Farmaco

Universo del Corpo (1999)

Farmaco

Vittorio Alessandro Sironi e Vittorio Erspamer

Il termine farmaco indica ogni sostanza, inorganica od organica, naturale o sintetica, capace di produrre in un organismo vivente modificazioni funzionali, mediante un'azione chimica, fisico-chimica o fisica. È generalmente usato in alternativa a medicamento, termine assai più restrittivo e implicante una reale utilizzazione pratica. Tutti i medicamenti sono farmaci, ma solo una parte limitata dei farmaci diventa medicamento.

Aspetti storici

di Vittorio Alessandro Sironi


1.

Dai farmaci empirici al razionalismo greco e romano

La ricerca di rimedi al dolore e alle malattie ha stimolato le capacità dell'uomo fino dai tempi più antichi, sia in modo empirico, attraverso il casuale riscontro delle proprietà benefiche di un'erba o di una procedura nel procurare la guarigione (empirismo farmacologico), sia in modo speculativo, attraverso l'idea che un'entità estranea - spirito malvagio -, impossessandosi del corpo o dell'anima di un individuo, vi inducesse una malattia, per la cui guarigione era indispensabile scacciare tale spirito facendo ricorso a riti o pratiche magiche. Anche gli egizi, che pure facevano ampio uso di sostanze vegetali di reale efficacia curativa (olio di ricino, senna, melograno, oppio, tannino, aloe), accompagnavano la loro preparazione e somministrazione con la recita di formule magiche che ne esaltavano le virtù terapeutiche. Allo stesso modo gli ebrei, i quali basavano le loro capacità di prevenire e curare le malattie sulla stretta osservanza di precise norme igieniche (ma che conoscevano e impiegavano anche il sicomoro, l'issopo e il cumino), traevano dall'elemento religioso che caratterizzava la loro vita una valenza terapeutica di grande rilievo.

L'empirismo magico e farmacologico degli antichi viene gradualmente sostituito dal razionalismo greco e romano. La 'concezione degli umori' di Ippocrate e di Galeno, che descrive la malattia come uno squilibrio della tetrade umorale dell'organismo (sangue, flegma, bile gialla, bile nera) - analoga a quella degli elementi primordiali (terra, acqua, aria, fuoco), delle qualità elementari (freddo, caldo, umido, secco), delle stagioni dell'anno (primavera, estate, autunno, inverno) e delle età della vita (puerizia, giovinezza, maturità, vecchiaia) -, domina la medicina e la farmacologia. La scienza greca dei farmaci (ϕάρμακον ha significato ambivalente: è insieme rimedio e veleno) si sviluppa inizialmente nell'ambito della dietetica, attraverso un gioco complesso di rimandi tra 'qualità' della sostanza curativa e 'temperamento' (sanguigno, flemmatico, bilioso, atrabiliare) del malato. Nella scelta dell'agente terapeutico, concrete proprietà nutritive si sovrappongono ad astratte e fantasiose suggestioni simboliche, come nel caso dei vini medicinali e degli oli curativi. Negli scritti del Corpus hippocraticum per la prima volta sono esposte in modo sistematico le regole farmacologiche: per raccogliere i semplici vegetali (cioè le principali erbe curative: elleboro nero, oppio, belladonna, veratro, ruta, menta), per preparare i medicamenti (suddivisi in purganti, narcotici, diaforetici, diuretici ed emetici), per il loro corretto impiego nelle diverse malattie.

Sistematicità e razionalità si ritrovano anche nella biologia di Aristotele e nella botanica del suo allievo Teofrasto. Questi fu autore di una Historia plantarum che è un analitico e ordinato tentativo tassonomico, ma che può essere vista anche come il primo vero trattato di fitoterapia (vi sono descritti con precisione, insieme ai relativi effetti, il papavero, la cicuta, la mandragora, l'elleboro), precursore dei testi di farmacologia vegetale che, dal Medioevo in poi, tanta parte avranno nella pratica speziale.

