FALLIMENTO E PROCEDURE CONCORSUALI

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

FALLIMENTO E PROCEDURE CONCORSUALI.

Antonio Carratta
Giorgio Costantino
Fabio Cossignani

– Il fallimento. Le riforme del 2006-2007. I limiti dimensionali. Insolvenza e crisi dell’impresa. Le novità in materia di effetti. Ruolo e funzioni degli organi. Le novità processuali. L’esdebitazione. Bibliografia. Le procedure concorsuali volontarie. Caratteri generali. Il controllo giurisdizionale. La giurisprudenza della Cassazione. Bibliografia. Il sovraindebitamento. Procedure concorsuali e debitore civile. Presupposto soggettivo. Presupposto oggettivo. La composizione della crisi da sovraindebitamento. Il piano del consumatore. La liquidazione del patrimonio. Gli organismi di composizione della crisi. L’insuccesso del nuovo istituto. Bibliografia

Il fallimento di Antonio Carratta. – In termini generali, il fallimento costituisce la principale procedura giurisdizionale, a carattere prevalentemente (ma non esclusivamente) esecutivo, prevista dall’ordinamento per ottenere la liquidazione del patrimonio dell’imprenditore in stato di insolvenza e la ripartizione del ricavato fra tutti i creditori. A differenza dell’esecuzione forzata individualmente intrapresa dal singolo creditore insoddisfatto, il fallimento coinvolge l’intero patrimonio del debitore (cd. universalità oggettiva) e tutti i suoi creditori (cd. universalità soggettiva), i quali «hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione» (art. 2741 c.c.: principio della par condicio creditorum). La sua attuale disciplina è contenuta in un regio decreto del 1942 (r.d. 16 marzo 1942 nr. 267, cd. legge fallimentare, in seguito l. fall.), che ha sostituito la precedente disciplina contenuta nel codice del commercio del 1882 (artt. 683-867 e artt. 905-914; Bonelli 1900).

Le riforme del 2006-2007. – La legge fallimentare ha subito profonde modifiche nel corso degli ultimi anni, soprattutto a opera del d. legisl. 9 genn. 2006 nr. 5 e del successivo d. legisl. 12 sett. 2007 nr. 169. Con quest’ultime riforme è stato portato a compimento un complessivo disegno di riorganizzazione delle tradizionali procedure concorsuali tendente a considerarle «non più in termini meramente liquidatori-sanzionatori, ma piuttosto come destinate a un risultato di conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurando la sopravvivenza, ove possibile, di questa e, negli altri casi, procurando alla collettività, ed in primo luogo agli stessi creditori, una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento e il trasferimento a terzi delle strutture aziendali» (così la Relazione ministeriale al d. legisl. 5/2006).

Gli obiettivi che il legislatore ha perseguito con tali riforme sono stati essenzialmente tre: a) favorire l’emersione anticipata della crisi dell’impresa; b) consentire una più efficiente e rapida gestione della stessa crisi una volta emersa; c) incentivare, nell’affrontare la crisi dell’impresa, l’utilizzazione di procedure alternative al fallimento finalizzate alla risoluzione stragiudiziale e concordata della crisi e alla conservazione e al recupero della stessa impresa. Il perseguimento di questi obiettivi ha imposto, di conseguenza, che – come vedremo nel prosieguo – anche la disciplina del fallimento subisse profonde modifiche, in modo da consentirne l’adattamento al mutato impianto normativo.

I limiti dimensionali. – Tradizionalmente, i presupposti fondamentali per la sottoposizione alla procedura di fallimento sono due: la qualità di imprenditore commerciale del debitore e lo stato di insolvenza di quest’ultimo.

Al fine di delineare l’ambito di applicazione della procedura occorre, anzitutto, rilevare che, alla luce del presupposto soggettivo individuato dall’art. 1 l. fall., viene pacificamente esclusa l’applicabilità della procedura all’imprenditore agricolo, la cui attività, come delineata dall’art. 2135 c.c., non rientra fra quelle dell’imprenditore commerciale.

Peraltro, con le richiamate riforme del 2006-07 il legislatore ha, da un lato, fissato in maniera più chiara i parametri quantitativi per la fallibilità dell’imprenditore e, dall’altro lato, ne ha elevato la soglia; ciò, evidentemente, proprio al fine di ridurre ulteriormente l’ambito applicativo della procedura fallimentare. Nel passato, infatti, la distinzione fra imprenditore commerciale fallibile e piccolo imprenditore non fallibile ha costituito una delle questioni più dibattute. In conseguenza di tali modifiche l’attuale 2° co. dell’art. 1 l. fall. stabilisce che per la sua fallibilità l’imprenditore commerciale deve possedere congiuntamente i seguenti requisiti dimensionali: a) un attivo patrimoniale, nei tre anni antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore, di ammontare complessivo annuo non superiore a 300.000 euro; b) ricavi lordi, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo non superiore a 200.000 euro; c) un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore a 500.000 euro. Tenendo conto di queste indicazioni quantitative, è evidente che la procedura fallimentare può riguardare solo imprenditori commerciali medio-grandi, dovendosi escludere dal suo ambito applicativo sia i piccoli imprenditori (quelli al di sotto dei richiamati limiti dimensionali) sia i grandissimi imprenditori (quelli al di sopra dei richiamati limiti, per i quali il nostro ordinamento prevede un’apposita procedura concorsuale, la cd. amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi).

Va anche aggiunto, d’altro canto, che sempre per effetto delle innovazioni normative apportate di recente e al fine di evitare l’apertura della costosa procedura fallimentare anche in presenza di un’esposizione debitoria minima, l’art. 15 l. fall. esclude la possibilità di far luogo alla dichiarazione di fallimento, qualora dagli atti dell’istruttoria prefallimentare dovessero risultare debiti scaduti e non pagati di ammontare complessivo inferiore a 30.000 euro.

