PARATORE, Ettore

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PARATORE, Ettore

Cesare Questa

– Nacque a Chieti il 23 agosto 1907, figlio unico di Emanuele, professore di scienze in scuole secondarie e medico originario di Barcellona-Pozzo di Gotto, e di Laura Ciulli, abruzzese, pedagogista e preside di istituti magistrali.

Bambino e ragazzo vivacissimo, di ingegno pronto e avido di imparare, dotato di eccezionale memoria, fece gli studi elementari e medi a Chieti, tuffandosi subito in vastissime letture, al di là di ogni convenzione scolastica, di testi sia latini, sia italiani, sia francesi in lingua originale (in francese parlò e scrisse con pieno possesso). I vistosi successi scolastici gli permisero di ‘saltare’ la quinta elementare e l’ultima classe del liceo (che frequentò in Urbino – dove la madre fu la severa preside delle scuole normali – conservando poi della scuola e della città tenace e piacevole ricordo), così da conseguire la maturità classica nel 1923 a soli 16 anni neppure compiuti. La madre, trasferita a Palermo (il padre era morto nel 1920), volle farlo iscrivere a medicina perché continuasse la professione paterna, ma Ettore, chiamato alla letteratura (o semmai alle matematiche) obbedì alla vocazione maggiore e cambiò subito facoltà. Però l’incombente autorità materna si impose almeno nel fargli scegliere il corso ‘più nobile’ di lettere classiche (Paratore ebbe a scrivere poi che lo attraevano di più gli studi di letterature moderne, un gusto che la carriera successiva non smentì affatto). A Palermo ebbe a maestri Vito Fazio-Allmayer, Francesco Ribezzo, Francesco Ercole, Gaetano Mario Columba, Giovanni Alfredo Cesareo e, infine, Ettore Bignone come grecista e Gino Funaioli come latinista. Il curriculum universitario fu molto brillante: guidata da Funaioli, la dissertazione di laurea, La novella in Apuleio (1927: Paratore non aveva compiuto i vent’anni) divenne l’anno dopo il volume omonimo che Concetto Marchesi subito citò con lode nella Storia della letteratura latina (Messina 19302, p. 792 n. 2).

Vinti di slancio più concorsi per le medie superiori, che lo portarono a insegnare latino e greco nel prestigioso liceo Garibaldi di Palermo, conseguì nel 1935 la libera docenza in letteratura latina; incaricato l’anno dopo della stessa materia nel magistero di Messina, vincitore di concorso fu chiamato nella facoltà di lettere di Catania (1940), dove rimase fino al 1943; passò poi al magistero di Torino dal 1943 al 1947, di lì alla Sapienza di Roma per grammatica greca e latina (1947), infine per letteratura latina nel 1948 sino al ‘fuori ruolo’ (1977) e alla quiescienza (1982).

Marito dal 1940 di Augusta Buonaiuti, ne ebbe i figli Laura ed Emanuele.

Socio linceo dal 1956, dell’Istituto Parnassós (Atene), dottore honoris causa dell’Università di Poitiers e della Sorbona, fondò la facoltà di lettere e filosofia dell’Università D’Annunzio (Chieti-Pescara) e dell’Università di Lecce, il Centro di studi dannunziani, l’Istituto di studi abruzzesi, la rivista Abruzzo; fu grande ufficiale dell’Ordine di S. Gregorio Magno e titolare di antichi onori in partibus.

Paratore fu grande studioso immerso nelle sue ricerche, nelle sue infinite letture; non trovò quindi né tempo né vero interesse per impegni politici attivi (in vecchiaia non disdegnò qualche commento su questo o quell’importante quotidiano). Nazionalista da ragazzo, nutrì poi altalenante simpatia per il fascismo negli anni del consenso, troncata subito dalle leggi razziali: coltivò sempre, ricambiato, l’amicizia per i colleghi ebrei. Dopo la guerra osservò con distaccato disgusto chiassosi cambi di casacca; lontano dal marxismo, ma privo di ogni chiusura umana o ideologica, ebbe rapporti eccellenti con studiosi di ogni orientamento, approdando a un conservatorismo illuminato che gli consentì di affrontare la contestazione con signorile ironia e non gli impedì di ammirare, per certi aspetti, Robespierre, di cui conosceva bene i discorsi alla Convenzione.