A Roma, Aulo Cornelio Celso, Scribonio Largo e Plinio il Vecchio riassumono nei loro scritti le conoscenze medico-farmacologiche desunte dall'esperienza greca. Le rielabora e le accresce, lasciando un'impronta destinata a durare nei secoli, Pedanio Dioscoride, chirurgo militare greco, divenuto poi cittadino romano, vissuto nel 1° secolo d.C. L'opera di Dioscoride, universalmente nota con il titolo di De materia medica dalla prima versione latina con commento di P. Mattioli, pubblicata a stampa nel 1478 e più volte edita, resta sino al Settecento un classico della farmacologia. In 5 libri, suddivisi in 827 capitoli, sono elencate tutte le sostanze medicamentose di origine vegetale (650), animale (85) e minerale (50). Ugualmente grande e durevole è l'influenza esercitata da Galeno. La sua opera dedicata alla terapia, De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus, elenca 473 farmaci di origine vegetale che per oltre un millennio costituiranno, in Europa, la base indiscussa dell'arte della cura. "Contraria contrariis curantur" è l'aforisma fondamentale della sua farmacoterapia. Fedele alla concezione umorale, curare significa per Galeno usare medicamenti con azione ed effetti opposti a quelli del male: farmaci 'riscaldanti' nelle malattie 'fredde', farmaci 'perfrigeranti' nelle malattie 'calde'. Inoltre, sempre secondo Galeno, il medico stesso prepara il farmaco (donde il termine di composto galenico tuttora in uso) e lo somministra in modo parsimonioso. 'Catapozi' (pillole semplici), cerotti, fomenti, 'trocisci' (impiastri di polveri con aceto e vino), linimenti, vini medicinali, insieme alle terre rare (argille ritenute dotate di grandi capacità curative in relazione alle loro varie origini, dette anche terre sigillate per il sigillo di provenienza che vi era impresso) e alla teriaca (una mistura composta di innumerevoli ingredienti, tra cui la carne di vipera, utilizzata come antidoto contro i più svariati tossici e veleni; la sua formula era segreta e la sua preparazione era una pratica iniziatica riservata soltanto a persone appositamente autorizzate), sono i farmaci di comune impiego sino a tutto il Medioevo.

2.

Dall'alchimia medievale alla farmacologia vegetale

La cultura araba predomina in Europa dopo la caduta dell'Impero Romano: l'uso delle sostanze medicinali rappresenta il cardine della medicina di Avicenna e Albucasis, che aborre il ricorso alle pratiche cruente della chirurgia nella cura delle malattie. Questa stessa cultura diffonde in Occidente anche l'alchimia (che significa letteralmente 'mescolamento'), una pratica empirica che se da un lato permette di sviluppare ottime conoscenze su alcune procedure protochimiche (distillazione, riscaldamento a bagnomaria) atte a ottenere composti nuovi (ammoniaca), dall'altro spinge alla ricerca di procedure utopistiche, immaginate come risposte magico-naturali ai problemi della povertà (pietra filosofale) o della salute (elisir di lunga vita). In questi medievali 'secoli bui', che sono anche 'età dell'oro' (la pietra filosofale realizza la 'trasmutazione metallica' del piombo in oro, l''oro potabile' è la versione alchemica della pozione della longevità), scienza e magia s'intrecciano in un travaglio ideologico tra conservatori e innovatori: alla visione trascendente del mondo, che nega all'uomo la facoltà d'influire significativamente sulla natura e sul proprio destino, si contrappone la visione immanente, che pone l'uomo al centro della natura facendone l'artefice di ogni possibile trasformazione. Sono, però, i conventi i luoghi in cui - grazie allo spirito conservatore degli ordini monastici - si serbano tradizioni, si tramandano saperi, si sviluppano novità. Si trascrivono i codici antichi salvaguardandoli dall'oblio; si organizza nello spazio conventuale un'assistenza ai pauperes infirmi che rappresenta il modello dei moderni ospedali; si raccolgono e si coltivano piante medicinali, costituendo erbari e realizzando orti in grado di fornire 'semplici' vegetali atti a curare un gran numero di malattie e ad arricchire le conoscenze della fitofarmacologia.