Insolvenza e crisi dell’impresa. – Invariato è rimasto, rispetto all’originaria previsione, il presupposto oggettivo per la dichiarazione di fallimento, che si concreta nel cd. stato di insolvenza, ossia nell’incapacità dell’imprenditore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni (art. 5 l. fall.). Nella valutazione della sussistenza dell’insolvenza, dunque, rileva sia la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa, sia la capacità della stessa di ricevere aperture di credito che le consentano di superare lo stato di crisi in cui versa e di adempiere «regolarmente» (ossia alla scadenza e secondo modalità normali di pagamento) le proprie obbligazioni. Ciò consente di distinguere agevolmente – nel quadro dell’impostazione seguita dalle riforme del 2006-07 – lo stato di insolvenza dell’imprenditore dal suo stato di crisi: solo il primo e non anche il secondo giustifica la dichiarazione di fallimento. Piuttosto, con l’obiettivo di favorire l’emersione anticipata della crisi dell’imprenditore, obiettivo alla base, come detto, dell’opera riformatrice del legislatore, lo «stato di crisi» (artt. 160 e 182 bis l. fall.) legittima il ricorso a procedure concorsuali diverse dal fallimento (come, per es., il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione dei debiti) e tese a evitare, nelle intenzioni dello stesso legislatore, che la crisi si tramuti in vera e propria insolvenza.

Comunque sia, non è di impedimento alla dichiarazione di fallimento né la cessazione dell’attività di impresa, né la morte dello stesso imprenditore, purché lo stato di insolvenza si sia manifestato in precedenza o comunque entro l’anno successivo al verificarsi di tali eventi e la dichiarazione di fallimento sia stata chiesta entro un anno dalla cancellazione dell’imprenditore dal registro delle imprese (artt. 10, 1° co., e 11 l. fall.). Il 2° co. dell’art. 10 l. fall. aggiunge ora – dopo le modifiche del 2006-07 – che, quando si tratti di impresa individuale o nei casi di cancellazione d’ufficio dell’impresa collettiva dal registro delle imprese, sia possibile dimostrare (da parte dei creditori e del pubblico ministero) il momento dell’effettiva cessazione dell’attività, e da tale momento decorre il termine annuale previsto dal 1° comma.

Le novità in materia di effetti. – Con riferimento alle conseguenze che scaturiscono dalla dichiarazione di fallimento, queste vengono distinte a seconda che si producano a carico del fallito, dei suoi creditori o dei terzi che abbiano in essere rapporti contrattuali con il fallito. Anche a questo proposito, tuttavia, sono da registrare significative novità legate alle più recenti modifiche legislative.

In primo luogo, ciò vale per gli effetti che si producono a carico del fallito. Come noto, egli, dalla data della dichiarazione di fallimento, perde l’amministrazione e la disponibilità del suo patrimonio (cd. spossessamento; art. 42 l. fall.) e, di conseguenza, anche la capacità processuale con riferimento a tutte le controversie che abbiano a oggetto diritti di natura patrimoniale (art. 43 l. fall.). Nell’un caso come nell’altro, in suo luogo subentra il curatore fallimentare. Per favorire questa sostituzione è stata introdotta nell’art. 43 l. fall., a seguito delle richiamate riforme, la previsione secondo cui l’apertura del fallimento determina ope legis l’interruzione anche di eventuali processi civili in corso (aventi a oggetto diritti di natura patrimoniale), nei quali sia parte il fallito (come attore o convenuto).

Ma il fallito subisce anche conseguenze di carattere personale. E così, secondo il disposto dell’art. 48 l. fall., come modificato dalle riforme del 2006-07, il fallito persona fisica è obbligato a consegnare al curatore la propria corrispondenza, anche elettronica, riguardante i rapporti compresi nella procedura fallimentare, mentre la corrispondenza diretta al fallito non persona fisica va consegnata direttamente al curatore. Altri obblighi a carico del fallito sono previsti dall’art. 49 l. fallimentare. Senza dubbio, tuttavia, l’innovazione più importante delle più recenti riforme in materia di effetti personali per il fallito è l’abrogazione dell’art. 50 l. fall., che disciplinava il «pubblico registro dei falliti» e l’obbligo di iscrizione in tale registro dell’imprenditore fallito. Ciò si spiega con la volontà di superare il tradizionale inquadramento del fallimento quale procedura afflittivo-sanzionatoria per l’imprenditore.

Quanto ai creditori, invece, le conseguenze più rilevanti per essi sono date dal divieto di azioni esecutive individuali (art. 51 l. fall.), divieto che mira a salvaguardare l’applicazione alla procedura di fallimento del principio della par condicio creditorum, e dall’onere di avanzare domanda di ammissione al passivo. Peraltro, proprio per salvaguardare il diritto dei creditori al soddisfacimento sul patrimonio del fallito, è prevista anche l’inefficacia di determinati atti compiuti dal fallito antecedentemente alla dichiarazione di fallimento in danno degli interessi dei creditori; inefficacia che, a seconda dei casi, può essere automatica (artt. 64 e 65 l. fall.) o derivare dall’esercizio, su iniziativa del curatore, dell’azione revocatoria (ordinaria o fallimentare; artt. 66 e 67 l. fall.). Ma anche a questo proposito meritano attenzione le innovazioni apportate dalle recenti riforme, dirette soprattutto a ridurre l’area di operatività della revocatoria fallimentare con riferimento agli atti a titolo oneroso (art. 67 l. fall.). Ciò è avvenuto sia con il dimezzamento del cd. periodo sospetto (portato da due anni a un anno per gli atti anormali di gestione e da un anno a sei mesi per quelli normali), sia con la previsione di una serie di atti comunque sottratti alla possibilità di revoca (come, per es., i pagamenti di beni e servizi effettuati in caso di continuazione dell’esercizio di impresa; le rimesse in conto corrente bancario; gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore in esecuzione di un piano di risanamento ecc.).

Non meno importanti sono state le modifiche apportate alla disciplina delle conseguenze che derivano nei confronti dei terzi con i quali il fallito abbia in essere rapporti contrattuali. A tale proposito, mentre nell’art. 72 l. fall. è stata introdotta la regola generale della sospensione del rapporto contrattuale pendente ancora ineseguito o non completamente eseguito dal momento della dichiarazione di fallimento, in attesa che il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, scelga se risolvere o continuare lo stesso rapporto contrattuale in essere, negli artt. 72 bis83 bis l. fall. sono state previste regole speciali con riferimento ad alcune tipologie di contratti.

