, e che ovviamente deve svolgersi nel contesto naturale, seguono di norma sperimentazioni di laboratorio, a carattere spesso analitico, al fine di rispondere a differenti interrogativi. Citiamo a titolo esemplificativo lo studio dei processi fisiologici che sono all'origine dell'esplicarsi delle sequenze comportamentali (motivazioni); l'analisi delle funzioni e quindi del valore adattativo delle singole sequenze; lo studio delle influenze ambientali (incluso l'apprendimento) sul determinarsi dei comportamenti; i meccanismi di controllo genetico. Pure di grande interesse, per conoscere le possibilità di immediato adattamento (e di conseguente evoluzione) in nuove situazioni ambientali, sono le sperimentazioni di laboratorio che mettono gli animali nella condizione di esprimere quei comportamenti che sono detti ‛potenziali' e che, normalmente, in situazioni naturali non si manifestano. In questa luce possono essere interpretati, per esempio, i recenti risultati ottenuti sperimentando sulle possibilità di uso di arnesi o di apprendimento del linguaggio verbale umano da parte di scimpanzé in cattività (v. sotto, capp. 6 e 8).

Tradizionalmente si è soliti far risalire l'origine dell'etologia moderna al 1935, data della pubblicazione dell'opera di K. Lorenz Der Kumpan in der Umwelt des Vögels. Il nome ‛etologia', come studio delle abitudini degli animali, è stato coniato da E. Haeckel (1866).

2. Il comportamento direttamente controllato per via genetica e l'evoluzione del comportamento

Come avviene per tutte le caratteristiche fenotipiche, anche i comportamenti sono in una certa misura debitori della loro essenza a una porzione del genotipo dell'individuo che li manifesta. In un tentativo di semplificazione si possono distinguere i comportamenti in due grandi categorie: quelli in cui la mediazione ambientale che porta alla manifestazione del fenotipo è rappresentata da una qualche forma di esperienza (comportamento appreso), e quelli in cui detta mediazione si esplica attraverso il raggiungimento di un definito livello di sviluppo (maturazione), raggiunto il quale, e non prima, si può manifestare la sequenza comportamentale (comportamento innato). Di conseguenza il controllo genetico nel primo caso non è diretto sul comportamento, ma si esplica sulla capacità di apprendere; nel secondo caso invece il controllo genetico è diretto.

Secondo una terminologia che attualmente si ritiene superata i comportamenti a diretto controllo genetico sarebbero gli istinti: ci si è però resi conto che la mediazione ambientale molto spesso è ambigua e che anche in quelli che, nella comune accezione, sono i più classici istinti (per es.: della caccia, della riproduzione) entrano in gioco fattori di apprendimento. È però possibile isolare brevi sequenze a scarsissima variabilità individuale, spesso caratteristiche per le singole specie e indipendenti da fattori d'apprendimento, che sono state denominate moduli fissi di attività (fixed action patterns, modal action patterns). I più tipici e meno variabili moduli fissi di attività si ritrovano di norma nella parte terminale (consumatoria) delle sequenze comportamentali una volta dette istinti. A titolo esemplificativo facciamo riferimento al cosiddetto istinto della caccia, secondo una classica esemplificazione di N. Tinbergen (v., 1951), che ha preso come modello il falco pellegrino.

Il suo comportamento inizia con una fase, detta appetitiva o esploratoria, molto variabile, espressione dell'esistenza di una motivazione. All'incontro con gli stimoli-segnale (uno stormo di anatre in volo) il falco smette la fase esploratoria, cioè il cercare apparentemente a caso, e inizia un comportamento più specializzato, meno variabile, consistente in una serie di finti attacchi che portano all'isolamento di un membro dello stormo. A questo punto avviene la cattura, lo smembramento, la deglutizione; è questa una catena di azioni consumatorie formata da tipici moduli fissi di attività. Nel complesso del comportamento istintivo si nota di norma un progressivo diminuire della variabilità dei moduli di comportamento e un parallelo incremento della specializzazione e della stereotipia. Nell'analogo comportamento di caccia dei felini è ben nota l'interferenza di fenomeni di apprendimento: le caratteristiche dello stimolo-segnale (la preda) devono essere apprese, inoltre la comparsa della corretta sequenza di moduli fissi di attività deve essere sollecitata da particolari forme di insegnamento che la madre propone alla prole quando questa ha raggiunto il giusto livello di maturazione (v. Ewer, 1968).

L'approccio al problema dei meccanismi di eredità dei comportamenti non si differenzia sostanzialmente da quello di caratteri di altro tipo. La tecnica della selezione si presta specialmente per lo studio dei caratteri quantitativi. Si è così per esempio studiata l'ereditarietà della velocità nell'effettuare l'accoppiamento nel moscerino Drosophila melanogaster: dopo diciotto generazioni di selezione si sono ottenuti due ceppi, uno veloce e uno lento, nettamente differenziati (v. Manning, 1961). Parimenti si è ottenuta risposta alla selezione, selezionando a favore o contro la capacità di rispondere a segnalazioni chimiche d'allarme nel pesce Brachydanio reno (v. Gandolfi, 1972); numerosi altri esempi sono raccolti e illustrati nel testo di P. A. Parsons (v., 1967).

Altri caratteri comportamentali sono controllati geneticamente da una o poche coppie di geni, o per lo meno una o poche coppie agiscono come geni principali. In questi casi l'approccio è attraverso i classici incroci mendeliani (v. genetica). Così, per il topo, la tendenza all'esplorazione sembra essere controllata da una coppia allelica (v. Oliverio, 1972), e lo stesso dicasi per la Drosophila melanogaster per quanto riguarda la velocità di vibrazione delle ali durante il corteggiamento, un carattere comportamentale importante perché il maschio possa raggiungere l'accoppiamento (v. Bastock, 1956). Di notevole interesse è pure il caso delle cosiddette api igieniste, studiato da W. C. Rothenbuhler (v., 1964): quando una pupa muore, le api del ceppo igienista aprono la celletta in cui è contenuta e portano il cadavere fuori dall'alveare, mentre le api del ceppo non igienista non compiono queste operazioni. Gli individui ibridi tra questi due ceppi si comportano da non igienisti. Reincrociando questi ibridi con api igieniste si ottengono in uguali proporzioni quattro categorie di api: le igieniste, le non igieniste, api che aprono la celletta ma non trasportano il cadavere, api che non aprono la celletta ma che, se la trovano aperta, trasportano il cadavere. Le due sequenze che formano il comportamento dell'igienista, dunque, sono controllate da due geni recessivi indipendenti.

Lo studio della storia evolutiva dei comportamenti presenta la medesima difficoltà che si incontra studiando l'evoluzione delle parti molli dell'organismo: la notevolissima carenza di tracce fossili. Se infatti è vero che qualche informazione sul comportamento dei fossili si può dedurre dalle strutture corporee o dai segni che ci hanno lasciato, è anche vero che le maggiori speranze di ricostruire la storia evolutiva dei comportamenti risiedono nelle analisi comparative sulle specie viventi. Il confronto di specie affini adattate ad ambienti diversi offre la possibilità di reperire differenti fasi dell'evoluzione dei comportamenti, spesso sottoposti a pressioni selettive che si differenziano non solo qualitativamente, ma anche quantitativamente. L'etologia comparata utilizza i medesimi concetti di omologia (medesima origine) e di analogia (differente origine, ma simile o uguale funzione) dell'anatomia comparata. Nel caso di comportamenti omologhi è possibile alcune volte dedurre dal loro raffronto la loro storia evolutiva; in quello di comportamenti analoghi si possono avere informazioni sulle pressioni selettive che li hanno resi simili. Così, per esempio, l'origine del comportamento del maschio dell'insetto Hilaria sartor che offre alla femmina un palloncino di seta vuoto è stata ricostruita raffrontando il suo comportamento con quello di specie affini che portano alla femmina, con funzione di blocco dell'aggressività, un insetto morto come cibo (Empis scutellata), talora avvolto in un involucro di seta (Empis poplitea). In Hilaria l'offerta del cibo si è andata trasformando per il progressivo magnificarsi della parte accessoria della sequenza (la costruzione del palloncino), finché quest'ultima, divenuta stimolo sufficiente a far accettare senza aggressione il maschio, è rimasta come componente unica dell'azione di corteggiamento, essendo divenuta superflua la rituale cattura e l'offerta del cibo (v. Reuter, 1913).