Tra il 10° e il 12° secolo, per influsso della medicina monastica, sorge e si sviluppa la Scuola medica salernitana, primo centro di medicina laica, luogo d'incontro geografico e d'intreccio culturale tra la classica tradizione greco-romana e la rielaborazione araba. Il Regimen sanitatis Salernitanum (una raccolta in versi di consigli sanitari per vivere bene e a lungo), l'Antidotarium (uno dei primi testi di tecnica farmaceutica) di Nicola Salernitano e l'Ars medendi (una guida alla cura) di Cofone sono tre opere che influenzano a lungo la medicina europea. La nascita delle corporazioni d'arti e mestieri, tra cui quella dei medici e dei farmacisti, impone la definizione giuridica del ruolo distinto delle due professioni. La distinzione è codificata per la prima volta nelle Ordinationes emanate, nel 1240, da Federico II, che disegnano l'assetto istituzionale della medicina e della farmacia. Contemporaneamente, l'aspetto scientifico di quest'ultima è definito in modo preciso nell'Antidotarium di Nicolao Preposito, che elenca i metodi di preparazione dei medicamenti e codifica i rigorosi criteri per il loro preciso impiego. Per eliminare ogni arbitrio e giungere alla prima vera Farmacopea ufficiale (un testo con la descrizione delle droghe e delle medicine, la loro esatta composizione e le corrette modalità di preparazione, alle quali tutti gli speziali si devono rigorosamente attenere) si dovrà attendere sino al 1498, quando a Firenze viene stampato in lingua volgare il Ricettario fiorentino. La scoperta del Nuovo Mondo da parte di C. Colombo porta, nell'ambito dell'imperante farmacologia vegetale, all'impiego terapeutico delle nuove droghe importate dall'America (gialappa, ipecacuana, guaiaco ecc.), prontamente registrate dai sempre più numerosi Hortus sanitatis che si stampano in quegli anni e coltivate nel primo Orto botanico, fondato a Padova nel 1545 da F. Bonafede.

3.

Dal rinascimento medico a Paracelso

Nel 1543 la rivoluzione anatomica suscitata dal De humani corporis fabrica di A. Vesalio coincide con quella astronomica del De revolutionibus orbium caelestium di N. Copernico: la reinterpretazione del microcosmo dell'uomo si sovrappone a un nuovo modello del macrocosmo dell'universo. La rinascita nei vari campi dà luogo anche a una rivoluzione farmacologica, quest'ultima a opera di Paracelso, il 'Lutero dei medici' (come viene chiamato per la sua formazione culturale influenzata dal clima antiautoritario della riforma protestante). Paracelso contesta la tradizione medica classica di Aristotele, di Galeno e di Avicenna, fonte di un limitato e teorico sapere libresco. Il vero magistero non risiede nei libri di testo ma nel gran 'libro della natura', nell'esperienza diretta delle malattie e dei loro rimedi 'naturali'. Nelle 'officine della salute', i primi laboratori della nascente protochimica, la paracelsiana alchimia o chymia è, con l'astronomia, la filosofia e la virtù, uno dei quattro pilastri della vera medicina. Essa è intesa come 'spagirica' (dal greco σπάω, "estraggo", e ἀγείρω, "raccolgo"), un'analisi-sintesi, per la quale i veri medici devono occuparsi dell''estrazione' come i minatori e del 'raccolto' come gli agricoltori. La medicina, secondo Paracelso e i suoi seguaci, dev'essere un'agricoltura di uomini, un'alchimia metallurgica produttiva di farmaci efficaci. Il farmacista paracelsiano è radicalmente diverso dallo speziale della tradizione: indossa, invece della veste lunga, "il vestito del minatore con il grembiule di cuoio del fabbro", in laboratorio attizza il fuoco per crogiuoli e alambicchi, fondendo, distillando, sublimando i metalli e dall'"immenso magisterio della metallica trans-formazione" trae nuovi 'composti', radicalmente diversi dai 'semplici' tradizionali. Paracelso crea anche nuovi concetti. Dall'al-kohl, 'materia' di nero carbone, deriva l'analogia lessicale con l'alcool, 'spirito' di nero vino. Dall'idea di caos scaturisce l'embrione ideologico da cui il suo seguace J.B. Van Helmont trae a sua volta il concetto scientifico di gas. Dalla personale esperienza con i malati, cui lenisce le sofferenze con il laudano (tintura di oppio), desume l'aforisma antigalenico "similia similibus curantur", valevole in senso non tanto farmacologico, terapeutico, quanto antropologico, curativo. 'Il simile si cura con il simile' vuol dire che l'infermo si cura con l'infermiere, il povero con il medico dei poveri, l'uomo dei campi con il medico di campagna. Sullo sfondo di questa sapienza paracelsiana si disegna il concetto - o effetto placebo - che "il buon medico è la prima medicina".

4.

