Fame

Enciclopedia delle scienze sociali (1993)

Fame

Paul P. Streeten

Introduzione

Il bisogno di cibo è forse il più fondamentale di tutti i bisogni umani. Gli uomini possono sopravvivere bevendo acqua non potabile e senza essere vaccinati contro le malattie, ma non senza mangiare. I poveri spendono per il cibo tra il 70% e l'80% del loro reddito complessivo e più del 50% di un eventuale reddito addizionale. I più poveri fra i poveri, anche quando il loro miserevole reddito cresce, continuano a spenderne per il cibo la stessa percentuale prima di raggiungere il punto in cui tale percentuale inizia a diminuire. Se i loro redditi crescono ulteriormente, essi ne spendono una quota minore per il cibo in generale, di tale quota una percentuale minore per i cereali e di quest'ultima percentuale una quota inferiore per i cereali più economici. Un'alimentazione inadeguata non solo rende gli uomini affamati e meno in grado di godersi la vita, ma ne riduce anche la capacità e - rendendoli apatici e in casi estremi letargici - la volontà di lavorare produttivamente, e quindi di procurarsi i mezzi per combattere la fame. Per giunta li rende maggiormente vulnerabili alle malattie, riducendo le loro difese immunitarie contro le infezioni e contro altri stimoli nocivi di origine ambientale. I bambini soggetti a prolungata malnutrizione crescono meno degli altri; una grave malnutrizione comporta una diminuzione delle dimensioni del cervello e del numero delle cellule, nonché una alterazione dei processi chimici cerebrali. La malnutrizione delle donne durante la gravidanza determina un ridotto peso dei loro figli alla nascita: questa è una causa particolarmente importante di mortalità infantile. I bambini che soffrono di grave malnutrizione mostrano, anche dopo essere stati sottoposti a un trattamento riabilitativo, ritardi di sviluppo concernenti l'attività motoria, l'udito, il linguaggio, il comportamento personale e sociale, la capacità di risolvere problemi, la coordinazione occhio-mano e l'attività di classificazione.

Questo articolo tratta di tutte le situazioni risultanti da un'assunzione inadeguata di cibo: l'inedia grave dovuta a una carestia, la predisposizione alla malattia e la debolezza dovute a carenze alimentari, la mancanza di energia - non percepita come fame - che conduce all'apatia, la sottonutrizione, la malnutrizione e i morsi occasionali della fame di cui soffrono i poveri, ma che non sono esiziali. Non rientra in questo articolo la trattazione della fame di coloro che digiunano per motivi religiosi, o praticano lo sciopero della fame, o si sottopongono a diete ferree per riacquistare la linea, o soffrono di anoressia nervosa, ecc. La distinzione è interessante perché fa emergere la necessità di distinguere tra capacità, livelli di funzionamento, beni economici, bisogni e servizi (v. Sen, 1985).Nel mondo soffrono di fame cronica, in particolare, gli indigenti, i braccianti senza terra o quasi, i bambini piccoli delle famiglie povere, le donne povere in stato di gravidanza e nel periodo dell'allattamento, i vecchi bisognosi. Per la gran parte questi soggetti sono concentrati in Asia, nel subcontinente indiano, in Indonesia e nelle Filippine, e nell'Africa subsahariana, dove costituiscono circa il 10-15% delle famiglie, corrispondenti al 15-20% della popolazione e al 17-25% dei bambini in età prescolare. Circa un miliardo di persone consuma meno cibo di quanto vorrebbe e in caso di aumento del proprio reddito continua a spenderne per il cibo la stessa quota; inoltre centinaia di milioni di individui sono menomati dalla sottonutrizione.

Secondo uno studio della Banca Mondiale circa il 16% della popolazione complessiva dei paesi in via di sviluppo - pari a 340 milioni di individui - soffre di privazione nutrizionale (numero di calorie insufficiente a impedire una crescita stentata e seri rischi per la salute). Nei paesi più poveri questa percentuale sale al 23% della popolazione. Lo stesso studio sostiene che 730 milioni di persone soffrono di sottonutrizione, in quanto "non hanno calorie sufficienti per una vita lavorativa attiva". Questo numero corrisponde al 34% della popolazione di tutti i paesi in via di sviluppo e al 51% di quella dei paesi a basso reddito. Secondo uno studio di Reutlinger e Alderman (v., 1980) gli individui sottonutriti sono più di 800 milioni.

Oggigiorno la fame e la malnutrizione non sono principalmente il risultato di una penuria di cibo su scala mondiale. Finora, nel lungo periodo, le previsioni malthusiane di una crescita della popolazione più rapida di quella della quantità di cibo prodotta non si sono avverate. L'attuale produzione mondiale di granaglie potrebbe offrire, da sola, più di 3.000 calorie e 65 grammi di proteine al giorno pro capite. Si è stimato che il 2% della produzione mondiale di granaglie basterebbe a eliminare la malnutrizione dei 500 milioni di persone che versano in tale stato nel mondo. Tra il 1950 e il 1984 il prezzo reale dei cereali - cioè la quantità di manufatti che possono essere acquistati con una tonnellata di cereali - è calato di oltre un terzo, pari all'1,3% all'anno.

Vero è che dal 1984 la produzione mondiale pro capite di cibo è diminuita (del 14% tra il 1986 e il 1988) e nel 1989 è tornata al livello di circa due decenni prima. La base delle risorse agricole si è deteriorata, non sono state messe a punto o non sono state applicate con lo stesso ritmo di prima nuove tecnologie e la riduzione dei prezzi agricoli ha scoraggiato la produzione. La popolazione ha continuato a crescere a ritmo intenso. Così i problemi di approvvigionamento sono ritornati in primo piano. Inoltre alcuni osservatori ritengono che la rapida crescita della produzione di granaglie pro capite, a partire dal 1973, sia stata ottenuta tramite l'eccessivo sfruttamento della terra e delle riserve idriche, che ha provocato l'erosione del suolo e l'abbassamento della falda freatica: una situazione insostenibile.

La malnutrizione non è dovuta principalmente allo squilibrio tra calorie e proteine. Dalla maggior parte delle indagini fatte risulta che, se l'apporto energetico è adeguato, anche il fabbisogno di proteine è soddisfatto, altrimenti le proteine vengono bruciate per far fronte alle necessità energetiche.Non si tratta soltanto di un problema di produzione, ma anche di un problema di distribuzione: la responsabilità del fatto che il fenomeno della fame e della malnutrizione abbia oggi raggiunto dimensioni senza precedenti non va tanto imputata a una mancanza materiale di cibo quanto all'inadeguatezza dei programmi sociali e politici a livello internazionale. È il fatto che oggi la fame non sia inevitabile che rende la sua persistenza così impressionante. La capacità produttiva del mondo è attualmente in grado di nutrire tutto il genere umano, eppure non ci riesce. Il problema riguarda in parte la distribuzione tra paesi, regioni e gruppi di reddito, tra i sessi e all'interno delle famiglie. In generale è il molto povero - che spende la maggior parte del suo reddito per il cibo - a soffrire maggiormente per la fame e la malnutrizione. In molti paesi più del 40% della popolazione soffre di una carenza calorica, che nel 15% circa dei casi supera le 400 calorie al giorno. Nell'ambito delle famiglie sembra che i bambini, e in alcuni paesi - come l'India del nord e il Bangladesh - le donne, soprattutto durante la gravidanza o l'allattamento, ricevano quantità inadeguate di cibo. Le carenze caloriche variano a seconda dell'area geografica, della stagione e dell'anno.

La produzione di cereali nei paesi in via di sviluppo è cresciuta tra il 1961 e il 1980 a un tasso annuo del 2,9%, mentre il consumo è cresciuto del 3,2% all'anno. Di conseguenza le importazioni di cereali in quei paesi sono aumentate da circa 15 milioni a 64 milioni di tonnellate. Nello stesso periodo la produzione di cereali nei paesi sviluppati è cresciuta del 3,1% all'anno, ma il consumo soltanto del 2,5% all'anno. La differenza è stata esportata verso i paesi in via di sviluppo, la cui quota di importazioni di cereali, su scala mondiale, è passata, di conseguenza, dal 36% circa al 43%. Poiché la maggior parte dell'incremento della produzione alimentare ha avuto luogo nei paesi sviluppati, e poiché una redistribuzione gratuita su scala mondiale è esclusa per ragioni politiche, i paesi in via di sviluppo debbono o avere una maggiore disponibilità di valuta estera per acquistare prodotti alimentari o produrre loro stessi molto più cibo. (La disponibilità di generi alimentari nei paesi in via di sviluppo è cresciuta, dal 1961 al 1976, da 208 kg a 218 kg pro capite all'anno). Ciò vale in particolar modo per l'Africa, che fino al 1981 era la sola zona del mondo dove la produzione di cibo fosse cresciuta meno rapidamente della popolazione. A partire dal 1981 anche l'America Latina ha registrato un calo della produzione alimentare pro capite.

L'altra componente della soluzione consiste nel procurare entrate adeguate ai poveri, sia sotto forma di una migliore produzione per il consumo diretto, sia sotto forma di denaro per acquistare cibo. Per gli agricoltori ciò significa garanzia del diritto di occupazione o di proprietà della terra, un mercato regolare dove vendere i propri prodotti e un'offerta di credito. Una maggiore produzione di generi alimentari è necessaria sia per soddisfare l'aumento di domanda conseguente alla crescita della popolazione e ai più alti redditi pro capite, sia per impedire che la lievitazione dei prezzi dei prodotti alimentari annulli gli effetti dell'accresciuto potere d'acquisto.

Raggiungere standard nutrizionali perfetti è virtualmente impossibile; un obiettivo ragionevole è quello di ridurre le conseguenze più gravi della carenza nutrizionale. Nei paesi ricchi molte persone hanno problemi di salute derivanti dal sovrappeso e dall'obesità (si calcola che negli Stati Uniti siano circa 7 milioni), ma a disturbi di questo genere non viene attribuita una grande importanza sociale. Nei paesi poveri, in condizioni di insufficienza calorica non grave, gli individui subiscono un processo di adattamento per cui raggiungono un peso e un'altezza minori, presentano un'attività ridotta e, nel caso delle donne, ovulano meno regolarmente.