Talora la comparazione è anche utile tra individui della stessa specie appartenenti a differenti classi d'età, oppure impegnati in diversi comportamenti. Si è così, per esempio, rilevato che comportamenti connessi alle cure parentali si ritrovano, con funzioni diverse, nel comportamento riproduttivo, oppure che comportamenti che originariamente hanno funzioni di mantenimento (il mangiare, il bere, il curarsi le penne o il pelo) possono evolversi in comportamenti di corteggiamento, magnificando in questo caso le sequenze che fungono da stimolo-segnale.

Quando l'animale si trova in una situazione conflittuale, cioè sottoposto a motivazioni di opposta tendenza (per es.: attrazione e fuga), compaiono comportamenti, detti appunto conflittuali, in cui si ritrovano alternate sequenze dei semplici comportamenti di origine. Ciò spesso si ritrova nel comportamento di corteggiamento (v. Bastock, 1967; v. Tinbergen, 1951).

Come si evolve il comportamento animale può anche essere studiato sperimentalmente: per esempio, usando specie di moscerini come Drosophila pseudoobscura e D. persimilis che in laboratorio non mostrano di possedere meccanismi etologici in grado di prevenire accoppiamenti interspecifici, è possibile ottenere, in un piccolo numero di generazioni (meno di venti), mediante selezione a favore dei pochi individui che sanno discriminare, popolazioni di queste specie che, pur convivendo, non producono ibridi che in piccolissima percentuale (v. Kessler, 1966). Si ripercorre così, sperimentalmente, l'adattamento etologico di specie affini, quando divengono simpatriche.

3. Il comportamento appreso

Parallelamente all'evolversi dei comportamenti direttamente controllati per via genetica si è andata evolvendo, nel regno animale, la capacità di modificare il comportamento attraverso l'esperienza. Ciò ovviamente significa l'evolversi delle capacità di apprendimento (v. Bitterman, 1965; v. Corning e altri, 1973) che del resto, appunto perché si evolvono, sono controllate geneticamente. In effetti, si conoscono molte ricerche, soprattutto sul ratto e sul topo, che illustrano l'ereditarietà delle capacità di apprendimento (v. Oliverio, 1972; v. Parsons, 1967).

Si dice che si è avuto apprendimento quando l'effetto dell'esperienza fa cambiare la ptobabilità che in una determinata situazione-stimolo si manifesti un certo modulo comportamentale. È evidente perciò come tra i prerequisiti essenziali perché il fenomeno si verifichi vi sia la capacità da parte dell'animale di accumulare informazioni, che vi sia quindi un sistema nervoso centrale che assicuri una qualche forma di memoria. Probabilmente, pur facendo capo a un unico processo centrale (v. Lunzer, 1968), l'apprendimento si esplica in varie forme che possono essere distinte e classificate. Verranno qui di seguito illustrate le principali forme di apprendimento che implicano esperienze individuali, mentre rimandiamo al cap. 7, riguardante l'apprendimento sociale e le origini della cultura, la trattazione delle forme di apprendimento che coinvolgono, con ruoli di solito differenti, più individui.

Una forma di apprendimento che si ritiene primitiva, anche perché la si ritrova in forme filogeneticamente poco evolute, addirittura in Protozoi (v. Osborn e altri, 1973; v. Patterson, 1973), è l'assuefazione o abitudine, che consiste nell'apprendere a non rispondere a uno stimolo rivelatosi indifferente (privo di interesse). Così, per esempio, i ragni si abituano a non andare più a ispezionare la ragnatela, se artificialmente la si fa ripetutamente vibrare a vuoto. Allo stesso modo i giovani uccelli terricoli apprendono, dopo alcune esperienze, a non aver paura delle foglie che cadono. È chiaro che attraverso l'assuefazione l'animale non acquisisce nuovi moduli comportamentali: apprende soltanto a non reagire più a stimoli-segnale divenuti inefficienti.

Due forme di apprendimento, il condizionamento e l'apprendimento per tentativi ed errori, fanno capo al medesimo meccanismo generale dell'associazione. Nei classici riflessi condizionati (v. Pavlov, 1940) vi è l'associazione di un nuovo stimolo a un preesistente sistema stimolo-risposta (v. condizionamento, meccanismo del). A seguito dell'associazione il nuovo stimolo può, in assenza di quello preesistente, provocare la risposta. Si conoscono alcune situazioni naturali in cui il comportamento è modificato da questo tipo di condizionamento. Ad esempio certi uccelli africani, gli indicatori del miele (Indicatoridae), rispondono con uno specifico comportamento all'incontro con un mustelide, il ratele: essi lo guidano fino a un alveare, che il ratele rompe asportando il miele, mentre poi gli indicatori intervengono nutrendosi degli insetti e della cera. Anche l'uomo primitivo africano, interessato a trovare gli alveari e a rubare il miele, ha iniziato a seguire spontaneamente gli indicatori: questi perciò sono stati condizionati e hanno associato la sua immagine al primitivo stimolo-segnale (il ratele). Per un lungo periodo di tempo perciò l'indicatore del miele ha fatto da guida anche all'uomo. Questo condizionamento tende ora a cadere, essendo ormai sempre più rari, a causa della progressiva civilizzazione, gli uomini interessati alla ricerca del miele selvatico.

Nel corso dell'attività esplorativa, l'animale può incontrare situazioni che gli producono, a seguito di un suo comportamento, un premio (rinforzo positivo) o una punizione (rinforzo negativo). L'animale apprende così ad associare i premi e le punizioni con determinati comportamenti. Col termine di apprendimento per tentativi ed errori si vuole descrivere infatti il risultato della generica attività esplorativa; tale forma di apprendimento è stata anche denominata condizionamento strumentale o operante (v. Skinner, 1938). Per studiare questo tipo di apprendimento s'è molto usata, nei laboratori, la classica gabbia di Skinner (v. condizionamento, meccanismo del), in cui l'animale deve apprendere ad associare un suo comportamento all'inizio casuale (il premere una leva) con l'ottenimento di un premio (di solito una piccola porzione di cibo). Moltissimi sono i casi, in natura, in cui gli animali adattano il loro comportamento alle contingenze ambientali usando l'apprendimento per tentativi ed errori.

Talora sembra che gli animali possano apprendere senza la necessità di un apparente rinforzo, cioè senza premi e punizioni. Si parla allora di apprendimento latente. Un ratto, per esempio, può apprendere come orientarsi in un labirinto semplicemente per averlo percorso, e in effetti, in natura, la conoscenza ambientale e le capacità di orientamento sembra che spesso si basino su questa forma di apprendimento.

Quando alla soluzione di un problema anche complesso l'animale arriva improvvisamente, senza aver fatto tentativi, si parla di intuito. Si presume che l'animale si serva di sue precedenti esperienze che combina per trarre la nuova soluzione. Sono soprattutto certe esperienze condotte da W. Köhler (v., 19272) con gli scimpanzé che dimostrano la presenza di questa forma di apprendimento; ma anche altri Mammiferi, e certi Uccelli, ne sarebbero dotati (v. Thorpe, 19632). Per fornire un esempio d'intuito, ricordiamo che gli scimpanzé risolvono già subito al primo approccio il problema di procurarsi del cibo che pende alto dal soffitto, impilando una serie di cassette sulle quali montare.

Pur dovendo sottolineare che esistono strettoie genetiche (costituzionali), talora considerevoli, per quanto riguarda ciò che l'animale può o non può apprendere (si veda al proposito una recente rassegna a cura di R. A. Hinde e J. Stevenson-Hinde, 1973), e di ciò si parlerà dettagliatamente a proposito dell'apprendimento sociale, appare evidente, da quanto descritto, come l'apprendimento consenta una certa dose di plasmabilità e flessibilità al comportamento, favorendo il rapido adattamento dell'individuo a situazioni ambientali mutevoli.

4. Attività di mantenimento

Tra le primarie funzioni del comportamento v'è il mantenimento in vita, e dunque in buona salute ed efficienza, dell'individuo che lo esprime. Si chiamano perciò attività di mantenimento quei comportamenti che in vario modo assolvono direttamente e primariamente a questa funzione. È bene innanzitutto rilevare che il comportamento dell'animale quando è da solo, cioè non in presenza di altri individui della sua stessa specie, non rientra necessariamente nella classificazione. Così un animale che marca i confini del proprio territorio lasciando una traccia chimica compie un'azione sociale (v. sotto, cap. 5) e lo stesso si può dire per l'insetto che sceglie, da solo, il luogo adatto per l'oviposizione. Quest'ultimo comportamento infatti è in funzione della sopravvivenza di altri individui. Va d'altra parte ricordato che non infrequentemente attività di mantenimento compiute in presenza di conspecifici ne modificano specificamente il comportamento: possono cioè secondariamente assumere il significato di elementi di comunicazione (messaggi) ed evolversi in questa nuova, sociale direzione.