Alcaloidi e glucosidi

Il Seicento è un secolo di transizione e di contraddizione: la pubblicazione, nel 1661, dell'opuscolo di R. Boyle The sceptical chymist segna la nascita della chimica come scienza, ma negli stessi anni si processano ancora gli untori, i quali sono accusati di generare e diffondere con l''onto' la 'peste manufatta'. Si comincia a delineare la strada che porterà ad affermare le ragioni della scienza. I medici-fisici, o iatromeccanici, di scuola galileiana interpretano l'organismo come macchina. Dopo che W. Harvey ha descritto nella Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus (1628) la meccanica della circolazione del sangue, G.A. Borelli descrive nel De motu animalium (1680-81) la meccanica del movimento muscolare e della locomozione. Alla descrizione harveyana della macromacchina cardiaca propellente il sangue, M. Malpighi, facendo sapiente uso dell'occhialino o microscopio, aggiunge la descrizione delle micromacchine glomerulari (renali) e alveolari (polmonari). La nuova concezione meccanica è affiancata dall'altrettanto nuova visione chimica, prevalentemente affermatasi oltralpe. I medici-chimici, o iatrochimici, di scuola paracelsiana interpretano l'organismo come alambicco o provetta. Alla radice di entrambe le concezioni c'è un'identica visione particellare o atomistica, sia della materia bruta (inorganica) sia viva (organica): una visione democritea ed epicurea, che viene riportata in auge dalla filosofia cartesiana e dal metodo quantitativo di Galileo. Il nuovo contesto teorico è, peraltro, privo di immediate ricadute pratiche in campo farmacologico e farmaceutico, sicché A. Vallisnieri, professore di medicina pratica e teorica a Padova, nel primo Settecento, è costretto amaramente ad ammettere d'essere 'senza rimedi'. L'ottica iatromeccanica privilegia le parti solide dell'organismo (solidismo), la prospettiva iatrochimica le parti fluide (umoralismo): riemergono, rinnovandosi, antiche teorie. Con sapiente sincretismo G.B. Morgagni elabora nel De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis (1761) un'anatomia patologica e una fisiopatologia su rinnovate basi fisico-chimiche. Con altrettanto sagace eclettismo i medici coevi cercano di giovarsi - e di giovare ai malati - di un armamentario terapeutico dove accanto a nuovi rimedi, tali o presunti, come il 'trionfale' antimonio, figurano ancora vecchi preparati, come la 'magica' teriaca.

Questo vuoto farmacologico è colmato in parte dalla monumentale opera di Linneo, il quale elenca, descrive e riclassifica l'intero mondo vegetale in tre trattati: Systema naturae (1735), Philosophia botanica (1751), Species plantarum (1753). I meriti dell'impostazione teorica (tassonomia binomiale) sono pari ai vantaggi del rilancio pratico di una fitoterapia senza dubbio efficace, ma ben presto posta in discussione e trascurata dal grande sviluppo dei medicamenti chimici messi a punto dalla chimica farmaceutica iniziata da un altro svedese, il farmacista di origine tedesca K.W. Scheele. Dopo aver diretto un laboratorio farmacologico a Uppsala, nel 1775 Scheele si reca a Koping, nei pressi di Stoccolma, per dirigervi la locale farmacia, nel cui retrobottega, lavorando con mezzi scarsi e apparecchiature assai semplici, compie scoperte fondamentali: l''aria di fuoco' (ossigeno), di cui tarda però a dare notizia facendosi precedere dall'inglese J. Priestley, e, negli anni successivi, molte sostanze organiche, quali l'acido formico, l'acido urico, l'acido lattico, l'acido citrico, l'acido malico, la glicerina. Si apre in questo modo la strada alle ricerche di chimica organica, utilizzate poi nell'Ottocento dalla nascente farmacologia, mentre tra i lumi della ragione scientifica e i fuochi della Rivoluzione francese, A.L. Lavoisier confuta la vecchia 'teoria del flogisto' e pone le basi della nuova chimica quantitativa.