Su questo e altro informano abbastanza tre profili autobiografici (Premessa a Spigolature romane e romanesche, Roma 1967, pp. 11-28; La Sicilia nella mia vita, in L’Accademia Selinuntina di Scienze Lettere Arti di Mazara del Vallo e il Premio Sélinon 1988, Mazara del Vallo 1989, pp. 41-94; Vale la pena ricordare?, in Quaderni di ‘Abruzzo’, XVII (2004), pp. 19-118: biografia-confessione privata, non destinata alla stampa), ma nulla da essi si può ricavare circa il più interno itinerario spirituale: dopo una fanciullezza piuttosto ‘laica’ (il padre era massone, la madre gli insegnò appena qualche preghierina) conquistò un cattolicesimo che si indovina – Paratore fu del tutto reticente – accidentato e di coloriti paolini, certo incrementato dalla frequentazione di Ernesto Buonaiuti, zio di sua moglie; un vero e proprio stoicismo cristiano lo sorresse durante le durissime prove che ebbe a subire in famiglia.

L’uomo sapeva vivere bene con colleghi e alunni: viaggiatore instancabile per ogni angolo d’Europa e fuori, la sua conversazione, tramata da mille richiami culturali e aneddoti, era di fascino eccezionale. Non diverso, e forse più, il professore: bella voce baritonale ben modulata, accento lievemente toscaneggiante, memoria pronta alla citazione rara, esemplarmente ligio al dovere della lezione, non annoiava neppure toccando questioni molto tecniche e il pesante, severissimo esame sapeva ben rendere piena giustizia a chi si impegnava a fondo per superarlo. Taluni atteggiamenti ‘tirannici’ erano solo pubblica difesa da certe fragilità di carattere che lo rendevano, in privato, pervio a sussurri in ombra (cfr. R. Antonelli, in Cento anni di E. P., 2008-09, pp. 13-16).

Ebbe moltissimi interessi e moltissimo scrisse, sempre a mano, su fogli formato protocollo ove le correzioni erano più che eccezionali. Un collega quale Francesco Gabrieli ebbe a definirlo «una delle più intense e feconde attività intellettuali che io abbia mai conosciuto [….]; dove Paratore abbia trovato tempo per così vari interessi e così copioso lavoro, è rimasto per me sempre un mistero» (in L’Accademia Selinuntina..., cit., p. 95). Va per altro aggiunto che Paratore nei suoi cenni autobiografici nulla o quasi dice circa le scelte che lo portarono a occuparsi molto di Tacito e pochissimo di Cicerone, una vita intera di Virgilio e pochissimo di Livio, per cui si deve ricorrere all’apparire o scomparire dalla sua agenda di certi autori nello scorrere degli anni.

I lavori dell’esordio (La novella in Apuleio, Palermo 1928, Messina 19422 ampliata; Il Satyricon di Petronio, I-II, Firenze 1933) lo mostrano già padrone del buon metodo filologico e già capace di proprio orientamento culturale che gli permise di citare quale miglior giudizio dell’arte petroniana una pagina del À rebours di Huysmans (ibid., I, pp. 61-64), non mancando di far scandalo (cfr. M. Bettini, Il romanzo latino ovvero la spirale della modernità, in Giornata lincea in ricordo di E. P., 2002, pp. 61-74).

Molto indicativa, per i tempi, l’attenzione al sostrato culturale degli autori e l’assenza quasi completa, e così sarebbe stato in futuro, del ‘lirico’ vocabolario critico allora alla moda: fantasma, intuizione, effusione (ma nel 1930 si ebbe La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz come potente contravveleno).