L'aumento dei redditi e quello dei prodotti alimentari, per quanto importanti, non sono sufficienti a eliminare la fame e la malnutrizione. Il fatto di mangiare di più non soddisfa necessariamente i bisogni nutrizionali dei poveri: può semplicemente soddisfare i bisogni dei loro parassiti intestinali. La fame e la malnutrizione derivano da condizioni ambientali patologiche e il fatto di mangiare di più può, di per sé, non essere d'aiuto. Si sono osservati casi in cui, anzi, ciò ha peggiorato le cose, perché il consumo extra di cibo da parte dei membri delle famiglie che guadagnavano corrispondeva a sforzi fisici extra, e il resto della famiglia riceveva meno cibo. In altri casi il reddito supplementare non era speso per il cibo e gli standard nutrizionali diminuivano non appena le famiglie abbandonavano il regime di sussistenza e diventavano soggette all'influenza del mercato. È possibile che ciò di cui si ha bisogno non sia una maggior quantità di cibo, ma un maggior grado di istruzione, acqua potabile, servizi medici, attività lavorative meno faticose, un minor numero di gravidanze non desiderate, posti di lavoro meno distanti, un maggiore senso critico nei confronti dei messaggi pubblicitari, o una riforma agraria che consenta agli individui di fare un uso migliore dei propri redditi accresciuti e dell'offerta alimentare supplementare. Talvolta i bisogni alimentari possono essere soddisfatti più efficacemente riducendo le esigenze anziché aumentando le disponibilità.

Accrescere i redditi reali dei poveri, in modo che essi possano acquistare più cibo, è chiaramente un modo importante di ridurre la fame e migliorare la nutrizione; ma si tratta di un processo lento e gravoso, mentre ne esistono di più rapidi e diretti. Alla carenza di iodio, che può provocare il gozzo e l'apatia e aumentare la predisposizione ad altre malattie, si può rimediare facilmente ricorrendo a sale iodato. Più difficile è porre rimedio alle carenze di vitamina A - che possono causare cecità e morte nei bambini - e alle carenze di ferro - che provocano l'anemia e riducono la capacità produttiva. La malnutrizione calorico-proteica - che può causare danni cerebrali irreversibili nei bambini e apatia negli adulti - è la più difficile da sanare. Questo è tuttora il problema più serio della malnutrizione, seguito dalle carenze di ferro e vitamina A.

A parte i casi di emergenza - le carestie -, le politiche nutrizionali a favore dei poveri cronicamente malnutriti richiedono uno sforzo continuo e prolungato. L'intervento può assumere la forma di una politica agricola, di un'assegnazione diretta di prodotti alimentari supplementari, di un programma di arricchimento dei cibi, di un piano di sussidi e razionamenti alimentari come pure di una serie di iniziative complementari (come la creazione di posti di lavoro) in settori diversi da quello alimentare. Particolarmente importanti sono le politiche relative al commercio estero e al tasso di cambio, che determinano quanto ricava l'agricoltore dal proprio raccolto.

Secondo l'approccio al problema della fame e della malnutrizione basato sull'entitlement system (incorporazione nelle leggi di prerogative e diritti) - di cui è stato pioniere A. K. Sen -, opportunità di lavoro e di guadagno diversificate sono altrettanto importanti quanto una maggiore produzione alimentare. Vero è che ciò crea dei rischi - per esempio, che determinati mercati entrino in crisi o che i prezzi dei prodotti alimentari aumentino -, ma anche puntare all'autonomia nel settore alimentare comporta dei rischi: i raccolti possono risultare insufficienti o il suolo può deteriorarsi. Tali opzioni vanno prese in considerazione soprattutto nel caso dell'Africa, dove la produzione alimentare è rimasta indietro rispetto alla crescita demografica. La soluzione migliore potrebbe consistere non nell'incrementare la produzione alimentare, ma nel creare diverse industrie remunerative di prodotti destinati all'esportazione.

Poiché la fame è in larga misura un problema di povertà e poiché i poveri comprano generi alimentari diversi rispetto ai ricchi, le politiche che incentivano una maggior produzione di prodotti alimentari tipici dei poveri - quali manioca, mais, sorgo, miglio - possono contribuire a ridurre la fame e la malnutrizione. Programmi di distribuzione razionale degli alimenti e programmi di magazzinaggio possono ridurre i deficit di offerta regionali, stagionali e annuali e contenere gli aumenti dei prezzi. Gli interventi per incentivare la produzione di generi alimentari per i poveri dovrebbero estendersi a tutti gli aspetti della politica agricola, fra cui la ricerca di nuove varietà di prodotti, i programmi di aggiornamento, le iniziative nei settori del credito e del marketing.

Si possono distribuire razioni di cibo supplementari nelle scuole, nei luoghi di lavoro o nelle cliniche ginecologiche, a donne incinte o che allattano. Tuttavia ricevendo razioni extra di cibo, distribuite ufficialmente, può accadere che vengano ridotti i pasti entro le pareti domestiche, sicché i gruppi vulnerabili finiscono per non ricevere molto cibo in più; inoltre di questi programmi non beneficiano i gruppi più a rischio, come i bambini in età prescolare. Quanto ai programmi destinati ai bambini in età scolare, va detto che anche in questo caso la facilità dell'intervento (dato che le scuole esistono già e la distribuzione non costa tanto) è inversamente proporzionale alla sua importanza. La distribuzione di razioni di cibo supplementari nel luogo di lavoro soddisfa un bisogno fondamentale e contemporaneamente favorisce la produttività, a meno che queste razioni o l'energia in più che se ne ricava non vengano deviate verso altre attività.

Programmi basati sull'introduzione di cibi speciali e su processi di arricchimento alimentare - come l'arricchimento proteico, l'arricchimento vitaminico e la iodurazione del sale - hanno ottenuto un certo successo, pur tra mille difficoltà tecniche e politiche. I sussidi generali per l'alimentazione sono molto onerosi (assorbono fino al 20% delle spese in bilancio preventivo di alcuni paesi), mentre i programmi selettivi, come la distribuzione di buoni alimentari, sono difficili da amministrare. I programmi sono più facili da amministrare e più economici se i sussidi riguardano prodotti alimentari esclusivamente per i poveri. Nei paesi ricchi si tende a tassare gli abitanti meno abbienti delle città per sovvenzionare agricoltori che sono comunque in condizioni economiche relativamente migliori. Nei paesi poveri si tendeva, almeno fino a poco tempo fa, a tassare (spesso indirettamente e in forma mascherata) gli agricoltori poveri per sovvenzionare la produzione di generi alimentari - come grano e riso di alta qualità -, che vengono consumati dai gruppi urbani in condizioni economiche migliori. Ma tra i più poveri ci sono i lavoratori agricoli senza terra e gli abitanti delle città, che devono comprare il cibo e che beneficiano di questi sussidi.

Un sistema efficiente ed equo di sussidi a favore dei consumatori poveri che non penalizzi i produttori poveri è costoso e difficile da realizzare sotto il profilo politico e amministrativo. Quando i prezzi agricoli vengono maggiorati come incentivo alla produzione, si dovrebbero prendere provvedimenti per evitare che si aggravi lo stato di malnutrizione tra i poveri che devono comprare il cibo. Alcuni paesi hanno superato con successo queste difficoltà.

L'eliminazione della fame e della malnutrizione non è un problema che si possa risolvere semplicemente rendendo la terra più fertile e le donne meno feconde. Occorre agire su altri fronti. Il consumo di acqua potabile e la prevenzione di malattie intestinali metterebbero gli individui in condizione di assimilare meglio il cibo. Se passassero meno tempo a raccogliere legna da ardere e acqua, o a percorrere le lunghe distanze che separano i diversi appezzamenti di terreno dove lavorano, le donne potrebbero consumare minori quantità di cibo. Lo stesso effetto avrebbe la diminuzione delle gravidanze non desiderate o della mortalità infantile. L'istruzione può aiutare le persone a evitare determinate malattie, come la diarrea, accrescendo in tal modo l'assimilazione del cibo, a spendere il denaro più oculatamente in alimenti nutrienti e a preparare da mangiare in modo più economico e igienico; gli individui possono imparare a integrare la propria dieta con cibo locale; le donne istruite tendono a sposarsi più tardi e ad avere meno figli. Alla battaglia contro il divezzamento precoce e l'allattamento artificiale è stato dato ampio risalto, ma il desiderio delle donne di interrompere l'allattamento al seno è spesso parte del processo generale di modernizzazione e di urbanizzazione e del desiderio di emulare i gruppi più avanzati del paese.

Fame e malnutrizione sono il risultato di un insieme complesso di condizioni, tutte derivanti dalla povertà; ma, benché i soggetti che soffrono di carenze caloriche siano in prevalenza poveri, non tutti i poveri soffrono di tali carenze. Esistono paesi e gruppi di persone ad alto reddito che soffrono di malnutrizione, e paesi a basso reddito dove il problema non esiste. A. K. Sen ha detto che oggi il pericolo non è quello paventato dal pessimismo malthusiano (la paura che la produzione di cibo non cresca con lo stesso ritmo con cui cresce la popolazione), ma quello derivante dall'ottimismo malthusiano (l'illusione che risolvendo il problema della produzione alimentare si risolva il problema della fame).

L'estirpazione della fame è, in ultima analisi, una questione legata al potere politico dei poveri. Si è detto talvolta che i liberi mercati danno a ognuno accesso al mondo del lavoro, e perciò alla possibilità di guadagnare abbastanza da soddisfare tutti i bisogni. Ma, come ha osservato Partha Dasgupta, "a livelli nutritivi sistematicamente bassi la capacità di lavorare di una persona risulta menomata, il che può dar luogo a un circolo vizioso: coloro che non hanno diritto a un sussidio di disoccupazione debbono per forza lavorare - il solo modo che hanno per ottenere un reddito -, ma la loro posizione sul mercato del lavoro è particolarmente debole". Non si può sostenere che il meccanismo del mercato assicuri un lavoro produttivo fino a quando i bisogni elementari non saranno soddisfatti.

