FAMIGLIA

Enciclopedia Italiana (1932)

FAMIGLIA (fr. famille; sp. familia; ted. Familie, Sippe; ingl. family)

Ugo Enrico PAOLI
. D'A.
*
Edoardo VOLTERRA
Emilio ALBERTARIO

Il termine famiglia deriva dal latino familia, che dal significato originario di "convivenza di servì sotto uno stesso tetto" (cfr. famulus) passò a designare tutti quelli che vivevano sotto l'autorità del paterfamilias. Diverso ne fu il concetto presso altri popoli.

La famiglia presso i popoli primitivi.

Che l'origine della famiglia costituisca un problema non è stato riconosciuto per lungo tempo. Si ammise che l'uomo, a cagione delle naturali relazioni sessuali, sia sempre vissuto in matrimonio. Si proiettò senz'altro il matrimonio monogamico del presente in un passato senza limiti, dove finalmente trovava la sua conclusione nell'idea della prima coppia di progenitori. Però, anche a prescindere da quest'idea, si può far poggiare la stessa supposizione su fondamenti positivi. È noto che molti animali, soprattutto i mammiferi in genere e quelli antropomorfi in specie, vivono accoppiati monogamicamente. Nella specie umana per contro noi troviamo l'unione di un sol maschio con una sola femmina (monogamia), di un maschio con più femmine (poliginia), di più maschi con una sola femmina (poliandria) e di più maschi con più femmine (matrimonio di gruppo): fra queste la monogamia e la poliginia sono le forme che si riscontrano più frequentemente.

Nel 1861 il giurista svizzero J. Bachofen, prendendo lo spunto da una notizia di Erodoto sopra i Lici, costruì la sua teoria matriarcale: egli affermò che la signoria del padre nella famiglia era stata preceduta da quella della madre; il matriarcato a sua volta era succeduto a uno stato più antico di completo comunismo nelle relazioni sessuali, alla cosiddetta promiscuità, in cui appunto per forza di cose il padre del neonato era sconosciuto.

Questo stato di promiscuità doveva ripugnare soprattutto alla donna, date le sue qualità psichiche: essa sprezzò tutti gli uomini per darsi a uno solo. Si dimostrò così la conservatrice dell'ordine e dei costumi che rimase poi sempre; non conservò però il comando della famiglia, poiché, inferiore per forza fisica e per intelligenza all'uomo, si dovette in un secondo tempo a lui sottomettere. Si hanno dunque secondo Bachofen tre periodi: all'agamia o promiscuità segue il matriarcato, a questo il patriarcato. La teoria del giurista svizzero passò a poco a poco in secondo piano; ricomparve verso il 1870 in seguito agli studî di A. w. Howitt e fu completamente rielaborata da J. Morgan, che prese in considerazione il cosiddetto sistema di parentela classificatoria in uso presso varî popoli. La parentela classificatoria consiste in ciò: che un uomo, a es., chiama padre non solo il proprio padre, ma ogni uomo che per la sua età potrebbe esserlo; parimenti chiama madre non soltanto la propria madre, ma tutte le donne che per la loro età potrebbero esserlo; chiama fratelli e sorelle gli uomini e le donne della sua generazione, figli le persone della generazione susseguente alla sua, e così via sino ai gradi di nonno e di nipote; non si cura delle altre generazioni: l'avo e il pronipote sono per lui la stessa cosa che il nonno e il nipote. Ne viene il seguente schema:

Tutto il sistema abbraccia cinque generazioni e il Morgan trae dal fatto che un uomo chiami padre ogni uomo che per la sua età potrebbe esserlo, la conseguenza che il vero padre fosse, precisamente a causa del comunismo sessuale, sconosciuto. A questo sistema, che si trova soprattutto nelle isole Hawaii, si dà il nome di sistema malese e la famiglia che ne risulta prende il nome di famiglia punalua.

Il fatto che questo sistema si riscontrò in seguito presso molti popoli in unione al matriarcato, avvalorò queste teorie, che vennero accolte anche da H. Spencer, C. Marx, F. Engels, ecc. Altra conferma a queste costruzioni sembrò essere apportata dal matrimonio di gruppo. Questo consisterebbe in ciò: che tutti gli uomini di un determinato gruppo avrebbero libero accesso presso le donne del gruppo opposto e viceversa, gli uomini di quest'ultimo presso le donne del primo; un esempio classico è quello del matrimonio pirrauru della tribù australiana dei Dieri (v. appresso). Altri residui di esso si son voluti vedere nel levirato e nel sororato; però dovette convenirsi che sia la promiscuità sia il matrimonio di gruppo non si sono trovati finora in maniera completa presso alcun popolo. Secondo il Morgan, uno schema dell'evoluzione del matrimonio e della famiglia potrebbe essere il seguente: 1. promiscuità illim-tata o agamia; 2. famiglia agnatizia (divieto di matrimonio solamente fra genitori e figli e più precisamente fra i varî gradi di una stessa generazione); 3. famiglia punalua (divieto di matrimonio anche tra fratelli e sorelle, cioè nel proprio gruppo di parentela; matrimonio di gruppo); 4. famiglia sintasmica o unione a tipo matriarcale (inizio del matrimonio individuale; dimora comune di varie famiglie; poligamia, incertezza della paternità); 5. famiglia patriarcale (poligamia, dimora comune sotto la signoria del più vecchio padre di famiglia); 6. famiglia monogamica perfetta.

I critici più positivi di questa teoria furono C.U. Starcke e, in maniera ancora più completa, E. Westermarck; in Germania la scuola di Lipsia si mantenne sempre più o meno contraria a quest'indirizzo, specie per opera di H. Schurtz e di W. Wundt. In netta opposizione si levò poi la scuola storico-culturale, principalmente con E. Grosse, W. Foy, F. Graebner, B. Ankermann, e i padri W. Schmidt e W. Koppers. Il Grosse può considerarsi piuttosto un precursore: egli aveva voluto dapprima scrivere la storia della famiglia; ma si limitò a descriverne le forme in rapporto agli stadî di sviluppo dell'economia e alle condizioni sociali.

La scuola storica o dei cicli culturali (v. culturali, cicli) ha dato il seguente quadro delle forme di organizzazione familiare e sociale caratterizzanti i cicli culturali da prima riconosciuti (W. Schmidt):

Ne derivano i nomi qui riportati per designare i cicli, contraddistinti da numeri romani, ai quali aggiungiamo fra parentesi i nomi adottati altrove (v. culturali, cicli): I. ciclo esogamico monogamico (cultura dei Pigmei); II. ciclo esogamico con totemismo dei sessi (cultura tasmaniana); III. ciclo esogamico con posizione eguale della donna e dell'uomo (ciclo del bumerang); IV. ciclo esogamico patriarcale (ciclo del totem); v. ciclo esogamico matriarcale (ciclo delle due classi); VI. ciclo matriarcale libero (ciclo dell'arco); VII. ciclo patriarcale libero (culture sudanese e polinesiana). Le denominazioni dei varî cicli o complessi culturali sono tratte dalla forma sociale in ciascuno predominante, dalla posizione dei due sessi nella formazione della famiglia e dal modo con cui la moglie viene scelta, sia esso esogamico o libero.

A questi, la scuola storica nei suoi ultimi sviluppi (W. Schmidt, G. Montandon, O. Menghin) ha aggiunto il ciclo culturale rappresentato dai pastori nomadi dell'Asia, dell'antica Europa e dell'Africa, e caratterizzato dalla grande famiglia patriarcale. Le relazioni che legano questa cultura agli altri cicli patriarcali non sono ben chiare; sembra alla scuola storica che essa sia più vicina ai primi tre cicli culturali e formi come un ponte di passaggio ai quattro cicli più recenti (v. però domesticazione; Etnologia).

È possibile però raggruppare i varî cicli in base alle civiltà che direttamente o indirettamente sono state originate da essi, distinguendo perciò le civiltà originarie dalle derivate secondo lo schema seguente: Civiltà oríginarie:1. civiltà primitive o arcaiche (cicli I, II e III); 2. civiltà dei popoli nomadi allevatori di bestiame (grande famiglia patriarcale); 3. civiltà totemistica patriarcale (IV); 4. civiltà matriarcali (V e VI). - Civiltà derivate: 5. civiltà matriarcale-totemistica (fusione dei cicli IV, V e VI); 6. civiltà patriarcali libere (VII).

Civiltà primitive. - Vi appartengono i Pigmei, i Boscimani dell'Africa australe, i Vedda e gli altri gruppi pigmoidi dell'Asia, gli estinti Tasmaniani con un certo numero di tribù dell'Australia e, in parte, le tribù Gēs del Brasile orientale. Praticano tutti l'esogamia locale; il matrimonio non si conclude in forme simulanti la violenza, tranne presso qualche tribù australiana. Residuo di un matrimonio per ratto può considerarsi l'uso, praticato da alcuni gruppi di Pigmei, per cui la ragazza richiesta in matrimonio si rifugia nel bosco vicino, nascondendosi: essa si lascia più o meno facilmente trovare, secondo la maggiore o minore inclinazione. Più generalmente la donna viene richiesta per mezzo di intermediari presentando doni ai parenti. Solo la ragazza dispone della propria mano. Le cerimonie nuziali variano secondo la tribù, ma sono di solito molto semplici: mangiare il riso nello stesso piatto, intrecciare il mignolo della mano destra con quello della sinistra della sposa (Senoi). Presso i Vedda la ragazza cinge con una corona di vimini i fianchi dello sposo, mentre questi dà alla sposa una ciocca di capelli che essa intreccia con i proprî. Presso alcune tribù dell'Australia del SE. (Kurnai), i figli vengono promessi dai genitori, però la ragazza non consenziente fugge a suo rischio con l'uomo da lei scelto, e se non viene ripresa, dopo un certo tempo può presentarsi alla famiglia e regolarizzare la posizione. Sono monogami quasi senza eccezione; anche nei loro miti religiosi si parla di una unica coppia creata dall'essere supremo. Questa famiglia monogamica primitiva è molto salda e di una moralità abbastanza elevata; l'adulterio, rarissimo, viene punito molto severamente e il vincolo matrimoniale è indissolubile. E.H. Man, il più profondo conoscitore degli Andamanesi, riferisce che il matrimonio collettivo che si era voluto attribuire a questo popolo da osservatori superficiali non è mai esistito, mentre il matrimonio monogamico è la regola, e non può essere sciolto né per incompatibilità di carattere né per alcun altro motivo. Presso i Senoi e i Semang l'adulterio nei casi più gravi viene punito con la morte. Presso i Vedda il divorzio è ammesso rarissimamente e sempre che non vi siano figli. I Carajá del Brasile ammettono una seconda moglie solo nel caso che la prima sia gravemente ammalata.

Caratteristica delle unioni matrimoniali in queste culture, e conseguenza della monogamia, è l'eguaglianza giuridica e sociale in cui si trovano l'uomo e la donna l'uno rispetto all'altro. La donna può esplicare in quest'ambiente le sue migliori qualità e influire sul temperamento maschile tendente per natura alla violenza. Presso gli Andamanesi, se la donna è ammalata e non può lavorare, l'uomo la sostituisce; la moglie del capo tribù governa le donne non ancora sposate e anche le sposate se più giovani di lei. Howitt ebbe a osservare che i Kulin e i Kurnai dell'Australia, nelle loro emigrazioni, portano per miglia le loro donne quando queste siano troppo vecchie o troppo deboli. I bambini sono trattati molto bene e non vi sono figli illegittimi, l'infanticidio è quasi sconosciuto e ammesso solo quando non vi sia mezzo di mantenere i nuovi nati.

L'eguaglianza fra l'uomo e la donna si manifesta nell'Australia meridionale nel cosiddetto totemismo dei sessi: tutte le donne di una data tribù senza distinzione di rango o di età si riuniscono in una specie di organizzazione e gli uomini dal canto loro fanno altrettanto; ciascuna organizzazione ha come contrassegno (totem) uno speciale uccello, che nessuno può uccidere o mangiare. Si crede che la coppia originaria dei progenitori sopravviva nei due uccelli e perciò questi debbano essere onorati. Pare tuttavia che questo stato di cose sia da attribuirsi a una tradizione anteriore che si ritrova presso i Semang della Penisola di Malacca. Anche qui vi è uno speciale uccello che serve da contrassegno alle donne, e uno per gli uomini, ma con funzione diversa; tali uccelli recano le anime dei bambini che stanno per nascere, o piuttosto sono essi stessi le anime. Kari, l'essere supremo dei Semang, ha il suo trono in cielo su un immenso albero, sui rami del quale stanno uccelli delle due specie. Quando una donna è rimasta incinta Kari invia un uccello. Il futuro padre allora uccide il primo uccello che trova dandone la carne alla donna, la quale crede, mangiandone, di infondere l'anima al bimbo che porta in sé. Il cosiddetto totemismo di questa civiltà è da ricollegarsi quindi a credenze animistiche e nulla ha in comune con quello del IV ciclo, a cui sono proprî lo sviluppo dell'idea di stato e vaste influenze sull'istituto famigliare.

In queste civiltà primitive non vi è alcuna differenza di classe o di rango, ma solo di età. Il suolo è proprietà comune, la famiglia singola non è proprietaria che della capanna e degli oggetti mobili di uso comune: il singolo è proprietario delle armi che si è costruite. La schiavitù è ancora sconosciuta; l'amministrazione della giustizia ancora rudimentale. Per partecipare alla vita della tribù bisogna aver raggiunto una certa età e ricevuto l'iniziazione: cerimonia diversamente organizzata presso i varî popoli di questa cerchia e la cui celebrazione è la prima manifestazione dello stato arcaico. Gli Andamanesi, per es., sottopongono i candidati a un lungo periodo di digiuno o di astensione: i divieti vengono tolti a lunghi intervalli, e infine il candidato, dopo aver passato alcuni giorni in silenzio, viene dagli amici adornato e inizia una danza fino all'esaurimento: trascorsi alcuni giorni le cerimonie hanno fine e il giovane viene dichiarato uomo; le ragazze vengono sottoposte a cerimonie simili e ricevono il nome di un fiore, che conserveranno fino alle nozze. Le cerimonie non sono ancora segrete e le ragazze possono assistere all'iniziazione dei giovani, o almeno a gran parte delle cerimonie, e viceversa. Le mutilazioni e le deformazioni del corpo non si praticano ancora; solo presso qualche tribù australiana l'iniziazione termina con lo strappo d'un dente che l'iniziato porterà sempre con sé per dimostrare che egli è cittadino di diritto. Per lo più alla fine delle cerimonie il giovane viene istruito nelle tradizioni e nei precetti morali della tribù. Presso i Kurnai essi sono i seguenti: ascoltare i genitori e obbedire loro; dividere tutto quanto si ha con gli amici; vivere in pace con gli amici; non stringere relazioni con ragazze e con donne sposate; osservare i divieti relativi ai cibi sinché gli anziani li abbiano tolti.

Unica occupazione la caccia e la raccolta del cibo offerto dalla natura: solo animale addomesticato il cane. Un primo esempio di assistenza sociale lo troviamo nell'obbligo di dare una parte dei prodotti della caccia ai vecchi, agli orfani, e in genere a tutti coloro che non possono provvedere da sé al proprio sostentamento. La generosità del resto è la regola. Ben poco resta quindi della teoria della lotta per l'esistenza, dell'egoismo completo e assoluto, che avrebbe dovuto dominare la vita agli albori dell'umanità: l'esistenza è regolata da un altruismo molto sviluppato. È sconosciuta la guerra di conquista: la guerra ha il solo scopo della vendetta.

La famiglia presso i pastori nomadi. - La civiltà pastorale sembra aver avuto la culla nelle vaste steppe dell'Asia centrale, dove ancora essa è propria delle tribù mongole e turche, ed essersi diffusa, in forme più o meno complete, ai popoli iperborei dell'Eurasia, ai primitivi Indo-Europei e ai Camito-Semiti, per opera dei quali è penetrata, sebbene con forme meno pure, sino all'Africa australe.

Nella costituzione della famiglia si manifesta una significativa particolarità: mentre nelle civiltà primitive la famiglia singola va a poco a poco perdendo d'importanza di fronte allo stato, essa riceve qui un rafforzamento e uno sviluppo che sono senza dubbio la principale causa della straordinaria vitalità di questi popoli. La famiglia singola si trasforma in grande famiglia: i figli sposati rimangono nella casa del padre, che assume la direzione del complesso famigliare, onde aumentano la sua potenza e la sua importanza in maniera tale da trasformare la primitiva successione in linea paterna in vero e proprio patriarcato. Rimangono così insieme, non più due generazioni: i genitori e i figli, ma tre: genitori, figli e nipoti, e qualche volta anche quattro. La grande famiglia patriarcale sussiste ancor oggi presso gran parte dei popoli turanici; e degli Indo-Europei l'hanno conservata gl'Indiani, gli Armeni, i Celti, gli Slavi (zadruga) e gli Albanesi. La ritroviamo ancora presso le tribù desertiche semitiche e presso i Camiti e i camitoidi dell'Africa orientale. Presso tutti gli altri popoli di questa civiltà si notano influenze matriarcali (v. appresso).

Fattori economici hanno probabilmente portato a questo particolare sviluppo della grande famiglia, poiché solo gli stretti vincoli di essa rendono possibile il mantenimento di greggi tanto grandi da essere redditizî. La famiglia singola, divenuta patriarcale, riceve nuova forza dall'istituto della primogenitura: il primo nato succede al padre nel comando della famiglia, ereditando in pari tempo la massima, parte dei beni a danno dei fratelli, i quali, per lo spirito aristocratico proprio di questi popoli, non vi si oppongono. Tale famiglia è originariamente monogamica e così la troviamo presso un gran numero di popoli (Ciukci, Tungusi, Samoiedi, Ostiachi, Tatari, Mongoli, Calmucchi, Kirghisi). I Greci, gl'Italici e i Germani erano monogami. Solo presso i capi e i principi comincia a manifestarsi la poliginia, la quale però, in forma moderata, non è contraria allo spirito di tutti questi popoli, specialmente per il desiderio di numerosa figliolanza e in particolare di un erede maschio. Predomina l'endogamia, rispetto al gruppo, ma l'esogamia rispetto alla grande famiglia; si manifesta cioè e si radica profondamente l'idea della parentela naturale di sangue. Il matrimonio viene cioè concluso fra "gente" diversa, i fidanzamenti concordati fra i genitori, e lo sposo paga una certa somma alla famiglia della sposa. Comincia ad apparire il matrimonio per ratto, sia che il fidanzato non disponga del prezzo d'acquisto della donna, sia che il matrimonio avvenga contro il volere della famiglia; la verginità della sposa è tenuta in gran conto: si esige spesso la prova della verginità e ove essa manchi lo sposo ha il diritto di scacciare la donna e di esigere il rimborso del prezzo. La posizione della donna è senza dubbio inferiore a quella che essa ha nelle civiltà primitive, forse a causa del suo minor valore economico, poiché si occupa poco del bestiame. Nelle tribù nomadi la posizione della donna è migliore e più libera che in quelle semisedentarie: la donna è però sempre soggetta a lavori pesanti; gli uomini si limitano alla ricerca dei pascoli.

Con la trasformazione della famiglia in grande famiglia patriarcale il concetto di stato subisce una stasi, poiché la famiglia divenuta potente si contrappone al clan in maniera sempre più forte e autonoma; inoltre il legame fra i varî clan è molto lento per le grandi distanze che li separano. Si sviluppa così un individualismo che porta il nomade a vedere in ogni vicino un nemico; ma nello stesso tempo cresce in lui la fiducia in sé stesso e si tempera il suo carattere. Il regresso dell'idea di stato si manifesta nell'assenza di ogni genere di iniziazione, sia per i giovani sia per le ragazze; ciò dimostra che i popoli pastori credono di non avere bisogno dello stato nella formazione e nell'educazione della gioventù, ma la portano a compimento in seno alla famiglia. Non bisogna meravigliarsi quindi che il più notevole elemento di diritto penale, la punizione dell'omicidio, sia lasciato alla famiglia dell'offeso: questa ha il dovere di esercitare la vendetta del sangue fino al quinto grado di parentela. Le varie famiglie compongono il clan, e i varî clan la tribù, a cui sono affidate la regolarizzazione delle pretese di proprietà dei pascoli, la composizione delle vertenze e la difesa contro le tribù nemiche; l'organo deliberativo della tribù è costituito dal capo con i patres familias o dall'assemblea di tutti i cittadini liberi.

In seguito al potente sviluppo della patria potestà scompare per le donne e per i fanciulli la possibilità di proprietà personale, mentre la proprietà famigliare va sempre estendendosi per la prolificità delle greggi, appartenenti alla famiglia e non più al singolo. Sorge così il distacco fra povero e ricco: quello, spinto dal bisogno, si pone al servizio di questo e lo aiuta nella cura del bestiame o si incarica dell'agricoltura e dei mestieri manuali, che il vero nomade considera indegni di sé. La diseguaglianza economica e quella politica conseguente, che vediamo svilupparsi fra individui della stessa tribù, si verifica poi tra le varie tribù.

Nella trasmissione della proprietà famigliare vige sempre la successione in linea paterna con l'accennata preferenza a favore del primogenito; i membri femminili della famiglia ottengono tutt'al più delle piccole quote; la sposa stessa non eredita e fa spesso ritorno alla famiglia dei proprî genitori. Non di rado le donne, non solo non ereditano, ma vengono ereditate dai parenti e dai figli.