Con il passaggio alla cattedra romana, Petronio e Apuleio uscirono a lungo dall’agenda di Paratore in cui da tempo erano entrati i grandi poeti: Virgilio, Lucrezio, Catullo, Properzio.

Su questo autore Paratore pubblicò una ricerca molto singolare per i tempi (L’elegia III, 11 e gli atteggiamenti politici di Properzio, Palermo 1936), tesa a lumeggiare, in piena romanità ‘littoria’, la sottile fronda del poeta nei confronti del principe sullo sfondo della situazione politica romana. (Paratore mancò nel non ripubblicarla vent’anni dopo, magari intitolandola Properzio e l’ideologia del principato).

Per Paratore, se cultura letteraria e politica sono in nesso stretto, la letteratura non cessa mai di essere tale con i suoi valori autonomi. Ciò posto, si può chiarire il suo rapporto con il crocianesimo, ben accampato nella cultura italiana per tutti gli anni Cinquanta e un po’ oltre, cioè nel periodo in cui Paratore dette il meglio di sé.

Egli fu chiamato a redigere il capitolo sugli studi di latino in Italia nella prestigiosa silloge in onore di Benedetto Croce, Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946 (a cura di C. Antoni - R. Mattioli, I, Napoli 1950, pp. 417-448). Qui, se pagine e pagine illustravano i sicuri meriti del filosofo anche nel rinnovare gli studi di latinistica, tuttavia la rassegna si chiudeva con più di un interrogativo proprio circa il suo metodo (e sono queste le pagine che Paratore poi riprodusse in Antico e nuovo, Caltanissetta-Roma 1965, pp. 59-68).

In effetti, nei lavori virgiliani, culminati nel Virgilio (Roma 1945, Firenze 19542 con aggiunte e ritocchi, Firenze 19613), Paratore, come scrisse di sé (Cinquant’anni..., cit., p. 436), «ha mirato più all’ambiente spirituale in cui maturò la poesia virgiliana [….], che non a scrivere un saggio critico sull’arte di Virgilio: posizione che egli aveva già presa nei riguardi di un altro poeta augusteo», cioè Properzio (e nella Prefazione al Virgilio, 1954, p. XIII si parla di ‘crocianini’, un tratto dell’autore che a taluni sembra rimasto nascosto).

Il distacco divenne più deciso con il tempo: si vedano Croce e le letterature classiche, in Abruzzo, IV (1966), pp. 3-72 e ancor meglio Tre critici italiani di poesia greca, ora in Moderni e contemporanei fra letteratura e musica, Firenze 1975, pp. 197-264. S’ha da aggiungere che maturò sempre più in Paratore il gusto, già balenante in gioventù, per la letteratura comparata, praticata anche grazie alla ricerca e valutazione di fonti talora remote, resegli presenti da eccezionale mole di letture e memoria agnitiva parimenti eccezionale: niente di più lontano da Croce.

Da questa humus nacque la Storia della letteratura latina (Firenze 1950, più volte riedita e ritoccata) che fece di Paratore l’ultimo degli ‘imperatori del latino’ nelle nostre facoltà umanistiche: legioni di studenti, universitari e medi, hanno studiato su quel libro talora non facile.

Chi consideri per il greco la Storia di Gennaro Perrotta e per il latino quella di Marchesi vede il succedersi tranquillo di ritratti a tutto tondo, cammei e miniature a seconda del soggetto; qui no, è una serie inesausta di guaches spesso a grandi pennellate (il criterio monografico è tuttavia rispettato), dove si intrecciano con un certo capriccio valutazioni letterarie e storiche, problemi di biografia e autenticità, fortuna e tradizione manoscritta. Ma l’autore antico è lì, vivente, anche quando è scialbo e noioso, come Silio Italico. Il nesso fra storia letteraria e storia politica impose inoltre a Paratore una vistosa novità: invece della secolare ripartizione in età aurea, argentea e via dicendo, qui ve ne sono nove, connesse con gli avvenimenti politici del momento (Gamberale, 1996, pp. 87 s.).