Finché le strutture di potere e lo schieramento dei gruppi di interesse saranno tali da negare ai poveri il diritto ad adeguati approvvigionamenti alimentari, la fame continuerà. In certe condizioni gli interessi del gruppo dominante possono essere sfruttati per alleviare la povertà e la fame. Le malattie infettive non si arrestano davanti a confini di classe o di reddito. L'abrogazione delle Corn laws nel 1846 andò incontro agli interessi delle classi industriali, perché determinò un abbassamento dei prezzi degli alimenti e dei salari. Una forza lavoro ben nutrita sana e istruita è più efficiente. Ma, benché tali interessi possano essere sfruttati per l'eliminazione della fame, in ultima analisi è solo l'accesso dei poveri al potere politico che può garantire adeguati approvvigionamenti alimentari a tutti. Questo non significa che soltanto un tipo di sistema politico possa garantire l'estirpazione della fame. La storia ha mostrato che regimi differenti hanno eliminato i tipi peggiori di fame entro un breve periodo. Alcuni tipi di regime rendono però questo obiettivo irraggiungibile. Una qualche forma di partecipazione dei poveri alle decisioni che concernono la loro vita e il loro lavoro è una condizione utile, sebbene non necessaria. Il problema dell'eliminazione della fame è comunque, in ultima analisi, un problema politico più che economico o nutrizionale.

Le diverse strategie necessarie nella lotta alla fame

Per comprendere e combattere la fame, la malnutrizione e la sottonutrizione, si deve abbandonare l'idea che esse siano semplicemente il risultato di uno squilibrio tra produzione alimentare e popolazione. Come si è visto, la fame è il risultato di condizioni ambientali patologiche. Tali condizioni sono, a loro volta, determinate da diversi fattori, che possono essere schematicamente divisi in fattori che operano sull'offerta di prodotti alimentari e fattori che operano sull'impatto dei prodotti alimentari disponibili sullo status nutrizionale. Un obiettivo primario delle politiche agricole dei paesi in via di sviluppo è quello di aumentare il tasso di crescita della produzione di generi alimentari. Un utile espediente mnemonico consiste nel raggruppare in sei 'I' tutti i fattori relativi al versante dell'offerta sui quali devono operare le politiche agricole:

1. Incentivi (o prezzi)

2. Inputs (fattori di produzione)

3. Innovazione (tecnologia)

4. Informazione (la diffusione delle tecnologie attraverso servizi di divulgazione)

5. Infrastrutture

6. Istituzioni (credito, marketing, riforma agraria).

Queste sei 'I' forniscono un sistema di riferimento per la comprensione del problema della fame e per la lotta contro di essa. Gli incentivi sono importanti per stimolare gli agricoltori a produrre di più e a diversificare i prodotti. Ciò che determina l'entità e la varietà dei raccolti è il rapporto tra quanto gli agricoltori ricavano dalla vendita dei raccolti stessi e quanto debbono spendere per acquistare gli inputs e i beni di consumo di cui abbisognano. Ma gli incentivi non sono sufficienti. Gli agricoltori devono avere accesso agli inputs: fertilizzanti, attrezzature, acqua, credito, ecc. Con una disponibilità limitata di terra e di manodopera, e una data tecnologia, la produzione alimentare va incontro a una rapida diminuzione dei profitti. Inoltre, per aumentare la produzione, a parità di risorse, sono necessarie tecnologie specifiche: varietà ad alta resa, sistemi di irrigazione, ecc. Ciò che per duecento anni ha differito l'impatto con i limiti 'malthusiani' è stato il progresso tecnico, l'innovazione. Il progresso tecnico è stato largamente istituzionalizzato, ma l'innovazione tecnologica non è di alcuna utilità se gli agricoltori non ne sono al corrente o rifiutano di introdurla. Sono altresì necessarie appropriate infrastrutture - strade, porti, ferrovie, impianti di magazzinaggio, ecc. - per portare i raccolti ai mercati e gli inputs agli agricoltori. Senza una siffatta rete distributiva gli incentivi e le innovazioni sono inutili. D'altra parte, per ottenere una forza lavoro agricola efficiente, occorrono infrastrutture sociali preposte all'istruzione, alla sanità e alla nutrizione. Infine occorrono istituzioni, come le banche di credito agrario, ed efficienti istituti di marketing che acquistino, immagazzinino, trasformino, nonché trasportino e spediscano dai produttori ai consumatori i raccolti e che portino gli inputs agli agricoltori. A tutto ciò va aggiunta la necessità di cambiare il tipo di produzione agricola introducendo colture più pregiate, purché i rischi connessi alla coltivazione e alla vendita di questi prodotti non superino i relativi benefici aggiuntivi. Alcune di queste 'I' sono attuate meglio da un mercato, altre da un intervento pubblico. Sono le azioni complementari del settore pubblico e di quello privato che producono i risultati auspicati: per esempio la combinazione di appropriate politiche di determinazione dei prezzi dei prodotti alimentari con la realizzazione di strade e la fornitura di veicoli.

All'interno di ciascuna delle sei 'I' si devono affrontare scelte complesse e difficili. Si considerino le infrastrutture, normalmente realizzate, almeno in parte, a spese pubbliche. In questo caso si deve scegliere tra: infrastrutture materiali, giuridiche, sociali e destinate specificamente ai produttori; infrastrutture centralizzate e decentrate; infrastrutture per i piccoli agricoltori in deficit e per i lavoratori agricoli senza terra, da una parte, e, dall'altra, infrastrutture per i grandi produttori e per i consumatori; conservazione dello status quo e nuovi progetti; differenti metodi per finanziare la realizzazione delle infrastrutture. Lo stesso discorso vale nel caso delle istituzioni e dell'informazione. Gli operatori addetti alla divulgazione delle novità tecnologiche, per esempio, devono scegliere tra l'adozione di singoli canali di comunicazione e la combinazione di più canali diversi. Tutte queste attività contendono al finanziamento diretto della produzione alimentare le scarse risorse disponibili.

Un altro insieme di scelte si profila quando si tratta di ordinare in successione le sei 'I'. Dove le infrastrutture, le istituzioni e l'innovazione siano già presenti, basterà dedicarsi agli incentivi. In altri casi alcune di queste 'I' possono essere indotte da altre: i prezzi possono stimolare l'innovazione (v. Hayami e Ruttan, 1984²), la comparsa di istituzioni e persino l'intervento pubblico in materia di infrastrutture. In altri casi ancora l'azione su un fronte può sostituire l'azione su altri fronti: forti sussidi pubblici a favore di inputs ben selezionati possono sostituire una maggiorazione dei prezzi dei prodotti. L'ordinamento in successione è della massima importanza, poiché molti paesi sono troppo poveri per fare tutto e subito.

Le sei 'I' riguardano principalmente il versante della disponibilità di prodotti alimentari per l'estirpazione della fame. Come si è visto, sono necessari anche provvedimenti per creare impieghi remunerativi e redditi, interventi nel campo della sanità e in quello dell'istruzione, misure per ridurre il fabbisogno alimentare sopprimendo il lavoro superfluo (si può, per esempio, procedere all'accorpamento delle terre per eliminare la necessità di percorrere lunghi tragitti tra un appezzamento e l'altro) e le gravidanze non desiderate, iniziative a favore del controllo delle nascite e della pianificazione familiare, e misure per imporre una distribuzione del cibo più equa all'interno delle famiglie. Perfino con approvvigionamenti alimentari e redditi più che adeguati le persone muoiono di fame, o a causa di parassiti intestinali, o a causa di proprietari terrieri-usurai non meno parassiti, o, in alcune società, perché i capifamiglia maschi impediscono agli altri membri della famiglia di nutrirsi adeguatamente. La lotta alla fame comprende riforme al microlivello - concernenti il ristretto ambito familiare -, riforme al mesolivello - riguardanti gli effetti delle macropolitiche su gruppi particolari -, riforme a livello macroeconomico - riguardanti l'andamento del tasso di cambio -, riforme a livello macropolitico - concernenti il sistema di distribuzione delle terre e di prestito del denaro - e la struttura del potere a tutti i livelli intermedi, privati e pubblici, e a livello globale.

I responsabili delle politiche alimentari devono affrontare in partenza un dilemma fondamentale: si debbono tenere i prezzi dei generi alimentari elevati, per incoraggiarne la produzione e accrescerne la disponibilità a vantaggio di tutti - compresi, a lungo andare, anche i poveri -, sebbene per questi ultimi ciò comporti, a breve termine, il rischio di fame e di inedia? oppure si debbono tenere i prezzi dei prodotti alimentari bassi, in modo da assicurare cibo a buon mercato ai poveri, con il rischio di aggravare nel futuro la penuria alimentare? Il dilemma è aggravato dal fatto che molti produttori sono, a loro volta, poveri. Esistono due modi di risolvere il dilemma: si possono tenere alti i prezzi e quindi prendere provvedimenti specifici, come il razionamento e i sussidi, per proteggere i poveri; oppure si possono tenere bassi i prezzi e compensare i produttori con sovvenzioni per gli inputs o i raccolti. Il terzo corno del dilemma è che la capacità di aumentare il gettito fiscale o di imporre il razionamento o prezzi calmierati è molto scarsa nei paesi in via di sviluppo.

Un altro dilemma è se destinare i sussidi alimentari ai gruppi più bisognosi o estenderli a un gruppo più ampio, al limite all'intera popolazione. Entrambe le soluzioni presentano degli inconvenienti: è molto difficile attuare un programma che riguardi tutti i poveri e soltanto loro. Una copertura più ampia può diventare molto costosa, mentre adottandone una più ristretta si corre il rischio di escluderne soggetti bisognosi; inoltre questa soluzione mette a dura prova la capacità amministrativa, spesso inadeguata. È meglio sbagliare garantendo una copertura più ampia e recuperare parte delle spese tramite tasse che non colpiscano, almeno direttamente, i più vulnerabili, come tasse sugli alcolici o sulle sigarette.

Alla molteplicità delle strategie per la lotta alla fame fa riscontro la molteplicità degli agenti che devono intervenire nella lotta. Generalmente si pensa soltanto all'azione del governo, che interviene imponendo tasse, destinando sussidi, varando programmi occupazionali, nutrizionali, ecc. Ma anche organizzazioni non governative, come l'Oxfam, e agenti privati svolgono ruoli importanti. Per esempio A. K. Sen ha mostrato l'importanza di una stampa libera, sia come sistema di allarme per segnalare carestie imminenti, sia come gruppo di pressione sui governi per indurli a rispondere tempestivamente e adeguatamente alle minacce di carestie.