Ruolo e funzioni degli organi. – Particolarmente innovativi, poi, sono stati gli interventi della riforma sul ruolo e sulle funzioni degli organi della procedura. Interventi finalizzati, in modo particolare, ad accrescere l’importanza degli organi che sovrintendono alla salvaguardia degli interessi creditori (comitato dei creditori, curatore) e a ridurre conseguentemente le funzioni propriamente gestionali degli organi giudiziari (tribunale, giudice delegato), pur nella salvaguardia delle loro imprescindibili funzioni giurisdizionali.

Per effetto di tali modifiche, attualmente al tribunale fallimentare – dal punto di vista gestionale (art. 23 l. fall.) – viene riservato soprattutto il compito di controllo generale sulla procedura, al fine di assicurarne il corretto svolgimento (nomina del giudice delegato e del curatore; revoca o sostituzione degli organi della procedura ecc.). Ferma restando, comunque, la sua competenza – propriamente giurisdizionale – a pronunciare la sentenza di fallimento e a decidere tutte le azioni che derivano dal fallimento (art. 24 l. fall.) e i reclami avverso i provvedimenti del giudice delegato (art. 26 l. fall.). La medesima ripartizione è seguita per quanto riguarda le funzioni del giudice delegato. A quest’ultimo, infatti, compete una serie di fondamentali attività direttamente connesse allo svolgimento della procedura (ad es., nomina o revoca dei componenti del comitato dei creditori, autorizzazione del curatore a stare in giudizio, autorizzazione alla continuazione dell’impresa o all’affitto d’azienda ecc.: art. 25 l. fall.), ma anche attività propriamente giurisdizionali sia in sede di accertamento dei crediti e dei diritti di terzi sui beni del fallito (art. 96 l. fall.), sia in sede di reclamo avverso gli atti del curatore e del comitato dei creditori (art. 36 l. fall.).

Funzioni esclusivamente gestionali o di controllo sono riservate, invece, al curatore e al comitato dei creditori: al primo competono soprattutto mansioni di amministrazione e cura del patrimonio del fallito, da svolgere, comunque, sotto la sorveglianza continua del giudice delegato e del comitato dei creditori; mentre il secondo, composto da tre o cinque membri scelti dai creditori, ha compiti di autorizzazione e controllo dell’operato del curatore, soprattutto quando si tratti di scelte strategiche nella gestione del patrimonio del fallito (art. 35 l. fall.), nel subentro nei contratti pendenti (art. 72 l. fall.), nella rinuncia ad acquisire o a liquidare determinati beni del fallito (art. 104 ter l. fall.).

Le novità processuali. – Quanto agli aspetti più propriamente processuali, anch’essi interessati dalle riforme 2006-07, l’attenzione va rivolta in modo particolare alla dichiarazione del fallimento, all’accertamento del passi vo e dei diritti dei terzi e alla liquidazione e ripartizione dell’attivo.

In primo luogo, la riforma ha escluso che alla dichiarazione di fallimento il tribunale possa procedere, come nel passato, anche d’ufficio. Oggi è necessario che l’iniziativa provenga da un soggetto diverso dall’organo giudicante (lo stesso imprenditore, uno o più creditori o il pubblico ministero: art. 6 l. fall.); ciò a salvaguardia del principio costituzionale di terzietà del giudice (art. 111 Cost.).

Un’ulteriore innovazione che interessa la dichiarazione di fallimento attiene a una maggiore salvaguardia del contraddittorio nei confronti dell’imprenditore fallendo. Infatti, l’art. 15 l. fall. impone che: a) il tribunale convochi con decreto il debitore e i creditori istanti per il fallimento; b) con lo stesso decreto venga fissato un termine non inferiore a sette giorni prima dell’udienza per la presentazione di memorie e il deposito di documenti e relazioni tecniche e venga disposto il deposito da parte dell’imprenditore dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, nonché una situazione patrimoniale, economica e finanziaria; c) si possa procedere all’audizione delle parti e all’espletamento di eventuali mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio. Infine, per evitare che la durata del procedimento diretto alla dichiarazione di fallimento comporti danni per i creditori, lo stesso art. 15 l. fall. oggi prevede anche la possibilità che il tribunale emetta, a istanza di parte, provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa.

Non meno importanti si presentano le novità introdotte dalla riforma con riferimento all’accertamento del passivo e dei diritti dei terzi. Anzitutto, la nuova formulazione dell’art. 102 l. fall. prevede ora l’eventualità che a tale accertamento non si debba procedere, per evidenti ragioni di economia processuale, quando emerga un insufficiente realizzo, cioè un attivo talmente ridotto da non consentire il soddisfacimento di alcuno dei creditori che abbiano chiesto l’ammissione al passivo.

Inoltre, è ora previsto che in prima battuta sia il curatore a esaminare le domande di ammissione al passivo o di accertamento dei diritti di terzi, prendendo posizione su ognuna delle domande avanzate e motivando le proprie deliberazioni. Solo in un secondo momento e dopo che creditori e terzi abbiano avuto modo di interloquire sulle determinazioni del curatore, entra in gioco il giudice delegato, il quale, all’esito di un’apposita udienza e con decreto succintamente motivato, accoglie in tutto o in parte ovvero respinge o dichiara inammissibile ognuna delle domande presentate, mentre ammette al passivo con riserva i crediti condizionati, quelli per i quali la mancata produzione del titolo dipende da fatto non imputabile al creditore, i crediti accertati con sentenza non passata in giudicato.