In quegli stessi anni di quasi frenetica operosità Paratore trovò modo di allestire il massiccio Tacito (Milano 1951, Roma 19612 con appendici), culmine dei suoi interessi per la storia romana.

Il capitolo sulle Historiae è una vigorosa rivendicazione dello scrittore quale storiografo politico, ma nocquero al saggio l’eccessiva lunghezza e la tortuosa negazione della paternità tacitiana del Dialogus de oratoribus (però due fra le più belle prose di Paratore sono dello stesso tema: Tacito, prolusione romana del 1948, ora in Tacito, 1961, pp. 559-582; La figura di Agrippina minore in Tacito, ibid., pp. 669-712).

Nell’immediato dopoguerra Paratore affrontò anche il problema, allora al centro dell’attenzione filologica, dell’autenticità della cosiddetta Appendix Vergiliana, affermata anni prima da Augusto Rostagni (Virgilio minore, Torino 1933, Roma 19612) sul fondamento delle testimonianze esterne, cioè le notizie desumibili dalle biografie antiche del poeta, in particolare Suetonio-Donato e altri.

Rostagni pubblicò poi un volume di ‘appoggio’ (Svetonio ‘De poetis’ e biografi minori, Torino 1944) in cui rivendicava l’autorevolezza della tradizione biografica antica anche circa parecchi altri poeti. Paratore si oppose alla proposta di Rostagni e a quanto ne discendeva circa l’autenticità dell’Appendix, e quindi circa la stessa fisionomia di Virgilio poeta, in un volume di aspra polemica (dalle polemiche Paratore non fu mai alieno), difficile e qua e là persino sofistico (Una nuova ricostruzione del ‘De poetis’ di Suetonio, Roma 1946, Bari 19502, (molto ampliata) Urbino 20073 con appendice, a cura di C. Questa et al.), dal quale le tesi di Rostagni uscirono sbriciolate; il volume ebbe molta fortuna anche all’estero (M. De Nonno, Paratore storico della letteratura latina e la tradizione biografica degli scrittori antichi, in Cento anni di E. P., cit., pp. 83-97).

Con la metà degli anni Cinquanta si aprì per lo studioso altro vasto campo di indagine: il teatro latino. La Storia del teatro latino (Milano 1957, Venosa 20052, con appendici a cura di L. Gamberale et al.) è una vasta sintesi, che tiene d’occhio anche il pubblico colto, ove l’autore affronta con fermezza difficili problemi tecnici (origini, cronologie, rapporti con i ‘modelli’ greci, e via dicendo), ma poi si sofferma con ampiezza monografica su Plauto e Seneca, dell’uno e dell’altro dando anche brani splendidamente tradotti.

L’impianto del volume era, nel 1957, ancora una volta innovativo: chi avrebbe osato, allora, scrivere la storia di un ‘genere letterario’, per di più mettendone in forte evidenza le connessioni con l’organizzazione degli spettacoli e la vita politica (i ludi pretesto delle grandi gentes per mostrare ricchezza e potenza)?

Accanto alla Storia si colloca la versione di tutto il teatro di Seneca (Roma 1956) con una nutrita serie di saggi sulla nuova concezione del tragico che si palesa in Seneca e sulla immensa fortuna di questo autore in tutta la cultura europea dal Trecento al Settecento (ora in gran parte raccolti in Seneca tragico: senso e ricezione di un teatro, a cura di C. Questa - A. Torino, con postfazione di Maria L. Doglio, Urbino 2011), in cui Ettore Paratore mise a frutto le sue eccezionali conoscenze di letterature straniere.