L'alternativa fra produzione destinata all'esportazione e produzione destinata al consumo interno

Si è discusso a lungo se convenga coltivare prodotti da esportare o prodotti alimentari destinati al consumo interno. Alcuni hanno sostenuto che, se il vantaggio relativo sta dalla parte dei raccolti da esportazione, allora questi devono essere favoriti e la valuta straniera ricavata dalla loro vendita deve essere usata per acquistare gli inputs necessari all'agricoltura e all'industria, o addirittura per importare prodotti alimentari. D'altro canto c'è stato chi ha sostenuto che coltivando raccolti da esportazione si impoveriscono ulteriormente i poveri, si sottrae cibo alla gente e si abbassano gli standard nutrizionali. Si è anche sostenuto che questi raccolti sono dannosi dal punto di vista ecologico.

Parallelamente si è discusso se convenga aumentare la quota dei prodotti alimentari destinati al mercato - interno o estero che sia - o quella dei prodotti alimentari destinati ad essere consumati dai membri dell'azienda agricola familiare che li produce. Alcuni degli argomenti sostenuti a proposito della prima alternativa valgono anche a proposito della seconda.

Chiaramente molto dipende dal tipo di organizzazione istituzionale. Se i raccolti da esportazione sono coltivati in grandi piantagioni - magari di proprietà di stranieri -, che generano poca occupazione, mentre i prodotti alimentari per il consumo interno sono coltivati da piccoli agricoltori, l'impatto sulla distribuzione del reddito sarà differente a seconda di quale tipo di raccolto venga favorito. Se la valuta straniera ricavata dalla vendita dei raccolti da esportazione viene incamerata dal governo e spesa per acquistare armi o palazzi per uffici, mentre il ricavato dalla vendita dei prodotti alimentari è destinato ai contadini poveri, di nuovo l'impatto sulla distribuzione del reddito sarà differente.

Il fatto interessante, almeno nel caso dell'Africa, è che non ci sono prove che le due alternative siano necessariamente in conflitto tra loro. Dove si ha abbondanza di terra e di manodopera le strategie a favore dei raccolti da esportazione vanno nella stessa direzione di quelle riguardanti la produzione di generi alimentari destinati al consumo interno. Non esistono neppure prove che gli standard nutrizionali siano calati in seguito alla coltivazione di prodotti da esportazione (il caso dello zucchero, in Kenya, può costituire un'eccezione). Tutto ciò dipende da molte ragioni. In primo luogo certi servizi possono essere prodotti congiuntamente dal medesimo processo ed essere d'ausilio sia alla produzione di raccolti da esportazione sia a quella di generi alimentari per il consumo interno. Tra questi servizi vi sono i servizi informativi, il marketing e le forniture di inputs. Analogamente i macchinari e i fertilizzanti possono essere usati per accrescere la produzione di entrambi i tipi di coltivazioni. È anche possibile che complementarità analoghe esistano sul versante della domanda: la domanda di generi alimentari avanzata dagli agricoltori che coltivano raccolti da esportazione crea un mercato stabile per i generi alimentari prodotti localmente e ne stimola la crescita. Nel caso di alcuni prodotti da esportazione, come il cotone, una parte del raccolto può essere usata come cibo (olio commestibile) o come foraggio.

Nonostante il rapporto positivo che in certe condizioni intercorre tra raccolti da esportazione e prodotti alimentari per il consumo interno, tra i due tipi di coltivazioni possono, naturalmente, sorgere dei conflitti. Là dove in passato ci sia stata una discriminazione ingiustificata contro la produzione di generi alimentari destinati al consumo interno, è il caso di abolire tale discriminazione.

I governi coloniali hanno cercato di favorire i raccolti da esportazione migliorando infrastrutture come i trasporti, il marketing e i servizi relativi alla distribuzione, a scapito dei mezzi per la produzione di generi alimentari destinati al consumo interno. Anche le attività di ricerca e i servizi informativi sono stati concentrati sui raccolti da esportazione, soprattutto se prodotti da grandi aziende con potere di mercato e capacità di sottoporre a lavorazione i raccolti e realizzare profitti alzando i prezzi in presenza di una domanda rigida. D'altronde i raccolti da esportazione hanno spesso procurato tasse più alte rispetto ai raccolti di prodotti alimentari per il consumo interno e possono essere controllati più facilmente dai governi, poiché spesso sono coltivati in aree specifiche, devono passare attraverso porti, i loro acquirenti sono più concentrati, ecc. Dal canto loro gli economisti tendono sempre a privilegiare il commercio, internazionale o intranazionale che sia, a scapito della produzione alimentare per il consumo locale. Anche queste tendenze, là dove esistano, dovrebbero essere abolite.

Alcuni studiosi si sono spinti oltre e hanno criticato i governi coloniali, responsabili della distruzione dei sistemi integrati di agricoltura e pastorizia preesistenti, che non danneggiavano l'ambiente ecologico e garantivano un'abbondante produzione alimentare. In Africa, in epoca precoloniale, gli agricoltori, durante la stagione secca, consentivano l'accesso ai propri campi ai pastori, che vi portavano le proprie mandrie a pascolare sulle stoppie. Gli animali pascolavano e con il loro sterco concimavano e fertilizzavano il terreno, mentre con gli zoccoli rompevano le zolle di terra attorno alle piante, consentendo l'ossigenazione del suolo. I pastori scambiavano il latte con il grano degli agricoltori e in tal modo persone, animali e terra venivano simultaneamente sostentati. L'introduzione, da parte dei governi coloniali, di monocolture destinate alla vendita (arachidi, cotone) distrusse questo sistema. Inoltre furono scavati dei pozzi e gli animali, concentrandosi intorno ai luoghi di abbeveraggio, ne calpestavano il terreno trasformandolo in un piccolo deserto. La produzione postcoloniale ha aggravato questo processo di deterioramento del suolo, contribuendo, secondo alcuni, alle attuali carestie. Non è chiaro, tuttavia, come si sarebbe potuto conservare il sistema tradizionale di fronte al rapido aumento della popolazione.

In alcuni casi la domanda mondiale di raccolti da esportazione si rivela anelastica. La produzione dovrebbe allora essere ridotta e i ricavi totali incrementati, a meno che gli aumenti dei prezzi attuali non riducano la domanda futura, determinando una perdita successiva, debitamente scontata, superiore ai guadagni presenti. Su questo ragionamento si fondano i tentativi di stipulare accordi intergovernativi per prodotti quali tè, cacao, caffè, zucchero, spezie, ecc. Gran parte dell'attuale ricerca è dedicata ad accrescere ulteriormente la produttività e la produzione di questi raccolti da esportazione, non sempre a vantaggio dei coltivatori. In tal caso la difficoltà sta nel fatto che, in assenza di efficaci accordi intergovernativi, le attività svolte su scala nazionale da piccoli paesi non sono coordinate con quelle svolte dai coltivatori e dagli esportatori di paesi concorrenti.

Uno spostamento della produzione verso i raccolti da esportazione riduce talvolta il ruolo delle donne in società in cui tradizionalmente esse producono, preparano e distribuiscono il cibo. Questo cambiamento, nonostante comporti un aumento del reddito familiare, può condurre a una diminuzione degli standard nutrizionali. Talvolta gli uomini migrano in altre aree e le condizioni alimentari delle loro famiglie peggiorano. Ma non si può generalizzare: in certi casi le donne intensificano il proprio lavoro nell'ambito della produzione di generi alimentari per compensare la riduzione del lavoro degli uomini, e talora giungono a produrre un sovrappiù per la vendita, accrescendo in tal modo sia il proprio reddito sia la propria indipendenza. È stato segnalato un caso in Camerun in cui gli uomini si sono dedicati alle coltivazioni di cacao, caffè e banane, abbandonando le aziende agricole in cui avevano lavorato fino a quel momento. Vi subentrarono le donne, che, però, adottarono un sistema di coltivazione completamente diverso da quello degli uomini. Il sistema delle donne implicava un impegno lavorativo giornaliero limitato ma distribuito lungo tutto l'arco della stagione, mentre gli uomini avevano coltivato una varietà di prodotti che richiedevano occasionalmente periodi di lavoro intenso. Il risultato fu un incremento della produzione totale - di prodotti da esportazione e di prodotti alimentari per il consumo interno; in particolare questi ultimi erano coltivati da un numero minore di persone (solo le donne), le quali usavano tecniche a intensità di lavoro maggiore rispetto all'intensità di lavoro media dell'attività congiunta di uomini e donne.

Importanti argomenti di studio sono le conseguenze del passaggio alla produzione di raccolti da esportazione su: a) i modelli di spesa derivanti da una diversa distribuzione delle entrate fra i vari membri della famiglia e, su larga scala, dal fatto che tali entrate affluiscono in blocchi discontinui anziché con un flusso costante; b) la distribuzione del cibo ai diversi membri della famiglia; c) il modo in cui le donne ripartiscono il proprio tempo e le proprie energie fra le diverse attività. D'altro canto uno spostamento della produzione verso i raccolti da esportazione può accrescere notevolmente le opportunità di impiego e la disponibilità di cibo. La produzione della juta comporta un'intensità di lavoro maggiore rispetto a quella del riso; perciò lo spostamento dalla coltivazione del riso a quella della juta, nel Bangladesh, crea più posti di lavoro e contribuisce così a una migliore nutrizione.

Molto dipende dalla distribuzione della terra e dal sistema di produzione agricola. Se i raccolti da esportazione danno buoni risultati in grandi piantagioni o in imprese agricole, mentre i generi alimentari per il consumo interno sono prodotti prevalentemente da piccoli agricoltori o dalle loro mogli, uno spostamento verso i raccolti da esportazione può aggravare le diseguaglianze concernenti l'accesso alle risorse, le possibilità di guadagno e la proprietà della terra. Situazioni del genere si riscontrano, per esempio, in Giamaica - dove esistono grandi piantagioni di zucchero - e in Salvador - dove si hanno grandi piantagioni di cotone; ma anche in Africa la propensione al commercio ha favorito la grande azienda agricola e la grande impresa orientate all'esportazione. I raccolti da esportazione spesso si coltivano più efficacemente in grandi aziende, e la conversione a favore di tali raccolti può condurre a un impoverimento dei piccoli agricoltori. Nei paesi africani i guadagni supplementari derivanti dall'esportazione vanno ad accrescere il reddito dei piccoli agricoltori e la valuta estera così acquisita contribuisce a superare le strozzature dei sistemi di trasporto e di approvvigionamento degli inputs agricoli, tanto importanti per la produzione alimentare. Questa era certamente la situazione creatasi in Tanzania nei primi anni ottanta.