Altra importante innovazione derivante dalla riforma è costituita dal sistema dei rimedi esperibili avverso il decreto pronunciato dal giudice delegato e che rende esecutivo lo stato passivo. Avverso tale decreto, infatti, oggi possono essere proposte opposizione, impugnazione o revocazione (art. 98 l. fall.): l’opposizione, che va proposta nei confronti del curatore, è il rimedio esperibile dal creditore o dal titolare di diritti reali per contestare che la propria domanda sia stata respinta o accolta solo in parte; l’impugnazione, invece, è il rimedio con il quale il curatore, il creditore o il titolare di diritti reali contestano l’accoglimento della domanda di un creditore o di un altro concorrente e va proposto nei confronti di tale creditore concorrente; la revocazione, infine, è il rimedio con cui il curatore, il creditore o il titolare di diritti reali, decorsi i termini per proporre opposizione o impugnazione, possono chiedere che il provvedimento di accoglimento o di rigetto sia revocato se è stato pronunciato per effetto di falsità, dolo, errore essenziale di fatto o mancata conoscenza di documenti decisivi che non è stato possibile produrre tempestivamente per causa non imputabile. In ogni caso, il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi di opposizione, impugnazione o revocazione, «producono effetti soltanto ai fini del concorso» (art. 96, 5° co., l. fall.); così escludendo che – a differenza di quel che si riteneva accadesse prima della riforma – l’accertamento dei crediti o dei diritti dei terzi sui beni del fallito possa produrre effetti al di fuori della procedura fallimentare (Carratta 2006; Lanfranchi 2010).

Non meno rilevanti sono le novità processuali che riguardano la liquidazione dell’attivo fallimentare, per la quale, nel passato, la legge si limitava a rinviare alle disposizioni del codice di procedura civile. A seguito della riforma l’art. 107 l. fall. prevede come regola generale che il curatore debba procedere alle vendite e agli altri atti di liquidazione tramite apposite procedure competitive anche avvalendosi di soggetti specializzati.

Non solo. Con l’obiettivo di adattare le procedure liquidative alla specificità dei beni da liquidare, speciali disposizioni sono state introdotte con riguardo alla vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco, della cessione di crediti, compresi quelli di natura fiscale o futuri, delle azioni revocatorie, di navi, galleggianti e aeromobili, dei diritti di utilizzazione economica delle opere dell’ingegno, dei diritti nascenti delle invenzioni industriali, dei marchi e per la cessione di banche di dati.

Va anche segnalata, infine, l’accresciuta importanza del ruolo del curatore nella fase di ripartizione dell’attivo, a scapito del giudice delegato. Infatti, è attualmente imposto al curatore che ogni quattro mesi, a partire dal decreto di esecutività dello stato passivo o nel diverso termine stabilito dal giudice delegato, presenti un prospetto delle somme disponibili e un progetto di ripartizione delle medesime, riservate quelle occorrenti per la procedura (art. 110 l. fall.), dandone comunicazione ai creditori, i quali, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla ricezione della comunicazione, possono proporre reclamo al giudice delegato contro il progetto di riparto ai sensi dell’art. 36 l. fall. (Carratta 2009).

L’esdebitazione. – Alle importanti novità finora evidenziate, va aggiunta, infine, quella che probabilmente più di altre connota il mutato atteggiamento del nostro ordinamento nei confronti del fallimento e il suo sforzo di avvicinarsi a ordinamenti (come, ad es., quello statunitense) che tradizionalmente seguono una diversa impostazione in materia: vale a dire la possibilità che il fallito possa ottenere l’esdebitazione dai debiti residui. E infatti, oggi anche la nostra legge consente che con il decreto di chiusura (o anche successivamente su richiesta del debitore) il tribunale disponga – accertata la sussistenza dei presupposti stabiliti dal legislatore – l’esdebitazione del fallito (purché si tratti di persona fisica), ovvero la sua definitiva liberazione dai debiti che dovessero ancora residuare (artt. 142 e 143 l. fall.). L’obiettivo è chiaro: consentire all’imprenditore pur fallito, ma che si sia correttamente comportato nel corso della procedura, di poter riprendere la propria attività imprenditoriale. Ciò, tuttavia, a danno dei creditori rimasti insoddisfatti, che comunque hanno il diritto – costituzionalmente garantito – di vedere pienamente tutelate le proprie ragioni.

Bibliografia: G. Bonelli, Del fallimento, in Commentario al codice di commercio, Milano 1900, 19383; R. Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, Milano 1943, 19705; S. Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Roma 1943, 19666; V. Andrioli, Fallimento (dir. priv. e proc.), in Enciclopedia del diritto, 16° vol., Milano 1967, ad vocem; A. Carratta, Procedure concorsuali (riforma delle): II) Profili processuali, in Enciclopedia giuridica Treccani, Istituto della Enciclopedia italiana, 24° vol., Roma 2006, ad vocem; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino 2006, 20146 a cura di F. Padovini; Il nuovo diritto fallimentare. Commentario, diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna 2007; A. Carratta, Fallimento: X) Liquidazione e ripartizione dell’attivo, in Enciclopedia giuridica Treccani, Istituto della Enciclopedia italiana, 13° vol., Roma 2009, ad vocem; L. Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, Torino 2010; Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto e coordinato da F. Vassalli, F.P. Luiso, E. Gabrielli, 5 voll., Torino 2013-2014.

Le procedure concorsuali volontarie di Giorgio Costantino. – Le procedure concorsuali volontarie si contrappongono alle forme di realizzazione coattiva dei crediti, non solo per la natura che le caratterizza rispetto a queste ultime, ma anche per l’approccio sistematico rispetto a una complessiva situazione di crisi del debitore che mirano a risolvere

Il processo esecutivo, strumento per la realizzazione coattiva di un credito, e il fallimento, procedura concorsuale orientata alla liquidazione del patrimonio del debitore con finalità satisfattive dei creditori, consistono nella trasformazione in denaro dei beni del debitore e nella ripartizione del ricavato tra i creditori concorrenti: il principio della responsabilità patrimoniale, che ne è alla base, impedisce che il debitore sia considerato quale produttore di reddito a beneficio dei propri creditori e consente, invece, a questi ultimi di soddisfare le proprie pretese, aggredendone il patrimonio.

Il principio della responsabilità patrimoniale, infatti, non ha soltanto una portata negativa, nel senso che in base a esso il debitore non può sottrarre i suoi beni alla soddisfazione dei creditori; è il punto di arrivo di una lunga evoluzione, per la quale il debitore risponde con i beni e non con la propria persona.