Sono particolarmente da ricordare tra le tipiche attività di mantenimento i comportamenti relativi all'assunzione di alimenti, quelli in funzione dell'igiene del corpo, i comportamenti preparatori al sonno e il sonno stesso (v. Moruzzi, 1969); inoltre, analoghi a questi, i comportamenti relativi all'estivazione e all'ibernazione. Anche certe forme di gioco, che hanno la funzione di favorire la maturazione e di esercitare attività di mantenimento, possono essere considerate attività di mantenimento.

In situazioni che vengono ritenute conflittuali possono comparire, al di fuori del loro contesto logico e apparentemente senza una specifica motivazione, attività di mantenimento: si parla allora di attività di sostituzione. Per esempio, un'avocetta che sta combattendo può fermarsi di colpo, piegare il capo e porre il becco sotto l'ala, come se stesse dormendo. Sempre in situazioni conflittuali l'animale può ripetutamente manifestare comportamenti incompleti. Questi frammenti di moduli fissi d'azione vengono detti movimenti intenzionali. Facili da osservare e da interpretare sono i movimenti intenzionali degli uccelli incerti se spiccare o no il volo, che si inchinano, alzano la coda, aprono un poco e alzano le ali e poi ritornano alla posizione originaria.

5. La socialità

Se si assiste all'incontro tra due animali della stessa specie si possono frequentemente osservare manifestazioni di aggressività. La tendenza all'aggressività è un fenomeno normale nel regno animale e le sue manifestazioni si sono andate evolvendo, adattandosi ai differenti livelli di socialità. Per quanto una specie sia poco sociale, i suoi individui devono, salvo rare eccezioni, necessariamente riconoscersi ed entrare in contatto, almeno al momento della riproduzione (v. Mainardi, 1968). Lo sviluppo della socialità è correlato a un certo controllo dell'aggressività che avviene attraverso la sua ritualizzazione. Si manifestano infatti essenzialmente due forme di aggressività intraspecifica: l'aggressività aperta e l'aggressività ritualizzata (v. Carthy e Ebling, 1964). Quando l'aggressività è aperta la lotta si esprime cruentemente, senza esclusione di colpi, e può concludersi perfino in modo letale. In realtà in situazioni naturali la morte da aggressività intraspecifica è un evento raro, e si può affermare che l'aggressività aperta ha piuttosto la funzione di spaziare gli animali isolandoli. In effetti essa porta alla fuga di uno dei contendenti e, come fenomeno generale, nelle specie che la manifestano, produce una distribuzione quasi uniforme con grandi distanze individuali. In condizioni speciali, nelle quali invece la fuga è inibita, l'aggressività aperta può essere letale. Perciò confinando insieme animali asociali, come per esempio i pesci combattenti (Betta), si può assistere a combattimenti che terminano con la morte di uno dei contendenti.

La stretta convivenza di individui della stessa specie è legata, come s'è detto, alla ritualizzazione dell'aggressività. Con ciò si intende il modificarsi, in senso evolutivo, degli schemi del combattimento, in modo che esso sia reso incruento, o anche che possa venire bloccato da particolari risposte. Nelle forme più evolute in questa direzione, si può affermare che gli atti dell'aggressività aperta, con la ritualizzazione, si siano modificati in messaggi. Il combattimento diviene una sorta di conversazione, e chi ne esce sconfitto non muore né scappa: soltanto segnala, attraverso una rituale manifestazione di sottomissione, la sua sconfitta. Ciò gli permette la convivenza vicino al vincitore. Così il confinare in un ambiente chiuso due animali sociali, per esempio due topi maschi, non porta alla morte di uno di essi, come s'era visto per i pesci combattenti, bensì al formarsi di una piccola gerarchia.

V'è, come s'è visto, una stretta relazione tra socialità, ritualizzazione dell'aggressività e distribuzione degli individui nello spazio. Un fenomeno per buona parte dipendente da questi fatti è il territorialismo: la difesa di un'area dall'ingresso di conspecifici. Nell'ambito di questa definizione esiste un'amplissima gamma di territori che sono in relazione sia con il livello di socialità sia con le funzioni primarie per cui l'area è difesa. Si conoscono infatti territori di pascolo (trofici), territori per la riproduzione, territori di pernottamento, di svernamento, di raduno premigratorio. Seppure di solito i territori siano aree ben definibili, fisse e confinate, in certe specie erratiche il territorio è mobile e in realtà rappresenta una certa area ideale intorno a un gruppo o a un individuo in movimento. Così per esempio in una mandria naturale di cavalli che si sposta pascolando, lo stallone non ammette che altri maschi adulti si avvicinino oltre un certo limite. È chiaro che, quando questo fenomeno del territorialismo mobile si applica a individui, invece che a gruppi, viene a coincidere con quello della difesa dello spazio individuale. In molte specie animali infatti gli individui non ammettono, salvo durante i rapporti sessuali o parentali, il superamento di un piccolo spazio intorno al proprio corpo.

Nel caso normale dei territori fissi, è possibile definire in tre parti tutta l'area occupata o occupabile da un animale: a) il territorio, cioè l'area difesa; b) l'area familiare, cioè l'area nota e non difesa su cui l'individuo compie di norma i suoi movimenti; c) l'area di esplorazione, quella cioè ignota, in cui l'individuo si avventura spinto da differenti motivazioni. Notevolmente differente è il comportamento entro il territorio, l'area familiare e durante le attività esploratorie. In generale si può affermare che l'aggressività dell'individuo decresce passando dal territorio all'area familiare e da questa a quella di esplorazione.

Il territorio può essere individuale, di coppia, oppure di gruppo. Nel caso del territorio individuale l'individuo accetta nel territorio il partner sessuale solo durante un breve periodo, dopo di che lo allontana. Esiste cioè solo durante un breve periodo la possibilità di convivenza di due adulti, mediante un blocco momentaneo dell'aggressività aperta. A titolo di esempio si può citare un pesce, lo spinarello (Gasterosteus aculeatus): in questa specie è il maschio che porta avanti le cure parentali, mentre la femmina viene allontanata dal territorio appena ha deposto le uova.

Nel territorio di coppia esiste invece in permanenza la possibilità di convivenza tra due adulti di sesso diverso. Gli esempi sono numerosi: da moltissime specie di passeriformi a certi topi dei boschi americani (Peromyscus), alla volpe. Si parla invece di territorio di gruppo quando più di due adulti convivono nello stesso territorio; in questa classificazione sono inclusi i territori delle specie poligame, ove un solo maschio convive con più femmine, e di quelle cosiddette promiscue, in cui più maschi e più femmine adulti convivono. Si conoscono anche forme intermedie tra il territorio di coppia e quello poligamo, come in certe lucertole e in certi passeriformi della famiglia Ploceidae, in cui un maschio può visitare tanti territori adiacenti, ciascuno difeso da una femmina, che però non tollera l'ingresso delle altre femmine.

Un caso speciale di territorialismo è il comportamento d'arena, proprio di alcuni Uccelli e Mammiferi, come certi Tetraonidi, l'uccello combattente (Philomachus pugnax) e l'antilope dell'Uganda Adenota kob thomasi. In queste specie si nota l'aggregarsi di numerosi maschi che, come gladiatori in un'arena, simulano un combattimento. Ogni maschio occupa una ben definita porzione dell'arena detta ‛corte', che è un piccolo territorio individuale. Il complesso della manifestazione ha funzione di attraente sessuale per le femmine, che passando da una corte all'altra esercitano le loro scelte sessuali. Un'interessante evoluzione dell'arena si trova negli uccelli giardinieri (Ptilinorhynchidae). In questa famiglia alle dispute basate essenzialmente su atteggiamenti ritualizzati, che richiedono la contiguità delle corti, si sono sostituiti richiami e provocazioni canore, che hanno reso possibile l'espandersi delle corti nel folto della foresta. I maschi si mantengono perciò ugualmente in contatto, ma si evita l'affollarsi di più individui nello stesso posto, pericoloso richiamo per i predatori. A queste arene disperse in un ampia area è stato dato il nome di arene esplose.

Quando più animali convivono, si formano spesso delle gerarchie. Gli individui di un gruppo hanno cioè differente stato sociale. Il formarsi delle gerarchie è conseguenza della ritualizzazione dell'aggressività, in quanto questa consente la permanenza del sottomesso presso il predominante. È anche necessario che gli animali del gruppo sappiano riconoscersi individualmente, perché non vi sia ad ogni incontro un nuovo combattimento ritualizzato. Le gerarchie di solito sono stabili nel tempo.