Quanta parte del processo produttivo debba essere dedicata ai raccolti da esportazione dipende anche dai costi dei trasporti internazionali, a loro volta condizionati dal prezzo del petrolio. Quanto più bassi sono questi costi, tanto più vantaggioso è il commercio internazionale. La previsione di un futuro aumento dei costi di trasporto, a parità di altre condizioni, giustificherebbe un'iniziativa tesa a ridurre la dipendenza dal commercio con l'estero.

La valuta estera è spesso una delle risorse più scarse, mentre un suo incremento può consentire uno sfruttamento migliore di molte risorse interne e contribuire a una maggiore produzione alimentare, oltre a permettere di importare maggiori derrate alimentari. Si è già accennato al fatto che talvolta è possibile aumentare sia la produzione di raccolti da esportazione sia quella di generi alimentari per il consumo interno, soprattutto se vengono introdotte tecnologie più avanzate. In alcuni casi i costi-opportunità dell'incremento delle esportazioni sono molto bassi e non nasce alcun dilemma. Può esserci abbondanza di terra e può non essere necessario un massiccio impiego di manodopera e di altri fattori produttivi. Dove la produzione alimentare interna diminuisce è possibile incentivare la produzione orticola insieme con l'espansione dei raccolti da esportazione, onde mantenere un livello nutrizionale adeguato. Secondo uno studio condotto nel 1979 dal Ministero della Sanità keniota su cinque raccolti da esportazione - caffè, tè, cotone, piretro e canna da zucchero - non esistono prove che la coltivazione di tali prodotti vada a detrimento dello status nutrizionale (la sola possibile eccezione è rappresentata dalla canna da zucchero, come abbiamo visto).

Sono comunque necessarie alcune precisazioni a proposito dell'opinione secondo cui l'allocazione delle risorse dovrebbe essere guidata dal principio del vantaggio relativo, di modo che il vantaggio relativo ottenuto da un raccolto per l'esportazione permetterebbe di acquistare, all'estero, più cibo di quanto se ne potrebbe produrre nel paese. Il vantaggio relativo non è un dono della Provvidenza, ma è determinato, a sua volta, dall'orientamento impresso dalla ricerca, e la ricerca è stata decisamente orientata a favore dei raccolti da esportazione e delle granaglie principali, a discapito di prodotti alimentari 'inferiori', come il miglio, il sorgo e la manioca. Al crescere dell'importanza del capitale umano, la direzione del vantaggio relativo può essere fortemente influenzata dalla ricerca, dai servizi informativi, dall'istruzione e da altre forme di investimento in risorse umane. Non sono più soltanto, e neppure principalmente, le 'qualità naturali' che determinano la specializzazione in commercio internazionale, ma decisioni politiche consapevoli.

Recentemente la ricerca che si occupa di questi raccolti 'inferiori' ha ottenuto qualche successo. Nello Zimbabwe sono state sviluppate varietà ibride di mais, nel Sudan varietà di sorgo ad alta resa e resistenti alla siccità, in Nigeria una varietà di manioca resistente alle malattie, con una resa tre volte superiore a quella delle varietà spontanee. Ma un superamento completo della ingiustificata preferenza per i raccolti da esportazione, associato alla concessione di credito e all'istituzione di sistemi di distribuzione, sposterebbe il vantaggio relativo dalla parte dei prodotti alimentari destinati al consumo interno e porterebbe benefici ai poveri. Inoltre sembra, come risulta da diverse indicazioni, che i poveri tendano a produrre ciò che essi stessi consumano, e che consumino ciò che producono; e questo per svariate ragioni. In primo luogo, quando una famiglia passa da una produzione di semisussistenza destinata ai propri bisogni a una monocoltura da esportazione, il suo reddito può aumentare, ma il suo status nutrizionale diminuisce. In secondo luogo la monocoltura da esportazione è più esposta al rischio di raccolti scarsi, anche se i profitti, in media, sono più alti. In terzo luogo i raccolti da esportazione necessitano spesso di tempi lunghi per maturare, e il risultato può rivelarsi meno remunerativo del previsto. In quarto luogo, sotto il profilo distributivo, è preferibile la coltivazione di prodotti alimentari da consumare direttamente.

Se si cerca di aumentare la produttività dei poveri unicamente attraverso il passaggio alla coltivazione di raccolti da esportazione si va incontro a due pericoli. In primo luogo può mancare una domanda adeguata per i beni da essi prodotti, oppure possono venire imposte tasse sulle esportazioni, o i margini di marketing possono essere alti; in secondo luogo il prezzo dei generi alimentari, al cui acquisto i poveri destinano gran parte del proprio reddito, può aumentare drasticamente, soprattutto se il cambiamento implica penuria di generi alimentari nei mercati locali. La probabilità di evitare questi due pericoli è più alta se i poveri sono in grado di soddisfare i propri bisogni all'interno di unità in qualche modo più autosufficienti di quanto prescritto da una stretta applicazione della teoria dello scambio e del vantaggio relativo. Questo discorso si applica alle famiglie e ai gruppi familiari, ai villaggi, alle nazioni e ai gruppi di nazioni povere. Questo soddisfacimento 'autonomo' di bisogni di base comporta vantaggi distributivi che devono essere contrapposti ai vantaggi solitamente attribuiti ai guadagni complessivi ricavabili dal commercio, i quali possono essere maggiori ma distribuiti peggio, più incerti o meno immediati.

In alcuni paesi, come lo Zambia, il Mali e la Tanzania, si pone un dilemma. Gli argomenti ricordati per spingere i piccoli proprietari a produrre generi alimentari per il consumo locale sono convincenti; al tempo stesso, però, la scarsità di valuta straniera costituisce un impedimento all'espansione, perché riduce la disponibilità di beni di consumo, di combustibile, di sistemi di trasporto e di fertilizzanti. Per incrementare la produttività nel settore alimentare è necessario aumentare i fattori produttivi - macchinari, fertilizzanti e pesticidi - che spesso devono essere importati e pagati con valuta straniera. Le importazioni sono già state ridotte al minimo, così che, in mancanza di aiuti straordinari, l'unica soluzione è un aumento delle esportazioni. La produzione alimentare e il consumo locali non possono essere aumentati senza un incremento delle esportazioni, ma queste possono essere accresciute solo diminuendo la produzione alimentare per il consumo locale. Aiuti stranieri non vincolati, non legati a un progetto, associati a politiche appropriate, possono trasformare questo circolo vizioso in un circolo virtuoso.

Spesso vengono fatte generalizzazioni, del tutto insostenibili, di questo tipo: i raccolti da esportazione sono prodotti in grandi tenute, i raccolti per il consumo in piccoli poderi; i raccolti da esportazione sono coltivati come monocolture, i raccolti per il consumo sono coltivati in aziende agricole la cui produzione è diversificata; si impiega più manodopera femminile in un caso che nell'altro. Si è compiuto un certo progresso combinando, in differenti modi, l'output, le vendite e i metodi di produzione. La migliore linea di condotta consiste nell'evitare dogmatismi e promuovere politiche che accrescano e stabilizzino i redditi dei poveri - attraverso l'esportazione o la produzione di generi alimentari per il consumo interno o entrambe le attività -, in modo da garantire loro l'accesso al cibo.

Per riassumere la controversia: gli accaniti oppositori dei raccolti da esportazione - la cui capacità di produrre valore è spesso maggiore di quella dei prodotti alimentari per il consumo interno -, non hanno, nel complesso, fornito buoni motivi a sostegno della loro avversione; tuttavia, vi è un granello di verità nelle critiche che essi muovono nei confronti di quanti propugnano il principio del vantaggio relativo come criterio sulla cui base preferire il commercio con l'estero. Questo granello di verità può essere ricapitolato nei seguenti punti: 1) il vantaggio relativo può cambiare, soprattutto in seguito a mutamenti di orientamento dovuti alla ricerca e al processo di formazione del capitale umano; 2) di importanza cruciale sono le disposizioni istituzionali circa i beneficiari, rispettivamente, delle vendite all'estero (il governo, tramite le tasse sulle esportazioni, i parastatali, le imprese straniere, i proprietari delle piantagioni, i grandi imprenditori agricoli) e della produzione di generi alimentari per il consumo interno (i piccoli agricoltori); 3) la produzione alimentare locale e i mercati alimentari locali possono essere danneggiati o distrutti dal commercio con l'estero; malgrado i guadagni più alti per il paese, i prezzi dei prodotti alimentari locali possono crescere, oppure certi generi alimentari possono scomparire; ma anche l'autosufficienza alimentare su scala locale, al pari dell'autosufficienza nazionale, può danneggiare i poveri; 4) il fatto che i coltivatori guadagnino di più non implica sempre un miglioramento degli standard nutrizionali di tutti i membri delle loro famiglie; 5) i raccolti da esportazione comportano talvolta rischi maggiori per quanto riguarda la produzione, i costi del trasporto all'estero e la domanda estera; 6) la distribuzione dei benefici (e del potere) tra uomini e donne, e tra governo e agenti privati, può non essere equa; 7) il commercio con l'estero contribuisce a un cambiamento dei gusti che può rendere il paese più vulnerabile e ridurre gli standard nutrizionali; 8) la coltivazione di una monocoltura da esportazione può essere dannosa per l'ambiente ecologico; 9) in molti casi l'esperienza ha dimostrato che la produzione per il consumo e quella per l'esportazione non sono incompatibili ma complementari.