Il Settecento si chiude con i primi tentativi di estrarre dal semplice (il medicamento) la frazione ritenuta efficace dal punto di vista terapeutico; l'Ottocento si apre con lo sforzo della chimica farmaceutica di compiere il passo decisivo per isolare dalle piante medicinali (principalmente china, oppio, tabacco) il principio attivo, responsabile dell'effetto curativo, per poterlo purificare e produrre in grande quantità. In modo sempre più perfezionato e con un grado crescente di consapevolezza, L.C. Derosne nel 1803, F.W. Serturner nel 1807 e L.J. Gay-Lussac nel 1817 isolano la morfina dall'oppio. Nel 1809, L.N. Vauquelin separa la nicotina dal tabacco e, nel 1820, P.J. Pelletier e J.B. Caventou isolano dalla china la chinina, dimostrando che a essa si deve l'effetto antipiretico (empiricamente noto da tempo) della corteccia di china, e completano successivamente le loro scoperte isolando dalla noce vomica la stricnina e dal caffè la caffeina. Tutte queste sostanze, chimicamente caratterizzate da un comportamento basico, contenenti azoto e in grado di formare sali in combinazione con gli acidi, vengono chiamate, nel 1821, da W. Meissner alcaloidi. A questa classe ben presto si affianca un'altra classe di principi attivi, distinti dai primi per essere privi di proprietà basiche e in grado di dare, scindendosi, glucosio come prodotto secondario: i glucosidi, di cui due in particolare (la salicilina identificata da H. Leroux nel 1827 e la digitalina scoperta da L. Roger nel 1834) sono destinati ad assumere un ruolo molto importante in farmacologia. La scoperta degli alcaloidi e dei glucosidi è la prosecuzione di quegli studi di chimica organica iniziati empiricamente da Scheele, continuati in modo più sistematico da J. von Liebig e culminati con la sintesi, operata nel 1831 da F. Wohler, dell'urea: un composto organico ottenuto in laboratorio a partire da sostanze inorganiche (carbonio e azoto), la cui portata rivoluzionaria inizialmente sfugge, perché l'urea, presente nell'urina, appare il prodotto del degrado di processi vitali, come tale escreto dall'organismo. Insieme agli anestetici, queste scoperte rappresentano alcune delle maggiori realizzazioni della nuova farmacologia ottocentesca. I suoi più insigni rappresentanti sono quelle figure di fisiologi-farmacologi (come F. Magendie, R. Buchheim, C. Binz, O. Schmiedeberg e, in Italia, A. Giacomini, G. Semmola e A. Cantani) in grado di studiare l'interazione tra organismo e farmaco per valutarne gli effetti terapeutici e tossici, applicando in farmacologia le idee innovative che, in ambito medico e biologico, avevano in quegli anni rivoluzionato le precedenti concezioni: la médecine expérimentale di C. Bernard, la Cellularpathologie di R. Virchow, le 'ipotesi germinali' di L. Pasteur e la 'biologia dei microbi' di R. Kock.

5.

La rivoluzione dei farmaci di sintesi

Nell'Ottocento, la Germania dimostra di essere, dopo l'Inghilterra, il paese europeo che appare maggiormente avviato al processo di trasformazione socioeconomica legato alla rivoluzione industriale e in cui la cultura scientifica fisico-chimica è particolarmente avanzata. La necessità di disporre di una grande quantità di estratti vegetali terapeuticamente attivi porta il farmacista H.E. Merck a fondare, nel 1827, la prima fabbrica per la produzione di cocaina e morfina con criteri protoindustriali, grazie alla trasformazione dell'avita, secolare spezieria di Darmstadt in un attrezzato laboratorio artigianale. La vera novità dell'Ottocento in campo farmacologico è, però, la nascita di medicamenti per sintesi chimica: composti costruiti artificialmente in laboratorio, in grado di svolgere un'azione farmacologica selettiva ed efficace sull'organismo malato e che sostituiscono gli estratti di sostanze vegetali o minerali presenti in natura. La rivoluzione farmacologica avvia quindi il processo di industrializzazione della produzione farmaceutica, facendo del farmaco (specialità farmaceutica) un rimedio innovativo per le sue enormi capacità curative e per la sua ampia e facile disponibilità, ma anche un prodotto in grado di determinare un profitto economico e come tale sottoposto alle rigide regole del mercato commerciale. Le nuove modalità di produzione farmaceutica rispondono, inoltre, anche ai bisogni emergenti dalla rapida trasformazione che la società subisce in seguito alla crescente diffusione della industrializzazione: inurbamento, aumento della patologia infettiva, peggioramento della qualità dell'esistenza, necessità di mantenere al massimo integra la forza-lavoro.