Questa ovvia constatazione consente di mettere in evidenza i limiti degli strumenti di realizzazione coattiva dei crediti. Il presupposto comune a questi ultimi, infatti, è che vi siano beni suscettibili di essere trasformati in denaro e di soddisfare così i creditori; il debitore solvente è quello che ha beni sufficienti per la soddisfazione di tutti i creditori. Ma, dal punto di vista economico, la ricchezza non consiste, o non consiste soltanto, nel possesso di beni; dipende soprattutto dalla capacità di produrre reddito.

Il principio della responsabilità patrimoniale impedisce che il debitore possa essere costretto a produrre reddito per soddisfare i creditori. Il debitore, tuttavia, può volontariamente scegliere questa strada.

Le procedure concorsuali volontarie possono essere gli strumenti mediante i quali la soddisfazione dei creditori si realizza, non soltanto mediante la trasformazione in denaro dei beni, ma anche e soprattutto attraverso la produzione di nuova ricchezza. Il che implica la continuazione dell’attività d’impresa, la conservazione dei posti di lavoro, con indubbi vantaggi per l’economia complessiva.

L’ampio dibattito sulla crisi d’impresa e il favore del legislatore per le procedure concorsuali volontarie implicano appunto l’esigenza di superare i limiti degli strumenti di realizzazione coattiva dei crediti a vantaggio di istituti che consentano la soddisfazione dei creditori mediante la produzione di reddito e non soltanto attraverso la liquidazione dei beni, che la sussistenza dello «stato di crisi» presuppone siano insufficienti.

La crisi economica ha orientato l’attenzione sugli strumenti per porre rimedio alla crisi delle imprese mediante le procedure concorsuali oggetto della ripetuta attenzione del legislatore.

Alla riforma cd. urgente, attuata con il d.l. 14 marzo 2005 nr. 35, convertito dalla l. 14 maggio 2005 nr. 80, ha fatto seguito il d. legisl. 9 genn. 2006 nr. 5, in attuazione della delega contenuta nel decreto legge.

Sono sopravvenuti il d.l. 30 dic. 2005 nr. 273, convertito dalla l. 23 febbr. 2006 nr. 51, e il decreto cd. correttivo: il d. legisl. 12 sett. 2007 nr. 169. Il concordato fallimentare è stato modificato dalla l. 18 giugno 2009 nr. 69.

Poi si sono succeduti il d.l. 29 nov. 2008 nr. 185, convertito dalla l. 28 genn. 2009 nr. 2, il d.l. 31 maggio 2010 nr. 78, convertito dalla l. 30 luglio 2010 nr. 122, il d.l. 22 giugno 2012 nr. 83, convertito dalla l. 7 ag. 2012 nr. 134, che ha introdotto il concordato con riserva.

Hanno fatto seguito il d.l. 18 ott. 2012 nr. 179, convertito dalla l. 17 dic. 2012 nr. 221, il d.l. 21 giugno 2013 nr. 69, convertito dalla l. 9 ag. 2013 nr. 98, e il d.l. 23 dic. 2013 nr. 145, convertito dalla l. 21 febbr. 2014 nr. 4.

Caratteri generali. – Gli accordi per la ristrutturazione dei debiti sono previsti dall’art. 182 bis, r.d. 16 marzo 1942 nr. 267 (l. fall.)

In base a questa disciplina, l’imprenditore «in stato di crisi» può chiedere che il tribunale omologhi un accordo con almeno il 60% dei creditori che garantisca l’integrale pagamento dei creditori estranei nel termine di 120 giorni dall’omologazione per i crediti scaduti e nello stesso termine, ma decorrente dalla scadenza per i crediti non ancora scaduti.

L’imprenditore che si trova in stato di crisi può anche chiedere un concordato preventivo in base a un piano, attestato da un professionista qualificato (art. 160 l. fall.). Il «piano» deve prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti «attraverso qualsiasi forma». Deve, tuttavia, garantire la soddisfazione dei creditori privilegiati, in misura non inferiore a quella realizzabile dalla liquidazione dei beni oggetto delle garanzie. L’espresso riferimento legislativo a «qualsiasi forma» per la soddisfazione dei creditori lascia all’autonomia privata la determinazione del percorso di volta in volta più idoneo alla realizzazione dell’obiettivo: il concordato preventivo può implicare la cessione dei beni o la continuazione dell’attività di impresa; l’intervento di un terzo («assuntore») per l’una o per l’altra attività; può prevedere la liquidazione giudiziale dei beni o riservarla all’imprenditore sotto il controllo del tribunale; possono essere proposte forme miste per la soddisfazione dei creditori.

Il concordato, se è dichiarato ammissibile, se è approvato dai creditori e se è omologato dal tribunale, è eseguito sotto il controllo giudiziale; può essere revocato o risolto.

Grazie alla riforma del 2012 e ai successivi interventi correttivi, l’imprenditore «in stato di crisi» può anche riservarsi di presentare la proposta di concordato, il piano e la documentazione entro un termine fissato dal giudice, compreso fra 60 e 120 giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, di non oltre 60 giorni (art. 161 l. fall.).

Anche il fondamento di questa iniziativa è la «crisi» dell’impresa e il suo obiettivo è la «soddisfazione dei creditori», ma l’oggetto immediato del ricorso è soltanto la fissazione di un termine, decorso il quale, il richiedente può presentare una proposta di concordato ovvero un accordo di ristrutturazione dei debiti, ai sensi dell’art. 182 bis l. fall., nel qual caso godrà di un ulteriore periodo di protezione del patrimonio; può anche astenersi da ogni iniziativa, contentandosi della ottenuta dilazione. Qualora sia pendente il procedimento per la dichiarazione di fallimento, può essere fissato soltanto il termine minimo di 60 giorni, prorogabile di altri 60.