La distribuzione del cibo all'interno della famiglia

In passato si tendeva a dare per scontato che, se un capofamiglia guadagnava abbastanza da nutrire tutti i membri della sua famiglia, questi sarebbero stati nutriti adeguatamente. Recentemente la distribuzione del cibo all'interno della famiglia è stata studiata più attentamente. I risultati sono ancora controversi. Per alcuni le donne e i bambini - specialmente le bambine al di sotto dei quattro anni -, subiscono una discriminazione che favorisce gli uomini adulti e i ragazzi; per altri tale discriminazione viene molto esagerata. Ove si verifichi, il fatto che i bambini e le donne ricevano meno cibo degli uomini adulti può essere in parte spiegato come dovuto alle loro minori esigenze, al loro minore impegno lavorativo o alla loro più bassa produttività. Gli osservatori generalmente concordano nel ritenere che in alcune culture, per esempio nel Bangladesh e nell'India settentrionale, le bambine al di sotto dei quattro anni subiscano una certa discriminazione alimentare. Naturalmente il numero dei bambini piccoli nelle famiglie povere è sproporzionatamente elevato, ed essi costituiscono uno dei gruppi più vulnerabili. È anche possibile che le famiglie povere debbano privilegiare l'alimentazione dei membri che hanno più probabilità di guadagnare, cioè, il più delle volte, degli adulti maschi. In Africa le bambine sono favorite rispetto ai maschi. In molte culture sono le donne che dispongono del cibo; esse controllano le riserve di cereali e vi attingono per nutrire se stesse e le proprie famiglie. È improbabile che esse siano del tutto prone alle richieste egoistiche dei loro mariti.

Quando le famiglie povere soffrono di fame e sottonutrizione, se il vero problema è quello di elevare lo status nutrizionale dei loro figli, non sempre la soluzione migliore è accrescere i redditi familiari, per quanto desiderabile ciò possa essere da altri punti di vista. Il programma GOBI - diagrammi di crescita, reidratazione orale, allattamento al seno e vaccinazione (Growth charts, Oral rehydration, Breast feeding, Inoculation) - progettato e diffuso dall'UNICEF può essere un modo più rapido ed efficace per migliorare la nutrizione di bambini che abbiano sofferto di diarrea.

Le fluttuazioni stagionali del consumo alimentare accrescono il danno aumentando la gravità e il numero delle carenze per gli indigenti. Aumenta la probabilità che vengano superati i limiti individuali di adattamento tollerabile e un maggior numero di individui finisce nel gruppo di coloro che sono gravemente sottonutriti. In Gambia, per esempio, il peso delle donne, tra il periodo precedente e il periodo seguente il raccolto, diminuiva di 5 chili e la quantità di cibo ingerita giornalmente calava riducendo l'apporto calorico di 60 calorie al giorno. Nel Bangladesh la differenza nel consumo calorico giornaliero andava da 62 a 50 calorie. Ad alcune di queste variazioni si può ovviare in anticipo. Le variazioni possono dipendere da variazioni della domanda di lavoro o dall'alto costo e dallo spreco che il magazzinaggio di generi alimentari comporta. L'aumento temporaneo del peso corporeo può essere il modo migliore per superare queste difficoltà. Come si è visto, entro certi limiti esistono anche forme di adattamento tollerabili; ma per le persone molto povere le carenze alimentari significano un serio stress, soprattutto perché nei periodi di penuria cresce il numero delle malattie e delle infezioni e i prezzi dei generi alimentari sono più alti.

Le leggi di Engel e di Bennett

Il consumo di cibo presenta diverse regolarità che sono state formulate sotto forma di 'leggi'. La legge di Engel stabilisce che la quota del bilancio familiare destinata al cibo diminuisce all'aumentare del reddito familiare. Bisogna notare che la legge di Engel, benché sia stata talvolta messa in relazione col fatto che la capacità dello stomaco è limitata, in realtà si riferisce alla spesa in generi alimentari, non alla quantità di cibo consumata: il consumo di calorie raggiunge un tetto massimo ben prima della spesa per i generi alimentari. La legge non si applica alle famiglie molto povere, la cui spesa in generi alimentari cresce proporzionalmente, o anche più che proporzionalmente, all'aumentare dei redditi, rappresentando una quota variabile tra l'80% e l'85% delle loro uscite. La soglia di povertà è stata talvolta definita come quel livello di reddito in corrispondenza del quale la quota di spesa in generi alimentari comincia a diminuire. È tra i soggetti al di sotto di tale soglia che il rischio di un danno nutrizionale è maggiore.

La legge di Bennett stabilisce che la percentuale dei principali alimenti amilacei nella dieta diminuisce al crescere dei redditi. I principali amilacei, fra cui soprattutto cereali e radici commestibili, sono gli alimenti più economici. All'aumentare dei redditi le famiglie diversificano la propria dieta, consumando alimenti più costosi. La qualità del cibo, misurata in base al suo prezzo, cresce con il reddito. Per determinare il reddito spendibile, allo scopo di verificare queste leggi, si devono sottrarre dal reddito disponibile le spese per acquistare generi di cui non si può fare a meno (per esempio le sigarette) e gli interessi sui prestiti, poiché sono inevitabili, non dipendono da una libera scelta. Mentre la legge di Engel si riferisce alla spesa per il cibo rispetto al reddito, la legge di Bennett si riferisce alle fonti di calorie alimentari rispetto al reddito. Una terza legge afferma che la qualità media delle calorie alimentari, misurata dai prezzi, cresce con il reddito.

Fino a epoca recente il numero delle persone sottonutrite era considerevolmente sovrastimato: si pensava che ammontasse al 40-60% della popolazione nei paesi a basso reddito come l'India o la Nigeria. La cifra giusta è più vicina al 10-15%. Le ragioni di questi errori di valutazione sono molte, ma in gran parte consistono in una sopravvalutazione delle calorie necessarie, nell'aver trascurato la capacità delle persone di adattarsi senza danno, entro certi limiti, a un'alimentazione più scarsa e in varie ragioni di carattere statistico, riguardanti differenze di clima, di carico di lavoro, di struttura rispetto all'età e al sesso. Il fabbisogno di cibo non dipende solo dal clima, dal lavoro, dall'età, dalle dimensioni e dal sesso, ma varia anche da un individuo all'altro e, nel caso di uno stesso individuo, da un'epoca all'altra. Le persone possono anche adattarsi senza danno, entro certi limiti la cui ampiezza è controversa, e per un certo periodo di tempo, a un'alimentazione più scarsa. Tutto ciò significa che ci sono molte più persone che soffrono di deprivazioni che non persone cronicamente sottonutrite. Il 40-60% di cui sopra può mancare di molti elementi che rendono la vita umana degna di essere vissuta (un alloggio adeguato, istruzione, servizi sanitari, un'attività lavorativa, potere) e possono soffrire di tanto in tanto di fame, ma questi soggetti non sono cronicamente sottonutriti, e hanno bisogno di politiche differenti. I poveri necessitano di un'istruzione migliore, di acqua potabile, di una migliore assistenza sanitaria, di maggiori opportunità di lavoro e di più potere; ma la carenza di cibo non è il loro problema principale. Dar loro più cibo può non avere altro effetto che quello di lasciarli poveri ma grassi. Il problema alimentare è comunque il problema principale per le persone estremamente povere, che necessitano in primo luogo di un più elevato status nutrizionale. Questi soggetti spendono, come si è visto, l'80-85% del proprio reddito in cibo, e questa percentuale non diminuisce al crescere del loro reddito. Essi inoltre consumano alimenti molto poveri, specialmente cereali, mentre i meno poveri spendono buona parte degli incrementi di reddito in cibi più gustosi e più cari.

La misura della sottonutrizione è data dal rapporto peso/altezza (negli adulti), dall'altezza rispetto all'età e dal peso rispetto all'età (nei bambini). Carenze alimentari estreme possono ostacolare lo sviluppo fisico fino ad arrestarlo e costituiscono una minaccia per lo sviluppo mentale e persino per la sopravvivenza. Ma dare di più da mangiare a bambini che soffrono di carenze alimentari moderate può condurre soltanto all'obesità. Altre misure, come fornire un'istruzione migliore, acqua meno inquinata o un'assistenza sanitaria migliore, meritano la priorità. Purché il peso sia commisurato all'altezza, una statura bassa rispetto all'età non comporta grandi svantaggi né per gli adolescenti né per gli adulti.

A prima vista si potrebbe ritenere che, se si dispone di un reddito sufficiente ad acquistare quantità di cibo adeguate per tutti i membri della famiglia, il problema della fame non si ponga. Ma un reddito adeguato non basta: a ogni livello di reddito corrispondono standard nutrizionali molto diversi, e ciò per vari motivi. In primo luogo il reddito nazionale pro capite può nascondere grandi differenze nella distribuzione, e paesi come la Libia e il Sudafrica, con redditi piuttosto alti, comprendono molte persone al di sotto della soglia di povertà. In secondo luogo il prezzo relativo del cibo può variare da paese a paese e tra diversi gruppi di reddito. Anche se il reddito complessivo è adeguato per un paese o per un gruppo di reddito, un aumento dei prezzi dei generi alimentari, per quanto compensato da un abbassamento dei prezzi di altri prodotti, può comportare un rischio nutrizionale. In terzo luogo, dato uno stesso livello di reddito, la quantità e la qualità dei servizi sociali gratuiti - soprattutto quelli relativi alla sanità e all'istruzione - variano da paese a paese, per cui, a parità di livello e di distribuzione del reddito, si avranno prestazioni differenti. In quarto luogo tra reddito disponibile e reddito liberamente spendibile c'è una notevole differenza, perché esistono spese inevitabili, come l'affitto, il pagamento di interessi e magari le spese per l'acquisto di qualche prodotto di cui non si può fare a meno, come le sigarette. In quinto luogo le necessità alimentari variano a seconda delle dimensioni, dell'età, del sesso e dell'impegno lavorativo. In sesto luogo, anche a parità di età, sesso, clima e attività, le necessità alimentari variano da un individuo all'altro e per lo stesso individuo da un periodo all'altro.