Civiltà totemistiche. - Nelle civiltà totemistiche (v. totemismo) i membri di un gruppo umano (clan) si considerano parenti con un animale (totem); questa parentela può assumere una doppia forma: si crede di discendere dalla bestia in parola (parentela di discendenza), oppure si ritiene che il capostipite del clan sia stato in tempi remoti in relazioni costanti di amicizia o inimicizia con quell'animale (parentela parallela). Il totem può anche essere costituito da piante od oggetti inanimati: pare però che tali totem siano creazioni tardive, sorte da contatti con le civiltà agricole matriarcali e a conferma troviamo l'ereditarietà di tali totem in linea femminile e la loro partizione in fratrie (v. appresso).

Le civiltà totemistiche praticano l'esogamia. Essendo il clan in principio localizzato, l'esogamia locale finisce per immedesimarsi con l'esogamia totemistica; da notare a questo riguardo che al concetto di parentela naturale si sostituisce quello di parentela totemistica, per cui si vieta il matrimonio fra appartenenti allo stesso clan. A questa specie di esogamia bisogna attribuire la formazione e il consolidamento di gruppi più vasti (tribù in senso proprio) del clan originario. Dal punto di vista geografico si possono distinguere sei grandi dominî del totemismo:1. l'Oceanico (Australia, Melanesia e Nuova Guinea) e Indonesiano (Molucche e una parte di Sumatra); 2. India anteriore; 3. Africa; 4. Europa preistorica sud-occidentale; 5. America Settentrionale; 6. America Meridionale.

Esaminando le singolarità del totemismo nei territorî sopracitati, il Graebner ebbe a rilevare che il totemismo e la successione in linea materna non hanno nulla in comune, né per l'origine, né per la loro natura intrinseca. Su ognuno di questi dominî si può constatare l'esistenza di totem trasmissibili in linea maschile e di totem trasmissibili in linea femminile, ma questi ultimi sono di origine nettamente più recente, dovuti a indubbie influenze matriarcali. Una conferma alle asserzioni del Graebner si ritrova in Africa, dove si nota che alla civiltà totemistica patriarcale non succede, come in Oceania, dapprima il circolo matriarcale esogamico e poi quello matriarcale libero; ma questi vi pervengono fusi, e a motivo di ciò il sistema biclasse della prima civiltà matriarcale vi è sconosciuto, e per conseguenza anche la divisione in fratrie, tipica del totemismo esogamico americano. Generalmente sono i popoli a bassa civiltà quelli in cui vige il totemismo; tuttavia bisogna rilevare tre eccezioni: in Asia, nell'India Anteriore, dove ancora oggi il totemismo con le sue divisioni in caste è in pieno vigore; nell'America Meridionale, presso gli Inca; e in Africa, nell'antico Egitto.

Nella civiltà totemistica il concetto di complesso extrafamiliare si delinea in maniera sempre più precisa, poiché all'idea di parentela naturale si sostituisce quella della misteriosa parentela totemistica. Ogni clan ha il suo capo, che in generale è anche lo stregone: questo elemento sovrannaturale accresce di colpo il suo potere in confronto a quello dei capi delle civiltà primitive; ma egli non è ancora capo assoluto: il potere supremo spetta sempre al consiglio degli anziani e la carica di capo non è ancora ereditaria. Si può quindi dire che non vi è ancora traccia di costituzione gerarchica e che il principio democratico conserva tutta la sua forza.

Fattori importantissimi dell'idea di stato sono: le danze magiche riproducenti i movimenti dell'animale totem, specie l'accoppiamento, che vengono eseguite dai membri dei varî clan sotto la guida dello stregone; le feste dell'iniziazione dei giovani e la divisione della tribù in varie classi d'età. Si evolve il principio che cominciava ad apparire nelle civiltà anteriori: che scopo dell'iniziazione sia quello di fare del giovane un uomo. Essa è caratterizzata qui da due fasi: la conclusiva affermazione del momento sessuale e l'esplicazione del compito dell'uomo nella riproduzione; a causa di ciò le feste dell'iniziazione vengono intraprese in maniera solenne solo per i fanciulli: consiste soprattutto nella circoncisione, e forma tipica di questa civiltà è la circoncisione con l'asportazione del prepuzio. La più attendibile spiegazione di questa pratica è quella che la considera come un'usanza iniziatoria alla vita sessuale, poiché viene soppresso quello che sarebbe un impedimento all'esercizio dell'atto. Per questo essa viene intrapresa nell'età della pubertà e segna il passaggio dalla fanciullezza alla virilità. All'iniziazione segue un periodo di comunismo sessuale: questa usanza è molto diffusa e conferma chiaramente lo scopo vero della circoncisione.

Nelle civiltà posteriori, in cui scompaiono le feste iniziatorie per la gioventù maschile, il commercio e l'anarchia sessuale permangono, ma vengono considerati come riti propiziatori per la semina e per il raccolto. Si formano in ogni tribù le tre principali classi di età: gl'incirconcisi, i circoncisi non ancora sposati, e gli sposati. I circoncisi non sposati non possono più dormire nella casa paterna, ma devono dormire nelle case degli scapoli, che servono anche di alloggio per gli stranieri. Nella maggior parte dei casi alle donne e alle ragazze è proibito l'accesso a queste abitazioni, dimodoché la divisione dei due sessi sembra sia stato il loro scopo originario. Vi sono però altre tribù in cui precisamente in queste case ha luogo un commercio sessuale illimitato di tutte le ragazze o di un determinato numero di esse con i giovani: ciò si verifica principalnente presso quelle tribù in cui, allo scopo di avere un certo numero di uomini pronti alla guerra, il matrimonio viene spostato oltre i trent'anni. Queste classi principali sono spesso a loro volta variamente suddivise e l'appartenenza alle varie classi si mostra specie nelle acconciature dei capelli e dà diritto a particolari prerogative. Presso alcune tribù si notano anche classi di età femminili; queste ultime però non così diffuse come le prime.

Compaiono le prime dimore con carattere di una certa stabilità, che presuppone presso un popolo cacciatore un'abbondanza di selvaggina nel territorio: l'abbondanza di selvaggina fa sì che l'uomo abbia del tempo per interessarsi alla costituzione dei varî clan e al perfezionamento delle cerimonie e riti magici; s'inizia anche l'esercizio delle industrie e degli scambî, che si contrappone all'allevamento del bestiame dei nomadi e all'agricoltura delle civiltà matriarcali. Da notare però che esso appartiene esclusivamente all'uomo, poiché le due industrie tipiche femminili, la tessitura e la ceramica, non appaiono ancora; e questo è un altro fattore che dà preminenza all'uomo nella famiglia e nella casa; dobbiamo però rilevare che, se lo spirito costruttivo di questa civiltà ha fortemente sviluppato l'organizzazione sociale, rafforzando l'idea di stato, e dando vita alle prime associazioni maschili, esso ha pregiudicato l'esistenza della famiglia e provocato l'allontanamento dell'uomo da essa e dalla donna. La donna per sua intima natura è predestinata alla famiglia e all'uomo piuttosto che all'associazione con altre donne; l'uomo invece, sebbene portato dall'istinto sessuale verso la donna, soggiace a questa forza solo per un certo tempo ed ha agio perciò di assecondare il non meno potente istinto di associazione che lo spinge verso i suoi simili. Trova quindi il suo naturale campo di attività nella costituzione dei clan e nella formulazione dei molteplici ordinamenti della tribù sottraendosi in pari tempo alla vita famigliare. Il sorgere e affermarsi delle classi di età, che raggruppano tutti i giovani sottoponendoli all'autorità del clan, deve logicamente indebolire il significato della famiglia e nel seno di questa svalutare l'importanza della donna, specie presso alcune tribù (Cafri) ove al momento dell'iniziazione s'impone al giovane di non obbedire più alla madre. Anche l'uomo viene intimamente colpito: il fanciullo sottratto alla famiglia in un periodo in cui ancora ne avrebbe bisogno, soggiace a un indurimento psichico e a un imbarbarimento, che non possono non influire su tutta la vita sociale.

Le civiltà matriarcali. - Il matriarcato (v.) è senza dubbio l'istituzione sociale che principalmente ha richiamato l'attenzione dei sociologi per le sue particolari forme di famiglia e di stato (v. la carta a p. 765 per la distribuzione di esso). La scuola storico-culturale ha dimostrato che esso è sorto dalle civiltà primitive contemporaneamente al patriarcato dei nomadi e al patriarcato totemistico. Il Graebner, confermando la teoria del Grosse, vi presuppone la scoperta della prima cultura agricola a opera della donna e la conseguente dimora stabile (quadrangolare). È propria delle civiltà matriarcali la successione in linea femminile invece che maschile, poiché è la madre che apporta la proprietà, costituita soprattutto dal suolo. I figli appartengono alla famiglia e alla tribù materna e da questa prendono il nome. Il padre appartiene alla propria famiglia materna, che qualche volta non abbandona nemmeno con il matrimonio. Non si confonda il matriarcato con la successione in linea materna: il primo implica la signoria della madre e della donna in genere, mentre la seconda può essere accompagnata da una completa soggezione della donna all'uomo.

Nelle civiltà primitive non vi è traccia di proprietà terriera per l'individuo isolato. La proprietà individuale esiste solo per ciò che egli ha ottenuto con il suo lavoro; per conseguenza, quando la donna comincia a esercitare l'agricoltura e a ricavare dalla terra i prodotti, essa è l'unica che di tali prodotti può disporre: e non solo il prodotto, ma anche il suolo che ha messo in valore le appartiene: ha origine così la proprietà terriera. Possiamo considerare questa proprietà immobiliare femminile come il substrato primo e principale del matriarcato; non si potrà così parlare di matriarcato vero e proprio (ma soltanto di discendenza materna) per gli Australiani, che non conoscono l'agricoltura. Accanto a questa conquista economica della donna se ne devono enumerare altre due, sebbene di importanza minore: la tessitura, propria del primo ciclo matriarcale, e la ceramica, del secondo. I vantaggi economici acquistati dalla donna portano necessariamente a un aumento dei suoi diritti e a un'elevazione della sua posizione sociale: la successione in linea materna si trasforma così in matriarcato vero e proprio.

Gli stadî attraverso cui questo è passato sembra siano stati quattro: il 1° è uno stadio di transizione: l'uomo non rinuncia ancora ai suoi diritti e rimane presso la propria famiglia anche dopo il matrimonio; la donna in conseguenza delle sue nuove condizioni non segue il marito come prima, ma continua a vivere nella propria casa, dove il marito va a visitarla: il matrimonio non dà origine a una vera vita famigliare. Nel 2° stadio l'uomo segue la donna e si trasferisce dopo il matrimonio in casa di lei: forma questa conosciuta sotto il nome di matrimonio bina, dal nome che le vien dato a Ceylon, dove però s'incontra anche l'altra forma, in cui la donna segue il marito (matrimonio diga). In questo stadio il matrimonio è necessariamente monogamico: il marito adultero può financo essere venduto come schiavo. Si ha una vera e propria ginecocrazia; la posizione del marito perde sempre più d'importanza: in sua vece subentra il fratello della moglie, o in mancanza di lui l'agnato più prossimo, e pur rimanendo la donna proprietaria del suolo e titolare della famiglia, egli diviene consigliere e amministratore assumendo così il ruolo di capo maschile della famiglia. Nel 3° stadio l'uomo rimane solamente per un tempo più o meno breve in casa dei suoceri e lavora qui per guadagnarsi la moglie. Nel 4° stadio il lavoro viene evitato mediante il pagamento di una certa somma. Senza dubbio in questo stadio la posizione della donna peggiora, pur conservandosi la successione in linea materna. La donna segue il marito e diviene sua proprietà come un oggetto qualsiasi. A formare questo stato di cose influiscono probabilmente i contatti di questi popoli con quelli di civiltà totemistica, presso cui la posizione degradante della donna è insita nello spirito stesso del sistema. Il matriarcato, in conseguenza della sua origine, influisce fortemente sulla famiglia singola e in maniera minima sulla tribù e sullo stato. La moglie ha nel complesso famigliare una posizione superiore a quella del marito, le sorelle a quella dei fratelli.

Il matriarcato oltrepassa qualche volta i limiti della famiglia e la donna prende parte alla vita pubblica, ma si tratta sempre di eccezioni. Per la scarsa importanza dell'uomo in questo sistema, all'iniziazione della gioventù maschile si sostituisce quella delle ragazze; questa festa si esegue però individualmente, nel seno delle famiglie, e consiste principalmente nel festeggiare la prima mestruazione; in genere non vi si effettuano mutilazioni.

L'organizzazione statale è anche qui nelle mani degli uomini, dal suo complesso però si scorge che non è un prodotto naturale, ma piuttosto una specie di reazione alla strapotenza della donna. Forma tipica ne sono le società segrete degli uomini con le loro feste e le loro danze: scopo pratico di queste associazioni quello di terrorizzare le donne e i non iniziati per imporre loro la propria volontà e di difendere le usanze e i riti della tribù dagli influssi esterni. I membri di alcune di queste associazioni si abbandonano a pratiche omosessuali: in esse è da scorgersi un altro tentativo per rendersi indipendenti dalle donne.

Le società segrete possono assumere uno sviluppo notevole e diffondersi oltre i confini della tribù, dando luogo a una specie di internazionalismo in contrasto con il nazionalismo delle civiltà totemistiche. Sono ben noti a questo riguardo i Duk-Duk dell'Arcipelago di Bismarck e gli Yuru-Paru dell'America del Sud. Caratteristica della più antica civiltà matriarcale è che ogni tribù è divisa in due metà, dette classi matrimoniali, e che ciascun membro dell'una deve scegliere la moglie nell'altra. Ne viene un'esogamia di classe, e poiché le due classi possono coesistere sullo stesso territorio, cessa l'esogamia locale: i figli appartengono alla classe della madre in forza della successione in linea materna (Australia).

Tracce di questo tipo di divisione si trovano anche in India: qui si sarebbe però mantenuta l'esogamia locale. L'assenza di questa in alcune tribù, specie americane, sarebbe la conseguenza dello stato di cose indicato come secondo stadio, in cui in alcuni matrimonî l'uomo si trasferisce nella tribù della moglie, mentre in altri succede il contrario. In conseguenza, poiché i fanciulli nati da questi matrimonî seguono la successione in linea materna, vengono a trovarsi in ciascuna tribù degli appartenenti alle due metà; l'esogamia locale viene quindi a cessare, almeno come obbligo, e si sostituisce ad essa un'endogamia locale, che ha per base però sempre l'esogamia di gruppo o classe (Daiaki, Maori). In conclusione si può dire però che l'endogamia locale mostrata dal sistema biclasse in Australia e nell'America nord-occidentale non è propria del matriarcato, ma è solo un prodotto di quello stato intermedio in cui dalla forma originale del matriarcato si passa alla forma più tardiva dove la donna segue di nuovo l'uomo.

Da questo stadio si passa al secondo tipo di civiltà matriarcale (ciclo culturale matriarcale libero), la cui forma sociologica caratteristica è la grande famiglia matriarcale. Sorta senza dubbio dal contatto dei popoli agricoli con i popoli nomadi, ha avuto origine nelle zone di confine fra essi: la Cina meridionale, l'India citeriore e l'India nord-occidentale. Questo contatto portò dapprima all'introduzione del bue e del bufalo nell'agricoltura e al conseguente impiego dell'aratro a trazione animale per la coltivazione delle grandi pianure: considerazioni economiche del tutto analoghe a quelle che causarono la formazione delle grandi famiglie presso i popoli nomadi, condussero qui a eguale risultato. Si constatò essere antieconomico scindere l'impresa nel momento in cui andava ampliandosi per l'introduzione del bestiame da lavoro nell'economia rurale; non si permise perciò che le donne, sposandosi, uscissero dalla famiglia che possedeva la terra: si raggiunse così lo scopo di mantenere unita la proprietà: case che racchiudevano fino a venti famiglie avevano gli Irochesi e gli Huron nel territorio dei grandi laghi; nell'America del Sud, gli Arawak e i Caribi hanno ancora questo tipo di abitazione diffusosi fino al Brasile meridionale e alla Patagonia; nei mari del sud le case collettive si notano presso i Daiaki di Borneo, i Gaio e i Bataki di Sumatra e poi in Celebes e nella Nuova Guinea. Presso alcune tribù però cominciano ad apparire nelle case delle divisioni, per cui a ogni famiglia viene assegnato un focolare: è la proprietà che si riaffaccia per la singola famiglia.

Il Bachofen riconosce al matriarcato, nel campo sociale, il merito di essersi elevato sulla promiscuità originaria, portando moralità, fornendo la base prima per un vero ordine sociale. Gran parte di questo merito scompare con lo svanire delle teorie evoluzionistiche: nondimeno non si può disconoscere che le civiltà matriarcali rappresentano un progresso rispetto alle totemistiche, in cui per l'eccessiva cura dell'idea sessuale si era pervenuti a uno stadio paragonabile all'agamia, specie con le sregolatezze delle cerimonie iniziatiche e dei riti di fecondazione e fertilizzazione. La rigorosa monogamia e la purezza e solidità della famiglia, soprattutto nelle prime fasi del matriarcato, segnano come un rinnovamento di fronte alla perdita di qualsiasi ritegno del totemismo. Il matriarcato trasforma del pari la vita economica, poiché l'attività agricola impone per il suo regolare svolgimento una maggiore sedentarietà, presupposto di ogni durevole conquista nel campo del progresso. Altro merito: l'influenza morale della donna intesa a raddolcire i costumi e gl'istinti violenti dell'uomo. Dal lato negativo dobbiamo notare la parte insignificante che il marito ha nella famiglia: al posto del padre subentra lo zio materno, e i nipoti, che gli sono più vicini dei proprî figli, divengono i suoi eredi. La madre a sua volta è più sorella e figlia che moglie: avviene così in tutto il sistema una deviazione dei sentimenti naturali.

Le forme della famiglia nelle civiltà derivate. - Col sorgere e lo svilupparsi, dal ceppo originario comune delle civiltà primitive, delle tre civiltà dei pastori nomadi, dei cacciatori totemisti e degli agricoltori matriarcali, in cui il predominio dell'uomo nella famiglia si alterna con quello della donna, e in cui nascono e si fissano i tre tipi fondamentali dell'attività umana, si esaurisce la serie delle civiltà primarie indipendenti. Lo sviluppo successivo delle varie civiltà non è dato che dal mescolarsi e dal vicendevole prevalere dei singoli elementi di esse. S'inizia così il succedersi delle civiltà nazionali e regionali, influenzate dalle condizioni geografiche e climatiche, dalla forza o debolezza dei singoli popoli che si mescolano.

Dal sovrapporsi del matriarcato al totemismo sorgono le civiltà totemistiche-matriarcali. La fusione non avviene dappertutto con lo stesso ritmo e con le stesse forme. La caratteristica comune consiste in ciò, che i clan totemici di una certa tribù in cui è penetrato il matriarcato vengono divisi fra le due classi matrimoniali in parti quasi eguali, di maniera che un totem che si trova in una certa classe manca nell'altra; le classi matrimoniali comprendenti i clan totemici prendono il nome di fratrie (v.): l'esogamia di classe o gruppo, propria dei sistemi matriarcali, viene così a immedesimarsi con quella di clan della civiltà totemistica: è proibito cioè sposare una appartenente alla medesima fratria. La successione ereditaria segue per lo più la linea femminile, ma a volte il totem viene anche ereditato in linea maschile. Questa è la forma biclasse esistente nell'Australia e sulla costa nord-occidentale dell'America del Nord. Condizioni analoghe sussistevano nell'impero degl'Inca, e anche l'Egitto è passato per questo stadio.

Sociologicamente è da notare l'aumentata complicazione delle relazioni che sorge dalla connessione dei varî clan con le classi matrimoniali, specie quando la regola di successione è diversa fra i due, come succede presso varie tribù australiane; essa aumenta ancora quando il sistema biclasse si trasforma in quello a quattro, a sei, e a otto classi: il che può accadere per l'associarsi di due o più sistemi biclassi, oppure in seguito a una seconda fusione di un sistema biclasse totemistico a successione femminile con un sistema totemistico puro, o per scissioni successive. In tali sistemi a quattro classi i totem sono divisi in sottoclassi e queste raggruppate a due a due in classi principali: si segue per lo più una successione indiretta, il bimoo non appartiene cioè alla stessa classe del genitore, ma alla complementare.

Dalla fusione della cultura dei pastori nomadi con le culture matriarcali risultano le civiltà a patriarcato libero. I nomadi, sovrapponendosi agli agricoltori, dànno vita a un'organizzazione statale forte e centralizzata di cui essi già possedevano un modello nella loro famiglia patriarcale.