Talora nello stesso gruppo è possibile mettere in evidonza più serie gerarchiche, come in certi bovini o nei topi. Animali di differente stato sociale o sesso hanno ruoli diversi nella difesa del territorio. In specie a territorio di coppia, in cui pure è possibile evidenziare una piccola gerarchia nell'ambito delle coppie, è anche possibile evidenziare situazioni gerarchiche fuori dal territorio. Nella gazza americana Cyanocitta stelleri, per esempio, è stato evidenziato il formarsi di complesse gerarchie nelle vicinanze dei luoghi dove gli individui vanno a cibarsi, con conseguenti privilegi alimentari.

Secondo quanto suggerito da V. C. Wynne-Edwards (v., 1962), la principale funzione del territorialismo è di determinare una programmazione a priori delle nascite, proporzionandole alla produttività dell'habitat. Infatti nelle specie a territorio monogamo, di coppia o poligamo solo i possessori di territorio, quegli individui cioè che si sono procacciati un'area sufficiente al mantenimento della prole, si riproducono; nelle specie cosiddette promiscue in realtà non tutti gli individui si riproducono ma, in condizioni normali, soltanto quelli con un determinato stato sociale. Sembrano, di solito, avvantaggiati grandemente i maschi di elevato stato sociale e, ma in modo meno evidente, le femmine di basso stato sociale. In condizioni di sovraffollamento il vantaggio delle femmine poco aggressive verrebbe annullato (v. Mainardi, 1968).

Come s'è visto, il momento obbligatorio per quasi tutte le specie per l'instaurarsi di rapporti interindividuali è legato alla riproduzione o, volendo delimitare al massimo, alla fecondazione dei gameti. In effetti, come si vedrà a proposito dei meccanismi di comunicazione, nel ritualizzarsi dell'aggressività, evento indispensabile per la socialità, si ritrovano, con funzioni di blocco dell'aggressività, sia segnali sessuali sia segnali legati alla richiesta di cure parentali. Il comportamento riproduttivo è dunque la parte centrale e più ampiamente distribuita della socialità.

Ogni specie presenta comportamenti di corteggiamento che hanno la funzione di facilitare la discriminazione di specie e di sesso e, dove esiste contatto corporeo tra gli individui, di bloccare l'aggressività cosicché possano venire superati i confini delle distanze individuali. Di norma i comportamenti di corteggiamento sono sequenze di moduli fissi di attività. Gli stimoli primari che determinano l'innescarsi del comportamento di corteggiamento in certe specie vengono appresi in età precoce e in modo irreversibile (v. sotto, cap. 7). Frequentemente il comportamento di corteggiamento ha un'origine conflittuale, ritrovandosi in esso alternate brevi sequenze di comportamenti motivati dalla tendenza alla fuga (o all'attacco) e alla socializzazione (v. Bastock, 1967).

Il comportamento di corteggiamento può essere più o meno complesso a seconda della necessità o meno di discriminare tra specie affini. Così, quando più specie affini convivono, il loro corteggiamento è molto complesso e discriminante, riducendo ciò grandemente la possibilità di inseminazioni interspecifiche.

I comportamenti di corteggiamento, e in genere tutto il comportamento riproduttivo, sono influenzati dal fatto che le specie siano monogame o poligame. La forte pressione selettiva della selezione sessuale, per cui buona parte degli individui di un sesso (di norma il maschile) a ogni generazione viene esclusa dalla riproduzione, ha determinato un forte dimorfismo legato ai caratteri che determinano, o attraverso la scelta delle femmine o mediante la competizione tra i maschi, un vantaggio riproduttivo. Ciò spiega perché i maschi delle specie poligame abbiano un aspetto vistoso, terrifico e aggressivo. Preferenze sessuali intraspecifiche si possono comunque manifestare anche nell'ambito delle specie monogame, seppure con risultati meno drastici; ciò ovviamente avviene quando esiste variabilità nell'ambito dei segnali che determinano il riconoscimento di sesso e di specie. Perciò preferenze sessuali sono state frequentemente dimostrate negli animali domestici, che sono spesso molto variabili anche da questo punto di vista (v. Mainardi, 1968). I maschi delle specie poligame di norma non partecipano alla costruzione del nido e alle altre cure parentali, mentre ciò solitamente avviene per le specie monogame.

Nelle specie a territorio riproduttivo i segnali che hanno la funzione di proclamazione di possesso di territorio, e che hanno effetto terrifico sugli altri maschi, devono essere anche considerati parte del comportamento di corteggia- mento in quanto, e questo soprattutto è il caso degli uccelli canori, hanno funzione di attraente sessuale sulle femmine.

Il comportamento riproduttivo si esplica attraverso molte attività, che si differenziano di gruppo in gruppo e di specie in specie. Il corteggiamento (talora ridotto a un semplice scambio di segnali per il riconoscimento di specie) culmina con l'inseminazione, che può essere esterna, interna, o interna mediante trasferimento di una spermatofora. In certi casi è frequente l'inseminazione multipla, in altri si sono evoluti meccanismi sia morfologici che fisiologici ed etologici atti a prevenire una seconda inseminazione (v. Parker, 1970). Possono inoltre essere presenti la costruzione di nidi (talora nella fase del corteggiamento), la ricerca del luogo adatto per la deposizione delle uova, l'incubazione, la preparazione di materiale alimentare per la prole, prima che questa sia nata, e infine le vere e proprie cure parentali, consistenti nell'offrire ai giovani alimenti, protezione e anche una serie di informazioni che facilitano l'inserimento nella vita adulta, attraverso tradizioni sociali collaudate (v. sotto, cap. 7).

Se per comportamento altruistico si intende quello che avvantaggia altri individui, a svantaggio di chi lo esplica, è chiaro che già tutto il comportamento parentale deve intendersi tale. In certe specie inoltre il comportamento parentale viene esteso anche ad altri individui che non sono i figli. Così per esempio il topo (Mus musculus) forma frequentemente nidi collettivi, dove le diverse madri offrono indifferentemente le loro mammelle a tutti i piccoli, come in una comunitaria ‛banca del latte'. Allo stesso modo i giovani della gazza messicana Aphelocosma ultramarina ottengono solo il 26% del cibo dai genitori, per il resto essendo imboccati da conspecifici estranei. Altro interessante comportamento altruistico legato alla riproduzione è quello di distrazione del predatore, presente in molti Uccelli nidificanti sul terreno: all'avvicinarsi al nido di un mammifero predatore l'uccello si comporta come se, avendo un'ala rotta, tentasse invano di spiccare il volo e, così facendo, conduce sempre più lontano dal nido il predatore finché, a un certo momento, fugge spiccando un volo deciso. L'analisi etologica spiega che questo comportamento si produce sotto la spinta di due motivazioni in conflitto, quella di difesa della prole, che tende a far dirigere verso il nido, e quella di fuga dal predatore, che tende a far spiccare il volo. Quando, essendosi l'uccello sufficientemente allontanato dal nido, la motivazione di difesa s'è affievolita, l'uccello spicca veramente il volo.

Tra i comportamenti altruistici meritano d'essere citati i comportamenti allarmistici (in certe specie di Insetti, Uccelli, Pesci, alcuni individui, dando l'allarme per l'avvicinarsi di un predatore, talora attraggono su se stessi la sua attenzione) e il comportamento dei delfini, che, quando un membro del gruppo è ferito, lo sostengono a pelo d'acqua in modo che possa continuare a respirare (v. Pilleri e Knuckey, 1969). Per spiegare come comportamenti di questo tipo abbiano evolutivamente successo, si deve ricorrere a teorie che implicano una selezione naturale non più a livello di individuo, ma sopraindividuale (v. Wynne-Edwards, 1962; v. Maynard-Smith, 1964). I gruppi in cui avvengono i comportamenti altruistici sarebbero cioè avvantaggiati rispetto a quelli in cui tali comportamenti sono assenti. Evidentemente un tale tipo di selezione ha tanto più effetto quanto maggiore è l'affinità genetica tra l'altruista e chi ne riceve vantaggio diretto.

In questo discorso sul vantaggio selettivo del gruppo trovano la loro giustificazione, da un punto di vista evolutivo, le specializzazioni comportamentali le quali spesso rispecchiano anche profondi differenziamenti a livello fisiomorfologico, che caratterizzano molte società animali. Nei casi tipici di certe società di Imenotteri il differenziamento dei ruoli è così rigido che l'individuo non può sopravvivere al di fuori della società per cui è adattato. Nei Vertebrati invece v'è maggiore plasticità: benché i ruoli siano spesso differenti nelle società di tipo gerarchico, un cambiamento nello stato sociale automaticamente modifica il ruolo dell'individuo nella società.