La presentazione di una domanda di concordato cd. con riserva paralizza l’inizio o la prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore e, se questo è una società, lo esonera dall’osservanza di una serie di obblighi previsti dalla legge. Con la richiesta di ammissione al concordato con riserva, l’imprenditore in crisi può anche chiedere l’autorizzazione alla sospensione o allo scioglimento dai contratti in corso, a contrarre finanziamenti prededucibili e a pagare crediti anteriori. Questi, però, sono effetti meramente eventuali, subordinati a richieste accessorie. Il tribunale, se non dichiara inammissibile il ricorso, ha esclusivamente il compito di fissare il termine; deve disporre obblighi informativi, ma, su questi e sull’eventuale nomina di un commissario, provvede d’ufficio, indipendentemente da ogni richiesta di parte.

A fondamento del ricorso, è sufficiente dichiarare lo «stato di crisi» dell’impresa, manifestare l’intenzione di formulare una proposta di concordato ed esibire i bilanci degli ultimi tre esercizi. Il che, ovviamente, non esclude che il ricorrente possa esibire anche una situazione patrimoniale aggiornata, possa illustrare elementi della proposta che intende formulare ai creditori e quant’altro ritenga utile. Ma non si tratta di elementi essenziali, la mancanza dei quali può determinare l’inammissibilità del ricorso.

La previsione del concordato con riserva ha ottenuto un grande successo: le domande di concordato sono cresciute a livello esponenziale.

L’accesso a procedure concorsuali volontarie è previsto anche dopo il fallimento: ai sensi dell’art. 124 l. fall., una proposta di concordato può essere presentata dai creditori o da un terzo; il fallito e le società da questo partecipate o controllate possono presentarla dopo un anno dalla dichiarazione di fallimento e prima di due anni dall’esecutività dello stato passivo. Anche la proposta di concordato fallimentare deve garantire la soddisfazione dei creditori privilegiati, in misura non inferiore a quella realizzabile dalla liquidazione dei beni oggetto delle garanzie. La legge ne determina gli effetti in relazione ai creditori ammessi al passivo e ai rapporti con l’esdebitazione.

Il controllo giurisdizionale. – Le procedure concorsuali volontarie sono accordi sottoposti al controllo giurisdizionale. Lo studio del loro funzionamento implica la contestuale applicazione delle regole che governano i contratti, in base alle disposizioni legali che ne segnano i confini, e l’operatività dei principi del processo civile.

Le forme mediante le quali tale controllo deve essere esercitato, tuttavia, non sono state predeterminate dal legislatore, che ha rinviato, per quanto riguarda lo svolgimento dei procedimenti, agli artt. 737 e segg. c.p.c., per i quali il procedimento è introdotto con ricorso e si conclude con decreto, mentre il giudice può «assumere informazioni».

Questa evanescente disciplina consente un’applicazione differenziata nei diversi tribunali. L’applicazione delle specifiche regole legali di volta in volta stabilite e dei principi generali in materia contrattuale presuppone che siano anche determinati i rapporti tra poteri del giudice e facoltà delle parti.

Al fine di consentire una preventiva conoscenza delle regole del gioco, nei siti di molti tribunali sono indicate le cd. linee guida o i cd. protocolli per l’applicazione della normativa, nonché gli accordi omologati. L’affidamento delle regole per la definizione dei conflitti all’esercizio dei poteri discrezionali del singolo giudice, infatti, determina inevitabilmente incertezze applicative ed è fonte di violazione del principio di uguaglianza, perché l’assenza di regole processuali predeterminate genera il rischio della formazione di prassi difformi tra diversi uffici giudiziari.

Gli interpreti e gli operatori sono chiamati a risolvere una serie di questioni specifiche, che riguardano la determinazione delle condizioni e dei presupposti per l’accesso alla procedura concorsuale volontaria, l’individuazione dell’oggetto immediato delle istanze delle parti, ovvero del contenuto dei provvedimenti che possono essere richiesti, quindi, segnando i confini dei poteri del giudice e delle facoltà delle parti.

La giurisprudenza della Cassazione. – La questione centrale e fondamentale, peraltro, riguarda la determinazione dei poteri del giudice nella valutazione dell’ammissibilità della domanda di concordato ovvero sulla fattibilità del piano; su di essa si è pronunciata, all’inizio del 2013, la Cassazione a sezioni unite: 23 genn. 2013 nr. 1521.

La Corte ha distinto la fattibilità giuridica, oggetto di valutazione giudiziale, e la fattibilità economica, rimessa alla valutazione della maggioranza dei creditori; ha precisato che la fattibilità è direttamente sindacabile e non in via mediata per il tramite dell’attestazione; ha individuato la «causa», sul piano sostanziale, del concordato preventivo nella soddisfazione dei creditori, realizzabile in qualunque forma; ha definito la causa «concreta» come «scopo pratico del negozio, la sintesi cioè degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato».

Questa decisione ha segnato la traccia per la giurisprudenza successiva.

Recentemente, la Corte si è pronunciata a sezioni unite sui rapporti tra concordato preventivo e fallimento (15 maggio 2015 nn. 9935-9936) e ha enunciato i seguenti principi di diritto: «1) in pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del pubblico ministero, può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 l. fall. e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato; la dichiarazione di fallimento, peraltro, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo; 2) la pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, non rende improcedibile il procedimento prefallimentare iniziato su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, né ne consente la sospensione, ma impedisce temporaneamente soltanto la dichiarazione di fallimento sino al verificarsi degli eventi previsti dagli artt. 172, 173, 179 e 180 l. fall.; il procedimento, pertanto, può essere istruito e può concludersi con un decreto di rigetto; 3) tra la domanda di concordato e l’istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza. Ne consegue la riunione dei relativi procedimenti ai sensi del-l’art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, ovvero l’applicazione delle disposizioni dettate dall’art. 39, comma 2, c.p.c. in tema di continenza e competenza, se pendenti innanzi a giudici diversi; 4) la domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile, in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti; 5) in tema di concordato preventivo, quando in conseguenza della ritenuta inammissibilità della domanda il tribunale dichiara il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o del pubblico ministero, può essere impugnata con reclamo solo la sentenza dichiarativa di fallimento e l’impugnazione può essere proposta anche formulando soltanto censure avverso la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato preventivo».