Il commercio internazionale dei prodotti alimentari

Nel periodo compreso tra il 1960 e il 1985 il commercio internazionale di prodotti alimentari è aumentato sia in termini assoluti che in rapporto alla quantità complessiva di generi alimentari. Nel 1960 le importazioni mondiali di prodotti alimentari rappresentavano circa l'8% della produzione, nel 1985 il 12%. Le importazioni alimentari da parte dei paesi in via di sviluppo sono raddoppiate in termini di calorie pro capite negli anni settanta e sono poi cresciute molto poco negli anni ottanta. Intorno alla metà degli anni ottanta le importazioni fornivano a questi paesi circa il 15% delle calorie alimentari complessive. Questa crescente dipendenza ha dato luogo a seri problemi. I generi alimentari d'importazione si pagano in valuta straniera. Alcuni paesi in via di sviluppo hanno dovuto affrontare seri problemi di servizio del debito pubblico. Al tempo stesso i prezzi delle loro merci d'esportazione hanno raggiunto i loro minimi storici. In questi paesi non solo l'agricoltura è stata disincentivata dall'introduzione dei sussidi alle importazioni, ma i gusti sono cambiati a favore del grano (le cui importazioni da parte dei paesi in via di sviluppo sono cresciute di due volte e mezzo negli anni settanta) e a scapito dei generi alimentari che potevano essere prodotti localmente a buon mercato.

Come si è visto, nel complesso i paesi più ricchi e avanzati hanno tassato gli abitanti delle città, relativamente meno agiati e più numerosi, per sovvenzionare gli agricoltori, più agiati e meno numerosi, che producono generi alimentari. Nei paesi poveri, in via di sviluppo, la popolazione rurale relativamente più povera, inclusi gli agricoltori che coltivano prodotti alimentari, è stata sfruttata per sovvenzionare le comunità urbane più agiate. Il risultato è che i paesi avanzati hanno prodotto grandi eccedenze di generi alimentari, in parte utilizzate come aiuti alimentari, in parte vendute ai paesi socialisti e in via di sviluppo.

Ma queste politiche non sono le uniche cause dell'aumento delle esportazioni alimentari: sono in gioco forze più fondamentali. Nei paesi avanzati un aumento del reddito non si traduce in un aumento della spesa in prodotti alimentari. La crescita della produzione agricola, dovuta ai progressi scientifici e alla difficoltà di riinvestire in altri settori le risorse prima impiegate nell'agricoltura, conduce alla tendenza alla sovrapproduzione e all'esportazione. Nei paesi in via di sviluppo, viceversa, quando un reddito aumenta, gran parte dell'incremento viene spesa in generi alimentari. Paradossalmente in quei paesi in via di sviluppo dove la produzione alimentare sta crescendo nel modo più rapido, anche la domanda di prodotti alimentari d'importazione cresce rapidamente. Ciò accade a causa degli effetti moltiplicatori della crescita agricola sui redditi e sulla domanda di generi alimentari, della crescita autonoma della domanda in altri settori, nonché della necessità di importare foraggio per il bestiame. La domanda di prodotti alimentari e foraggio cresce perfino più rapidamente dell'offerta interna di generi alimentari. Sono perciò i paesi in via di sviluppo a medio reddito, dove la produzione alimentare è cresciuta rapidamente, che hanno determinato l'effervescenza dei mercati per le eccedenze alimentari dei paesi avanzati.

Gli aiuti alimentari

Gli aiuti alimentari internazionali possono contribuire ad alleviare la fame nei paesi a basso reddito, sebbene il loro effetto benefico sia stato messo in dubbio. Ovviamente in caso di disastri, naturali o prodotti dall'uomo, essi possono fornire un soccorso di emergenza; ma il loro ruolo come strumenti durevoli di iniziativa politica è più controverso, soprattutto perché possono ridurre gli incentivi a produrre generi alimentari, e perciò aggravare i problemi della fame a lungo termine.

Almeno sette sono le critiche che sono state mosse agli aiuti alimentari, a prescindere dalla loro utilità come soccorso di emergenza in caso di carestia. In primo luogo si ritiene che essi allentino la pressione sui paesi beneficiari mirante ad attuare riforme politiche, soprattutto per quanto riguarda gli incentivi ai produttori e gli obiettivi nutrizionali. In secondo luogo si pensa che essi tendano a far abbassare i prezzi dei prodotti agricoli nazionali, a scoraggiare la produzione agricola nazionale e a ridurre la diffusione della tecnologia agricola capace di aumentare la produzione. In terzo luogo si ritiene che non siano affidabili, perché dipendono dalle eccedenze dei paesi donatori.

Quando ce n'è maggior bisogno, cioè quando i prezzi sono alti, gli aiuti alimentari tendono a esaurirsi. Così nel 1970, anno in cui la produzione alimentare fu copiosa, gli aiuti alimentari superarono i 12,5 milioni di tonnellate, mentre durante la crisi alimentare del 1973-1974, quando il prezzo del grano crebbe del 50%, gli invii annuali scesero sotto i 6 milioni di tonnellate. Non solo l'entità degli aiuti alimentari e il momento in cui erogarli, ma anche i paesi destinatari vengono scelti in funzione degli interessi politici, economici e militari dei paesi donatori. Così nel 1982 e nel 1983 l'Egitto ricevette il 18% degli aiuti alimentari distribuiti dalla Food Aid Convention. Inoltre, poiché i paesi donatori stabiliscono le proprie allocazioni in termini monetari, un aumento dei prezzi comporta l'acquisto di minori quantità di cereali. In quarto luogo si sostiene che gli aiuti, se amministrati da agenzie statali, rafforzino il potere dello Stato sul popolo e non raggiungano i poveri. In quinto luogo si pensa che essi promuovano un indesiderato spostamento dei modelli di consumo dai prodotti principali verso il grano e la farina di grano. In sesto luogo si ritiene che gli aiuti alimentari interferiscano con i canali commerciali internazionali. In settimo luogo si sostiene che essi conducano a un'ingiusta divisione degli oneri tra i paesi donatori, se il prezzo dei contributi alimentari è sopravvalutato.

L'obiezione principale, e cioè che gli aiuti scoraggiano l'agricoltura nazionale facendo abbassare i prezzi, può essere fronteggiata usando i fondi di contropartita ricavati dalla vendita degli aiuti alimentari a prezzi di liquidazione come pagamenti integrativi agli agricoltori che altrimenti risulterebbero danneggiati; così i prezzi di offerta sarebbero riportati al livello che raggiungerebbero senza gli aiuti alimentari. (Anche la distribuzione gratuita del cibo, per esempio nelle scuole, libera entrate in bilancio, dato che altrimenti il governo avrebbe dovuto pagare per quel cibo). In questo modo il corrispettivo del calo di domanda di prodotti alimentari nazionali imputabile agli aiuti alimentari viene riconvogliato agli agricoltori, e gli incentivi sono pienamente ripristinati. La ragione per cui questa ovvia soluzione non è stata adottata più frequentemente sta nelle restrizioni di bilancio dovute a motivi politici. I governi in ristrettezze economiche normalmente trovano impieghi di maggiore importanza per le loro entrate e non possono, o non vogliono, imporre ulteriori tasse. La tesi secondo cui i fondi di contropartita dovrebbero essere usati come compensi integrativi per gli agricoltori si applica anche alle importazioni alimentari sovvenzionate, o a quelle ammesse a un tasso di cambio sopravvalutato.

I proventi delle vendite degli aiuti alimentari possono anche essere usati per acquistare cibo destinato a lavoratori impegnati nella costruzione di infrastrutture per l'agricoltura; o possono essere collegati con altre forme di assistenza all'agricoltura, onde evitare che questa venga trascurata; oppure si può stimolare un incremento di domanda distribuendo il cibo, o il suo equivalente in denaro, alle famiglie più povere, che altrimenti non potrebbero permetterselo. Ma l'importanza della critica in discussione è stata notevolmente ridotta, se non del tutto eliminata, dal fatto che molti paesi in via di sviluppo sono diventati grandi importatori di prodotti alimentari. (Solo nei paesi africani a basso reddito gli aiuti alimentari stanno crescendo rispetto alle importazioni alimentari). In tale situazione i ruoli tradizionali degli aiuti alimentari e di quelli finanziari risultano rovesciati. Gli aiuti alimentari, nella misura in cui sostituiscono acquisti commerciali, diventano valuta straniera pienamente convertibile, mentre gli aiuti finanziari spesso rimangono legati a specifici approvvigionamenti, beni economici, o progetti. Si è comunque sostenuto che il fatto di mettere a disposizione dei governi valuta estera libera ostacola l'attuazione di iniziative fondamentali - come la svalutazione del tasso di cambio, o la realizzazione di investimenti e di riforme in agricoltura -, che aumenterebbero la produzione alimentare. Questo, però, non è un argomento contro gli aiuti alimentari, ma contro tutti i tipi di aiuti intergovernativi: tutti gli aiuti possono essere usati o per sostenere o per rinviare le riforme.

Gli aiuti alimentari possono essere usati o a sostegno della bilancia dei pagamenti o a sostegno del bilancio. I due casi estremi sono, da una parte, quello in cui gli aiuti alimentari sono del tutto addizionali rispetto agli acquisti commerciali e sono venduti dal governo in mercati aperti a prezzi di liquidazione, fruttando al governo entrate sotto forma di fondi di contropartita di importo massimo; dall'altra quello in cui gli aiuti alimentari sostituiscono interamente le importazioni commerciali e la valuta straniera risparmiata viene usata per acquistare altri prodotti d'importazione, o più cibo, oppure per pagare debiti.

La storia abbonda di casi di aiuti alimentari che non hanno danneggiato la produzione alimentare nazionale. Il 40% degli aiuti del piano Marshall consisteva di aiuti alimentari, eppure la produzione alimentare europea ha prosperato, persino in modo eccessivo. Analogamente la Corea del Sud, Israele e l'India hanno ricevuto grandi quantità di aiuti alimentari, senza visibili danni a lungo termine per le loro agricolture.

L'accusa di interferenza con le vendite commerciali viene in larga misura ridimensionata dal peso sempre minore degli aiuti alimentari nell'ambito del commercio alimentare mondiale. Se gli aiuti alimentari sostituiscono interamente le vendite commerciali da parte dei paesi donatori (il governo paga agli agricoltori ciò che altrimenti essi avrebbero guadagnato) non si hanno interferenze sulle vendite effettuate da altri paesi. Anche il fatto di garantire vantaggi supplementari, per esempio collegando gli aiuti con la creazione di posti di lavoro per i poveri - che spendono gran parte del loro reddito in generi alimentari -, riduce il danno alle vendite commerciali.