Nell'ambito del comportamento sociale va senz'altro ricordato il comportamento di gioco, presente spesso nei Mammiferi e talora negli Uccelli. Si tratta di un'attività motoria i cui moduli, derivati da quelli di altre attività, vengono espressi in maniera particolare, piuttosto accentuata. Inoltre il gioco non porta, apparentemente, alcun vantaggio concreto all'animale che lo compie. Si dice allora trattarsi di un'attività autorimunerativa. Tra i giochi sociali vanno ricordati i giochi di lotta, tipici di Canidi, Felidi, Mustelidi, e caratteristici per lo scambio repentino dei ruoli dei partecipanti: l'individuo che subisce un attacco e assume posizioni di sottomissione può subito dopo trasformarsi in assalitore e prendere il ruolo del predominante. Sono anche frequenti i giochi sessuali. Macachi (Macaca mulatta) e cani, privati durante l'infanzia di giochi sessuali, hanno notevoli difficoltà nell'esprimere correttamente i moduli del comportamento sessuale prima non sperimentati (v. Harlow, 1961; v. Beach, 1945). Si può in generale asserire che una delle principali funzioni del gioco sociale infantile è l'esercitazione precoce di attività sociali dell'adulto (v. Jewell e Loizos, 1966).

Va infine ricordato che il gioco non è soltanto un'attività infantile. Esso si manifesta anche in gruppi di adulti. Nei lupi, per esempio, sembra avere la funzione di allentare situazioni socialmente troppo tese, ristabilendo rapporti amichevoli tra i membri del branco. Il gioco inoltre facilita l'imitazione, favorendo la trasmissione sociale (v. sotto, cap. 7).

6. Biocomunicazione

Gli esseri viventi si influenzano reciprocamente in vario modo. Così i fiori, attraverso colore, forma, odore, influenzano senz'altro il comportamento degli insetti impollinatori. Per consuetudine però si parla di biocomunicazione solo se il passaggio di informazione avviene attraverso specifici segnali, trasmessi da un individuo emittente, cui corrispondano specifiche risposte, emesse dal ricevente (v. Tavolga, 1970). Ovviamente tutto il comportamento sociale è sostenuto da una trama di messaggi, il cui significato può racchiudersi entro un numero abbastanza ben delimitabile di categorie: per esempio identificazione, fuga, attacco, gioco, accoppiamento e così via (v. W. J. Smith, 1969).

La qualità del segnale (dello stimolo) può essere fotica, termica, meccanica (acustica o tattile), chimica e anche elettrica, limitata in quest'ultimo caso a pochi pesci. Essa ovviamente dipende da un lato dalle possibilità di emissione e di ricezione delle diverse specie, dall'altro dal contesto ambientale in cui normalmente il messaggio viene emesso. Ciascuna specie comunque si serve di norma di più canali per lo scambio delle informazioni, spesso con preminenza dell'uno sull'altro. Oltre che dal contesto ambientale, la qualità del segnale dipende anche dal tipo di messaggio che viene trasmesso. Così il sistema tattile, che è abbastanza diffuso lungo la scala zoologica, ha come caratteristica limitante che gli animali, per trasmettersi un'informazione attraverso questa via, devono essere vicini l'uno all'altro. Segnali relativi alle ultime fasi del corteggiamento, oppure segnali connessi con le cure parentali, sono perciò frequentemente di questo tipo. Un caso speciale di comunicazione tattile interspecifica si trova nel rapporto simbiotico tra paguri e attinie.

La comunicazione attraverso il canale visivo - che è molto diffusa, in quanto la vista rappresenta in molti gruppi l'organo più evoluto per la ricezione dei segnali - esige che non vi siano ostacoli tra l'emittente e il ricevente; inoltre, salvo nei casi in cui gli animali stessi producono la luce, come le lucciole (v. bioluminescenza), funziona solo se l'ambiente è illuminato.

La comunicazione chimica avviene attraverso l'emissione di particolari sostanze denominate feromoni (v. ormoni negli invertebrati), già riscontrabili presso i Protozoi. I feromoni possono essere diretti, in quanto provocano un immediata risposta comportamentale, oppure indiretti, in quanto modificano lo stato fisiologico dell'individuo che li riceve. Agiscono dunque, in questo secondo caso, come ormoni di gruppo. Il linguaggio chimico offre notevoli possibilità di comunicazione e può essere altamente specifico. Inoltre sono di solito sufficienti poche molecole della sostanza perché venga modificato il comportamento del ricevente. Caratteristica del linguaggio chimico è la sua possibilità di permanere anche dopo che l'animale stesso si sia allontanato : perciò è spesso usato per marcare i confini territoriali o per lasciare altri generi di tracce.

I segnali acustici sono largamente usati nel regno animale e rappresentano probabilmente la via migliore per la costruzione di linguaggi complessi. I suoni possono infatti variare di frequenza, d'intensità e di ritmo di emissione. Possono coprire notevoli distanze, scavalcare ostacoli ed essere immediatamente combinati, sostituiti o soppressi.

I messaggi che costituiscono la comunicazione animale possono essere controllati geneticamente in modo diretto oppure appresi. Nel primo caso, siano essi rappresentati da strutture corporee, da secrezioni, da vocalizzazioni, da comportamenti, il loro evolversi non differisce fondamentalmente dall'evolversi di qualsiasi altra caratteristica animale. Ovviamente però la loro funzione di segnali fa sì che entrino sempre nel ruolo di selezione naturale gli individui che questi segnali devono recepire, e a cui devono specificamente rispondere modificando il loro comportamento. Di conseguenza una struttura o un comportamento che si evolve nella direzione di segnale deve rispondere a quelle caratteristiche che lo rendono efficiente per tale funzione. Deve, innanzitutto, attrarre l'attenzione. Studiando le modalità del comportamento di corteggiamento di numerose specie di Anatidi, ci si rende conto che certe attività di mantenimento si sono evolute come segnali sessualmente attrattivi. Tra questi citiamo il comportamento di assunzione di acqua e quello di cura igienica delle penne dell'ala. Ebbene, perdendo la loro funzione primaria, questi comportamenti hanno sviluppato mediante rallentamento, ripetizione, oppure mediante sottolineatura con suoni, quelle parti più adatte ad attrarre l'attenzione. Ciò ovviamente si può bene riscontrare dal raffronto con i comportamenti originari tuttora esistenti. Trattandosi poi di segnali la cui funzione primaria è di condurre a un corretto accoppiamento, si nota anche, mediante un'analisi comparativa tra specie affini, come in ogni specie sia stata sviluppata una differente caratteristica del comportamento originario: per esempio in una specie il lento estendersi di copritrici vivacemente colorate, in un'altra il rumoroso passare del becco attraverso le penne.

Naturalmente la funzione selettiva dell'individuo ricevente rappresenta soltanto una porzione delle pressioni selettive cui è sottoposto il segnale, e di conseguenza l'individuo che lo manifesta. Così i maschi delle specie poligame sono divenuti particolarmente cospicui a causa delle ingenti pressioni frutto della fortissima selezione sessuale e tali sono divenuti anche i predatori. Ciò ha probabilmente influito sul fatto che essi di norma non partecipano alle cure parentali, che siano cioè, per la specie, ‛spendibili' senza grave danno per la generazione che viene dopo.

Così, come è essenziale che i segnali che conducono all'accoppiamento siano differenti per ogni specie, tanto che si differenziano complicandosi quando più specie affini convivono, per altri segnali può essere vantaggiosa la generalizzazione. Esemplari, al proposito, sono i segnali d'allarme con cui un individuo avvisa i conspecifici della presenza di un predatore. Si osserva, in questo caso, un fenomeno di convergenza evolutiva: specie perseguitate dai medesimi predatori, pur se filogeneticamente non affini, tendono a sviluppare segnali d'allarme simili, che possono essere reciprocamente e correttamente percepiti. Una analogia si ritrova anche in quei segnali infantili che hanno la funzione di spegnere l'aggressività e di evocare comportamenti parentali.

Di norma un segnale non si serve solo di un canale di informazione, pur avendo spesso le informazioni trasmesse attraverso un canale maggior effetto di altre. Talora l'evoluzione consiste nella perdita d'importanza di un canale a favore di un altro. In certe blatte, per esempio, v'è comunicazione chimica effettuata tramite il pompaggio di feromoni dalle trachee: ciò provoca, secondariamente, dei rumori. Questo fatto secondario evidentemente è stato selezionato a favore in certe specie nelle quali si sono evoluti, in relazione alle strutture primitive, dei veri e propri apparati di stridulazione, mentre la comunicazione chimica è scomparsa.