Presso i primitivi l'evoluzione sociale era pervenuta solo a una rudimentale riunione per lo più di singole famiglie, che presso i pastori nomadi poi si rafforzano e si allargano fino a divenire le grandi e potenti famiglie patriarcali. Nelle civiltà totemistiche l'organizzazione statale fa un passo innanzi con la trasformazione della riunione di famiglie in clan stabili: al capo di un clan viene riconosciuto un primato non più onorifico ma reale. Nelle civiltà matriarcali lo stabilirsi dei varî gruppi su un determinato territorio dà origine ai villaggi, che associandosi o cristallizzandosi intorno a uno più forte degli altri dànno vita alle prime città. Nello stesso tempo si diffonde da esse, alimentata dalle società segrete, il cui raggio d'azione eccede i confini della tribù, l'idea dello stato che verrà attuata poi con la fusione delle civiltà matriarcale e pastorale. I popoli nomadi però non si fondono subito con i popoli agricoli da loro sottomessi, ma vi si sovrappongono da padroni. Essi infatti rispettano le costituzioni statali dei popoli conquistati, ma le sottopongono a controllo; anche i capi di queste organizzazioni vengono mantenuti, ma, privati della loro autonomia, divengono vassalli dei dominatori: ha così origine lo stato feudale.

I prigionieri di guerra, che prima venivano uccisi, vengono ora adoperati come strumenti da lavoro e si intraprendono spedizioni e razzie al solo scopo di procurarsene. La proprietà familiare è in gran parte costituita da schiavi: si sviluppa cioè nella sua pienezza l'economia a schiavi.

Nell'ordinamento privato i dominatori si mantengono, finché possono, appartati, stimandosi superiori e più nobili: scompare l'esogamia propriamente detta, venendo a cadere tutti i vincoli e le restrizioni meno quelle di parentela agnatizia e cognatizia; si sostituisce a essa un'endogamia di gruppo e stato, che tende a mantenere inalterata la purezza della razza e che, insieme col permanere della successione in linea paterna del diritto di primogenitura e del patriarcato, contribuisce a dare alle famiglie dei conquistatori una sempre maggiore potenza. Ciò avviene sia presso i popoli antichi di cui ci è pervenuta notizia storica, sia presso gli odierni che si trovano in uno stato di sviluppo analogo: fra i primi, gli Egiziani del periodo tolemaico, i Romani, i Giapponesi, i Cinesi, i Messicani e i Maya dell'America Centrale e i Peruviani dell'America del Sud; fra i moderni, i Camiti e i Sudanesi in Africa, i Polinesiani in Oceania.

A volte si arriva al matrimonio tra fratelli e sorelle: così, a es., nell'Egitto tolemaico; presso gl'Inca e i Maya il re aveva diritto alla corona, vigendo qui il patriarcato totemistico, ma doveva sposare una sorella; oggi questo uso regna ancora in alcuni piccoli stati dispotici negri.

Nell'India gli Arî conquistatori nulla fecero per eliminare la civiltà matriarcale totemistica da loro trovata, ma preferirono isolarsi, favoriti dalle differenze di religione e di costumi.

Circa la posizione dei coniugi nella famiglia, può dirsi che prevale quasi dappertutto l'uomo, il quale ha spesso diritto di vita e di morte sui figlioli e qualche volta anche sulla moglie; le donne e i figli gli devono incondizionata obbedienza; presso alcuni popoli la vedova doveva essere cremata alla morte del marito oppure sepolta con lui, perché doveva seguirlo e servirlo nell'al di là. L'adulterio femminile viene punito sempre gravemente mentre si dà minor peso a quello maschile. Il matrimonio si conclude sempre con il pagamento di una certa somma. Presso alcuni popoli le conseguenze di questo uso sono in parte attenuate con il concedere alla donna una certa somma a titolo di dote, che il marito è costretto a restituire in caso di scioglimento di matrimonio.

Questo patriarcato ha portato senza dubbio un sensibile progresso alla civiltà con l'abolizione delle aberrazioni del totemismo e del matriarcato e con la liberazione dagl'invadenti legami dell'esogamia di clan e di classe. Ma dove cessò la rigida moralità della famiglia nomade, la poligamia, la prostituzione, la schiavitù, il vassallaggio aprirono la via al dilagare delle nascite illegittime; la potenza del patriarca diviene un insopportabile giogo; la donna è abbassata, tanto nella società quanto nella famiglia, a un livello sconosciuto sia alle civiltà primitive sia a quelle posteriori; i figli devono subire il potere senza limiti del padre.

Si diffondono sempre più gl'istituti noti sotto il nome di poligamia (nelle due forme di poliginia e poliandria) e matrimonio di gruppo, che prima si riscontrano solo sporadicamente. Non bisogna credere però ch'esse si limitino ai popoli di civiltà più recente: esse penetrano anche presso i primitivi, dove tuttavia le ritroviamo sempre accanto al matrimonio monogamico che spesso è l'unica forma legalmente ammessa; del resto non ci è noto alcun popolo in cui la monogamia sia addirittura esclusa legalmente.

Circostanze economiche e sociali hanno influito certamente sul diffondersi della poliginia: fra queste, l'ineguale distribuzione della ricchezza, la sopraeccedenza del numero delle donne causata dalla guerra, il desiderio di numerosa figliolanza apportatrice di ricchezza e di prestigio, il fatto che le donne, specie presso i popoli primitivi, invecchiano prima degli uomini, le limitazioni alla vita coniugale imposte dai periodi mensili e dalla gravidanza e infine il gusto della varietà. La poliginia è molto diffusa fra le tribù dell'America del Sud e si ritrova quasi senza eccezione fra i popoli africani sia del primo sia del secondo gruppo di civiltà derivate; è ugualmente ammessa fra i popoli semicivili e civili dell'Asia meridionale e orientale. L'istituzione è diversamente regolata sia dal punto di vista sociale sia da quello sessuale: così fra alcuni popoli tutte le donne di una famiglia poligama possono avere eguaglianza di diritti; ma in generale è una sola quella che ha una posizione più elevata delle altre o viene considerata come la moglie principale; e nella gran maggioranza dei casi una tale distinzione è riservata a quella che è stata sposata per prima, presumibilmente perché la monogamia è o era la regola, mentre la poliginia non costituisce che una novità o un'eccezione. Essa era divenuta tuttavia assai comune presso i popoli civili dell'antichità (v. concubinato) e venne codificata dal Corano per i musulmani. Fra gli Ebrei, un uomo poteva in determinate circostanze sposare varie donne e non vi era legalmente alcuna differenza fra loro: tuttavia una distinzione veniva fatta fra la moglie e la schiava concubina. Il Pentateuco ordina poi che debba essere sposata la vedova senza figli del fratello, anche nel caso che si abbia già un'altra moglie (levirato), istituzione stabilita per evitare che il fratello resti senza eredi. Del resto la monogamia fra gli Ebrei fu imposta solo dal Gran Sinodo di Worms al principio del sec. XI e solo per i paesi europei.

Ostacoli alla poliginia sono il prezzo da sborsare per la moglie, e, presso alcune tribù, la gelosia femminile: mentre talvolta è la moglie stessa che procura al marito una nuova moglie o concubina, tal'altra la capanna del poligamo si trasforma in in campo di battaglia. Presso gli Ainu le varie mogli vivono in case separate e presso varî popoli il termine per indicare la seconda moglie (ebraico ṣārāh) significa "nemica, rivale". Sembra che il sororato, il costume di sposare cioè le sorelle della prima moglie, sia stato adottato per eliminare questo inconveniente.

Cause opposte a quelle che producono la poliginia portano alla poliandria (v.), sebbene questa sia molto più rara. In primo luogo il soprannumero degli uomini, che può essere prodotto, oltre che dalla pratica dell'infanticidio femminile, dalla maggiore mortalità delle donne, causata dalle misere condizioni di vita e dai parti prematuri, poi la poca fertilità del suolo e le disagiate condizioni economiche generali, che d'altro canto producono un maggior numero di nascite maschili, come il Ploss e altri ebbero a sostenere: risultato cui conducono anche le unioni fra consanguinei.

La poliandria si ritrova soprattutto nel Tibet e nel Kashmir e ne abbiamo notizie da tempo immemorabile. È abbastanza diffusa nella penisola indiana fra le tribù dravidiche e nell'isola di Ceylon, in forma più o meno sporadica appare fra alcune tribù del nord asiatico (Eschimesi e Ciukci) e fra molte tribù del nuovo mondo. Nello stesso Tibet è sconosciuta dalle tribù nomadi, confermando così le sue origini matriarcali. La forma più comune, ma non l'unica, è quella per cui più fratelli prendono in comune una sola moglie.

In quanto al matrimonio di gruppo, che secondo la teoria evoluzionistica costituirebbe il ponte di passaggio fra la promiscuità e il matriarcato, studî e osservazioni più recenti portano a credere che sia il risultato di influenze successive della poliginia presso tribù che già praticavano la poliandria; una forma particolare di esso sarebbe quella per cui più fratelli sposano diverse sorelle.

L'esempio più conosciuto è quello del matrimonio pirrauru della tribù australiana dei Dieri: un uomo A possiede una donna regolare m1 chiamata tippa malcu, un altro uomo B ha parimenti una donna regolare m2; costei è nel contempo concubina c1 o pirrauru dell'uomo A, mentre l'm1 è concubina c2 dell'uomo B. In tale gruppo può entrare un terzo uomo C con una donna regolare m3, che egli concede come concubina c3 ad A e come concubina c4 a B., senza peraltro partecipare al gruppo. Il singolo matrimonio ha quindi con ogni probabilità fondamento nella monogamia, poiché l'uomo ha solo una donna principale e le altre secondarie, le quali ultime sono contemporaneamente donne regolari di altri uomini. Con ciò concorda anche il fatto che in molti territorî dell'Australia, specie nei distretti del Nord, s'incontra la monogamia e non il matrimonio di gruppo; un'altra prova vediamo nella solennità del matrimonio (tippamalcu) con la donna regolare; mentre gli altri (pirrauru) si svolgono senza pompa.

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La famiglia in Oriente.

Nella costituzione familiare dell'antico Egitto la madre ha una posizione preminente in seno alla famiglia, pur non potendosi parlare, almeno in epoca storica, di matriarcato. Della famiglia fanno parte non solo persone unite da vincolo di sangue o di proprietà, ma anche estranei, con non chiara promiscuità. Un elemento notevole della famiglia egiziana è invero la gran libertà e promiscuità nei rapporti fra i sessi: la stessa parola designa la sorella, la concubina e talora persino la figlia, sì che anche ritenendo limitato alla casa reale l'uso ufficiale e normale del matrimonio con la sorella (ereditato poi dai Tolomei) è da riconoscere in genere nella società egiziana antica una larghezza e indefinitezza di rapporti fra l'elemento femminile e quello maschile di uno stesso sangue, assai lontana da quel che si riscontra nelle concezioni dei Greci e dei Semiti.

È quindi naturale lo scarso senso della genealogia, della storia familiare, presso gli Egiziani, tra i quali, sino ai tempi più tardi, è difficile vedere risalire un albero genealogico a più di o 4 generazioni. Nonostante ciò, la vita famigliare egizia non sembra sia stata priva di affettuosa intimità, come appare, fatta anche la debita parte alla stilizzazione, dai monumenti tombali, ove i congiunti sono raffigurati in affettuosi ufflci di pietà verso il defunto. La famiglia egiziana era in generale numerosa, ma all'elevata natalità fa anche riscontro l'elevata mortalità dei giovani, con fenomeno ancor oggi osservabile in Egitto. L'abbondante figliolanza cresceva affidata alle cure della madre e della nutrice; caratteristico nei ragazzi sino all'età virile l'acconciamento del capo, che gli adulti portavano raso, e nei fanciulli maschi e femmine conservava i capelli raccolti in una specie di treccia sulle spalle; spesso uno stesso nome era imposto a più figli tutti viventi, ciò che rende difficile districare le antiche genealogie egiziane.

Un'assai più salda e ordinata compagine familiare troviamo nella civiltà babilonese-assira, a fondamento nettamente patriarcale. Qui la famiglia consta del capofamiglia marito e padre, delle sue mogli (in generale non più di due, per le classi più elevate, tanto che il matrimonio assiro-babilonese può dirsi quasi monoginico) e dei figli, compresi quelli adottivi. La patria potestà si estendeva tanto sulle persone quanto sui beni e comprendeva un vasto diritto disciplinare sui figli e la moglie stessa, in caso di disobbedienza e adulterio; ma la moglie a sua volta, benché subordinata al marito, e obbligata a permetterne, senza diminuzione dei suoi diritti, la convivenza con la stessa propria serva, non era del tutto esclusa da una compartecipazione alla patria potestà, che esercitava da sola se alla morte del marito mancavano figli maggiori o fratelli di lui. Del resto, da varie disposizioni del diritto babilonese risulta la parte relativamente assai elevata data alla donna nella vita sociale. I figli erano tenuti all'obbedienza verso il padre, che in casi straordinarî, e con atto ritenuto gravissimo, li poteva ripudiare, escludendoli dalla famiglia. Le minute e copiose prescrizioni del diritto familiare, tramandateci dai monumenti cuneiformi, documentano l'alta funzione della famiglia nell'antica Mesopotamia: vero nucleo della tribù e dello stato, la cui solidità era rigidamente tutelata. Meno possiamo giudicare del suo livello spirituale, che nel complesso, specie presso la rozza e militare civiltà assira, sembra inferiore a quello della società egiziana.

Anche nella famiglia ebraica, benché non manchino indizî di un antichissimo stadio matriarcale, troviamo sin dalla prima epoca storica saldamente stabilito il patriarcato, che impronta di sé tutte le relazioni familiari. Il senso, sviluppatissimo presso i Semiti, del vincolo di sangue, del legame genealogico e gentilizio, si rispecchia nel culto ancestrale, che nei tempi più antichi dové costituire un tratto essenziale dell'attività religiosa dei singoli gruppi; da questo culto appunto il capofamiglia traeva e tramandava ai figli l'autorità. La moglie è socialmente e giuridicamente in tutto soggetta al marito, che è il suo signore (baal), da cui per mezzo della dote (mühar) è stata acquistata alla famiglia paterna; la poligamia e il divorzio unilaterale ne suggellano la fatale inferiorità, che il mondo ebraico trasmetterà a quello musulmano. Ma, in misura maggiore che non presso quest'ultimo, emergono nell'antica società ebraica i temperamenti di questa condizione avvilente della donna nella vita familiare e sociale. Le unioni non infrequenti in cui l'affetto dominava il contratto, il rispetto e la venerazione dell'uomo per la propria compagna, la tendenza vivamente promossa dal profetismo, sebbene non mai giuridicamente prevalsa, alla monogamia, sollevano la sposa e madre d'Israele dallo stato di abitatrice dell'harem, e le conferiscono quei tratti di nobiltà e dignità di cui si abbellisce tutta una galleria di figure femminili bibliche. Vivissimo era il desiderio della prole, accolta ed educata amorosamente senza ripugnanza per il sesso femminile (l'infanticidio femminile, praticato dagli Arabi pagani, è sconosciuto agli Ebrei), e unita ai genitori da così vivo senso di solidarietà famigliare, da farla spesso coinvolgere, innocente, nelle veridette sanguinose da cui i genitori potevano essere colpiti. Agli effetti giuridici, non esisteva differenza tra i figli delle mogli legittime e quelli delle concubine che dividevano con pari diritti l'eredità paterna; bastardo era solo il frutto d'un incesto, verso cui i Semiti hanno sempre avuto vivissima repugnanza. Della famiglia ebraica facevano parte anche gli schiavi, trattati in genere con grande benevolenza e senso di eguaglianza umana di fronte al Dio creatore.

Nel mondo iranico il senso della famiglia e l'attaccamento al proprio lignaggio sono attestati dalle minute genealogie delle iscrizioni achemenidi (famosa la genealogia di Dario nella grande epigrafe di Bīsutūn). Purtroppo alcune parti dell'Avestā, conterienti prescrizioni e norme sulla costituzione e il diritto di famiglia, sono andate perdute, ma da altre conservateci, come un notevole passo del Vendidād, abbiamo particolari sulla durata del lutto prescritto a seconda dei varî gradi di parentela (sei mesi per marito e moglie, un mese per padre, madre, figli e fratelli, 25 giorni per i nonni, ecc.), che ce ne fanno riconoscere la rispettiva importanza. Il matrimonio era considerato quasi come un dovere religioso; abbastanza diffusa la poligamia e il famoso khwaētvadatha o matrimonio fra stretti parenti (fratelli e sorelle, padri e figlie), che tanto scandalo e repugnanza destò negli antichi che ce ne hanno tramandato notizia (v., per questo, matrimonio). Amorosamente curata era la prole, considerata come una benedizione divina, a cui l'Avestà inculca frequentemente, per bocca dello stesso Ahura Mazdā, rispetto e piena obbedienza ai genitori. Minute prescrizioni sull'eredità, l'adozione, la tutela, sono contenute nella tarda raccolta pehlevica (Dāti-stān-i dīnīk), che però riflette molto probabilmente concezioni e norme molto più antiche.

La storia dell'istituto familiare nell'Islām continua, adattata alla nuova religione, quella dell'Arabia pagana. Il sistema patriarcale ivi in vigore, col matrimonio per compera e la conseguente posizione di dipendenza della moglie, fu sostanzialmente mantenuto nell'islamismo, che applicò, con qualche temperamento, alle seguenti generazioni musulmane il diritto di famiglia esistente in Arabia al tempo di Maometto (v. islamismo). Confermata la preminenza assoluta del marito e padre, ammessi, benché limitati, la poligamia e il divorzio unilaterale da parte dell'uomo, vietata l'adtizione (che vigeva nell'Arabia pagana), regolato il diritto di successione, la nuova religione foggiò quel tipo di famiglia orientale rimasto nel fondo inalterato attraverso la sua storia plurisecolare e giunto immutato alle soglie dell'età moderna, sinché gl'influssi europei, e la maggiore o minore laicizzazione di alcuni stati (completa quella della Turchia), non sono venuti a intaccarlo più o meno profondarnente o a distruggerlo del tutto. Sono ben noti (forse solo essi noti) i lati negativi della famiglia musulmana, con la donna ridotta a vegetare nel gineceo, priva di volontà e autorità, quasi assente dalla vita sociale (per quanto la sua personalità giuridica, specie per il diritto patrimoniale, sia tutelata dalla legge); ma è doveroso aggiungere che un notevole senso d'umanità fu nel complesso portato dall'Islam nella vita familiare (si ricordi l'abolizione del barbaro costume preislamico di seppellire vive le figlie appena nate), pur conservando verso la donna quella caratteristica attitudine di diffidenza e dispregio comune a tanta parte del mondo antico; e che gli affetti familiari nella società musulmana non furono affatto così sacrificati e smorzati come potrebbe apparire a una prima impressione. Resta comunque indubbio che, sia giuridicamente e socialmente, sia per quel che riguarda la vita intima, i legami d'interesse ed affetto, l'elemento maschile ha nel mondo islamico l'assoluta preminenza su quello femminile, e solo sul primo, salm eccezioni specie in epoca preislamica, si fonda lo spiccato senso tribale e genealogico così radicato presso gli Arabi e invano combattuto dai conati uguagliatori della predicazione di Maometto.

Le leggi che regolano la formazione e la vita della famiglia indiana, codificate nei trattati giuridici sanscriti (Dharnaśāstra), mostrano anch'esse un tipo di famiglia patriarcale, in cui il padre e, alla sua morte, il figlio maggiore, è capo spirituale e materiale (kartā) del gruppo domestico. Questo è generalmente assai numeroso e complesso, dato l'uso dei figli di restare spesso con la nuova famiglia in seno alla vecchia, e l'abbondante prolificità dovuta alla poligamia e al concubinato. Una posizione abbastanza notevole ha però accanto al padre la madre di famiglia (ghinni), capo di tutto l'elemento femminile della casa. Molto spiccato il bisogno e la ricerca dei figli, al cui difetto si provvede con l'adozione sotto le più svariate forme (compresa quella che fa ritener figlio del marito legittimo il figlio adulterino). Caratteristico della società indiana il matrimonio in giovanissima età, fra ragazzi addirittura (per la ripugnanza dei genitori a tenere in casa figlie rimaste nubili), il divieto d' un secondo matrimonio per le vedove, e una spiccata esogamia, contenuta entro i limiti delle rispettive caste.

In Cina finalmente l'autorità teoricamente illimitata del capofamiglia è in pratica temperata dal rispetto e dall'autorità morale di cui gode la sposa (unica, per quanto sia ammesso il concubinato) e condividente col marito i diritti di un'affettuosa cura da parte dei figli fatti adulti; ai doveri della pietà filiale (hsiao), consistenti negli alimenti in vita, nella sepoltura e sacrifizî dopo morti i genitori, corrispondono quelli della tenerezza verso la prole; sentimento questo diffuso in alto grado in Cina, e stranamente coesistente con la pratica dell'infanticidio femminile, diffuso più o meno largamente sino a tempi recenti. Il matrimomo è esogamico. Forte il sentimento di clan: ogni singolo gruppo familiare è concepito come legato a tanti altri gruppi risalenti a un comune antenato, con comune culto ancestrale e con vivissimo senso di solidarietà collettiva.

Bibl.: Articoli varî in Hastings, Encyclopaedia of religion and ethics, V, s. v. family; Erman-Ranke, Äegypten u. ägyptisches Leben im Altertum, 2ª ed., Tubinga 1923; G. Furlani, La civiltà babilonese e assira, Roma 1929, p. 422 segg.; F. Spiegel, Eranische Altertumskunde, III, Lipsia 1878, p. 676 segg.; W. Robertson Smith, Kinship and Marriage in early Arabia, 2ª ed., Londra 1903; D. Santiliana, Istit. di diritto musulmano malichita, I, Roma 1926, p. 121 segg.

La famiglia greca.