A queste ricerche si affianca l’imponente intervento linceo Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico nel ’500 (in Il teatro classico italiano nel ’500, in Accademia nazionale dei Lincei, Problemi attuali di scienza e di cultura, quaderno 138, 1971, pp. 9-95) dove si espande a piena orchestra il gusto di Paratore per la comparatistica, già tralucente in gioventù e che pochi anni prima si era già palesato in altro maestoso, singolare intervento linceo, L’influenza della letteratura latina da Ovidio ad Apuleio nell’età del Manierismo e del Barocco (in Manierismo, Barocco, Rococò: concetti e termini, in Accademia nazionale dei Lincei, Problemi attuali di scienza e di cultura, quaderno 52, 1962, pp. 239-304), dove Paratore, chiamando a raccolta filologia classica, letterature, arti figurative e musica degli anni tra la fine del ’500 e la fine del ’600, mostrava con eccezionale sicurezza quanto quest’epoca debba agli autori latini evocati nel titolo (in appendice al Seneca tragico è ripubblicata una sorprendente ricerca iconologica del 1966 su Ovidio e Seneca tragico fonti di Rubens).

Anche quanto a Plauto gli interventi di Paratore diedero una scossa salutare alla filologia italiana, che di Plauto poco si era occupata ex professo (cenni in C. Questa, Il riso e l’orrore: da Plauto a Seneca, in Giornata lincea in ricordo di E. P., cit., pp. 75-80). Tenne splendidi corsi (Curculio e Pseudolus), tradusse per la scena con acribia e sapida arguzia più d’una commedia, pubblicò, dal 1957 al 1959 in usum academicum Amphitruo, Casina, Curculio, Miles, nelle cui Note introduttive (ore riedite in Anatomie Plautine, a cura di R.M. Danese - C. Questa, Urbino 2003) la dialettica con la grande filologia plautina tedesca, le nuove metodologie affioranti in quegli anni e il senso del teatro proprio di Paratore sono all’origine di una ricca corrente di studi che ora ha il suo centro nella cosiddetta Scuola di Urbino.

Con gli inoltrati anni Sessanta Paratore si volse ancor di più a Dante e alla comparatistica: nacquero così le nutrite ‘letture’ e recensioni dantesche piene di richiami inediti alla cultura classica del poeta, Lucano in particolare (raccolte in Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1968 e Nuovi saggi danteschi, Roma 1973), ove è ripresa anche la tematica di una ricerca di parecchi anni prima (Alcuni caratteri dello stile della cancelleria federiciana, 1950, ora in Antico e nuovo, cit., pp. 117-164). Durissime sventure private e amarezze accademiche (si legge con disagio l’affocata Premessa alle Romanae Litterae, Roma 1976, raccolta ove non è il meglio dell’autore, quanto diversa dalle sorridenti Spigolature romane e romanesche!) spinsero Paratore su questa via, percorsa senza mai abbandonare i connaturati metodi severi della filologia classica.

Di qui l’approfondito interesse per il D’Annunzio romanziere (Studi dannunziani, Napoli 1966 e Nuovi studi dannunziani, Pescara 1991, ove sono raccolti anche i numerosi interventi su quotidiani) con appendice, quasi obbligata, su D’Annunzio e Wagner in Quaderni del Vittoriale, XXXIV-XXXV (1982), pp. 67-82. Paratore fu infatti grande ‘auscultatore’ di musica dopo aver contratto nell’adolescenza l’ammirazione per Wagner che gli inoculò un gusto borghese per Berlioz, Strauss e, nel tempo, anche per Bruckner e Mahler, ma lasciandolo molto lontano da Bach e dalla Traviata (le cronache musicali sono raccolte in De musica, in Abruzzo, XLVIII (2010), pp. 5-509, a cura di F. Onorati - Emanuele Paratore).