L'evoluzione della comunicazione animale avviene anche attraverso il cambio di significato: per esempio, v'è un segnale, detto di presentazione dei genitali, che in molte specie di Mammiferi rispecchia la recettività sessuale della femmina. Tale segnale raggiunge anche, secondariamente, l'effetto di diminuire l'aggressività del maschio. In certe specie questo effetto secondario è divenuto la funzione primaria e il segnale di presentazione, persa ogni connotazione sessuale, viene utilizzato da maschi sottomessi e/o immaturi in funzione di segnale di sottomissione sociale. Tale fenomeno è stato denominato mimetismo intraspecifico (v. Wickler, 1968).

V'è poi il caso, ben rappresentato da certe vocalizzazioni degli Uccelli, dei messaggi che vengono appresi. In questi casi le pressioni selettive agiscono sulle capacità di apprendimento e su una serie di canalizzazioni o strettoie di vario tipo, che fanno sì che fra l'ampia gamma di suoni che l'ambiente offre, vengano appresi, in situazioni naturali, solo i giusti segnali. Quando la principale funzione del canto appreso è il riconoscimento di specie, l'imitazione vocale può avvenire limitatamente a una ben definita e precoce porzione della vita: ciò rende massime le probabilità di essere a contatto col giusto canto, che ovviamente è quello del padre. Al di là di questo periodo sensibile il canto non è più modificabile. Si parla allora di imprinting vocale (v. sotto, cap. 7). In certe specie, come nel passeriforme americano Zonotrichia leucophrys, solo il canto di un conspecifico può essere appreso; se durante il periodo sensibile, che va dal decimo al cinquantesimo giorno, gli Uccelli sono esposti al canto di un'altra specie, sviluppano un canto anormale, come se fossero stati allevati in isolamento acustico (v. Marler, 1970). Altre specie, come i passeriformi Tacniopygia guttata e Pyrrula pyrrula, necessitano, per l'imitazione vocale, di un legame socio-affettivo: così, per esempio, se sono adottati da un'altra specie, apprendono il canto della specie adottiva pur se in presenza di individui della loro stessa specie (v. Immelman, 1969; v. Nicolai, 1959).

Perché il canto si sviluppi normalmente è anche necessaria un'altra forma di apprendimento: l'uccello deve ascoltare se stesso mentre si esercita a voce sommessa (sottocanto). Il passeriforme americano Melospiza melodia per sviluppare un canto normale necessita esclusivamente dell'ascolto del proprio sottocanto (v. Mulligan, 1966).

I dialetti, cioè differenziamenti caratteristici di popolazioni entro la specie, non sono necessariamente presenti solo in specie in cui i segnali sono appresi, ma è soprattutto in questo caso che si manifestano.

Esistono inoltre casi di imitazione vocale non confina- ti in speciali periodi sensibili. Si tratta del canto antifonale, di Uccelli cioè che alternano i loro canti personali formando duetti (eccezionalmente trii o quartetti). Tale comportamento è stato descritto in numerose specie appartenenti a ben trentadue famiglie d'Uccelli (v. Thorpe e altri, 1972). Particolarmente studiata a proposito è l'averla africana Laniarius aethiopicus. Si ritiene che i duetti abbiano un'importante funzione socio-sessuale, contribuendo a mantenere la coesione tra maschio e femmina e favorendo il riconoscimento individuale là dove la visibilità è insufficiente. Quando uno dei coniugi è assente dal territorio, l'altro sa replicare l'intero duetto (sa perciò imitare vocalmente) e ciò determina il pronto ritorno dell'individuo che si era assentato.

Un altro caso di imitazione vocale non limitato da periodi sensibili riguarda i richiami di volo (brevi vocalizzazioni) di alcuni Fringillidi. Al formarsi delle coppie i coniugi, per reciproca imitazione, unificano il proprio richiamo. Ciò ha funzione di riconoscimento individuale; durante la stagione invernale l'unificazione avviene a livello di gruppi, talora anche polispecifici. In questo caso la funzione del richiamo è di indicazione di appartenenza al gruppo (v. Mundinger, 1970). Pure l'imitazione vocale dei più famosi imitatori, tra cui la Gracula religiosa, assolverebbe a funzioni di riconoscimento individuale, di sesso, di popolazione (v. Bertram, 1970).

Dopo alcuni tentativi quasi completamente infruttuosi di far apprendere a scimpanzé a servirsi della comunicazione verbale umana, falliti per l'incapacità di imitazione vocale di questi Primati, un ottimo successo hanno avuto le sperimentazioni tese a insegnare a giovani scimpanzé un linguaggio a segni dei sordomuti (American sign language; v. Gardner e Gardner, 1969; v. Fouts, 1973), oppure a esprimersi tramite simboli di plastica magnetizzati da ordinare su una lavagna magnetica (v. Premack, 1971). Con questi mezzi gli scimpanzé hanno appreso a comunicare attivamente con gli sperimentatori. Da un'analisi fatta sull'uso del linguaggio umano da parte di una scimpanzé abituata a esprimersi tramite l'American sign language (v. Bronowski e Bellugi, 1970), è risultato che gli scimpanzé possiedono le seguenti capacità intellettuali, che sono pure tra le principali caratterizzanti del linguaggio umano: 1) la possibilità di frammettere un prolungato periodo di tempo tra la percezione dello stimolo e l'emissione del messaggio; 2) l'emancipazione del contesto del messaggio da cariche affettive o emozionali; 3) l'estendersi temporale, nel passato e nel futuro, dei riferimenti; 4) l'internalizzazione del linguaggio, che cessa di essere soltanto un mezzo di comunicazione sociale e diviene anche strumento di riflessione e di esplorazione, con cui il soggetto costruisce ipotetici messaggi, prima di scegliere quale trasmettere. Lo scimpanzé è risultato capace di combinare i segni per trasmettere messaggi diversi e anche, a seguito di un particolare insegnamento portato avanti da D. Premack (v., 1971), di usare correttamente della grammatica e della sintassi. I residui sospetti che questi Primati addestrati sapessero cogliere inconsci cenni da parte degli sperimentatori e che di ciò si servissero per rispondere correttamente, così come in passato era successo per cani o cavalli cosiddetti parlanti o calcolatori, sono stati fugati dalle recenti sperimentazioni di D. M. Rumbaugh e altri (v., 1973), che hanno addestrato uno scimpanzé a comunicare, usando un linguaggio simbolico componibile analogo ai precedenti, tramite un calcolatore elettronico.

La comunicazione, nell'uomo, si distingue in verbale e non verbale. Quest'ultima si esplica attraverso: a) comportamento cinetico, cioè gesti e altri movimenti del corpo, inclusi le espressioni facciali, i movimenti degli occhi e l'atteggiamento generale che un individuo assume; b) paralinguaggio, cioè la tonalità della voce, le interruzioni e altri suoni quali risa, sospiri o sbadigli; c) rapporti spaziali tra gli individui e l'uso dello speciale spazio (prossemica); d) olfatto; e) sensibilità della pelle al tatto e alla temperatura; f) uso di artefatti, quali vestiti e cosmetici.

La comunicazione non verbale, pur non essendo esente da influenze culturali, è la parte della comunicazione umana più affine alla comunicazione animale. I. Eibl-Eibesfeldt (v., 1970) ha raccolto una notevole casistica di moduli fissi d'azione nell'uomo, relativi al comportamento di corteggiamento (flirting behaviour), indipendenti da fattori di apprendimento e praticamente identici in ragazze di Samoa, Papua, Francia, Giappone, Africa e Sudamerica. Studiando il comportamento di bambini nati ciechi e sordomuti e raffrontandolo con quello di coetanei normali, ha potuto anche evidenziare che buona parte della mimica facciale è indipendente da influenze culturali.

Per quanto riguarda la comunicazione verbale, è verosimile ritenere (v. Mainardi, Origine..., 1974) che essa sia comparsa prima dell'Homo sapiens, a livello del più antico Homo erectus o prima ancora, a livello dell'Australopithecus. Le ricostruzioni sul tipo di socialità di queste forme fossili (caccia di gruppo, esistenza di un campo base, uso di arnesi) fanno apparire indispensabile l'esistenza di un linguaggio plastico come quello della specie umana, seppure ovviamente molto più primitivo. Per quanto riguarda l'uso di arnesi v'è una notevole analogia tra i processi conoscitivi richiesti per la fabbricazione di utensili e quelli per la comunicazione per mezzo del linguaggio simbolico. I recenti reperti sulle capacità di uso della comunicazione verbale umana da parte di scimpanzé rendono, d'altro canto, quanto mai verosimile il supporre capacità analoghe già nell'Australopithecus.