La famiglia greca ci è nota in massima parte attraverso le informazioni di fonte attica, sulle quali siamo costretti a basare la nostra esposizione, nel presupposto che la comunanza di principî e di usi, in cui i Greci trovavano il motivo ideale della loro coscienza nazionale, avesse imposto dovunque, nel mondo greco, gli stessi caratteri all'organizzazione familiare. Certo è che i Greci considerarono l'ordinamento della loro famiglia come rispondente a un tipo perfetto e come un segno della superiorità morale del Greco sul Barbaro; le differenze che talvolta troviamo documentate fra la famiglia attica e la famiglia di altri popoli greci sono marginali: centro delle indagini sulla famiglia greca, per i secoli di maggiore splendore culturale (V e IV a. C.), non può essere che Atene.

La famiglia greca ha carattere sacrale; i suoi componenti sono stretti insieme dal vincolo di un culto comune e da reciproci doveri d'indole sacra: ciò che la distingue da altri gruppi di consanguinei, pur legati da vincoli sacrali, come il γένος, è il suo ufficio speeifico della procreazione di prole legittima e della conservazione del patrimonio familiare. La πόλις ha interesse al retto funzionamento della famiglia, tuttavia interviene solo eccezionalmente a disciplinare i rapporti familiari; ciò per due ragioni: prima, che il diritto pubblico e privato della πόλις si differenzia dal diritto sacrale a cui abbandona la disciplina di un gran numero di rapporti sociali e familiari, per cui la famiglia, organismo essenzialmente sacrale, ha rispetto alla πόλις un'autonomia incomparabilmente maggiore di quella che ha la famiglia moderna di fronte allo stato. Seconda, che l'ordinamento politico e sociale della πόλις greca, anche quando la πόλις ebbe raggiunto il momento del suo maggiore sviluppo, in particolare negli stati democratici, risentì sempre di quel processo in seguito al quale, mentre in origine non fu che ordinamento di cittadini a scopo di guerra e di conquista (De Sanctis), venne via via ad ampliare i suoi poteri e ad approfondire e complicare la sua ingerenza nei rapporti sociali: ora, siccome questo processo non giunse mai a operare un perfetto assorbimento nella πόλις dei nuclei minori, come la fratria, il γένος e la famiglia, questi nuclei continuarono a vivere, non già come organi della πόλις e sotto un suo controllo totalitario, ma con un ben netto carattere di autonomia giuridica. Rispetto a questi nuclei minori la πόλις si limitò a dettar le norme necessarie affinché essi non potessero né perseguire scopi contrarî a quelli da essa perseguiti, né, quando svolgevano un'attività parallela, non agire in conformità delle deliberazioni da essa prese. D'altra parte, siccome la πόλις non crea il diritto sacrale ma lo riconosce e lo sanziona, consentendo a ogni cittadino la persecuzione giudiziaria dell'empio (γραϕὴ ἀσεβείας), le eventuali violazioni del diritto sacrale che accadessero entro la famiglia potevano venire a cadere sotto la giustizia punitiva della πόλις. Ma un tal controllo della famiglia è eccezionale e indiretto. Di fronte alla πόλις la famiglia è rappresentata dal suo capo. E quando un avvenimento familiare (nascita, matrimonio, maggior età di un figlio maschio) è di tal natura da interessare lo stato, la πόλις, si limita a raccogliere la dichiarazione del padre di famiglia, in cui, sinché altri non sostenga giudizialmente l'accusa di mendacio, ha piena fiducia. Di qui deriva nel padre di famiglia greco una doppia figura: di rappresentante della sua famiglia, del cui retto funzionamento ha la responsabilità nei riguardi della πόλις, e di signore assoluto, con un potere circoscritto solo dal diritto sacrale, nell'interno della famiglia, dove egli è sovrano e sacerdote. Egli può esporre il neonato, dare in pegno i figlioli, cacciar di casa il figlio maggiorenne, imporre l'aborto o intimare il divorzio alla moglie, uccidere l'adultero sorpreso in flagrante, giustiziare il ladro o l'empio che abbia invaso il suo domicilio. Del suo potere può anche abusare, incontrando in tal caso, quando l'abuso riguardi persone soggette alla sua potestà, e non violi il diritto sacrale, solo timide e indirette sanzioni da parte della legge: il padre che, avendone i mezzi, si è rifiutato di dare educazione ai figli, o che ha costretto le figlie o i figli alla prostituzione, perde il diritto agli alimenti per quando la vecchiaia l'abbia reso invalido.

Il controllo che la πόλις ha sulla famiglia può essere positivo o negativo: essa infatti da un lato (controllo positivo) veglia a che un οἶκος non rimanga senza titolare, che cioè una famiglia non si estingua per mancanza di discendenza maschile, e detta norme per salvaguardare gl'interessi dei pupilli e delle ereditiere; statuisce anche per in caso in cui la santità della famiglia sia profondamente turbata, come se i figli maltrattino o non curino i genitori invecchiati (il figlio snaturato è passibile di una γραϕὴ κακώσεως τῶν γονέων), ovvero se il capo di famiglia continui a vivere insieme con la moglie sorpresa in flagrante adulterio (la legge imponeva il ripudio della moglie sotto pena di atimia totale); provvede a che l'autorità del capo di famiglia non sia adoperata in modo da ledere i diritti personali di altri cittadini o di chi, pur forestiero, possa appellarsi alla tutela della legge, come nel caso di ingiustificato sequestro di persona (γρϕὴ ἀδίκως εἱρχϑῆναι ὡς μοιχον: l'accusa che ogni cittadino poteva portare contro il padre di famiglia che, col pretesto di averlo sorpreso in adulterio, tenesse in ceppi un estraneo), e non siano violate le norme del diritto sacrale (γραϕὴ ἀσεβειας); dall'altro (controllo negativo) prende le sue precauzioni affinché il padre di famiglia non turbi con false dichiarazioni la genuinità dei componenti la πόλις , come avverrebbe, per esempio, se facesse iscrivere fra gli efebi un figlio nato da una forestiera e allevato come legittimo, ma privo, per l'ipotesi, del requisito di esser nato da donna cittadina, requisito che la legge greca (con maggiore o minor severità secondo i tempi e le città) richiedeva in ogni cittadino. In questo caso la πόλις poteva negare o invalidare l'iscrizione fra i demoti che il padre avesse tentata o ottenuta eludendo la legge con false dichiarazioni. In diritto attico la giurisdizione su quei rapporti familiari interni che cadevano sotto il controllo della πόλις spettava all'arconte; sulla violazione del diritto sacrale eventualmente offeso dal padre o da un membro della famiglia, al βασιλεύς; sulla violazione dei diritti personali di un cittadino da parte del padre di famiglia per abuso di potere, ai tesmoteti.

Il carattere essenzialmente sacrale dell'οἶκος greco fa sì che il capo di famiglia sia considerato come il legittimo trasmissore del culto e del patrimonio; di qui deriva:1. l'assoluta subordinazione della successione testamentaria alla legittima; il padre che abbia figli maschi, atti cioè a perpetuare i sacra della famiglia, non può disporre per testamento dei beni familiari; 2. la necessità che un οἶκος non rimanga senza titolare; questo può avvenire in due casi: quando il padre morendo lasci prole maschile, ma impubere; e quando lasci solo prole femminile. In ordine a queste ipotesi nell'ordinamento giuridico della πόλις esistevano gl'istituti della tutela minorile (anche per il caso di femmine impuberi), dell'adozione testamentaria (ποίησις) e dell'epiclerato.

Se il padre lasciava uno o più figli maschi minori, o il padre stesso per testamento o, in difetto, la legge o il magistrato (sulla tutela dativa anche per il diritto attico le fonti sono incerte) provvedevano alla nomina di un tutore (ἐπίτροπος). Il tutore è il titolare dei beni pupillari, che amministra in nome proprio, salvo a renderne conto a tutela finita. La tutela è quindi "una potestà sull'impubere, accompagnata dalla proprietà dei beni che a costui apparterrebbero se fosse pubere" (Arangio Ruiz). La discussione che si fa in proposito se la figura del tutore, così precisata, venga o no a coincidere con quella dell'erede ha soprattutto importanza per il diritto romano (v. bibl.). In diritto attico la figura del tutore è tale da assicurare la continuità dell'οἶκος, che viene provvisoriamente assorbito in quello del tutore, per ritornare indipendente alla maggiore età del pupillo.

Del carattere essenziale dell'οἶκος, istituzione sacrale, è conseguenza il vincolo di solidarietà che lega i membri della stessa famiglia di fronte all'offesa recata a un membro di essa. Questo vincolo, da cui vediamo stretti tutti i componenti di un'associazione sacrale, come il γένος , il ϑίαρος e la fratria, tanto più forte è sentito fra i membri di una stessa famiglia in quanto sono legati da uno stretto vincolo naturale: e, come in un'età primitiva, avanti che la πόλις assumesse la tutela giuridica dei suoi componenti, ai membri della famiglia spettava per primi il dovere della vendetta, anche quando la πόλις sottopose ai suoi tribunali i giudizî sui casi di omicidio, ai soli parenti prossimiori e in prima linea agli appartenenti all'οἶκος spettò il diritto e il dovere di perseguitare giudizialmente l'omicida. Capo dell'οἶκος è il padre di famiglia: la sua autorità, che in dottrina suole essere indicata o con l'espressione romana patria potestas o, per evitare equivoci (Brini, Albertoni), autorità parentale, è grandissima; sennonché nei riguardi dei figli maschi il campo di questa autorità si riduce bruscamente entro limiti più angusti quando il figlio, divenuto pubere e perciò atto alle armi, entra a far parte della πόλις; divenuto πολίτης, egli acquista anche nei riguardi del padre una personalità giuridica indipendente e ha con la πόλις contatti diretti e immediati; cib a differenza dei membri incapaci dell'οἶκος, i cui rapporti con la πόλις si attuano giuridicamente attraverso il padre di famiglia (o il tutore) per la duplice e coincidente qualità che è in lui di capo dell'οἶκος e di πολιτης. Il figlio maggiorenne conserva doveri di rispetto e di cura verso il padre, che gli sono imposti, oltre che dalle norme sacrali e dalla pubblica morale, anche dalla legge; ma è sui iuris; davanti alla πόλις, in ogni rapporto di diritto pubblico (per es., prender parte alle assemblee, sedere dopo i 30 anni come giudice, ecc.) e di diritto privato (possedere immobili, contrattare validamente in nome proprio) egli ha con suo padre parità di diritti.

La πόλις considera come interesse proprio la conservazione dell'οἶκος, cioè la famiglia come insieme di persone e di beni; il padre di famiglia che amministra male il patrimonio può essere interdetto. Su questo punto le fonti sono oscure anche per il diritto attico; secondo alcuni, poteva essere interdetto solo il padre vecchio su istanza dei figli; secondo una recente affermazione, contro il capo di famiglia prodigo, ogni cittadino poteva chiedere interdizione esperendo la ραϕὴ παρανοίας.

La madre di famiglia è, come donna, in condizione di inferiorità giuridica: non può fare atti di amministrazione che superino il medimno d'orzo; come della fanciulla è κύριος il padre, della donna maritata è tutore muliebre (κύριος) il marito. In questa qualità egli amministra (riteniamo in nome proprio) i beni che la moglie ha conferiti nell'οἶκος maritale quando vi è entrata come sposa; può sciogliere il matrimonio cacciando la moglie di casa senza bisogno di alcuna formalità; può, come κύριος, fidanzare validamente la moglie per testamento, un caso che non deve far meraviglia in una società nella quale di regola la moglie era molto più giovane del marito. Le mansioni della padrona di casa in Grecia in generale si può dire che si riassumono nei tre uffici che Platone distingue ed enumera nelle Leggi (VII, p. 806 a): la ϑεραπεία, governo della casa e degli schiavi; la ταμιεία, amministrazione domestica; la παιδοτροϕία, allevamento ed educazione dei bambini. Essa ha un potere disciplinare sui figli e sugli schiavi. Il marito non esercita un controllo troppo rigoroso sul modo con cui la moglie adempie le sue mansioni. L'interesse dell'uomo greco, specie nelle città democratiche, è volto quasi esclusivamente a promuovere il reddito del patrimonio familiare e a occuparsi di politica. Facendo parte dell'οἶκος del marito, la madre di famiglia ne partecipa ai sacra; interviene alle cerimonie religiose con le quali i demoti osservano un culto comune, in occasione delle quali il marito fa delle elargizioni (λῃτουργίαι) in nome della moglie, affinché ella possa compiere i suoi uffici sacri con dignità e signorilità; interviene anche alle cerimonie funebri, quando muore un membro della famiglia, e ha la sua parte nel culto che la famiglia tributa ai proprî morti. Morta, ha diritto alla sepoltura e al culto della propria tomba. In genere si può dire che in Grecia la donna, mentre non ha alcuna importanza nel mondo politico ed è in condizioni di assoluta inferiorità nell'ordinamento del diritto privato, di fronte al diritto sacrale è la compagna rispettata e necessaria dell'uomo.

La conseguenza più importante dell'inferiorità giuridica della donna si manifesta nella sua incapacità di essere titolare dell'οἶκος; i sacra familiari, nella cui continuità si mantiene ininterrotta attraverso le generazioni l'unità spirituale e patrimoniale della famiglia, non possono esser trasmessi che in linea maschile; quando erede dell'οἶκος non rimanesse che una femmina, la famiglia si estinguerebbe. Ma la πόλις, che aveva interesse a che una famiglia non si esaurisse, disponeva con una legge, per noi strana ma conforme al concetto che i Greci avevano della famiglia, che il più prossimo parente sposasse la donna divenuta ereditiera (ἐπίκληρος) dell'οἶκος paterno. Quand'anche l'ἐπίκληρος nel momento in cui rimaneva unica erede dell'οἶκος fosse stata maritata, il matrimonio in corso veniva sciolto per necessità di legge. Nel caso in cui i pretendenti alla mano dell'ἐπίκληρος fossero più d'uno, decidevano i tribunali con un giudizio detto ἐπιδικασία. Il matrimonio fra l'ἐπίκληρος e lo sposo designato dalla sentenza traeva dalla sentenza stessa quel requisito di legittimità che negli altri casi veniva posto in essere dalla promessa solenne (ἐγγύησις) del κύριος della donna allo sposo (v. donna; matrimonio).

I figli maschi impuberi sono considerati come non appartenenti alla πόλις; essi sono speranza di cittadini, non cittadini; in Atene non sono mai designati come 'Αϑηναῖοι, perché 'Αϑηναῖος è il πολίτης di Atene nel pieno possesso del suoi diritti civili e politici; i suoi interessi nei riguardi degli altri cittadini sono rappresentati dal padre ovvero dal tutore. Se è menzionato in documenti pubblici (per es., se vincitore di una gara fra bambini) è ricordato non già come 'Αϑηναῖος, ma come appartenente alla tribù paterna. Il padre o il tutore fanno le dichiarazioni che lo riguardano al γένος, al ϑίασος e alla fratria e, quando diviene adulto, lo fanno iscrivere nella lista dei demoti, iscrizione che per i Greci segna l'ingresso nella cittadinanza. I figli maggiorenni non ammogliati, i quali vivono in casa del padre, sono anch'essi, come il padre di famiglia, πολῖται, ma soggetti nell'interno della famiglia all'autorità di lui. Secondo una tradizione mal certa, il figlio maggiorenne può essere diseredato dal padre (ἀποκηρυξις).

Le figlie nubili, chiuse in casa dove fanno, almeno in Atene, vita ritiratissima, sono soggette in ogni età alla volontà assoluta del padre che dispone di loro anche nel combinarne il matrimonio. Il padre è κύριος della figlia e come tale fa allo sposo la promessa solenne (ἐγγύησις), di solito accompagnata dalla stipulazione del contratto di dote, che in diritto attico è requisito di legittimità del matrimonio. È incerto e discusso se col matrimonio cessi la potestà del padre sulla sposa come κύριος: sembra che il padre avesse sempre il diritto d'interrompere la convivenza della figlia col marito e sciogliere così il matrimonio.

Anche gli schiavi fanno parte dell'οἶκος; la loro situazione familiare non appare del tutto chiara nelle fonti: essi sono oggetto dell'οἶκος, in quanto sono parte dell'entità patrimoniale di esso, ma sono anche soggetti di diritto sacrale, del diritto cioè che sta a base della struttura dell'organismo familiare e quindi, in alcuni rapporti, sono messi alla pari dei liberi. Così, infatti, nelle cause di omicidio che si risolvevano secondo l'antico diritto sacrale, assorbito in un secondo tempo dalla città, lo schiavo deponeva senza la necessità della tortura, imposta dalla procedura attica alle deposizioni degli schiavi; gli schiavi della famiglia avevano accesso ad alcune cerimonie da cui erano esclusi gli estranei; mentre la πόλις non riconosce nello schiavo un soggetto di diritto (tranne, per ragioni eccezionali, nei rapporti commerciali), il diritto sacrale difende lo schiavo anche contro il padrone che, abusando della sua autorità, lo maltratti ingiustamente; per cui lo schiavo può fuggire in un tempio e ottenere dal sacerdote l'assegnazione a un οἶκος retto da un signore più umano (v. schiavitù).

È più difficile rappresentare la vita interna della famiglia. A questo proposito bisogna distinguere l'età eroica dall'età storica. I dati che si raccolgono dai poemi omerici consentono di vedere nella famiglia eroica una famiglia che nell'intimità è molto simile alla famiglia moderna (esposizione e bibl. sotto la voce donna); per l'età storica le fonti non consentono né di mantenere la distinzione, che pur sarebbe necessaria, fra la vita familiare nelle diverse città di lingua greca, né di ricostruire un quadro compiuto della vita familiare ateniese; infatti, nonostante la ricchezza delle fonti attiche, della famiglia ateniese sappiamo ben poco. Il materiale di ricostruzione si presenta allo storico del costume disperso in un numero indefinito di allusioni fugaci: scene di vita vissuta nel microcosmo della famiglia greca che balzano fuori qua e là, rapide e improvvise quando meno il lettore se lo aspetta. Per quanto variate possano essere le vicende e il tenore della vita domestica a seconda delle famiglie, nella stessa età e nello stesso ceto, l'andamento della casa presenta sempre un ritmo abbastanza uniforme. Nella famiglia greca il marito, ancorché poco attaccato alla casa, rispetta la sua donna. Fuori di casa può abbandonarsi a facili amori. Far la propria casa teatro di facili amori è verso la propria moglie oltraggio così grave da giustificare in lei il divorzio, sebbene la richiesta del divorzio da parte della donna fosse ritenuta poco onorevole. Quando la famiglia interviene ufficialmente a cerimonie cittadine, il padre di famiglia cerca che la moglie vi faccia la miglior figura. Alla madre di famiglia è affidata la parte più importante nei funerali e nel culto delle tombe.

Il marito usciva di casa la mattina presto e durante la giornata si faceva vedere raramente. Intanto la donna pensava alla casa: lavorava la lana cardando, tessendo; provvedeva con le ancelle a fare il bucato, a stirare la biancheria e i tessuti; e intanto aveva cura dei bambini piccini; li allevava lattanti; faceva far loro il bagno; curava la prima educazione dei maschi; per le femmine poi era la guida costante sino al giorno in cui esse passavano a matrimonio. Appena i figli maschi potevano cominciare un corso regolare di studî, la sorveglianza della loro istruzione ed educazione passava al padre.

Nell'imminenza del parto la madre faceva sacrifici a Ilitia, ad Artemide o alle Ninfe; avvenuta la nascita, se ne dava l'annunzio ai passanti appendendo alla porta un ramo di ulivo se il neonato era un maschio, un bioccolo di lana se era femmina; ma la festa più solenne occasionata dalla nascita di un figlio erano le Anfidromie (ἀμϕιδρόμια); il neonato veniva portato attorno al focolare, dove si eseguiva un rito di purificazione, seguito da un banchetto. Dopo qualche giorno, ma non prima del settimo, si metteva il nome al bambino: anche questa cerimonia era celebrata con sacrifici e con banchetti; nel quarantesimo giorno dal parto aveva luogo il rito di purificazione della puerpera, reso necessario dalla credenza che gli atti e gli avvenimenti proprî della vita fisiologica della donna fossero causa di impurità. Altre occasioni di riti familiari erano le nozze e la morte, la vittoria in un agone, una guarigione, l'esaudimento di un voto. Ma la festa comune a tutte le famiglie erano le Apaturie che avevano luogo nel mese di Pianepsione (ottobre) e duravano tre giorni: nei primi due (detti il primo Dorpia, il secondo Anarrisi) si facevano sacrifizî, nel terzo (detto giorno Cureotide) i padri presentavano i figli alla fratria facendo per loro un sacrifizio che si chiamava κούρειον, se il neonato era maschio, μεῖον, se era femmina. Poiché le Apaturie erano le feste proprie della famiglia, nelle case borghesi si tenevano piccole accademie domestiche: i bambini recitavano le poesie imparate a scuola e i più bravi venivano premiati.

Tutto l'organismo familiare greco è ordinato in conformità della posizione sociale e della considerazione morale di cui la donna gode. Nel mondo attico, rigido custode della donna, i rapporti fra le diverse famiglie erano molto limitati; la possibilità di una vita di società nell'interno della casa anche non brillante, addirittura esclusa. A mala pena si consentiva alle donne di una certa età di farsi visita.