La Germania e la Svizzera tedesca sono i paesi in cui, grazie alla concomitanza di molteplici fattori (presenza di una importante industria chimica, disponibilità di notevole capitale economico, intraprendente spirito imprenditoriale, innovativa visione medico-biologica), l'industria farmaceutica si sviluppa come continuazione o filiazione dell'industria chimica dei coloranti: le tedesche Bayer e Hoechst (1863), BASF (1865) e Schering (1871); le svizzere CIBA e Geigy (1884), Sandoz (1886) e Hoffman-La Roche (1894), sono le prime e principali industrie di coloranti e di farmaci che sorgono in quegli anni. La ricerca di sostanze che siano in grado di alleviare il dolore o esplicare un'azione antipiretica, mimando gli effetti degli estratti vegetali, resta l'obiettivo da raggiungere. La fenacetina, scoperta nel 1887 da A. Kast e K. Hinsberg, brevettata e introdotta sul mercato nel 1888 dalla Bayer, è il primo vero farmaco sintetico clinicamente utilizzato prodotto dall'industria farmaceutica. Alla fenacetina seguono il piramidone, prodotto dalla Hoechst nel 1884, e alcuni anni dopo, nel 1899, un composto della Bayer destinato a segnare una tappa miliare della storia farmacologica e farmaceutica: l'aspirina (acido acetilsalicilico), scoperta nel 1898 da F. Hoffman (in realtà riscoperta, perché il prodotto era già stato preparato sin dal 1853 da C.F. Gerhardt) come rimedio valido e più tollerato dell'acido salicilico contro reumatismi e dolori. Dai semplici vegetali estratti artigianalmente dalle piante ai complessi medicinali costruiti nei laboratori chimici e prodotti in gran quantità dall'industria: sono queste le tappe che segnano il passaggio dalla chimica dei farmaci alla chimica per i farmaci, dalla chimica farmaceutica alla farmaceutica chimica.

In Italia e in Francia l'industria farmaceutica prende avvio, invece, dalla trasformazione dei numerosi laboratori che affiancano le botteghe degli speziali, i più intraprendenti dei quali (come a Torino G. B. Schiapparelli nel 1823, a Milano C. Erba nel 1853, L. Zambeletti nel 1864 e R.G. Lepetit nel 1868) danno vita a importanti stabilimenti farmaceutici. I nuovi farmaci di sintesi prodotti dalla nascente industria farmaceutica riescono a eliminare o ad attenuare i sintomi più gravi che accompagnano le malattie (come la febbre o il dolore), ma non riducono l'incidenza delle infezioni che, a inizio Novecento, rappresentano ancora la stragrande maggioranza delle manifestazioni patologiche dell'umanità. L'impiego di sieri e vaccini (soprattutto per la difterite e il tetano) e il ricorso sempre più sistematico al chinino (per la malaria) forniscono un contributo importante, ma insufficiente. Per debellare definitivamente le infezioni causate, come ormai la scienza medica aveva ampiamente dimostrato, dalla presenza di germi patogeni all'interno dell'organismo malato, è necessario utilizzare sostanze che, introdotte nel corpo malato, agiscano come 'proiettili magici', uccidendo selettivamente i germi senza danneggiare l'ospite, realizzando quella therapia sterilisans magna della malattia che era stato l'obbiettivo inseguito ma mai raggiunto dalla medicina della seconda metà dell'Ottocento. Un nuovo farmaco messo in commercio nel 1910 dalla Hoechst per combattere la sifilide, il salvarsan (arsenobenzolo chimicamente derivato dall'arsenico), sembra possedere tali caratteristiche e aprire realmente una nuova era nella lotta contro le infezioni. È il punto d'arrivo delle lunghe ricerche (è il prodotto nr. 606 di una serie di composti derivati dall'arsenico) del geniale scienziato tedesco P. Ehrlich, convinto assertore dell'importanza della chemioterapia per debellare le malattie infettive: una terapia cioè basata sull'impiego di sostanze chimiche che, introdotte dall'esterno nell'organismo malato, siano in grado di riconoscere per affinità chimica i germi patogeni e di distruggerli senza peraltro danneggiare gli organi. Sono sostanze parassitrope e non organotrope, capaci di fissarsi chimicamente al germe, eliminandolo: insomma i 'proiettili magici' sognati dalla medicina ottocentesca.

Benché sul piano terapeutico i risultati ottenuti sulla sifilide dagli arsenobenzoli si rivelassero meno brillanti di quanto si fosse sperato, le idee di Ehrlich rappresentano una tappa fondamentale nel progresso della farmacologia: 1) per la chiara intuizione e formulazione del concetto di recettore che applica alla chemioterapia il principio "corpora non agunt nisi fixata"; 2) per la moderna metodologia della ricerca dei composti chimici da utilizzare come farmaci (Ehrlich sottolineava la necessità di ricavare da sostanze dotate di una certa efficacia degli omologhi e dei derivati, saggiare l'azione di ciascuno e, in base ai risultati così ottenuti, cercare di arrivare a medicamenti sempre migliori); 3) per il valore dato, oltre che alla sperimentazione in vitro del farmaco, anche alle prove cliniche su serie controllate di pazienti. Contemporaneamente, la chimica inorganica e organica ottocentesca continua nella chimica biologica (biochimica o chimica della vita) del primo Novecento, che dalla scoperta di ormoni (dal 1905) e di vitamine (dal 1912) trae nuove nozioni per una più precisa conoscenza dei processi chimicobiologici dell'organismo umano sano e malato. Si scopre che la carenza di alcune vitamine è all'origine di malattie (come lo scorbuto, il rachitismo, la pellagra) che per secoli avevano accompagnato l'esistenza delle classi economicamente disagiate o che turbe ormonali sono la causa di gravi patologie (come il diabete mellito o il gozzo ipotiroideo) che potevano essere curate somministrando l'ormone mancante estratto da tessuti animali (opoterapia).