Rimane da rilevare come l'uomo sia l'unico, tra i Primati, dotato di imitazione vocale. Si è a questo proposito supposto un fenomeno di evoluzione convergente con quegli Uccelli che, al pari dell'uomo, mantengono durante l'intero corso della vita capacità di imitazione vocale. Le pressioni selettive, anche in questo caso, sarebbero state a favore dell'instaurarsi di meccanismi plastici di riconoscimento individuale o di appartenenza al gruppo, facilitanti il riconoscimento e il contatto a distanza durante le cacce di gruppo. Comunque, una volta instaurato il primitiyo meccanismo della comunicazione verbale, risultano ovvie le pressioni selettive a favore del suo sviluppo, considerando l'importanza che i fenomeni di trasmissione culturale hanno avuto e hanno per l'adattamento della linea evolutiva che ha portato all'Homo sapiens.

7. L'apprendimento sociale e le origini della cultura

Comportamenti appresi con esperienze individuali, oppure vari tipi di informazioni, possono essere trasmessi da un individuo all'altro attraverso alcune forme di apprendimento che appunto perché implicano interazione tra almeno due individui vengono dette sociali. Di grande rilievo, in questo contesto, è l'imprinting o apprendimento precoce in fase sensibile. Il fenomeno fu per la prima volta descritto da D. A. Spalding (v., 1873) ma fu soprattutto Lorenz (v., 1935 e 1937) ad accentuarne l'importanza stimolando un gran numero di ricerche sperimentali. Si tratta di una forma di apprendimento caratterizzata dal suo attuarsi soltanto durante un periodo sensibile, ben delimitato e solitamente precoce. Altre caratteristiche sono la quasi assoluta irreversibilità, cioè impossibilità di annullarne in seguito gli effetti, la non necessità di un premio apparente perché avvenga l'apprendimento e, nell'ambito del periodo sensibile, l'importanza della priorità dello stimolo (v. Hess, 1973; v. Sluckin, 1970; v. F. V. Smith, 1969).

Tra i vari aspetti del comportamento animale, che sono influenzati dall'imprinting, preminente è il rapporto prole- genitori. È stato dimostrato che il primo oggetto in movimento che viene a contatto con giovani durante il periodo sensibile viene assimilato come genitore, e a questo vengono indirizzati i comportamenti propri del rapporto. Già s'è visto, a proposito del canto territoriale degli uccelli canori, come questo venga appreso, e fissato indelebilmente, attraverso imprinting vocale. L'immagine su cui si accentra il comportamento affettivo filiale focalizza anche l'immagine di specie, e perciò indirizza, nella vita adulta, i comportamenti sociali e specificamente sessuali. Così un animale (particolarmente un mammifero o un uccello) che ha subito un imprinting errato può risultare sessualmente e socialmente deviato. Variabilità a livello dei segnali di specie o di sesso può determinare, entro la specie, preferenze sociali o sessuali, e questo può riflettersi sul destino evolutivo della popolazione attraverso varie forme di accoppiamenti assortativi (v. Mainardi, 1968; v. Karlin, 1969).

Altre informazioni trasmesse attraverso l'imprinting possono riguardare l'alimentazione. In certe specie d'Uccelli, come il passeriforme Taeniopigia castanotis (v. Rabinowitch, 1969) e il pollo (v. Burghardt, 1969; v. Capretta, 1969), le preferenze alimentari vengono precocemente trasmesse da una generazione all'altra: nel primo caso, trattandosi di prole inetta, mediante imboccamento, nel secondo con una speciale forma di insegnamento. La chioccia, infatti, con appropriati movimenti e vocalizzazioni, insegna ai pulcini cosa devono mangiare. Analoghe forme di insegnamento, relative all'immagine di preda e su come ordinare le sequenze di caccia, vengono messe in atto nei felini (v. Ewer, 1968). Oltre a ciò si conoscono anche casi in cui dall'imprinting dipende la scelta del substrato per la deposizione delle uova, dell'ospite da parassitizzare, dell'habitat (v. Mainardi, L'animale culturale, 1974). Non sempre la trasmissione avviene in modo palesemente e direttamente sociale, pur essendovi di solito almeno un'influenza del comportamento dei genitori su ciò che apprendono i figli. Nel caso per esempio delle preferenze per un determinato habitat, è evidente che ciò dipende dal fatto che i genitori hanno scelto quel determinato tipo di habitat per la nidificazione.

È evidente che l'imprinting, a causa soprattutto dell'irreversibilità e del periodo sensibile, fissa certe forme di comportamento per tutta la vita e ha, in generale, un effetto conservatore sul mantenersi di certe abitudini dall'una all'altra generazione. Si differenzia in ciò da altre forme di apprendimento sociale che consentono un'ampia plasticità comportamentale all'individuo e alla popolazione. Ci si riferisce qui soprattutto all'imitazione o apprendimento osservazionale, consistente nel saper acquisire una nuova abitudine dopo aver osservato altri individui, di solito della stessa specie, metterla in atto. Tali forme di apprendimento, dimostrate in certi Uccelli e Mammiferi, consentono il rapido espandersi di abitudini nuove e in qualche caso anche il loro accumularsi, in una sorta di progresso culturale. Particolarmente interessante è il caso dei macachi giapponesi (Macaca mulatta) dell'isola di Koshima che, in condizioni seminaturali, hanno modificato numerose abitudini di vita. È stato anche dimostrato il meccanismo normalmente implicato in questo tipo di evoluzione culturale. Di norma i giovani si dimostrano particolarmente adatti sia a compiere le scoperte sia ad assimilarle, mentre invece gli anziani tendono a rendere stabili le tradizioni già acquisite. Facilitano le caratteristiche dei giovani la spiccata tendenza all'esplorazione, una maggiore tendenza all'imitazione e il gioco, che, da un lato, favorisce scoperte casuali, dall'altro la loro trasmissione sociale tra coetanei. Tra le nuove abitudini che hanno formato la nuova cultura delle scimmie giapponesi ricordiamo il lavare le patate dolci, il condirle con acqua salata, il saper separare il frumento dalla sabbia buttando la miscela in acqua e poi raccogliendo la parte galleggiante, l'abitudine al nuoto (v. Kawai, 1965; v. Kawamura, 1963).

Capacità di apprendimento osservazionale sembra essere presente praticamente in tutti i Primati, in certi altri Mammiferi particolarmente sociali, come delfini, topi e ratti e in certi Uccelli (v. Mainardi, L'animale culturale, 1974). È stato anche messo in evidenza in certe specie, come per esempio nel Lemur fulvus, che l'informazione non va a caso entro la popolazione, ma seguendo certe vie di minor resistenza. In questa specie s'è infatti notato che abitudini nuove passano facilmente, attraverso l'apprendimento osservazionale, dalla madre ai figli, mentre la strada opposta, tentata sperimentalmente, ha dato frutti ben più modesti (v. Feldman e Klopfer, 1972).

Dal 1921 si sparse in Inghilterra, coinvolgendo numerose specie di passeriformi quali passeri, merli, pettirossi, storni, tordi, fringuelli, ma soprattutto cince (Paridae), l'abitudine nuova di perforare e strappare il tappo di stagnola delle bottiglie del latte poste davanti alle porte delle case e poi rubare la panna condensata sottostante. L'abitudine si espanse epidemicamente attraverso l'Inghilterra e ciò probabilmente avvenne grazie a un particolare meccanismo etologico detto incentivazione localizzata dell'attenzione (local enhancement). Non si tratterebbe cioè in questo caso di vera imitazione, in quanto non vi sarebbe in realtà l'introduzione di un comportamento nuovo, ma soltanto l'acquisizione sociale di un nuovo stimolo (la bottiglia) che evocherebbe un comportamento consueto. Lo strappare pezzi di stagnola, infatti, ricalcherebbe il comportamento dello spellare la corteccia degli alberi alla ricerca di Insetti o altri Invertebrati (v. Hinde e Fisher, 1951).

Talora si osserva, studiando il comportamento di animali in gruppo, che, se un individuo inizia una nuova attività, molti o addirittura tutti gli individui del gruppo iniziano la medesima attività. Se un animale comincia a mangiare, anche gli altri mangiano (lo s'è visto nei pulcini, nelle pecore), se uno sbadiglia, tutti sbadigliano (negli struzzi). Si dà a questo fenomeno, che può erroneamente essere scambiato per imitazione, il nome di facilitazione sociale, intendendo con ciò l'immediato innescarsi di un'abitudine già compresa nel repertorio comportamentale di chi la compie, a seguito della osservazione di un dimostratore.