Come abbiamo avvertito, l'esposizione sulla famiglia greca, per necessità imposta dallo stato delle fonti, si riferisce quasi esclusivamente alla famiglia attica. Fra i Dori, dove la donna era più libera, anche la vita di famiglia doveva essere meno gretta e chiusa. Certi rapporti familiari risentivano del carattere degli ordinamenti politici. A Sparta l'educazione statale toglieva all'educazione familiare gran parte della sua importanza. Quella stessa mentalità spartana che pretendeva nei fanciulli l'addestramento al furto, imponeva ai giovani mariti di andare a visitare le loro mogli di nascosto, come amanti in colpa. Anche nella Ionia sembra che la donna non fosse così rigorosamente esclusa dalla vita sociale: un notissimo frammento di Simonide di Ceo, il giambografo, rappresenta la donna che accoglie gli ospiti in casa e sta in conversazione col marito. Nell'età ellenistica il sorgere delle grandi metropoli, e quindi di esigenze economiche nuove e di più fitti agglomeramenti di uomini e di famiglie, debbono, come sembra da molti indizî, avere alleggerito alla donna il giogo impostole dall'esclusivismo e dall'egoistica gelosia maschile; d'altra parte in quell'età l'uomo non è più assorbito come nei secoli precedenti dalle preoccupazioni quotidiane della vita politica. La coscienza di vivere e di operare soprattutto come membro della πολις venne nell'età alessandrina ad affievolirsi a vantaggio di sentimenti più personali e più umani. Anche in questo la spiritualità moderna comincia con l'ellenismo.

Bibl.: Sul carattere sacrale della famiglia greca: Fustel de Coulanges, La cité antique, trad. ital. di G. Perrotta, Firenze 1924: p. VI (prefaz. di G. Pasquali), p. 39 segg.; E. Rohde, Psyche, trad. ital., E. Codignola, Bari 1916, pp. 232, 673 e passim; Ch. Lécrivain, in Daremberg e Saglio, Dictionn. d. antiq., s. v. γένος; L. Beauchet, Histoire du droit privé de la république athénienne, I, Parigi 1897, pp. 1 segg. - Sulla dottrina greca che contrappone il matrimonio monogamico greco al matrimonio barbaro: L. Mitteis, Reichsrecht und Volksrecht, ecc., Lipsia 1891, p. 67 e pp. 221-23; L. Beauchet, op. cit., I, pp. 42-43; A. Albertoni, L'apokeryxis, contributo alla storia della famiglia, in Pubblicazioni del seminario giuridico della R. Università di Bologna, VI (1923). Cfr. concubinato e la relativa bibl. - Sui rapporti in genere fra la polis e i nuclei minori: G. De Sanctis, 'Ατϑίς, Storia della repubblica ateniese, 2ª ed., Torino 1912, p. 41 segg.; U. E. Paoli, Studi di diritto attico, in Pubblicazioni della Facoltà di Lettere della R. Università di Firenze, IX, 1930, p. 199 segg. - Sulla giurisdizione della polis nei rapporti familiari in diritto attico, J. Lipsius, Das attische Recht und Rechtsverfahren, Lipsia, II, I (1908), p. 339 segg.; II, 2 (1912), p. 468 segg. - Sul diritto di famiglia in genere: W. Becher, Platons Gesetze und das griechische Familienrecht, Monaco 1932. - Sui requisiti del matrimonio attico, Paoli, op. cit., p. 264 segg. (con l'indicazione della bibl. anteriore); e, per connessione di argomento, V. Arangio Ruiz, Persone e famiglia nel diritto dei Papiri, Milano 1930; G. Petropoulos, Τινα περὶ γάμου ἐν Αἰγύπτῳ κατὰ τοὺς ‛Ελληνο-αἰγυπτιακοὺς παπύρους, Atene 1931 (negli Atti dell'Accademia d'Atene, 12 marzo 1931). - Sulle successioni testamentarie e legittime: Lipsius, op. cit., p. 537 segg. - Sulla tutela minorile: P. Bonfante, Corso di dir. rom., I: Il diritto di famiglia, Roma 1925, p. 305 segg.; S. Solazzi, Scritti vari dedicati a C. Arnò, in Pubblicazioni della Facoltà giuridica di Modena, XXX (1928), p. 46 segg.; G. La Pira, La sostituzione pupillare, Pavia 1929. V. Arangio-Ruiz, Erede e tutore, in Atti della R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli, LIII (1930), p. 1. - Sulla figura giuridica dell'ἐπίτροπος (tutore) in diritto attico può essere utilmente trasportato qualche resultato acquisito nel campo del diritto romano. - Sull'epiclerato: Hafter, Die Erbtochter nach attischem Rechte, 1887; Beauchet, op. cit., I, p. 154; Lipsius, op. cit., p. 473 segg.; L. Gernet, Sur l'épiclérat, in Revue des Études grecques, XXXIV (1921), p. 337 segg. Sul vincolo di solidarietà fra consanguinei: G. Glotz, La solidarité de la famille dans le droit criminel de la Grèce, Parigi 1904; Lipsius, op. cit., II, 2 (1912), p. 609 segg. - Sull'assorbimento da parte della polis del diritto di rappresaglia esercitato dai nuclei minori: Paoli, op. cit., p. 249 segg. - Sull'autorità del padre di famiglia, oltre alle accennate opere generali sul diritto greco, Albertoni, op. cit., p. II segg. - Sulla γραϕὴ παρανοιας, Paoli, op. cit., p. 299 segg.; contro la cui opinione, N. Vianello, in Mondo Classico, I (1931), fasc. V, p. 21 segg. Sul κύριος e il diritto del padre di famiglia di rompere il matrimonio: E. Hruza, Familienrecht, Lipsia, I (1892), p. 69 segg.; Beauchet, op.cit., I, p. 215 segg.; O. Frederhausen, Studien über das Recht bei Plautus u. Terenz, in Hermes, XLVII (1912), p. 237; R. Taubenschlag, Das attische Recht in der Komödie Menanders "Epitrepontes", in Zeitschr. d. Savigny-Stiftung, XLVI (1926), p. 68 segg.; E. Levy, Verschollenheit u. Ehe, in Gedächtnisschrift Seckel (1927), p. 162; G. Beseler, Kann nach attischem Rechte der Vater die Ehe der Töchter auflösen?, in Studi Bonfante, II, Milano 1930, p. 55 segg. - Sull'ἀποκήρυξις, Lipsius, op. cit., p. 552 seg.; Th. Thalheim, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, col. 2836 segg., s. v. ἀποκήρυξις; Albertoni, op. cit., p. 27 segg. - Sulla vita intima della famiglia greca: Hermann-Blümner, Lehrbuch der griechischen Privatalterthümer, 3ª ed., Friburgo in B. 1882; II, Haupttheil: Die Sitten und Gebräuche des häuslichen Lebens in Griechenland, p. 60 segg.; Becker-Goll, Charikles, Berlino 1877-78 passim; G. Pasquali, Teofrasto, Firenze 1919, p. VII segg. - Sul culto domestico: G. F. Schömann, Griechische Alterthümer, 4ª ed. (rifatta da J. Lipsius), II, Berlino 1902, p. 454 segg. (= III, p. 457 dell'ediz. ital. trad. del Pichler, Firenze 1890); in particolare, sugli αμϕιδρόμια: P. Stengel, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., col. 1901 segg., s. v. Amphidromia. - Sulle Apaturie, oltre alla fondamentale esposizione del De Sanctis, op. cit., p. 45 segg., J. Toepffer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, col. 2672 segg., s. v. Apaturia; E. Samter, Familienfeste der Griechen und Römer, Berlino 1901.

La famiglia romana.

Per trattare della natura e dei rapporti familiari in diritto romano e della loro evoluzione storica, occorre, seguendo il sistema adottato dal Bonfante, distinguere due specie di rapporti o diritti famigliari: gli uni si riferiscono alla familia in senso prettamente romano, gli altri all'organismo della famiglia domestica o naturale, per designare la quale manca nella lingua giuridica romana un termine preciso.

La ricerca del carattere e della struttura originaria della familia romana ha costituito un gravissimo problema per gli storici e i giuristi; grave soprattutto in quanto le fonti giuridiche e letterarie appartengono ad un'epoca in cui questo carattere originario si è alterato, rivelandosi peraltro in alcuni istituti e concetti, che, profondamente radicati nella società romana, si mantengono attraverso tutta l'evoluzione storica. Fra le principali dottrine che si sono contese il campo, giova ricordare: la dottrina più antica, accolta e svolta scientificamente dal Sumner Maine e dal Mommsen nelle loro ricerche sull'origine e la formazione della società primitiva, dottrina la quale, sull'esempio della famiglia dell'antichità biblica, parla di una società patriarcale, alludendo con ciò al gruppo posto sotto l'autorità dispotica, basata sopra il vincolo di sangue, del padre o dell'avo; la teoria che ebbe per principale sostenitore il Fustel de Coulanges, la quale dà il massimo rilievo al carattere sacro della famiglia, considerandola come una comunanza di culto e di sacra; la dottrina che vede nella familia un organismo sociale formato in seguito alla scissione di gruppi maggiori (Meyer); e finalmente la dottrina svolta con nuovi argomenti in questi ultimi anni, la quale, partendo dalla precedente, rappresenta la familia romana come un organismo prevalentemente economico (Arangio-Ruiz). Ma la teoria affermatasi vigorosamente e ormai quasi generalmente accolta nel campo giuridico è quella sostenuta e dimostrata dal Bonfante, teoria che permette di spiegare con una visione unitaria l'evoluzione storica degl'istituti familiari romani e di risolvere varî problemi rimasti fino ad ora insoluti in altri campi del diritto. La teoria del Bonfante vede nella familia romana un gruppo preesistente alla civitas, sorto originariamente per ragioni di ordine e di difesa, cioè un vero e proprio organismo politico che ha le finalità e i caratteri essenziali dello stato e che, come tale, ne adempie le funzioni. Questa natura originaria appare sempre più chiara risalendo verso l'epoca antica ed è documentata da una serie di indizî, di cui esponiamo i principali. Anzitutto i poteri del paterfamilias, in tutto simili a quelli del capo di un gruppo politico, e che sarebbero incomprensibili se si volesse attribuire alla familia un fine puramente domestico. In secondo luogo gli elementi di struttura del gruppo: si entra a far parte di una familia come si entra a far parte di uno stato, o per nascita da un membro della familia o col sottoporsi alla potestà del paterfamilias, perdendo ogni relazione o vincolo col gruppo cui prima si apparteneva. Da ciò appare chiaro il carattere esclusivo, anch'esso proprio di un gruppo politico, della familia, nel senso cioè che non è possibile appartenere contemporaneamente a due familiae distinte. Particolarmente significativa è poi anche la struttura dell'eredità romana e del testamento, istituto prettamente quiritario, il quale in origine è la designazione fatta dal paterfamilias del suo successore nella sovranità. Come lo stato, la familia ha i suoi sacra privata, cioè il suo culto, le sue cerimonie, i suoi auspici; ha i suoi tribunali (iudicia domestica) per giudicare i suoi membri; le sue norme, basate sulla consuetudine; nei rapporti con gli stranieri si presenta del tutto simile a un gruppo politico; essa infatti ha il suo hospitium e, come lo stato, stringe foedera. Infine molti concetti e istituti attinenti all'organismo della familia presentano un parallelo con concetti e istituti del diritto pubblico romano, parallelo che anch'esso conferma la natura politica della familia.

Questa natura originaria si richiama alle condizioni proprie di una società primitiva, la quale manca di un centro unico di vita politica, ma è invece costituita da varî organismi sottostanti l'uno all'altro e formanti gruppi a sé distinti. Esiste bensì un'autorità politica superiore, ma questa non si esercita direttamente sugl'individui, ma sui gruppi sottoposti: ha, in altre parole, per limite l'autorità dei gruppi e dei loro capi. Nella primitiva società romana i gruppi politici sono: le familiae, le gentes, le tribù (Tities, Ramnes, Luceres), la civitas. Quest'ultima si afferma sempre più decisamente come gruppo politico rompendo la compagine dei gruppi minori, che a poco a poco scompaiono. Rimangono soltanto le familiae, le quali perdono gradatamente il carattere di gruppi politici pur conservandone la struttura, e restringono le loro basi. Ma se dal punto di vista del diritto pubblico i filiifamilias acquistano ben presto quasi tutti i diritti dei patresfamilias, per quanto invece riguarda il diritto privato si può dire che esso nella prima epoca è esclusivamente il diritto dei patresfamilias. La disgregazione della familia da questo lato si accentua sotto l'Impero, soprattutto nell'epoca romanoellenica, finché nel diritto giustinianeo non resta che qualche traccia esteriore del primitivo organismo familiare.

La famiglia domestica è invece un istituto che ha per scopo l'ordine etico nelle relazioni fra i due sessi, la procreazione e l'educazione dei figli. Oltre che da norme giuridiche, è largamente regolata da norme morali, religiose e del costume. Nella storia del diritto romano, se risaliamo dalla società giustinianea a tempi anteriori, vediamo che le norme giuridiche sulla famiglia naturale si attenuano sempre più, finché in epoca primitiva non se ne trovano tracce. Ciò si spiega, richiamandosi al fatto che la famiglia domestica vive entro la familia intesa come organismo politico ed è sottoposta alla sovranità del paterfamilias, il quale statuisce direttamente sulle società domestiche a lui sottoposte. Data la tendenza della civitas di rompere la compagine dei gruppi politici inferiori, si comprende che ogni norma giuridica, la quale regola rapporti domestici, rappresenta una nuova affermazione dello stato e una diminuzione di sovranità del paterfamilias.

I significati del termine familia costituiscono una nuova prova dei concetti suesposti. Fondamentale in questa materia il frammento di Ulpiano (Dig., L, 16, de verb. sign., 195), il quale avverte che il termine si riferiva tanto alle res (nella lingua delle XII tavole) quanto alle persone. La sua definizione: iure proprio familiam dicimus plures personas, quae sunt sub unius potestate una natura aut iure subiectae, illustra chiaramente la figura originaria della familia romana, cioè il gruppo di persone congiunte fra loro puramente e semplicemente dal fatto di essere sottoposte all'autorità di un solo, il pater. Con significato più largo e più tardo familia indica inoltre communi iure coloro che sarebbero soggetti alla stessa manus se il comune paterfamilias non fosse morto anche anteriormente alla loro nascita e non fosse avvenuta la scissione del gruppo. Nell'antica lingua giuridica latina con familia si designa inoltre tutto il complesso delle cose e dei diritti, anche extrapatrimoniali, che fanno capo al paterfamilias, ossia il patrimonio essenziale e stabile del gruppo. La familia in questo senso costituisce quindi l'oggetto dell'hereditas e i due termini spesso si scambiano (cfr. ad es. le formule familiam habeto, familia pecuniaque e i varî istituti: mancipatio familiae; familiae emptor; actio familiae erciscundae). L'Albertario ha dimostrato a questo proposito che nei testi genuini familia non indica mai il patrimonio ereditario costituito dal solo attivo, ma il complesso dei beni, crediti e debiti dell'hereditas. Tale rigoroso significato tecnico si perde, come dimostrano varî glossemi e interpolazioni, nell'epoca romano-ellenica. L'evoluzione etimologico-storica, secondo il Bonfante, sarebbe la seguente: nel suo significato primigenio, familia (dal radicale dhâman = porre, stabilire) indicava la sede del gruppo, in un secondo tempo il patrimonio del gruppo, la sfera di attività esterna, le persone che ne fanno parte, più tardi l'insieme degli schiavi, ossia i dipendenti dal gruppo per vincoli servili (familia urbana, rustica) e finalmente coloro che sono uniti da vincoli morali (familiares).

Elementi della famiglia. - A capo della familia è il paterfamilias, il quale accentra in sé la sovranità sulle persone facenti parte del gruppo e sulle cose ad esso appartenenti. In origine tale sovranità alla morte del pater passava al successore (heres) e il gruppo continuava sotto il nuovo pater. In epoca storica, invece, alla morte del pater i filiifamilias senza discendenti divengono patresfamilias, scindendosi il gruppo in altrettante familiae: quindi è paterfamilias colui che nella familia non ha ascendenti vivi in linea maschile. Il paterfamilias è persona sui iuris, il che significa che egli uon è soggetto al ius o alla potestas di altri. La sovranità si distingue a seconda delle persone su cui si esercita:1. sui filiifamilias e sulle donne entrate a far parte del gruppo (potestas, manus); 2. sugli schiavi (dominica potestas); 3. sui filiifamilias altrui venduti o ceduti per espiazione di delitti commessi (mancipium). Con quest'ultimo termine si designa anche la sovranità esercitata sulle cose. I poteri del paterfamilias sulla persona e sulla volontà del filiusfamilias sono, nell'epoca antica, assoluti. Può applicargli tutte le sanzioni penali, compresa la pena di morte, venderlo, darlo in pegno, locarne le opere; può esporre e uccidere i neonati; può stringere sponsali e dare in matrimomo la filiafamilias (forse originariamente anche il filiusfamilias), scioglierne, mediante divorzio, il matrimonio. Ha il diritto, nel caso di delitti commessi contro estranei, di abbandonare il colpevole alla persona lesa in condizione di schiavo (noxae deditio). Nomina il tutore per il filius. Queste facoltà, attraverso l'epoca repubblicana, permangono ancora sotto l'Impero: il concetto della patria potestas è profondamente radicato nello spirito della società romana e spesso da letterati e giuristi udiamo vantare l'istituto come la base delle istituzioni familiari, come una creazione propria di Roma, non comune ad altri popoli. Il filiusfamilias, anche se riveste le più alte cariche nella civitas, è sempre un suddito di fronte al pater, come dimostrano episodî della storia di Roma. Per quanto i concetti di giustizia e morale siano sempre stati un potente freno moderatore nell'esercizio della patria potestas, tuttavia non mancano esempî i quali mostrano il perdurare dell'istituto anche in tempi in cui alcune manifestazioni potevano sembrare forse crudeli ed eccessive: ma nello stesso tempo queste manifestazioni provano quanto fosse ancora vigoroso l'organismo della familia di fronte allo stato. Raramente la civitas interviene a limitare le facoltà inerenti al paterfamilias. Dubbie sono le pretese leggi di Romolo tendenti a ridurre in alcuni casi l'uccisione e la vendita del filius. Antica, invece, anche perché ad essa si collega la forma dell'emancipazione, la norma ripetuta dalle XII tavole si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto. Ancora all'epoca di Traiano e Adriano gl'imperatori intervengono solo indirettamente in alcuni casi gravissimi di esercizio della patria potestas, senza modificare l'istituto, che anzi Adriano esalta. Solo il ius vendendi è reso ormai vano per l'impossibilità di vendere trans Tiberim il filiusfamilias senza incorrere nel plagium. Sotto i Severi sono dichiarati nulli la vendita e il pegno, sotto Diocleziano è limitata l'esposizione. Il consenso del padre, essenziale per gli sponsali e il matrimonio della figlia, si trasforma in consenso passivo e in casi eccezionali non è richiesto. Il pater non può sciogliere il matrimonio della filia contro la volontà di questa. La patria potestas precipita sotto gli imperatori cristiani. Dopo Costantino, gl'imperatori Valentiniano e Valente riducono i poteri del padre all'animadversio privata e all'emendatio, obbligandolo nei casi più gravi a ricorrere al magistrato. Nel diritto giustinianeo la patria potestas è ormai un potere puramente domestico, spoglio della sovranità politica: sono abrogati definitivamente, mediante dirette disposizioni e mediante interpolazioni ai testi clasici, il ius vitae et necis, il ius noxae dandi, il diritto di uccidere e di esporre i neonati.

Nei riguardi patrimoniali l'autorità del paterfamilias è in origine piena e intera. Egli è il soggetto giuridico del patrimonio familiare e nel diritto quiritario la sola persona munita di capacità giuridica. I filiifamilias e gli schiavi non hanno capacità di possedere: possono compiere negozî giuridici, ma l'acquisto è necessariamente e direttamente devoluto al pater: per accettare una successione è necessario il suo iussus. Per le obbligazioni vige in diritto classico il concetto che il filius e lo schiavo non possono obbligare il pater, ma solo sé stessi, conformemente al principio che essi possono rendere meliorem, non deteriorem la condizione di questi. Probabilmente, come dimostra una serie di indizî, originariamente il filius non poteva obbligarsi e quindi essere convenuto in giudizio. Il diritto classico riconosce la possibilità d'intentare azioni contro il filius e di ottenerne la condanna: è dubbio invece se si potesse ottenere l'esecuzione contro di lui. Ancora in diritto classico manca al filius la legittimazione processuale attiva, tranne per speciali azioni di natura più personale che patrimoniale. In casi eccezionali, introdotti dal pretore per proteggere interessi commerciali, il pater è responsabile per intero per le obbligazioni contratte dal filius e ciò sulla base della presunzione della volontà del pater di rimanere obbligato. In questi casi il terzo può agire contro il pater mediante azioni, le quali però non eliminano l'azione contro il filius (actio quod iussus; actio institoria; actio exercitoria; actio quasi institoria). Il riconoscimento giuridico dell'istituto del peculium, cominciato sotto Augusto, e la sua progressiva estensione, portano nel diritto un riflesso di quello che avveniva nella vita sociale, allargano sempre più le facoltà e la capacità giuridica del filius, facendo sorgere nuovi casi di responsabilità del pater (actio de peculio; actio tributoria; actio de in rem verso), e minando l'ordinamento patrimoniale della famiglia (v. peculio). Con Giustiniano si fissa uno speciale regime patrimoniale basato sulla distinzione di diversi patrimonî, chiamati pur sempre peculî, regime che dell'antico non serba se non la terminologia degl'istituti. Il nuovo sistema si fonda sul concetto della tutela domestica e dell'unità economica della famiglia: al pater è solo concesso l'usufrutto sui beni avventizî, al filius è riconosciuta la proprietà di quanto viene a conseguire per liberalità o col proprio lavoro, né acquista più direttamente e necessariamente al pater se non ex re patris o ex iussu patris. In sostanza, tranne alcune sopravvivenze storiche (quali l'incompatibilità di negozî fra padre e figlio), il diritto giustinianeo non differisce molto in questa materia da quello del nostro codice civile. Per difendere i suoi diritti il pater ha varî mezzi. Anticamente per il riconoscimento della patria potestas v'era una rei vindicatio con formula modificata. Nel diritto classico servono a questo scopo i praeiudicia praetoria e gl'interdetti de liberis exibendis e de liberis ducendis. Per la sottrazione del filius vi è l'actio furti, per il danneggiamento l'actio servi corrupti utile.