6.

Dai sulfamidici e dagli antibiotici alle biotecnologie

Pur con la delusione degli arsenobenzoli, l'idea chemioterapica di Ehrlich resta un'affascinante ipotesi di lavoro. Seguendo questa strada G. Domagk, un ricercatore della Bayer, sintetizza nel 1932 un composto, il prontosil rosso, che ben presto mostra di possedere un'importante azione antibatterica ma, stranamente, solo in vivo e non in vitro. La ragione di questo bizzarro comportamento viene scoperta, nel 1935, da un gruppo di ricercatori dell'Istituto Pasteur di Parigi guidati da D. Bovet: l'azione antibatterica è dovuta solo a una parte del composto, il sulfamile, che si ottiene dopo la scissione del colorante operata dall'organismo. Nasce in questo modo una nuova rivoluzionaria classe di farmaci, i sulfamidici, i primi veri prodotti efficaci contro un gran numero di malattie infettive.

La vittoria definitiva sulle infezioni si avrà però solo durante gli anni drammatici della Seconda guerra mondiale, quando negli Stati Uniti iniziano segretamente le prime applicazioni cliniche e la produzione industriale di una sostanza dotata di straordinari poteri antibiotici, la penicillina, un estratto di muffa che era stato scoperto casualmente da A. Fleming nel 1929 e reso sufficientemente stabile per cristallizzazione nel 1939 da H. Florey e E. Chain. La penicillina, insieme agli antibiotici scoperti successivamente, come la streptomicina a opera di S.A. Waskman nel 1944, il cloramfenicolo e le cefalosporine nel 1947, la neomicina nel 1949, le tetracicline e l'eritrocina nel 1952, hanno sulla medicina e sulla società un impatto enorme, tale da influenzare tuttora in modo significativo la durata e la qualità della vita.

Bovet (che nel 1957 verrà insignito del premio Nobel per la medicina) è lo scienziato al quale la farmacologia moderna deve i maggiori contributi. Dopo l'importante scoperta, nel 1935, sull'azione antibatterica legata ai sulfamidici, nel 1937 compie studi fondamentali sull'istamina e sulle sostanze antagoniste (antistaminici) e successivamente, nel 1947, con le ricerche sulla gallamina apre la strada ai curari sintetici. In particolare gli studi sulle fenotiazine, sostanze ad azione antistaminica note da tempo, ma mai adeguatamente indagate, portano nel 1952 all'uso clinico come sedativo in alcune forme di psicosi della clorpromazina (largactil) da parte di J. Delay e P. Deniker, segnando l'esordio ufficiale della psicofarmacologia. Negli stessi anni, l'impiego dei sali di litio (iniziato nel 1949) e la scoperta di farmaci ad azione antidepressiva (anti-MAO nel 1952 e triciclici nel 1957) forniscono altri mezzi per affrontare in modo radicalmente diverso rispetto al passato i gravi problemi della patologia psichiatrica. Una nuova classe di 'tranquillanti minori', le benzodiazepine scoperte da L. Sternbach, si rivela assai efficace per controllare l'ansia e ridurre l'insonnia. Clorodiazepossido (librium, 1960) prima e diazepam (valium, 1963) poi sono i capostipiti di una famiglia di composti che ha mutato profondamente la vita di milioni di persone in tutto il mondo: migliorandola indubbiamente talvolta, ma creando spesso fenomeni di autentico gratuito consumismo farmacologico e di grave, ingiustificata e inaccettabile farmacodipendenza.