Lo studioso ancora una volta trovò rifugio nel dialogo con i grandi autori: di qui gli Studi sui Promessi Sposi, Firenze 1972, dove è un’analisi singolarmente sciolta e penetrante, forse la più bella prosa di Paratore, dei celebri brani ‘censurati’ del Fermo e Lucia; gli Studi su Corneille, Roma 1983, in cui si intrecciano il latinista cultore degli storici romani, Tacito in particolare, e l’inesausto cultore di letteratura francese; la versione delle Epistole di s. Bernardo: Paratore signoreggiava anche l’aguzza latinità medioevale. Né mancò di prestare la propria opera a un’altra latinità altrettanto ricca di insidie, quella ‘contemporanea’ del Pascoli, autore sondato non soltanto nella sua essenza di classicità, ma anche in raffronto con le avanguardie letterarie del Novecento, ovvero con opere ove non tralucono più le forme e i modelli della tradizione.

Ma l’ormai anziano maestro non poteva non concludere la sua lunghissima militanza con il nome del poeta amato da sempre, Virgilio: all’Eneide dedicò, dal 1978 al 1983, un commento che affianca il suo nome a quelli dei grandi editori e commentatori di Virgilio dal Settecento a oggi.

In una raccolta di saggi (Antico e nuovo, cit., p. 9) che è in realtà un’autobiografia culturale, Paratore così parla di sé: «un classicista che non sia solo un arido tecnico della filologia sente espandersi nella maniera più eloquente la sua vocazione e avverte che è giunta alla piena maturità la propria esperienza spirituale e culturale solo quando, alla luce degli orientamenti acquisiti nella sua lunga pratica con sommi autori dell’antichità greco-romana, egli sente di potersi misurare anche coi maggiori problemi e le figure più alte della civiltà letteraria dei secoli successivi».

Morì a Roma il 15 ottobre 2000.

L’imponente produzione di Paratore è elencata in Letterature comparate: problemi e metodo. Studi in onore di E. P., I, Bologna 1981, pp. XIII-LXIV (fino al 1979) e aggiornata al 1989, in Scritti offerti a E. P. ottuagenario, in Abruzzo, XXIII-XXVIII (1985-90), pp. 11-50 (v. anche L. Gamberale, 1996, pp. 85 s.) da integrare con le raccolte a tema di lavori precedenti: Anatomie Plautine, cit.; De musica, cit.; Seneca tragico, cit., la II ed. della Storia del teatro latino, cit., e di Una nuova ricostruzione..., cit.

Fonti e Bibl.: Urbino, Presidenza e Archivio Storico del Liceo ‘Raffaello’; V. Cilento, Filologia e storicismo (ovvero antico e nuovo), in Rivista di studi crociani, IV (1967), pp. 21-41; A. La Penna, E. P., in I Critici, V, Milano 1967, pp. 3917-3930; G. Brugnoli, P. E., in Enciclopedia dantesca, IV, Roma 1984, p. 294; M. Coccia, P. E., in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, pp. 966-968; Scritti offerti a E. P. ottuagenario, in Abruzzo, XXIII-XXVIII (1985-90), cit.; L’Accademia Selinuntina di Scienze Lettere Arti di Mazara del Vallo e il Premio Sélinon 1988, Mazzara del Vallo 1989, pp. 95-127; L. Gamberale, Le scuole di filologia greca e latina, in Le grandi scuole delle Facoltà: Facoltà di lettere e filosofia, Roma 1996, pp. 85-93; G. Brugnoli, P. E., in Enciclopedia Oraziana, III, Roma 1998, p. 377; Giornata lincea in ricordo di E. P., in Atti dei convegni lincei, CLXXXIII (2002); C. Questa, in E. P., Anatomie Plautine, cit., pp. XIII-XXIII; V. Branca, P. classico sempre: da Plauto a Belli e a Pound, in Protagonisti nel ’900, Torino 2004, pp. 199-202; Scritti in memoria di E. P. della Facoltà di lettere e di filosofia dell’Università G. D’Annunzio, Lanciano 2005; C. Questa, rec. a Storia del teatro, II ed., in Athenaeum, XCVI (2006), pp. 655-664; Cento anni di E. P., in Abruzzo, XLVI-XLVII (2008-09), pp. 9-97.

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