I modi d'ingresso nella familia sono varî. Oltre alla nascita da nozze legittime da individuo maschio della familia, abbiamo l'aggregazione nel gruppo politico di un nuovo membro, il quale viene a trovarsi nella posizione di filiusfamilias. Tale aggregazione prende il nome di adoptio o arrogatio a seconda che venga compiuta su un filiusfamilias appartenente ad altro gruppo o su una persona sui iuris (v. adozione; arrogazione).

L'ingresso delle donne nella familia romana (conventio in manum) e la loro posizione giuridica nell'interno del gruppo sono istituti i quali, in apparente contrasto con la condizione e il concetto sociale, mostrano ancora più chiaramente il carattere politico dell'organismo familiare. Nessun popolo dell'antichità ha creato alla donna una posizione sociale quale essa ha in Roma, e anzi la differenza che presenta in questo campo la società romana di fronte alle altre si riflette in varî scrittori e si rivela perfino nella differente struttura della casa romana in confronto di quella greca. Non vi è traccia del concetto orientale che considera la donna quasi un essere inferiore, equiparandola alla schiava: la romana è, al pari dell'uomo, un essere libero; nel matrimonio essa si presenta come la socia del marito, e partecipa alla vita sociale di lui. La venerazione verso la madre di famiglia che appare in molte manifestazioni sociali e religiose caratterizza meglio d'ogni altro elemento lo spirito dell'ambiente familiare romano. La figura della donna è sempre viva nella storia e nella leggenda della città e spesso essa compare quale protagonista in avvenimenti della maggiore importanza: non di rado ha una notevole influenza negli affari politici e in alcuni municipî giunge persino ad assumere una magistratura. Dal punto di vista giuridico, invece, essa non prende parte affatto alla sovranità del gruppo famigliare: nell'interno della familia è una filia sottoposta alla manus del pater Il contrasto fra il concetto sociale e quello giuridico si spiega tenendo presente il carattere della familia romana: se nella famiglia domestica la donna è regina, nella familia intesa come organismo politico essa è suddita, ma è suddita in quanto essa è membro del gruppo, non già nella sua qualità di moglie. La donna, la quale si unisce in matrimonio con un membro di una familia, entra mediante la conventio in manum nel gruppo del marito, sotto la patria polestas del paterfamilias di questo. Varie sono le forme della conventio in manum: 1. la confarreatio, che si compie con complicato cerimoniale religioso che sembra ricollegarsi a riti arî; solo i figli nati da nozze confarreate possono rivestire i supremi sacerdozî; 2. la coemptio, fatta nella forma della mancipazione; discusso, ma affatto improbabile, che si colleghi a una primitiva vendita della donna; 3. l'usus, per cui, quando la donna per un anno era rimasta presso il marito senza compiere la conventio in manum nelle precedenti forme, era assoggettata alla manus del pater familias, in virtù dello stesso principio che vigeva per l'usucapione delle res; solo mediante la trinoctii usurpatio, cioè allontanandosi ogni anno per tre notti di seguito dalla casa maritale, poteva evitare la conventio. Queste forme spariscono ben presto in Roma. La confarreatio doveva essere assai poco usata all'epoca imperiale se sotto Tiberio si trovano solo tre patrizî nati da nozze confarreate. La coemptio, per quanto ricordata da Cicerone, è ben poco praticata alla fine della repubblica: sono invece largamente adoperate le coemptiones fiduciae causa. L'usus, in vigore all'epoca di Cicerone, è abrogato prima di Gaio.

Paralleli ai modi di aggregazione alla familia sono i modi di esclusione. Oltre alla vendita del filius e alla noxae deditio (dubbia l'abdicatio, probabilmente istituto non romano) vi sono la diffarreatio per sciogliere la conventio costituita in seguito a confarreatio, la remancipatio per la coemptio e per l'usus, e finalmeute l'emancipazione, istituto sorto sulla base dell'antichissima norma, la quale dichiarava libero dalla patria potestas il filius venduto per tre volte dal pater. Per compiere l'emancipazione si vendeva per tre volte il filius a persona di fiducia, la quale lo manometteva: la terza volta era remancipato al pater che eseguiva egli stesso la manomissione, in modo che il filius era libero senza che il terzo avesse diritti di patronato. Anastasio stabilì la nuova forma per rescriptum principis, accanto alla quale ne creò un'altra da compiersi davanti al magistrato. Il filius emancipato diviene completamente straniero al gruppo, assumendo la posizione di pater familias o persona sui iuris. L'emancipazione è strettamente limitata alla persona dell'emancipato: i suoi figli non lo seguono, ma rimangono sottoposti alla potestà dell'emancipatore. L'emancipato subisce ancora in epoca classica una capitis deminutio (minima), il che costituisce una nuova prova del carattere politico della familia. Tutto il sistema, che si collega ad antichi concetti, è sottoposto a una serie di eccezioni nel diritto classico e cade nel diritto della compilazione, ricevendo il colpo definitivo dalla Novella 118. Abbiamo inoltre le cosiddette liberazioni legali dalla patria potestas, le quali non portano la conseguenza della capitis deminutio: nel diritto classico sono limitate a pochi casi, che crescono di numero nel diritto romano-ellenico.

Oltre ai filiifamilias, persone libere e ingenue, nell'interno della familia, sottoposti alla potestas del pater, si trovano gli schiavi, istituzione anch'essa strettamente connessa all'ordinamento della familia romana. Sono persone senza commercium e connubium, mancanti assolutamente di personalità giuridica, escluse nell'interno del gruppo da ogni partecipazione al governo, prive della protezione dei tribunali e dei mores domestici. Le unioni degli schiavi non formano entro la familia società domestiche, in quanto per essi non esiste il matrimonio, ma solo il contubernium. Il servo in Roma è considerato sotto un duplice aspetto: da un lato è una res, catalogata fra le res mancipi, oggetto di dominio su cui possono compiersi i più svariati negozî giuridici; è però una res costituita da un uomo, che è un essere intelligente e quindi come tale può, allo stesso modo del filiusfamilias, essere strumento di acquisto al padrone nei contratti e nelle successioni. Dall'altro lato, come homo è considerato persona e posto fra le personae alieni iuris. Questa duplicità di rapporti si spiega anch'essa tenendo presente il carattere della familia e l'evoluzione storico-giuridica. In origine il potere sullo schiavo è un'emanazione della sovranità del paterfamilias sulle persone facenti parte del gruppo politico; più tardi questo potere è raffigurato come un'emanazione della proprietà e ciò porta a che anche le donne e i filiifamilias, una volta riconosciuta la loro capacità patrimoniale, possano essere titolari di tale potestà. In diritto classico il termine di potestas in questo campo è un ricordo dell'antico stato di cose ed è per il parallelismo con la potestas sui filiifamilias che in epoca avanzata si pone la potestà sugli schiavi fra i poteri familiari. La condizione sociale degli schiavi nelle prime epoche di Roma, quando il loro numero è esiguo, appare elevata di fronte a quella delle altre popolazioni dell'antichità. Ciò si riflette anche nel diritto, dove non mancano principî ispirati al concetto sociale. La condizione si rende assai più grave, quando in seguito alle guerre il numero degli schiavi cresce in proporzione allarmante. È allora necessario governare col terrore queste torme di schiavi ed emanare disposizioni penali apposite (ad es. il senatoconsulto Silaniano). Non mancano tuttavia in Roma correnti di pensiero tendenti a innalzare il servus a dignità di uomo e a condannare l'istituto. I sofisti e gli stoici sostennero per i primi questi principî, riuscendo a farli penetrare nella società, ma non ottenendo che scarse applicazioni nel campo giuridico. Il movimento cristiano conseguì più tardi sotto Costantino e i suoi successori maggiori conquiste. Una delle facoltà più importanti inerenti alla dominica potestas e che pone ancora più chiaramente in rilievo il carattere della familia è quella di manomettere lo schiavo. Con ciò il padrone non soltanto rinunzia al proprio dominio sullo schiavo, ma gli viene ad attribuire la qualità di uomo libero e di cittadino romano. Tale diritto appare tanto più grave se consideriamo che nel diritto pubblico di Roma la concessione della cittadinanza a uno straniero non può essere compiuta dal magistrato senza l'intervento dei comizî. Anche l'istituto della manomissione trova la sua spiegazione nell'organismo politico della familia e nella sovranità del pater. Si comprende così anche perché lo stato romano non abbia mai voluto abrogare il diritto alla manomissione, il quale porta spesso a conseguenze politiche gravissime. Non solo infatti le manomissioni servono spesso e largamente a scopi demagogici, ma costituiscono uno dei mezzi più facili per ottenere l'ambita cittadinanza romana. Non è raro all'epoca repubblicana il caso di stran; eri che si vendano a un cittadino romano per farsi successivamente manomettere. Solo all'epoca di Augusto la lex Aelia Sentia e la Fufia Caninia introdussero limitazioni, in gran parte abrogate sotto Giustiniano, la cui legislazione è tutta ispirata al favor libertatis. Augusto e i suoi successori introdussero varie liberazioni legali o manomissioni forzose, le quali crebbero di numero nel diritto giustinianeo. Lo schiavo liberato prende il nome di liberto e, quantunque cittadino romano, rimane tuttavia in una condizione inferiore nei riguardi del diritto pubblico, condizione che, più grave nell'epoca antica, va attenuandosi gradatamente. Nei riguardi del manomissore egli si trova sottoposto al ius patronatus, in stato di soggezione. Tale istituto, anch'esso collegato all'organismo della familia, si trasforma in conseguenza della disgregazione del gruppo. Il diritto del manomissore sul liberto, che un tempo costituiva una vera e propria potestas (giungeva sino al ius vitae et necis), è ridotto nell'epoca classica a una serie di diritti e doveri reciproci, la maggior parte dei quali di contenuto patrimoniale (v. anche: Schiavitù; Liberto; Successione). Sottoposto alla potestas del pater trovasi ancora il mancipium. Il caso certo di mancipium è quello del filiusfamilias venduto o ceduto da un gruppo a un altro. In origine la condizione del mancipium doveva essere equiparata in tutto a quella di uno schiavo: in epoca storica, invece, il mancipium mantiene il suo stato di ingenuità e serba i propri diritti politici. Dal punto di vista del diritto privato è completamente soggetto al paterfamilias (servi loco, in condicione servili), e si può veramente dire che è in condizione di schiavo. In progresso di tempo tale condizione si attenua sempre più e nell'epoca romano-ellenica l'istituto scompare.

Connessi con l'organismo politico della familia sono nelle loro origini gl'istituti della tutela e della cura. Se infatti all'epoca classica i poteri del tutore appaiono di natura essenzialmente protettiva da esercitarsi nell'interesse dei pupilli relativamente agli atti patrimoniali, risalendo indietro nel tempo s'incontrano numerosi elementi che denotano una struttura e una funzione originaria diversa e mostrano la tutela in stretta relazione con l'eredità romana. Secondo il Bonfante e il Solazzi colui che fu poi chiamato tutore era dapprima il successore nella sovranità familiare designato dal paterfamilias col testamento: il disgregarsi progressivo della gens avrebbe portato al sorgere dell'istituto della tutela insieme con quello dell'eredità patrimoniale. La cura (sotto questo nome si designa un complesso di varî istituti) ha origini più recenti e ne troviamo le prime tracce nelle XII tavole come un sostituto della tutela per i puberi furiosi (v. cura; tutela).

La famiglia domestica. - Lo studio dell'ordinamento familiare fa intendere, meglio d'ogni altro istituto, lo spirito e la base della società romana, i principî che la informano e la sua superiorità per molti aspetti di fronte alle altre società antiche. Diversamente dal mondo orientale, Roma ebbe sempre il matrimonio rigorosamente monogamico, lo volle basato sulla libertà di consenso di entrambi i contraenti, considerò la donna come la compagna dell'uomo e partecipe della sua vita e del suo rango sociale. Dal punto di vista giuridico (non già da quello sociale) il matrimonio romano si differenzia profondamente da quello modemo, giacché mentre questo è basato sul consenso iniziale manifestato in determinata forma, consenso che, una volta espresso, fa sorgere il vincolo matrimoniale duraturo, indipendentemente dal perdurare o meno della volontà dei contraenti, quello è invece basato sulla volontà continua, effettiva, di essere marito e moglie, di stabilire una società intima sotto tutti i rapporti, e sulla convivenza, intesa non in senso naturale, ma come esistenza di quelle relazioni che i Romani designano col nome di honor matrimonii. L'elevatezza morale dell'unione coniugale romana è ben caratterizzata dalla celebre definizione (forse ritoccata in epoca cristiana): Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio. Nel matrimonio classico non vi è nulla che possa anche lontanamente ricordare il matrimonio per compera, tanto in uso presso i popoli antichi. In nessuna dazione fatta in occasione degli sponsali o delle nozze si può vedere un primitivo prezzo della sposa; sconosciuti sono gli istituti orientali che penetreranno solo più tardi, nell'epoca romano ellenica, con le arrhae sponsaliciae e la donatio propter nuptias. L'istituto prettamente quiritario, strettamente collegato al matrimonio e che rappresenta anch'esso una particolarità romana nell'antichità, è la dote, l'apporto della donna per contribuire agli oneri del matrimonio, istituto profondamente radicato nello spirito sociale, ed uno di quelli più accuratamente svolto dai giuristi romani. Nel suo regime emergono varî principî, i quali pongono ancora meglio in rilievo la posizione della donna nella società coniugale (v. dote). Anche il regime classico degli sponsali e quello del divorzio sono basati su concetti di completa libertà dei contraenti. Lo scioglimento del fidanzamento è sino all'epoca romano-ellenica incolpevole, ed è anzi vietata qualunque stipulazione che possa obbligare alle nozze. Attraverso tutto il periodo classico, il divorzio, istituto che dipende dal concetto del matrimonio, è libero e non soggetto a nessuna pena. Solo con Costantino comincia la fiera reazione legislativa cristiana contro il divorzio e le seconde nozze, che raggiunge il più alto grado sotto Giustiniano (v. divorzio). Il concetto sociale del matrimonio si riflette assai bene nella legislazione di Augusto, il quale con le leggi Iulia de maritandis ordinibus e Papia Poppaea mira allo sviluppo demografico di Roma, favorendo per quanto è possibile il matrimonio, concedendo speciali privilegi ai coniugi con prole, emanando norme contro i celibi; e con la lex Iulia de adulteriis fornisce un energico mezzo di difesa del matrimonio. All'epoca di Augusto e per effetto delle sue riforme sorge l'istituto del concubinato, il quale calca molti principî del matrimonio romano e, come esso, è strettamente monogamico (v. concubinato).

I rapporti giuridici indipendenti dalla patria potestà fra genitori e figli sono basati sul vincolo di sangue. L'obsequium e la pietas, doveri morali del figlio, si traducono in diritto in una serie di norme: i figli non possono agire in giudizio contro i genitori senza autorizzazione del magistrato, né possono intentare azioni infamanti. I genitori hanno di fronte ai figli il beneficium competentiae. Tanto gli uni quanto gli altri sono esenti dall'obbligo della testimonianza. I genitori sono obbligati a educare la prole e hanno il diritto di tenerla presso di sé: questo diritto sotto gli Antonini è riconosciuto anche alla madre contro il padre indegno. Sotto l'Impero sorge il diritto reciproco agli alimenti, istituto inerente alla famiglia domestica, indipendente dalla patria potestas e basato sulla pietas, che, configurato in un primo tempo come eccezionale, finisce per divenire più tardi stabile.

Abbiamo varie categorie di figli: iusti (o, con più tarda terminologia, legitimi), cioè nati in iustae nuptiae; spurii o vulgo concepti e più tardi i naturales liberi, nati da una concubina. La distinzione fra queste categorie, a cui si aggiungono in seguito quelle dei figli nati in seconde nozze e dei figli dei divorziati, ha grande importanza nei riguardi patrimoniali, specie nell'epoca romano-ellenica, dove abbiamo una serie di disposizioni dirette a tutelare il patrimonio familiare e in molti casi a devolverlo ai figli. A favore dei liberi naturales interviene nell'epoca post-classica l'istituto della legittimazione, sorto specialmente dalla reazione cristiana contro il concubinato e che dimostra chiaramente la trasformazione subita dalla famiglia romana (v. legittimazione).

Bibl.: E. Albertario, Ancora sugli elementi postgaiani nelle Istit. di Gaio, in Rend. Ist. Lomb., LXI (1928), p. 10; V. Arangio-Ruiz, Le genti e la città, Messina 1914; P. Bonfante, Teorie vecchie e nuove sulle formazioni sociali primitive, 1915, in Scritti giuridici vari, I, p. 18 segg.; La gens e la familia, 1888, ibid., p. 1; id., Teorie vecchie e nuove sull'origine dell'eredità, 1915, ibid., p. 469; id., La progressiva diversificazione del diritto pubblico e privato, 1902, IV, ibid., p. 28; id. Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana, ibid., II, p. 206 segg. (Res mancipi e res nec mancipi, Roma 1888-89); id., Corso di diritto romano, I, Diritto di Famiglia, Roma 1925 (ivi bibl.); G. Brichetti, La natura originaria della famiglia romana nella tradizione giuridica italiana, in Riv. Ital. di Sociologia, XXIV (1921); F. Berbhoft, Zur Geschichte der Ehe bei den Römern, Warkentien 1916; Buckland, The Roman Law of Slavery, Cambridge; Corbett, The Roman Law of Marriage, Oxford 1929; G. Ceneri, Lezioni su temi di ius familiare, Bologna 1881; E. Costa, L'hereditas e la familia da Adriano ai Severi, Bologna 1893; E. De Ruggiero, La Gens in Roma avanti la formazione del comune, Napoli 1872; G. De Sanctis, Per la scienza dell'antichità, 1909, pp. 414-417; S. Di Marzo, Lezioni sul matrimonio romano, Palermo 1919; Hruza, Beiträge zur Geschichte des griechischen und römischen Familienrechts, Lipsia 1892-93; C. Fadda, Diritto delle persone e della famiglia, Napoli 1910; Ch. Lefebvre, Le mariage et le divorce à travers l'histoire romaine, in Nouvelle Revue historique, XLII, p. 102 segg.; E. Meyer, Geschichte des Altertums, I, 1, 1913; id., Forschungen zur alten Geschichte, II, 1899, p. 514 segg.; id. Über die Anfänge des Staats und sein Verhältniss zu den Geschlechtsvergänden, in Sitzungsber. d. k. Preuss. Ak. d. Wiss., 1907, p. 508 segg.; H. Maine, Ancient Law, Londra 1891; S. Perozzi, Parentela e gruppo parentale, in Bull. Ist. dir. rom., 1921; Rivier, Droit de famille romain, Parigi 1894; F. Schupfer, La famiglia secondo il diritto romano, Verona 1898.

La famiglia nel Medioevo e nell'Età moderna.

Diritto germanico. - Se nell'antica Germania esistessero due gruppi in certo modo corrispondenti alla gens e alla familia romana è vivamente discusso.

Molti lo ritengono; e chiamano Sippe il gruppo più vasto, familia il più piccolo; ma anche questi scrittori, così principalmente il Heusler e il Brunner, non sono poi d'accordo nel determinare le relazioni tra l'uno e l'altro. Altri scrittori, così il Pertile e il Solmi, ammettono che la famiglia si chiamasse anche fara o gens o Sippe e che pertanto le varie denominazioni stiano ad indicare non varî gruppi, ma uno solo. Il Ficker ha rilevato, finalmente, che il termine Sippe indica soltanto parentela e non gruppo parentale: per modo che il Perozzi ebbe a conchiudere che l'unico gruppo parentale del diritto germanico è la famiglia.