Bibliografia: F. De Santis, Causa «in concreto» della proposta di concordato preventivo e giudizio “permanente” di fattibilità del piano, «Il fallimento», 2013, pp. 279-86; A. Didone, Le sezioni unite e la fattibilità del concordato preventivo, «Il diritto fallimentare e delle società commerciali», 2013, parte II, pp. 1-41; A. Di Majo, Il percorso “lungo” della fattibilità del piano proposto nel concordato, «Il fallimento», 2013, pp. 291-93; G.B. Nardecchia, La fattibilità del concordato preventivo al vaglio delle sezioni unite, «Il diritto fallimentare e delle società commerciali», 2013, parte II, pp. 185-94; I. Pagni, Il controllo di fattibilità del piano di concordato dopo la sentenza 23 gennaio 2013 n. 1521: la prospettiva “funzionale” aperta dal richiamo alla “causa concreta”, «Il fallimento», 2013, pp. 286-90; E. Scoditti, Causa e processo nel concordato preventivo: le sezioni unite alla prova della fattibilità, «Il foro italiano», 2013, parte I, pp. 1576-79; G. Terranova, La fattibilità del concordato, «Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni», 2013, parte II, pp. 189-222; M. Fabiani, Causa del concordato preventivo e oggetto dell’omologazione, «Le nuove leggi civili commentate», 2014, pp. 579-620.

Il sovraindebitamento di Fabio Cossignani. – Con la l. 27 genn. 2012 nr. 3 (modificata poi dal d.l. 18 ott. 2012 nr. 179, convertito con modificazioni dalla l. 17 dic. 2012 nr. 221) sono stati introdotti nell’ordinamento italiano i «procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio» del cd. debitore civile.

La «composizione della crisi» è una procedura che mira all’omologazione giudiziale di una proposta di accordo che il debitore – che versa in stato di sovraindebitamento e che non è suscettibile di essere dichiarato fallito (art. 1 r.d. 267/ 1942: l. fall.) – formula ai propri creditori. Si tratta, in ogni caso, di un accordo dal contenuto non predeterminato dalla legge, la quale fa esclusivo riferimento «[al]la ristrutturazione dei debiti e [al]la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei crediti futuri» (art. 8, 1° co.); potrà quindi prevedere, tra l’altro, dilazioni e/o pagamenti solo parziali di taluni crediti ovvero adempimenti con modalità differenti rispetto a quelle originariamente dovute. In caso di esito positivo del procedimento, l’accordo vincola «tutti i creditori». Poiché, dunque, l’efficacia opera anche nei confronti dei creditori dissenzienti, non può a rigore parlarsi di accordo, dal momento che questo presuppone sempre il consenso. Il termine accordo va quindi inteso come deliberazione maggioritaria.

In alternativa all’accordo, ovvero come conseguenza dell’esito negativo di questo, è prevista anche la «liquidazione del patrimonio del debitore», che sostanzialmente introduce il cd. fallimento del debitore civile.

Procedure concorsuali e debitore civile. – Prima dell’entrata in vigore della l. 3/2012, per tutti i soggetti esclusi dall’applicazione delle procedure concorsuali di cui alla legge fallimentare, si profilava una secca alternativa: o riuscivano a stipulare accordi con i singoli creditori (di riduzione del debito, di dilazione del pagamento ecc.) oppure si esponevano alle iniziative esecutive individuali. Rispetto a questi debitori, quindi, non vi era spazio per una regolazione concorsuale (in senso stretto o in senso ampio) della crisi, né vi erano prospettive concrete per ottenere una seconda possibilità (cd. fresh start), mediante la liberazione dai debiti residui.

Le speciali procedure da sovraindebitamento colmano almeno in parte la lacuna, estendendo il principio della concorsualità al di là del limite tradizionalmente segnato dall’insolvenza dei soli debitori commerciali di non modeste dimensioni. Tale ampliamento si realizza, tuttavia, attraverso l’introduzione di una disciplina peculiare e differenziata (cfr. la Procédure devant la commission de surendettement des particuliers francese: art. L331-1 e segg. Code de la consommation).

Presupposto soggettivo. – La proposta deve provenire direttamente dal debitore. Sono esclusi i soggetti sottoponi-bili a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dagli artt. 7-20, l. 3/2012. Quindi, sono legittimati attivamente gli imprenditori commerciali piccoli, gli imprenditori agricoli, le associazioni non commerciali, i professionisti intellettuali, i lavoratori autonomi, i consumatori e, più in generale, tutti i soggetti non imprenditori; sono legittimate anche le start-up innovative (art. 31, 1° co., d.l. 179/2012).

Presupposto oggettivo. – Per accedere alla procedura è necessario che il debitore proponente versi in stato di sovraindebitamento (dall’inglese over-indebtness). Questo è definito dalla legge come «situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente». La definizione riecheggia quella di insolvenza di cui all’art. 5 l. fallimentare. Tuttavia, appare senz’altro più ampia, in considerazione del fatto che la nozione di insolvenza è collegata alla dinamicità e alla produttività dell’impresa commerciale, laddove il sovraindebitamento può interessare anche soggetti per definizione più statici a causa della loro limitata capacità di produrre reddito (ad es., i semplici consumatori). Di qui, dunque, la rilevanza anche del «mero squilibrio» tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile.

La composizione della crisi da sovraindebitamento. – La proposta di accordo deve in ogni caso garantire il pagamen to di taluni crediti, tra cui: i crediti impignorabili (per es., crediti alimentari); i crediti muniti di privilegio pegno o ipoteca, in misura pari a quella che sarebbe loro assicurata dalla liquidazione dei beni oggetto della garanzia; taluni tributi.

Se è raggiunto il voto favorevole del 60% dei crediti ammessi al voto, il tribunale omologa la proposta a condizione che questa sia idonea a soddisfare i creditori per i quali è previsto il pagamento integrale e che non risultino iniziative o atti in frode ai creditori. Il creditore dissenziente può contestare la convenienza della proposta, ma perché sia impedita l’omologazione è necessario che il giudice accerti che l’alternativa liquidatoria (ossia la vendita di tutto il patrimonio del debitore) è in grado di garantire al creditore una maggiore soddisfazione rispetto alla proposta.