Un supplemento di offerta è importante anche per controbattere l'accusa secondo cui i paesi sviluppati importatori di prodotti alimentari si trovano di fronte prezzi più alti di quelli che si avrebbero se, in assenza di aiuti alimentari, i prodotti alimentari dovessero essere venduti attraverso i canali commerciali, il che determinerebbe un abbassamento dei prezzi. La valutazione degli aiuti alimentari deve essere fatta in modo da garantire un'equa ripartizione degli oneri tra paesi donatori di eccedenze alimentari e paesi donatori importatori di prodotti alimentari.

Un'altra argomentazione addotta contro gli aiuti alimentari è che i gusti dipendono, fino a un certo punto, dai prezzi relativi e dalle disponibilità alimentari (e non sono dati in modo esogeno, come spesso si presume nell'analisi economica). Una politica prolungata di importazioni di cereali di qualità superiore modifica i gusti distogliendoli dai prodotti alimentari nazionali e - si sostiene - accresce la dipendenza dalle forniture estere. La situazione è stata descritta come se fosse simile alla tossicodipendenza: i paesi diventerebbero 'dipendenti' dai cereali. Si dovrebbe, comunque, ricordare che questi cambiamenti di gusto hanno molte cause, connesse con lo sviluppo e l'urbanizzazione, con le politiche commerciali riguardanti l'importazione, con l'aumento del valore del tempo al crescere dei redditi e con la riduzione del tempo a disposizione delle donne per preparare il cibo, quando esse entrano a far parte della forza lavoro; gli aiuti alimentari sono solo una, forse piccola, concausa.

Il volume degli aiuti alimentari si è notevolmente ridotto negli ultimi venti anni; comunque a partire dal 1975 ha ricominciato a crescere. Talvolta negli anni sessanta si era giunti a 16-17 milioni di tonnellate l'anno. Nel 1973-1974 le tonnellate di cereali erano scese a 5,5 milioni. Nel 1976-1977 il quantitativo fu di 9 milioni di tonnellate e nel 1984-1985 salì a 10,4 milioni di tonnellate. Nel 1985-1986 il quantitativo fu ancora maggiore per via degli aiuti di emergenza all'Africa subsahariana. Nell'ambito degli aiuti alimentari è andata crescendo la percentuale dei prodotti diversi dai cereali - soprattutto dei prodotti caseari forniti dalla CEE - di cui le cifre appena riportate non tengono conto. Anche la componente di aiuto vero e proprio degli aiuti alimentari è cresciuta, e una parte maggiore di tali aiuti è andata ai paesi più poveri. L'Africa ne ha beneficiato ai danni dell'Asia, e nell'ambito del Sudest asiatico il Bangladesh ai danni dell'India; aiuti pianificati e aiuti di emergenza hanno sostituito aiuti previsti da programmi bilaterali.

Al tempo stesso i cosiddetti raccolti di sussistenza, come il sorgo, il miglio, l'igname, la manioca e le banane, potrebbero essere venduti nei mercati locali e perfino in quelli nazionali, se non fossero discriminati. I bassi prezzi dei cereali sovvenzionati - la cui importazione è incoraggiata da tassi di cambio sopravvalutati, o che sono forniti con gli aiuti alimentari - scoraggiano la produzione per il mercato di questi 'raccolti dei poveri'. È probabile che la svalutazione incoraggerebbe la produzione di raccolti da esportazione, ma anche la domanda di raccolti di sussistenza crescerebbe e costituirebbe un incentivo a produrne di più. L'ammontare preciso dipenderebbe dalle elasticità di sostituzione nell'offerta e nella domanda. La ricerca su questi raccolti è relativamente scarsa, sebbene vi siano alcune eccezioni, come le ricerche sul sorgo nel Maharastra e in Sudan, e sul mais nello Zimbabwe. L'International Institute for Tropical Agriculture a Ibadan (Nigeria), che fa parte del sistema istituito dal Consultative Group for International Agricultural Research, si è specializzato nella ricerca sulle radici e sui tuberi. Ma per questi raccolti si potrebbe fare di più, specialmente per il miglio e il sorgo. Anche quando la ricerca sui raccolti alimentari ha successo i paesi africani mancano di capacità autonome di ricerca per adottarne e adattarne i risultati, così che gran parte della spesa per la ricerca rende poco.

Promuovere la ricerca sui raccolti di sussistenza è consigliabile, perché questi raccolti offrono diversi vantaggi: possono essere coltivati su terre marginali, non richiedono tecnologie sofisticate o particolari capacità, sono ecologicamente 'sani' e hanno spesso un grande valore nutritivo; possono anche essere usati per integrare i cereali preferiti quando questi scarseggino, mediante aggiunte alla farina di grano o alla farina di mais. Ma quand'anche la ricerca in questo settore desse buoni frutti, ci sono dei limiti a ciò che è possibile ricavarne. Questi prodotti, soprattutto radici e tuberi, sono ingombranti e costosi da trasportare. Immagazzinarli e lavorarli è costoso e spesso richiede ingenti capitali.

Le varie critiche che sono state avanzate contro gli aiuti alimentari hanno condotto a proporre alternative migliori. Tra queste vi è un piano di assicurazione finanziaria. I paesi sarebbero allora in grado di acquistare cibo nei mercati commerciali, senza dipendere dai capricci politici dei paesi donatori. Sfortunatamente tali piani assicurativi non hanno avuto molto successo nei paesi in via di sviluppo, in gran parte per le ben note ragioni di selezione sfavorevole e rischio morale. L'International Monetary Fund's Compensatory Financing Facility è stato ampliato nel 1981 così da potersi interessare anche delle importazioni di cereali. La critica secondo cui gli aiuti alimentari sono inaffidabili perché dipendono dalle eccedenze dei paesi donatori può essere evitata facendo ricorso a commesse pluriennali di cereali a consegna flessibile. Queste commesse possono essere bilaterali o interessare gruppi di paesi donatori.

Gli aiuti alimentari, correttamente progettati e amministrati, sono soltanto uno dei modi in cui la comunità internazionale può aiutare i poveri dei paesi poveri a godere di un'alimentazione migliore. Ma il loro successo dipende dalla capacità di far coincidere le motivazioni dei paesi avanzati e le loro offerte di eccedenze alimentari con i bisogni alimentari dei paesi in via di sviluppo. Più ragionevole sarebbe che la comunità internazionale sostenesse gli sforzi dei paesi in via di sviluppo per eliminare la fame. Molte misure interne tendenti a questo obiettivo implicano delle difficoltà. Una riforma fondiaria che dia la terra ai coltivatori può causare un calo temporaneo della produzione alimentare. Una riforma fiscale può condurre a fughe di capitali. La redistribuzione del reddito tramite la creazione di posti di lavoro può condurre all'inflazione, a difficoltà nella bilancia dei pagamenti, a scioperi e a fughe di capitali. Se la comunità internazionale desiderasse seriamente eliminare la fame nel mondo fornirebbe ai governi riformatori risorse per aiutarli a superare tali crisi e difficoltà temporanee.

I limiti della produzione alimentare

Come accennato, per un lungo periodo si è temuto che la crescita della popolazione avrebbe superato quella della produzione alimentare e costretto la gente a morire di fame. Di fatto, finora, la produzione alimentare è cresciuta più rapidamente della popolazione. Negli ultimi venticinque anni nel mondo sono nati 1.800 milioni di individui; l'agricoltura ha reagito producendo cibo sufficiente per tutti e di migliore qualità. Mentre certe aree - come l'Africa - e certi gruppi hanno dovuto fronteggiare carenze alimentari, su scala planetaria la quantità e la qualità dei prodotti alimentari non sono diminuite. Le paure, nutrite agli inizi degli anni settanta, di carenze alimentari croniche su scala planetaria si sono rivelate infondate.

Questo non significa che si possa essere del tutto soddisfatti dell'andamento della produzione alimentare: vi sono dei limiti alla sua crescita. L'impiego combinato di fertilizzanti, pesticidi, irrigazione e meccanizzazione costituisce una minaccia per l'ambiente. L'acqua sta diventando una risorsa molto scarsa. Gli effetti chimici dei fertilizzanti possono essere pericolosi. Anche i pesticidi minacciano la salute dell'uomo. La deforestazione, l'agricoltura 'taglia e brucia' e le coltivazioni sui pendii dei colli nelle zone aride hanno condotto all'erosione del suolo in tutto il Sudamerica, in tutta l'Africa, in tutto il Sudest asiatico. La desertificazione si sta estendendo. Ci sono molti modi per evitare, o almeno per ridurre, queste minacce, senza diminuire la produzione alimentare. Per esempio i pesticidi chimici possono essere sostituiti da predatori naturali degli insetti e da varietà agricole resistenti. Il terrazzamento, la consociazione dei raccolti e l'agroselvicoltura possono ridurre l'erosione del suolo. Si può economizzare l'acqua aumentando l'efficienza dei sistemi di irrigazione. Si può diminuire la pressione sulla terra disponibile ricorrendo a una coltivazione più intensiva, che però può condurre a erosione, carenze idriche e dispersione di pesticidi e fertilizzanti. L'erosione può essere ridotta praticando l'agricoltura senza rivoltare il terreno in profondità, il che però implica un massiccio impiego di erbicidi. I pesticidi possono far nascere specie resistenti. Le varietà ad alta resa hanno bisogno di maggiori quantità di acqua, fertilizzanti e pesticidi e riducono le differenze genetiche delle varietà selvatiche.

Una produzione alimentare con rese sostenibili dovrà essere accompagnata dalla conservazione del suolo e dal controllo dell'erosione; da un maggior uso di concimi organici invece che chimici; dal riciclaggio dei rifiuti vegetali e animali; dalla preservazione delle risorse idriche; da un sistema di irrigazione più efficiente; dalla riutilizzazione dell'acqua e dall'adozione di raccolti che richiedono meno acqua; dalla diversificazione delle varietà agricole e dall'instaurazione di rapporti simbiotici tra comunità biotiche coltivate e selvatiche.

Molte di queste politiche valide sotto il profilo ecologico hanno anche il pregio di realizzare una maggiore eguaglianza. Tecniche ecologicamente valide sono particolarmente appropriate per i piccoli agricoltori. Una riforma fondiaria che redistribuisse la terra ai piccoli agricoltori creerebbe anche una domanda di raccolti alimentari.

(V. anche Agricoltura; Ambiente, tutela dell'; Povertà; Sottosviluppo).

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