La famiglia germanica, come l'antica familia romana, più che una società domestica dipendente dalla comune origine e dal medesimo sangue, era un'istituzione politica che non abbracciava tutte le persone che traevano origine da un medesimo ceppo, ma si restringeva a coloro che ne discendevano per via di maschi. Essa precede lo stato e si mantiene, nei primi tempi, potente entro lo stato. Nelle origini fissava la propria residenza dove occupava terreni incolti da porre a coltura; successivamente, dove le venivano assegnati lotti di terra da coltivare in comune con altre famiglie con facoltà di godere promiscuamente dei pascoli e di dividere proporzionalmente i frutti. Più famiglie organizzate insieme costituirono poi le cellule del comune agrario. La famiglia era anche l'unità tattica fondamentale dell'esercito. Al disopra della famiglia vi era la centena, comprendente i combattenti di cento famiglie e costituente pure una divisione amministrativa; e al disopra ancora, la tribù comandata dal millenarius e costituita da mille famiglie. Così l'organizzazione dell'esercito riposava in tutta la sua divisione sopra l'organizzazione familiare. La famiglia era un consorzio diretto a mantenere l'ordine nell'interno e a far rispettare al difuori i diritti di tutti quelli che vi appartenevano. Assicurava la pace fra i suoi membri; puniva l'uccisione di qualcuno di essi o l'offesa patita per parte di un estraneo per mezzo della vendetta (faida) o del guidrigildo. Il delitto di un membro della famiglia commesso contro un membro di un'altra famiglia faceva intervenire, da un lato e dall'altro, l'universa domus. Il mundium sulle donne e sui minori era esercitato dal padre; ma attorno a lui stavano tutti i maschi che avevano compiuto l'età maggiore. Il matrimonio di un familiare era cosa che interessava tutta la famiglia, e in origine forse, quando il matrimonio si celebrava con la vendita della sposa che la sottraeva al mundium del padre e la poneva sotto il mundium del marito, il matrimonio era considerato un negozio che si trattava tra le due famiglie a cui i futuri sposi appartenevano. La famiglia, finalmente, vegliava affinché nessun membro ne violasse l'onore. Se una donna libera si univa con uno schiavo, potestatem habeant parentes in eam dare vindictam (Rot., 189, 221).

Anche i modi coi quali si cessava di appartenere a una famiglia germanica o coi quali si entrava a farne parte rivelano in essa la struttura di un organismo politico. Cessavano gli obblighi e i diritti inerenti a un determinato status familiae, quando volontariamente con procedura solenne se ne usciva o quando se ne era scacciati. Per essere accolto entro la famiglia nella quale taluno non era nato ed essere affratellato con altra persona che non fosse suo parente, occorreva versare e confondere insieme qualche stilla di sangue e giurare solennemente che l'uno avrebbe vendicato come un fratello l'uccisione dell'altro. Da questo affratellamento è sorta la fratellanza d'armi del Medioevo. L'adoptio in hereditatem, che si compiva davanti all'assemblea con la consegna delle armi, atto solenne che richiama l'adrogatio del paterfamilias romano davanti i comitia curiata, attribuiva all'adottato tutti i diritti della famiglia.

Il padre era anche il sacerdote domestico (Tacito, Germ., X); col consiglio dei maschi che avevano raggiunto l'età maggiore, imponeva le pene, alle quali, in un primo tempo, non era assegnato alcun limite, giacché potevano giungere fino alla morte. Il padre aveva anche il diritto di esporre il figlio prima del suo riconoscimento, di venderlo, di votarlo fanciullo alla vita monacale o al sacerdozio, di costringere le figlie al matrimonio; ma lo stato intervenne poi a regolare questo potere del padre legittimando la vendita del figlio soltanto in caso di ristrettezze economiche e limitando al padre o al fratello il diritto di costringere la donna al matrimonio. Essendo la famiglia una società militare, dove in ogni maschio si vedeva la speranza di un soldato, il figlio anche minorenne conservava una certa individualità. L'autorità paterna nel diritto barbarico aveva una durata diversa da quella del diritto romano. Questa persiste finché vive il padre, quella cessava con la maggiore età del figlio, col momento cioè in cui questi prendeva posto nell'esercito.

Mentre il mundio sui figli minori di età richiama molto davvicino la potestas del paterfamilias romano - anche il padre della famiglia germanica ha il ius vendendi e il ius vitae et necis - il mundio sulla donna non corrisponde esattamente alla manus del paterfamilias romano. Il mundio sulla donna non distruggeva ogni legame con la famiglia nativa, così che questa restava sempre la naturale protettrice della moglie e dei suoi beni, sia nei confronti del marito, sia nei confronti di terzi, ogni qualvolta il marito non si curasse di prendere le sue difese o non potesse.

Se il marito l'avesse ingiustamente incriminata, erano i suoi consanguinei quelli che avevano l'obbligo di difenderla, ed essi riscuotevano le pene di ogni offesa che il marito le avesse arrecata. Se, dopo che era rimasta vedova, l'agnato prossimo al marito, cui per legge spettava il mundio sopra di lei, ne avesse abusato, essa poteva ritornare nella famiglia nativa. Inoltre i parenti della donna conservavano certi eventuali diritti sopra i suoi beni e perciò, nelle vendite ch'ella ne facesse, intervenivano insieme col marito alcuni di loro o, in vece loro, il magistrato.

I rapporti patrimoniali tra coniugi, quali si erano configurati nell'ultimo periodo del diritto romano, subirono gravi mutamenti in quanto la dote veniva portata dal marito alla moglie. I diritti della moglie sui beni del marito erano costituiti dal mefio e dal morgengabio. Il mefio ebbe origine dal prezzo per la concessione della donna e del mundio, ma diventò più tardi un assegno dello sposo alla donna a titolo di donazione, corrispondente quasi alla donatio ante nuptias del diritto romano-ellenico. Il mefio passò, così, in proprietà della donna che, vedova, poteva richiederlo sull'eredità del marito.

Il morgengabio (morgengabe "dono del mattino") era invece una donazione fatta in presenza dei parenti e degli amici il mattino successivo alla notte nuziale e rappresentava il pretium virginitatis. Liutprando stabilì che non potesse superare il quarto della sostanza del marito. Accanto a questi assegni maritali esisteva nel diritto longobardo un assegno fatto alla donna sui beni paterni, detto faderfio, che finì per costituire la quota ereditaria della donna sui beni paterni oltre la quale nulla le era dovuto (v. anche donna; matrimonio).

Il padre non disponeva dei beni aviti, ma li deteneva a vantaggio della famiglia e i membri di questa avevano sopra i beni stessi un diritto di aspettativa che ad essi proveniva dal fatto della procreazione, non dalla volontà espressa o presunta di un testatore. Il diritto germanico non conosceva il testamento e affermava la intangibilità del diritto dei figli e degli agnati sul patrimouio familiare. È notevole la grande diffusione dell'uso per cui alla morte del padre i figli continuavano a vivere indivisi nella comunione (ad unum panem et vinum): uso che prevalse là dove era una economia agraria. Questo predominio della famiglia diminuì in seguito, e si venne ammettendo un parziale diritto di disposizione a favore dei membri compresi nel cerchio familiare.

Abbiamo fin qui parlato della famiglia legittima. Tuttavia nel diritto longobardo, forse per influsso romano, partecipavano dei diritti familiari e del diritto di successione i figli naturali nati da unione con donna di stato sociale inferiore o da unione irregolare, purché non nati da rapporti legalmente puniti (ex damnato coitu). Ma la condizione dei figli naturali fu sempre considerata inferiore a quella dei figli legittimi e non favorita dalla Chiesa. Nemmeno la legittimazione valeva a cancellare queste differenze: la dichiarazione solenne fatta dal padre, con la quale si pareggiava la condizione dei figli naturali a quella dei figli legittimi riguardo agli effetti successorî, era valida se interveniva l'assenso dei figli legittimi che avessero compiuto i dodici anni. Nonostante il valore patrimoniale attribuito alla legittimazione, questa non cancellava pienamente la macchia che pesava sulla nascita; e ciò è reso evidente più tardi dal diritto feudale, che esclude i figli naturali, anche se riconosciuti e legittimati in qualsiasi forma, dalla successione nei feudi. Ai figli naturali in concorso coi figli legittimi era riservata una parte di patrimonio pari alla metà della quota che toccava ai figli legittimi; in concorso con una sola figlia avevano un terzo dell'intero patrimonio, devolvendosi gli altri due terzi uno alla donna e l'altro ai parenti e al fisco; in concorso con più figlie, mentre a queste si lasciava metà del patrimonio, il resto era diviso per due terzi ai figli naturali e per un terzo al fisco.

Bibl.: A. Heusler, Inst. d. deutschen Privatrecht, Lipsia 1885-86; A. Pertile, Storia del diritto italiano, Torino 1894, III, p. 274-595; J. Ficker, Untersuchungen zur Ergenfolge der ostgermanische Rechte, Innsbruck 1899; C. Nani, Storia del diritto privato italiano, a cura di F. Ruffini, Torino 1909, p. 139 segg.; P. Del Giudice, Nuovi studi di storia e diritto, Milano 1913, p. 27 segg.; F. Schumpfer, Il diritto privato dei popoli germanici, Roma 1914, II, p. 1 segg.; B. Brunner, Deutsche Rechtsgesch., Lipsia 1926-1928; A. Solmi, St. del dir. ital., Milano 1930, p. 317 segg.; S. Perozzi, Parentela e gruppo parentale, in Bull Ist. di dir. rom., XXXI (1921), 88 segg.; B. Pitzorno, L'adozione privata, Perugia 1915.

Diritto canonico. - Sull'istituto familiare ebbe un'influenza profonda il cristianesimo. In un primo stadio l'esaltazione dei concetti di castità e di perfezione morale fu spinta da alcuni sino alla sconfessione del concetto della famiglia. Ma sin dal principio l'autorità ecclesiastica riprovò questa corrente encratistica (I Tim., IV, I-5), mentre, divenendo più esplicita la coscienza dell'elevazione del matrimonio a dignità di sacramento, il concetto di famiglia raggiunse il maggiore fastigio. Le decisioni del Concilio tridentino segnarono il massimo grado di tale elevazione, avvalorando nel matrimonio il suo carattere di istituto etico e religioso, e riavocando agli organi ecclesiastici la potestà di disciplinarlo, di celebrarlo e di decidere sulle contestazioni a esso inerenti.

I cardini su cui poggiò la famiglia nel periodo di maggior fulgore dell'idea cristiana furono la monogamia e l'indissolubilità del vincolo coniugale: e ben si può dire che quest'epoca storica col prevalere di tali principî segnò la data di maggiore rafforzamento e coesione della compagine familiare. Condannata ogni forma di unione illegittima, dalle più innaturali e licenziose alle più tollerabili e comuni, e riconosciuto come unico atto costitutivo del rapporto familiare il matrimonio celebrato col rito dei sacri canoni, il principio monogamico, eminentemente moralizzatore della vita privata, ne uscì rafforzato su granitica base. Ma non minore efficienza a tale intento ebbe la solenne affermazione del principio dell'indissolubilità, che, attuato attraverso opposizioni e contrarietà non lievi, alimentate da incertezze e deviazioni della stessa pratica cristiana, e attenuato solo da una maggiore estensione dei casi di annullamento e dal rimedio della separazione di letto e di mensa, costituì il passo energicamente decisivo verso la determinazione del carattere sociale dell'istituto familiare, incompatibile con la disgregazione della sua compagine. Alla consacrazione di questi principî si poté giungere soltanto trasformando e idealizzando l'interno meccanismo dei rapporti fra i membri della famiglia e poggiando tali rapporti da un lato sul sentimento dell'affetto e della mutua comprensione fra i coniugi, dall'altro sul concetto del dovere e della missione ad essi attribuita dalle leggi divine ed umane. Ed alla radicale innovazione apportata ai criterî ispiratori di tali rapporti si devono la proclamata emancipazione della moglie dalla soggezione al marito che aveva contrassegnato l'epoca romana e germanica, il diverso orientamento spirituale che venne permeando di sé l'esercizio della patria potestà e la disarmò dei suoi più rigidi attributi, e la professata equiparazione dei due sessi nei doveri e nei diritti della prole in confronto dei loro genitori. La dottrina dei Padri della Chiesa, che già aveva fatto sentire la sua influenza moderatrice sulla famiglia romana nella età del Basso Impero, sia stabilendo pene per i divorzî, sia combattendo il concubinato, sia dilatando il regime alimentare fra congiunti, sia modificando il contenuto della patria potestas (ispirate alla dottrina dei Padri della Chiesa sono le parole che si leggono in Dig. XLVIII, 9, de l. pompeia, 5: nam patria potestas in pietate debet non atrocitate consistere), trionfò più largamente nell'età di mezzo che vide scomparire il concubinato romano in Oriente ai tempi di Leone il filosofo (sec. IX), in Occidente nel sec. XII, e portò un nuovo spirito nella famiglia, non più intesa come istituzione politica quale l'intendevano il diritto romano antico e l'antico diritto germanico, ma società domestica avente per scopo l'ordine etico nelle relazioni fra i due sessi, la procreazione e l'educazione dei figliuoli. Il diritto canonico continuò l'opera della legislazione cristiana del Basso Impero, che riviveva nell'età di mezzo nel diritto del Corpus iuris civilis: soltanto non riuscì a togliere quelle differenze tra maschi e femmine, quella disparità di trattamento tra i figli nella successione, che erano portate dal diritto feudale e furono spazzate via soltanto dalla rivoluzione francese.

Diritto moderno. - L'avvento della concezione laica della famiglia si affermò col prevalere del movimento filosofico razionalista che culminò nella rivoluzione francese: concezione che di laicismo ebbe soltanto l'abbandono dell'idea sacramentale e religiosa del matrimonio e delle prerogative ecclesiastiche connesse, ma tenne fermo il contenuto sociale dell'istituto familiare con le sue linee fondamentali quali erano state elaborate dal cristianesimo, e ne accentuò anzi il concetto animatore con l'avocarne allo stato l'integrale disciplina.

Una disciplina organicamente perfetta della famiglia come istituzione civile trovò posto nel codice napoleonico che acquisì e fece tesoro di tutte le rivendicazioni del pensiero contemporaneo ispirate a sano e giusto equilibrio e ne eliminò le faziose e passionali esasperazioni. E quel codice appunto dettò al mondo le basi di un'organizzazione tipica familiare, come nucleo primigenio dell'organizzazione dello stato. Tale regolamentazione ha subito successivi parziali adattamenti allo spirito dei tempi nuovi, ma la struttura nelle sue grandi linee è rimasta presso che intatta.

Il predetto codice, mentre ribadì i caratteri del matrimonio quale atto contrattuale con finalità sociale, retto dalle sole leggi dello stato, ebbe cura di fissare con precisione le condizioni indispensabili per poterlo celebrare, e cioè i requisiti dell'età, dello stato libero, del consenso, dell'assenza d'impedimenti; nonché di rivestire tale celebrazione di particolari forme solenni, quali la pubblicità e l'intervento dell'ufficiale di stato civile del luogo di domicilio degli sposi. Fu ammesso il divorzio contro il principio dell'indissolubilità, ma soltanto per causa di adulterio, eccessi, sevizie o ingiurie gravi e per mutuo consenso con esclusione di quell'incompatibilità di carattere a istanza di uno solo dei coniugi che si era prestata a tanti deprecati inconvenienti: e anche la causa del mutuo consenso fu circondata da non poche cautele dirette ad ovviare alle possibili frodi. Così fu notevolmente modificata la legge del 20 settemhre 1792. Furono segnati limiti ben definiti alla potestà maritale, se anche non si ritenne di abolirla del tutto perciò che la donna non aveva ancora raggiunto tale grado di elevazione da consentire un così violento strappo alla tradizione. Tuttavia, onde mantenere integra la compagine familiare, astrazion fatta dai doveri della coabitazione e della fedeltà reciproca, se alla moglie fu imposto l'obbligo di sottostare ai voleri del marito e di far capo all'autorizzazione di lui per compiere gli atti di disposizione di maggior pregiudizio per le di lei sostanze, al marito fu ingiunto altresì di assisterla e proteggerla. Circa l'esercizio della patria potestà, sempre allo scopo di conservare intatta l'unità della famiglia durante il matrimonio, tale diritto fu conferito unicamente al padre: e soltanto dopo lo scioglimento di esso fu accordato lo stesso diritto anche alla madre. L'autorità paterna ebbe un limite nel tempo, e cioè non andò oltre la maggiore età del figlio e il di lui passaggio a nozze, anche se minorenne: anzi fu attribuita al padre anche la facoltà di farla cessare con l'emancipazione. Ma quello che perdette in estensione tale autorità mantenne in intensità, perché fu concesso al padre di reprimere, anche provocando un ordine di arresto, i traviamenti del figlio incorreggibile.

Relativamente all'assetto patrimoniale, la legislazione napoleonica, pur non sopprimendo il sistema dotale, cercò di favorire invece quello della comunione dei beni che trovò più rispondente all'indole dell'istituto familiare fondato sulla vicendevole collaborazione a un fine comune. Parve infatti, e non a torto, che il sistema dotale, oltre a condurre alla immobilizzazione dei beni che è da reputarsi contraria a ogni sana economia, fosse destinato a inaugurare un regime di diffidenza e di sospetto risolventesi a danno dell'armonia familiare e in pregiudizio della moglie, rendendo esclusivamente il marito padrone degli utili della dote.

Circa l'ordinamento ereditario, bandito definitivamente ogni privilegio, nelle successioni legittime agli ascendenti furono chiamati a succedere i figli e i loro discendenti di qualunque letto, in porzioni eguali, per capi nel caso di successione immediata e diretta e per stirpi nel caso di rappresentazione. Eguale diritto fu attribuito ai figli naturali riconosciuti sui beni del padre e della madre per l'intero in difetto di altri successibili e in proporzioni varie nel concorso con figli legittimi o con altri prossimi congiunti. Un diritto consimile fu anche concesso al coniuge superstite non divorziato sui beni dell'altro coniuge in mancanza di altri aspiranti alla successione. Si deve poi alla stessa legislazione la determinazione nelle successioni testamentarie e negli atti di liberalità fra vivi di una quota di riserva a favore dei discendenti e degli ascendenti in ragione del numero di essi per un ammontare non inferiore alla metà del valore dei beni posseduti dal testatore o dal donante.

Sebbene l'influenza di tale legislazione sia stata profonda nella coscienza giuridica del tempo, non mancarono tentativi di ritorno all'antico per la pressione non meno possente della dottrina cattolica; e tale tendenza restauratrice dei canoni del Concilio tridentino ebbe la sua maggiore fortuna, specie in Italia, cuore del cattolicesimo, nella legislazione dei diversi stati in cui, quando non si rimise in onore l'istituto matrimoniale secondo il diritto canonico, si escogitò un sistema misto.

Sennonché una completa rivendicazione della concezione napoleonica si ebbe con la promulgazione del codice civile del 1865, in cui dopo epiche lotte oratorie combattute nelle aule parlamentari fu riconsacrata la laicità del matrimonio con tutte le sue caratteristiche sostanziali e formali. La formula con cui si concluse il dibattito fu che lo stato non avrebbe impedito la celebrazione del rito religioso, ma non avrebbe riconosciuto ad esso alcun effetto giuridico e ciò in omaggio all'indiperidenza e al parallelismo delle due potestà civile ed ecclesiastica.

Tuttavia il legislatore italiano non credette di assumersi la responsabilità di tener dietro alla corrente prevalsa negli altri stati europei in relazione all'istituto del divorzio; sul quale problema esso da un complesso di ponderate ragioni fu indotto ad optare per il principio opposto dell'indissolubilità, unico baluardo della compagine familiare, per quanto attenuato dal rimedio della separazione personale dei coniugi.

Il codice civile italiano, modellato in gran parte su quello napoleonico, pur dando al marito una posizione preminente nella famiglia sotto quel profilo gerarchico necessario ad assicurarne l'unità d'indirizzo, si rende nondimeno fautore ancora più zelante del pareggiamento della posizione personale dei coniugi, aggravando le responsabilità del marito in compenso delle sue maggiori prerogative: mentre ai coniugi è imposto il dovere reciproco della coabitazione, della fedeltà e dell'assistenza, al marito è fatto obbligo di provvedere con i proprî mezzi al sostentamento della moglie e alla moglie di contribuire con le sue sostanze al mantenimento del marito solo ove questi non abbia risorse personali sufficienti.

La potestà patria viene affidata al padre e in mancanza anche alla madre in costanza di matrimonio. In caso di scioglimento essa passa al coniuge superstite: morendo il padre, per la madre sono per altro impegnative le disposizioni da lui dettate in vita sul modo di educare la prole e conservare i beni, salvo che essa non ottenga di esserne dispensata dal consiglio di famiglia. L'esercizio dell'autorità del genitore è improntato a un minor rigore; e, fermo l'obbligo nel figlio minore non emancipato di non abbandonare la casa paterna, salvo il caso di arruolamento militare volontario, al padre è concesso soltanto un diritto di richiamo, e nella ipotesi di sregolatezza di condotta non suscettibile di freno, la facoltà di farlo rinchiudere con decreto del presidente del tribunale in una casa di educazione e correzione. Alla patria potestà fanno capo inoltre le norme circa la rappresentanza dei figli nati e nascituri, circa il consenso nel caso di matrimonio o di adozione, e circa la tutela dei discendenti minori dei figli predefunti. Attributo economico attivo connesso alla medesima è il diritto di usufrutto sui beni dei figli minori non emancipati, comunque provenienti, gravato dal solo obbligo di provvedere con esso ai bisogni fisici e morali di costoro, oltre agli oneri comuni a tutti gli usufruttuarî. Prudente freno all'azione del genitore circa i beni del figlio è che egli possa soltanto amministrarli, ma non disporne a suo talento, salvo il caso di necessità o di utilità evidente controllata dal tribunale. Fatta astrazione dai doveri etici, il figlio non è più soggetto all'autorità paterna col passaggio alla maggiore età e con l'emancipazione; mentre saggio temperamento agli eventuali abusi nell'esercizio di tale autorità è l'intervento dello stesso tribunale, su istanza dei prossimi congiunti e anche del ministero pubblico, esplicantesi nella nomina di un tutore al figlio o di un curatore ai suoi beni e nella privazione comminata al genitore del benefizio dell'usufrutto sui beni medesimi. La perdita di tale usufrutto è sancita a carico del genitore anche nel caso di passaggio a seconde nozze, pur restando ferma in lui la patria potestà: con la sola subordinazione, per la madre, del diritto di amministrare tali beni, al parere del consiglio di famiglia all'uopo preventivamente convocato.