In linea generale, l’accordo omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori, compresi quelli dissenzienti.

Il piano del consumatore. – Nel caso in cui il debitore sia un consumatore, la proposta di accordo si tramuta nel piano del consumatore. Il diverso nomen è dovuto al fatto che il piano non deve essere sottoposto alla votazione dei creditori, sicché non è rivolto alla conclusione di un accordo, neppure in senso lato. La deliberazione maggioritaria dei creditori è infatti sostituita da una valutazione da parte del tribunale, che si appunta sulla fattibilità del piano e sulla meritevolezza del debitore. Ne consegue che il piano potrebbe essere omologato anche contro la volontà di tutti i creditori. Quanto alla meritevolezza, la legge dispone che il piano non può essere omologato se il tribunale accerta «che il consumatore ha assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero che ha colposamente determinato il sovraindebitamento».

La liquidazione del patrimonio. – In alternativa alla procedura di composizione della crisi, il debitore sovraindebitato può anche optare, spontaneamente o all’esito del mancato accordo con i creditori, per la richiesta di liquidazione del proprio patrimonio. Alla liquidazione può giungersi anche in via di conversione della procedura di composizione della crisi, qualora l’efficacia dell’accordo o del piano sia venuta meno a causa di una delle ipotesi enumerate dall’art. 14 quater (annullamento, risoluzione per colpa ecc.). In tal caso l’iniziativa può essere assunta, eccezionalmente, anche da un creditore.

La procedura deve avere durata non inferiore a quattro anni, tempo ritenuto necessario per verificare la buona condotta del debitore. La liquidazione si modella, ancorché con notevoli semplificazioni, sul paradigma della procedura fallimentare e, al pari di questa, può concludersi con l’esdebitazione del debitore, ossia con la dichiarazione di inesigibilità dei crediti non soddisfatti. Il beneficio è concesso per ragioni di meritevolezza, ma con importanti limitazioni: ad es., è escluso nel caso in cui il sovraindebitamento del debitore sia imputabile a un ricorso al credito colposo e sproporzionato alle sue capacità e non opera per i debiti da risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale.

Gli organismi di composizione della crisi. – Un ruolo centrale nell’ambito delle procedure da sovraindebitamento è svolto dagli organismi per la composizione della crisi (artt. 15-16) iscritti nell’apposito registro tenuto presso il ministero della Giustizia. Si tratta di articolazioni interne di taluni enti pubblici (ad es., organismi di conciliazione costituiti presso le camere di commercio e presso gli ordini professionali degli avvocati), stabilmente destinate all’erogazione del servizio di gestione del sovraindebitamento (art. 1, lett. e, d.m. 24 sett. 2014). Ciononostante, l’organismo non si comporta quale mero consulente del debitore, dal momento che assolve anche funzioni di controllo, nell’interesse dei creditori, e di ausiliario del giudice. Infatti, l’organismo verifica, tra l’altro, la veridicità dei dati contenuti nella proposta e nei documenti allegati, attesta la fattibilità del piano di ristrutturazione dei debiti, compie le attività di pubblicità, riceve le manifestazioni di voto, redige una relazione sulle stesse, effettua le comunicazioni disposte dal giudice, svolge funzioni di liquidatore. La disomogeneità delle competenze rischia di generare conflitti di interessi.

L’insuccesso del nuovo istituto. – La regolazione concorsuale del sovraindebitamento dovrebbe dare impulso al reinserimento dei debitori all’interno di un normale contesto sociale ed economico, sottraendoli al rischio, attuale o potenziale, dell’usura, rischio particolarmente avvertito in un contesto di crisi economica. D’altro canto, il ricorso al credito e la rilevante esposizione debitoria che ne consegue non rappresentano più fenomeni associabili al solo imprenditore commerciale. Ne è prova, ad es., la progressiva espansione del credito al consumo, anche in un Paese incline al risparmio come l’Italia. Ciononostante, a tre anni dall’introduzione dell’istituto, il numero delle procedure da sovraindebitamento instaurate presso i tribunali italiani appare assai limitato. Le ragioni di tale insuccesso sono varie, tra cui la scarsa inclinazione del debitore italiano all’accettazione della propria crisi finanziaria e, a fortiori, alla sua esternazione; la tradizionale diffidenza verso i nuovi istituti giuridici. Tuttavia, si evidenziano specifiche carenze anche nella legge in sé. Da un lato, il testo legislativo si mostra per larghi tratti di difficile comprensione, destando così molteplici incertezze interpretative che di fatto ne scoraggiano l’utilizzo. Dall’altro, le soluzioni offerte non appaiono sufficientemente meditate, soprattutto nell’ottica della loro idoneità a perseguire, nel peculiare contesto socioeconomico del Paese, i risultati originariamente auspicati.

Bibliografia: D. Cerini, Sovraindebitamento e consumer bankruptcy: tra punizione e perdono, Milano 2012; E. Pellecchia, Dall’insolvenza al sovraindebitamento. Interesse del debitore alla liberazione e ristrutturazione dei debiti, Torino 2012; G. Trisorio Liuzzi, I procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e la liquidazione del patrimonio del debitore civile, in Diritto delle procedure concorsuali, a cura di G. Trisorio Liuzzi, Milano 2013, pp. 485-525; Libro dell’anno del diritto 2013, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2013 (in partic. F. Macario, Sovraindebitamento dei debitori “non fallibili”, pp. 48-56; L. Panzani, Novità legislative nella procedura da sovraindebitamento, pp. 57779); La “nuova” composizione della crisi da sovraindebitamento, «Il civilista», 2013, edizione speciale a cura di F. Di Marzio, F. Macario, G. Terranova; F. Maimeri, La nuova disciplina di gestione della crisi da sovraindebitamento: prime osservazioni, in The Italian change for restructuring. Un diritto per le imprese in crisi, a cura di M. Vietti, F. Marotta, F. Di Marzio, Milano 2014, pp. 183-213.

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