Tra tutte le specie animali la specie umana è quella che maggiormente utilizza meccanismi di trasmissione sociale. Perciò buona parte del comportamento umano si evolve tanto rapidamente. Il processo è probabilmente antichissimo e fin dalla preistoria l'uomo tese a modificare, attraverso la cultura, l'ambiente, per adattarlo alle sue esigenze. Ciò di riflesso ha fatto sì che l'evoluzione culturale interagisse con l'evoluzione biologica, cosicché, attualmente, si può ritenere l'uomo un prodotto dell'interazione dei due diversi tipi di evoluzione. Il successo dell'uomo quale specie produttrice di cultura si ritiene che abbia evolutivamente accentuato alcune caratteristiche di comportamento facilitanti la trasmissione culturale. Tra queste, ovviamente, la comunicazione verbale e inoltre la sopravvivenza dei vecchi ben oltre l'età dell'espletamento delle cure parentali con funzioni di depositari e trasmettitori di cultura (casta degli anziani), il prolungamento del periodo di dipendenza della prole dai genitori facilitante il travaso di informazioni dall'una all'altra generazione e l'estensione della ricettività sessuale femminile al di fuori dei periodi fecondi, che avrebbe contribuito alla formazione della famiglia, importante nucleo di trasmissione culturale (v. Mainardi, 1973, e L'animale ..., 1974).

Esistono, tra evoluzione biologica e culturale, analogie e differenze. La principale analogia sta nel fatto che in ambedue i casi la variabilità, sia essa prodotto di mutazioni genetiche o culturali, è sottoposta al vaglio della selezione naturale; inoltre analogo è il ruolo che possono giocare il caso e l'effetto delle migrazioni. La principale differenza riguarda i meccanismi di trasmissione: rigido e lento (da genitori a figli) per l'evoluzione biologica, malleabile e rapidissimo (quasi indipendente da vincoli di parentela e generazione) per quella culturale (v. Cavalli-Sforza, 1971).

8. L'uso di arnesi

Animali tassonomicamente tra loro assai distanti sono in grado di manipolare oggetti usandoli come estensioni di strutture corporee. Tra gli Invertebrati vanno ricordati: alcuni generi di formiche (Oecophylla e Polyrachis) che saldano insieme i margini delle foglie usando le proprie larve, provviste di ghiandole della seta; le larve di un neurottero (Myrmeleon) e di alcuni ditteri (Lampromyia e Vermileo) che, scavato un imbuto nella sabbia sul cui fondo stanno poi nascoste, gettano granelli di sabbia verso l'alto per far scivolare le prede, solitamente piccoli Insetti; alcune specie di vespe del genere Ammophila, che tengono un ciottolo tra le mandibole e lo usano come percussore nella costruzione del nido (v. Alcock, 1972; v. Thorpe, 19632). Tra i Vertebrati si conoscono casi di uso di arnesi in un pesce (Toxotes jaculatrix, il pesce arciere), che sputa gocce d'acqua contro varie prede che vede appoggiate sulla vegetazione prospiciente l'acqua, e in alcune specie di Uccelli e Mammiferi. Per quanto riguarda gli Uccelli, vi sono quelli che, o per procurarsi cibo o per altri scopi, usano tenere nel becco uno stecco, una spina o, come nel caso del picchio muratore Sitta pusilla, una scaglia di pino. I meglio studiati, al proposito, sono i fringuelli delle Galapagos, Cactospiza pallida e C. heliobates, che utilizzano spine di cactus per scoprire ed estrarre bruchi da fessure entro i tronchi d'albero. Poi vi sono gli Uccelli che, come l'avvoltoio africano Neophron percnopterus e l'australiano Hamirostra melanosternon, scagliano col becco sassi contro uova di struzzo o di emù, nutrendosi poi del contenuto. Tra i Mammiferi vanno citati gli elefanti, gli orsi polari, il delfino Tursiops aduncus, la lontra Enhydra lutris, nonché numerose specie di Primati (v. Mainardi, L'animale culturale, 1974). In molti casi, particolarmente negli Invertebrati, la tendenza all'uso di arnesi sembra ereditata geneticamente, ma, soprattutto nei Primati e probabilmente anche in certi Mammiferi e Uccelli, appare evidente come abitudini legate all'uso di arnesi siano frutto di scoperte accidentali, talora trasmesse socialmente entro la popolazione. Tali scoperte scaturiscono in alcuni casi da situazioni di frustrazione, come nel caso del lancio di oggetti da parte di Primati (v. Hall, 1963) o di Uccelli (v. Alcock, 1970); altre volte, invece, all'uso di arnesi i Primati arrivano essendo in uno stato contemplativo e inquisitivo, piuttosto che di alterazione emotiva.

Tra i più interessanti casi di uso di arnesi in situazioni naturali merita particolarmente di essere ricordata l'abitudine presente in certe popolazioni di scimpanzé di ‛pescare' le termiti inserendo rametti, appositamente scelti e talora preparati, nelle aperture dei termitai. Gli insetti s'attaccano, con le mandibole, a questi arnesi e possono così essere estratti dal termitaio e mangiati. L'abitudine è tramandata culturalmente e i giovani cominciano a esercitarsi, come gioco, raccogliendo gli arnesi scartati dai genitori (v. Van Lawick-Goodall, 1968). In condizioni sperimentali si è potuto mettere in evidenza come lo scimpanzé sia in grado non solo di usare, ma anche di costruire semplici arnesi (per es. un'asta di una determinata lunghezza, utile per estrarre un premio da un tubo), partendo da materiali grezzi e amorfi (v. Khrustov, 1970).

9. Patologia del comportamento

La condizione di cattività provoca frequentemente la comparsa di comportamenti anormali. Frequenti sono sia l'inibizione motoria sia l'eccesso di movimento, il rifiuto di cibarsi, l'apatia o un'anormale aggressività. Sono state studiate soprattutto le reazioni motorie stereotipate: è, cioè, molto frequente negli zoo vedere animali andare avanti e indietro in tragitti sempre uguali, ripetendo ogni volta esattamente i medesimi movimenti, in modo automatico. Questi tragitti tendono, col tempo, ad assumere forme caratteristiche, di solito circolari, oppure a otto. All'inizio i movimenti non sono stereotipati, ma in breve tempo vanno perdendo variabilità. Così il tipico ondeggiare degli orsi prigionieri rappresenta l'abbreviazione estrema del primitivo andare avanti e indietro. Si ritiene che tra le principali cause che producono un comportamento anormale negli animali in cattività vi siano i rapporti territoriali alterati, la mancanza di luoghi dove nascondersi, la paura di individui predominanti a cui non si può sfuggire, l'impossibilità di raggiungere fonti di cibo o gruppi sociali noti (v. Meyer-Holzapfel, 1968). Va rilevato che, perché si possa effettivamente parlare di comportamento patologico, occorre che questo sia maladattativo nel contesto ambientale in cui si manifesta; in certi casi si tratta invece della normale risposta adattativa a condizioni ambientali anormali. In qualche caso però questi comportamenti si prolungano indefinitamente anche quando gli animali vengono nuovamente liberati ed è appunto in questo nuovo ambiente che realmente si dimostrano maladattativi. Sempre come conseguenza della cattività vanno ricordati i casi di automutilazione, frutto di solito di aggressività ridiretta, per impossibilità (da frustrazione o fisica) di colpire il vero oggetto che l'ha scatenata.

Comportamenti anormali, soprattutto nella sfera sessuale, possono anche essere il prodotto di un imprinting errato (v. Mainardi, 1968; v. Schutz, 1966). In certi animali superiori oltre che le esperienze errate durante periodi sensibili anche varie carenze di esperienza, soprattutto a livello socioaffettivo, possono determinare la comparsa di comportamenti patologici. Di grande interesse al proposito sono le ricerche di Harlow (v., 1961) su Macaca mulatta.

Negli animali domestici o di laboratorio si dimostrano frequentemente anche caratteri comportamentali anormali controllati geneticamente. Basti ricordare, nel moscerino Drosophila melanogaster, il già citato caso della mutazione recessiva yellow, che modifica la velocità di vibrazione delle ali durante il corteggiamento, e quelli ben noti dei cosiddetti topi ballerini, il cui comportamento è determinato da mutazioni che influiscono sul funzionamento dei canali semicircolari.

Di notevole interesse è anche l'interpretazione in chiave etologica di una malattia mentale umana: l'autismo dei bambini. La causa di questa malattia è stata localizzata nel non superamento, da parte del bambino malato, di una situazione conflittuale omologa a quella che normalmente si ritrova nell'instaurarsi dei normali rapporti sociali sia nella nostra che in altre specie (v. Tinbergen e Tinbergen, 1972).

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