Il regime dei beni secondo lo stesso codice è regolato o dal sistema dotale o da quello della comunione degli utili, salvo che i coniugi non preferiscano ciascuno il governo autonomo delle proprie sostanze. Col sistema dotale, i beni costituiti in dote diventano inalienabili, salvo patto in contrario e salvo ragioni di necessità e utilità evidente convalidate dal consenso dei coniugi e riconosciute dal tribunale. Dei detti beni è amministratore il marito che fa propria l'eccedenza dei frutti dopo aver provveduto ai pesi del matrimonio: solo in caso di pericolo può esser provocata dallo stesso tribunale la separazione della dote dai beni di lui. Col sistema della comunione degli utili è devoluto a entrambi i coniugi il godimento dei beni conferiti da ciascuno di essi, restandone soggetto attivo e passivo il coniuge conferente e amministratore il marito; ed è resa comune e divisibile, dedotte le gravezze della comunione, la sostanza acquisita unitamente o separatamente durante il matrimonio. Dei soli beni parafernali è devoluto alla moglie il dominio, l'amministrazione e il godimento, salva restando la disciplina della potestà maritale.

Il regime successorio del codice italianoo non si è distaccato di molto dalle linee generali del codice francese, tranne che nel regolamento della posizione del coniuge superstite, cui è anche attribuita, sia pure con alcune limitazioni, la qualità ereditaria in concorso con i figli così nella successione legittima come in quella testamentaria. L'ordine della chiamata a succedere è regolato per esclusione nel senso che sono in primo rango preferiti i figli e loro discendenti; in secondo i fratelli e sorelle e loro discendenti, in terzo il padre e la madre, in quarto gli ascendenti, e così via gli altri congiunti prossimi al defunto. Anche nella successione testata è limitata la facoltà di disporre di una parte della sostanza ereditaria che va dalla metà ai due terzi, secondo che il defunto lasci figli e discendenti da essi ovvero altri successibili. Il diritto del coniuge superstite in questa successione è fissato in una quota minore o maggiore in usufrutto variabile secondo il grado dei congiunti con esso concorrenti.

Poche innovazioni si sono succedute dal 1865 a oggi nell'istituto familiare. Una prima limitazione fu apportata dal decreto legge del 16 novembre 1916 al regolamento delle successioni in cui il diritto a succedere dei prossimi congiunti fu arrestato al sesto grado. Una modificazione di maggior rilievo fu adottata con la legge del 17 luglio 1919 che aboliva l'autorizzazione maritale e cancellava le ultime vestigia del concetto dell'inferiorità della donna. La terza e più importante innovazione, è costituita dal concordato Lateranense dell'11 febbraio 1929, fra lo Stato italiano e il Vaticano in cui al sacramento del matrimonio religioso vennero riconosciuti anche effetti civili. L'art. 34 del testo dichiara questo riconoscimento ispirato dall'intento di ridonare all'istituto del matrimonio, base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del popolo. A tale riconoscimento tien dietro la devoluzione delle cause matrimoniali alla competenza dell'autorità ecclesiastica, salvo il provvedimento di esecutorietà agli effetti civili della giurisdizione italiana. A questa statuizione il governo fascista fu indotto non tanto dall'esempio di gran parte degli stati europei che sono venuti accordando tale riconoscimento, quanto da un bisogno di lealtà statutaria e dall'interesse preminente sociale e politico di elevare nella coscienza dei cittadini l'atto costitutivo della famiglia, di rafforzarne il valore spirituale per la migliore rispondenza di esso ai fini nazionali e di evitare contrasti, dualismi e crisi sentimentali esiziali alla morale civile e all'ordine dello stato.

È in corso d'esame un progetto di riforma del primo libro del codice civile elaborato e pubblicato dalla commissione ministeriale di riforma dei codici, ma le innovazioni di maggiore rilievo relative al diritto di famiglia riguardano solo il regime matrimoniale nel suo spetto economico con l'estensione del sistema della comunione anche agli acquisti e con l'istituzione di un patrimonio familiare autonomo e intangibile; il regime della filiazione naturale e delle indagini a essa connesse con l'introduzione di norme meno rigorose e più rispondenti allo spirito dei tempi; e il regime tutelare con l'accentramento dei poteri di direzione e vigilanza nel giudice pupillare.

È sempre viva la disputa sul carattere del diritto familiare e sulla posizione di esso nell'ordinamento giuridico, sembrando a taluno prevalente l'elemento individuale per classificarlo fra i diritti di indole privata, a tal altro prevalente l'elemento sociale per annoverarlo fra i diritti pubblici. Vero è che il diritto di famiglia si distingue dal diritto patrimoniale specialmente per il suo contenuto, che nel diritto patrimoniale è essenzialmente economico; nel diritto di famiglia, essenzialmente etico. La famiglia è un fattore della generazione fisica e della formazione morale degli uomini; è la base di quell'organismo su cui lo stato si sviluppa; onde il suo ordinamento rappresenta il maggiore, il più delicato dei compiti che sono proprî della funzione dello stato. Il lato giuridico dell'ordinamento familiare tende appunto a garantire gli scopi sociali e morali della famiglia. Entro i limiti posti dalla legge la famiglia gode di una completa autonomia e libertà. L'ordinamento giuridico non è inteso ad altro che a stabilire limiti di garanzia a questo istituto, che, come fondamento e base di tutta la vita sociale, esorbita dal campo del diritto privato e tocca i rapporti del diritto pubblico. Nell'esercizio della patria potestà è facile scorgere non tanto la concessione di una facoltà quanto l'affermazione di un obbligo giuridico. Il padre, o in sua mancanza la madre, non possono disinteressarsi della sorte dei figli, con che verrebbe meno la ragione della formazione della famiglia, ma devono assisterli nella loro minore età con tutti i mezzi di cui dispongano. Lo stesso esercizio del potere disciplinare costituisce per essi un dovere cui non è lecito sottrarsi. Di modo che nel concetto dell'abuso della patria potestà è complesa non soltanto la manomissione dei suoi attributi, ma anche la trascuratezza nel non metterli sufficientemente a profitto. A tale concetto è facile giungere ponendo mente all'essenza della potestà paterna che trae vita da un principio di autorità e di subordinazione. Il genitore ha diritto di imporre la propria volontà alla prole e di essere da questa ubbidito. Ma appunto per il carattere imperativo che può rivestire la manifestazione del suo volere - al quale l'autorità statale non conferisce che la sanzione coattiva - egli è il titolare di una vera e propria funzione. Che la famiglia abbia un'organizzazione gerarchica risulta dalla stessa sua composizione e dalla situazione di preminenza assegnata al genitore e di soggezione assegnata al figlio: organizzazione che muove dal postulato che la tutela di interessi comuni non è realizzabile senza una disciplina e una designazione di posizioni nel meccanismo interno dei rapporti ad essi collegati. Affermato nella famiglia il fine della perpetuazione della specie e riconosciuto in quella il nucleo primigenio della collettività nazionale, è facile ravvisare gl'intimi contatti fra essa e lo stato e il vivissimo interesse che questo ha di volerne la prosperità e il benessere e di dare alla stessa un indirizzo omogeneo e conforme alle sue direttive in ogni campo. Estrinsecazione giuridica di questo interesse si ha nell'intervento assiduo dello stato nel seguire l'attività degli organi familiari, nel sindacarne le manchevolezze e nel sostituirsi, occorrendo, ad essi nell'esplicazione della loro funzione. Attestazione di tale intervento è, oltre che tutta la polarizzazione delle norme positive verso le forme più rispondenti a tali direttive, il controllo giurisdizionale dell'attività suddetta nei casi di maggior rilievo, l'iniziativa del ministero pubblico integratrice della medesima e il di lui contributo di pensiero e di azione in tutte le questioni interessanti lo stato familiare.

Bibl.: P. Villari, La famiglia e lo stato nella storia italiana, Milano 1868; G. Brini, Il concetto della famiglia nel diritto civile italiano, Bologna 1880; G. P. Chironi, Nuovi studi. Diritto di famiglia, Torino 1922; A. Cicu, Il diritto di famiglia, Roma 1924; G. Diena, Dir. pubblico e dir. privato in una sistemazione del diritto di famiglia, Modena 1927; C. Lessona, v. Famiglia, in Encicl. giur. ital.; G. Manfredini, v. Famiglia, in Digesto italiano.

I bilanci di Famiglia.

I bilanci di famiglia costituiscono la parte più importante delle monografie di famiglia. Queste sono una forma di osservazione economico-sociale, escogitata e largamente applicata dall'ingegnere, filantropo e sociologo francese Frédéric Le Play (1806-1882), e consistono in uno studio diretto e analitico di una famiglia determinata, generalmente di lavoratori, sia sotto l'aspetto morale, sia sotto l'aspetto economico. Secondo la prima concezione del Le Play, si propongono lo scopo di rappresentare, per mezzo di una o poche famiglie, le condizioni della classe sociale e della particolare località a cui le famiglie prescelte appartengono. La ragione per cui si fa oggetto di studio intensivo la famiglia è che si ritiene esser questa, e non l'individuo isolato, la prima cellula della collettività sociale. Nella famiglia si rifletterebbe la vita intera della società, sulle cui manifestazioni la famiglia influirebbe direttamente. Il Le Play ha lasciato una numerosa raccolta (57) di monografie sotto il titolo Les Ouvriers Européens. Egli le ha redatte personalmente in numerosi viaggi a bella posta intrapresi. L'opera di lui è regolarmente proseguita dalla Societé d'études pratiques d'économie sociale, la quale va pubblicando nuove monografie in una collezione, già molto numerosa, denominata Les Ouvriers des deux mondes.

Uno dei caratteri che debbono avere le monografie è di essere confrontabili fra loro sia in ordine ai paesi sia in ordine agli anni. Il Le Play, per ottenere l'intento, ha redatto un piano o schema che deve essere rispettato da tutti i raccoglitori. La monografia si compone di tre parti. La prima comprende le osservazioni preliminari. Vi si dà, in una precisa serie di paragrafi, la definizione del luogo e dell'organizzazione dell'azienda e di quella della famiglia, e poi vi si traccia la storia della famiglia. La seconda parte, veramente caratteristica del sistema del Le Play, è il bilancio. Questo dà luogo a sua volta a tre partizioni: le entrate, le spese e i conti annessi. Le entrate sono suddivise in varie sezioni secondo le fonti da cui derivano. Le spese sono parimenti suddivise in sezioni, come è opportuno precisare, e cioè in spese concernenti la nutrizione, l'abitazione, il vestiario, i bisogni morali, i divertimenti e il servizio sanitario e, infine, le industrie, i debiti, le imposte e le assicurazioni. Si aggiunge, come risultato del confronto fra le entrate e le spese, l'indicazione del risparmio dell'annata. I conti annessi non sono che un allegato o ulteriore svolgimento di qualche partita del bilancio. La terza ed ultima parte, denominata note annesse, si compone di particolareggiate illustrazioni o specificazioni rispetto all'ambiente morale e intellettuale in cui si svolge la vita della famiglia.

La compilazione delle monografie presenta particolari difficoltà che dànno origine a non poche critiche e osservazioni: accenniamo solo ai due punti più controversi. Considerato lo scopo rappresentativo o tipologico della monografia, quali famiglie, anzitutto, si dovranno prescegliere per farne oggetto di studio? Il Le Play, che era di tendenze piuttosto ottimistiche, scelse, nella classe dei lavoratori, la famille prospère, e questa sarebbe celle qui a atteint cet état d'équilibre, essentiellement relatif, entre les jouissances et les besoins que l'on appelle bonheur. Ma è evidente, a prescindere dall'incertezza del bonheur, che una famiglia in tali condizioni non si può dire che sia rappresentativa di un'intera categoria o località, in cui le graduazioni del benessere saranno variamente proporzionate. Gli stessi più fedeli discepoli hanno dovuto, in conseguenza, modificaïe il criterio del maestro, e uno di essi ha proposto che, per lo meno, si scelgano tre tipi di famiglie, di cui una in buone condizicni, una seconda in mediocii, una terza in cattive. La soluzione però della difficoltà è venuta praticamente, come fra poco vedremo, allargando il numero delle famiglie fatte oggetto di osservazione. La seconda specie di difficoltà concerne sia il modo di mettere l'occhio, praticamente, sulle famiglie, che rappresenteranno in effetto il tipo teoricamente designato, sia i mezzi con cui ottenere complete e sincere le minuziose indicazioni occorrenti per redigere, soprattutto, il bilancio. Si è visto che per risolvere le difficoltà di questa specie occorre affidarsi al senso pratico, il quale sa spesso trovare soluzioni che a priori si vedono con minore chiarezza. Il Le Play diveniva ospite nelle famiglie da studiare e ne acquistava la confidenza.

Ma la migliore risoluzione delle difficoltà è venuta quasi automaticamente per effetto dello stesso svolgimento dei fatti. All'osservazione di poche famiglie subentra man mano l'osservazione di molte e talora moltissime famiglie, e alla monografia, rigidamente composta delle tre parti suddette, è sostituita spesso la sola rilevazione della parte centrale, il bilancio. La vecchia monografia resta sempre, in casi particolari, come illustrazione intensiva e come mezzo a disposizione di studiosi privati. Concentrata però nel bilancio, la rilevazione monografica è andata verso la rilevazione a tipo statistico. Così è per il fatto stesso della massa rilevata e per ciò che si attiene all'espressione, la quale diviene numerica o quantitativa con possibilità di elaborazione matematica e determinazione di medie, rapporti percentuali, ecc. Si potrebbe dire che il premio di statistica già dato al Le Play per la sua monografia e che produsse una non lieve sorpresa fra gli statistici, accusanti una vera antitesi fra rilevazione morografica e rilevazione collettiva, abbia presagito a quale sbocco sarebbe venuta, nella propria evoluzione, la prima formulazione del sociologo francese. Ci dànno un'idea dell'estensione numerica assunta dalla rilevazione dei bilanci di famiglia l'inchiesta del dipartimento del lavoro degli Stati Uniti che, negli anni 1891-92, portò la propria osservazione sopra 8544 famiglie, e l'inchiesta analoga dell'ufficio di statistica tedesco che nel 1907, prese in esame 852 bilanci domestici.

La nuova fase dello studio delle famiglie ha portato con sé la necessità di fissare adatti metodi per l'accertamento dei dati. Risoltasi da sé la questione del tipo di famiglia da scegliersi, in quanto è implicito che il tipo verrà fuori dalla massa osservata, restano, in fondo, pur sempre le difficoltà di ottenere dati completi e veritieri.Sono difficoltà, a guardar bene le cose, inerenti all'uomo, cioè alla diffidenza che si porta contro consimili inchieste e alla scarsa capacità di fornire con tecnica esattezza quanto si richiede. Al quale proposito è da avvertire che agl'inquirenti privati si è sostituito lo stato o qualche ente di carattere pubblico (provincie, comuni, ecc.), che agisce per mezzo degli uffici di statistica.

I sistemi per raccogliere i dati si possono in sostanza ridurre ai due più caratteristici: al sistema dei questionarî e a quello delle annotazioni o registrazioni domestiche, che i Francesi, presso cui cosiffatte ricerche sono in molto onore, chiamano carnets de ménage. Secondo il primo, che sembra avere la preferenza presso gli Anglo-Sassoni, amanti delle rilevazioni in grande, si redigono questionarî, talora minuziosi, e si dà l'incarico a numerosi rilevatori di raccogliere le singole risposte. Fra i questionarî riempiti quelli utilizzabili sono non di rado una frazione non molto elevata. Secondo l'altro sistema, si fa affidamento sulle madri di famiglia, a cui si chiede di fare apposite registrazioni, giorno per giorno, possibilmente per le quattro stagioni dell'annata, tanto delle singole entrate quanto delle singole spese. È evidente che l'esito dell'inchiesta così compiuta dipenderà dalla qualità delle persone a cui si fa ricorso. In entrambi i procedimenti, basati sopra osservazioni molto numerose, l'azione correttiva della legge dei grandi numeri non può mancare.

Il primo a utilizzare statisticamente i bilanci familiari è stato lo statistico Ernest Engel, che fu direttore dell'ufficio statistico della Sassonia. Studiando particolarmente le relazioni fra le entrate della famiglia e il modo in cui si ripartiscono le spese relative, venne a una conclusione già segnalata dalla comune esperienza e che è stata chiamata legge dei consumi: la parte relativa, cioè, delle spese di nutrizione in una famiglia è tanto più forte quanto più l'entrata è limitata. Gli studî posteriori non hanno fatto che confermarne la verità. Si sono però man mano precisati altri rapporti, dei quali ci limitiamo a rammentare queste due sole formulazioni: la prima, che in ciascun gruppo di famiglie di uguale composizione, quando il reddito si accresce, la spesa di nutrimento, pur aumentando in senso assoluto, diminuisce in senso relativo, mentre la proporzione delle spese di vestiario aumenta, restando poco variabile la spesa dell'alloggio; la seconda, che per ciascun gruppo di famiglie, disponente di uguale reddito, allorché il numero dei membri aumenta, la proporzione delle spese di nutrizione aumenta anch'essa, mentre la proporzione delle spese di alloggio diminuisce e quella delle spese di vestiario varia solo di poco. Evidente l'importanza che presentano, nei varî rapporti, le spese destinate alla nutrizione.

A fine di rendere comparabili famiglie variamente composte, si è creata un'unità di misura, una quota di consumo (chiamata quet in onore del grande statistico Adolfo Quetelet), che si accrescerà o frazionerà a seconda del sesso e dell'età dei componenti. La misura delle quote stabilite formata in base alla statistica si è accordata con quella fissata dai fisiologi, di cui ricordiamo l'americano Atwater. Dei risultati cui si è così venuti interessano specialmente questi due: a) la spesa media di nutrizione per unità d'uomo adulto si abbassa notevolmente allorché aumenta il numero dei componenti la famiglia; b) la spesa media di nutrizione per unità d'uomo adulto cresce regolarmente a misura che le rendite della casa aumentano.

Questi studî di bilanci hanno messo in evidenza l'importanza del costo della vita animale e il fatto che ogni elevazione di tale costo tocca le classi povere più fortemente delle altre. Donde, ad esempio, le numerose applicazioni pratiche che si sono fatte dei bilanci specialmente in questi ultimi anni, i quali furono caratteristici per la svalutazione della moneta e per il conseguente rialzo delle derrate. La statistica si è rivelata una volta di più un buono strumento per applicare certe norme di equità, a cui è raccomandata la conservazione dell'ordine sociale. Ci limitiamo a rammentare alcune pubblicazioni che contengono sia studî e dati sia indicazioni bibliografiche: il Bulletin de l'Institut international de statistique, ricco di indici per materie e per autori (nel tomo XVIII del Bulletin è inserita una brillante relazione di A. de Foville alla quale si rimanda per più ampie notizie sulle obiezioni fatte alla monografia di famiglia e sul resto); il Bulletin de la Statistique générale de la France, in cui sono riportati i risultati delle rilevazioni dei bilanci familiari fatte in molti stati e alcuni studî comparativi, come quello inserito nel fascicolo dell'aprile 1914; la ricca bibliografia riportata nella Statistica teorica di N. Colajanni (2ª ed., Napoli, 1909); lo studio di F. Coletti, Come si compilano le monografie di famiglia, inserito nel vol. I degli atti dell'Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini dell'Italia meridionale e della Sicilia, Roma 1911 (vi è un'ampia bibliografia, in cui sono citate parecchie monografie di famiglia eseguite da studenti universitarî italiani); fra le pubblicazioni più recenti, infine, sono da tenersi in buon conto le seguenti: Bureau international du travail, Les méthodes d'enquêtes sur les budgets familiaux, Ginevra 1926 (numerose indicazioni delle fonti, per i diversi paesi); Societé des Nations, Conférence économique internationale, rapporti sur les niveaux de vie des ouvriers dans différents pays, Ginevra 1926 (il cap. III tratta dei bilanci delle famiglie operaie, con larghe citazioni delle fonti e delle inchieste eseguite nei diversi paesi del mondo); H. Wolf, Wirtschaftsstatistik, Jena 1927 (nel cap. III si leggono cenni aggiornati sul tema). Notevoli pure la raccolta di bilanci di famiglia giapponesi presentata da T. Matsuda alla XIX sessione dell'Istituto internazione di statistica (Tokio) e la comunicazione di U. Giusti, Une nouvelle série de monographies de famille agricoles en Italie, presentata alla XX sessione dell'Istituto internazionale di statistica (Madrid).

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