Una vera esplosione farmacoterapica sconvolge il mondo della medicina e della farmacologia nel secondo dopoguerra, a partire dagli anni Cinquanta. Dopo gli psicofarmaci vengono scoperti o sintetizzati nuovi e più potenti antibiotici (rifamicina, 1957; ampicillina, 1961), alcuni antimicotici (nistadina, 1950; griseofulvina, 1958), sostanze attive contro la tubercolosi (PAS, 1946; isoniazide, 1952), nuovi antispastici, analgesici e antinfiammatori non steroidei (FANS) che offrono, in alcune malattie croniche, valide alternative all'uso del cortisone, impiegato in terapia dal 1949. La cura del diabete mellito si arricchisce grazie all'introduzione degli antidiabetici orali (1955), mentre la scoperta e l'impiego dei contraccettivi (1956) permettono di controllare le nascite. Anche malattie neurologiche ritenute inguaribili (come il morbo di Parkinson) si giovano dell'introduzione in terapia della levo-dopa (1960), in grado di contrastare gli effetti devastanti del male. Iniziano a essere impiegati anche i primi diuretici e i primi betabloccanti ad azione ipotensiva e cardioprotettiva. Il ricorso sistematico agli antielmintici, la scoperta di nuove vitamine, la diffusione della vaccinazione antipoliomielitica, l'estensione dell'impiego di preparati chemioterapici nella lotta ai tumori portano a un graduale miglioramento nella terapia di molte forme patologiche.

Nell'apparentemente inarrestabile progresso farmaceutico, il dramma e il clamore che suscita nel 1960, in tutto il mondo, il caso talidomide (un farmaco ad azione ipnotica messo in commercio da un'industria tedesca come assolutamente sicuro, ma che, assunto in gravidanza, determina la nascita di bimbi focomelici) causa una brusca battuta d'arresto, spinge a una salutare pausa di riflessione sull'uso e sulla sicurezza dei farmaci e rende evidente la necessità di creare una legislazione nuova, intesa a promuovere una corretta sperimentazione farmaceutica e clinica dei farmaci, a garantire l'assenza di gravi effetti collaterali e a verificare la reale efficacia terapeutica dei medicinali messi in commercio. Si ridimensiona in tal modo anche il potere dilagante e poco controllato dell'industria farmaceutica, una delle ragioni - assieme alle nuove conoscenze scientifiche acquisite in quegli anni in ambito farmacologico - dell'esplosione farmacoterapica. Se l'industria, grazie ai suoi capitali economici e umani, è un motore importante della ricerca, è soprattutto l'opera paziente e costante degli scienziati, dentro le università e le istituzioni pubbliche, a tracciare le linee guida dell'attuale ricerca farmacologica. Queste riguardano in particolare la farmacologia dei mediatori chimici, delle amine e dei peptidi biologici, degli oppioidi endogeni (encefaline ed endorfine), quella cellulare e subcellulare, quella dei processi immunitari, del sistema nervoso centrale e del sistema endocrino. Così, accanto alla tradizionale farmacologia teorica e sperimentale, è andata nascendo una nuova farmacologia clinica, intesa come scienza applicata per un uso razionale del farmaco in ambito sanitario, che ha le sue principali espressioni nella farmacovigilanza (attenta a scoprire gli effetti collaterali negativi dei farmaci) e nella farmacoepidemiologia (intesa come valutazione quantitativa sull'uso e sull'abuso dei farmaci).

Molti farmaci innovativi di recente scoperta sono stati commercializzati negli ultimi decenni del 20° secolo: antiulcera, come la cimetidina (1972), precursore degli H₂ antagonisti, e l'omeprazolo (1994), capostipite degli inibitori di pompa; immunosoppressori, come la ciclosporina (1976), e antivirali, come l'aciclovir (1984) e i suoi derivati; calcio-antagonisti e ACE-inibitori (anni Ottanta) e sartani (anni Novanta) per il controllo della pressione arteriosa e la cardioprotezione; statine (1989), ad azione anticolesterolemica; farmaci impiegati per la cura dell'ipertrofia prostatica benigna, come la finasteride (1993); antiemicranici selettivi, come il sumatriptan (1994); più efficienti e sicuri antidepressivi, come gli inibitori del reuptake della serotonina (1992) e antipsicotici, come la clozapina e il clopentixolo (1996). Queste molecole, spesso capostipiti di nuove classi di farmaci, dovrebbero (il condizionale è d'obbligo) essere il frutto non solo di un'attenta ricerca ma anche di una più accurata valutazione del rapporto tra rischi e benefici. Il farmaco, infatti, ha sempre, accanto a un'azione benefica, anche un'azione dannosa sull'organismo nel quale viene introdotto: il suo uso in ambito clinico comporta la distinzione tra azione farmacologica (cioè di interazione biochimica con l'organismo, non sempre automaticamente benefica) e azione terapeutica (vale a dire capacità del prodotto di prolungare la durata e migliorare realmente la qualità della vita del malato). Gli enormi sviluppi, negli ultimi decenni, dell'ingegneria genetica (insieme di tecniche che permettono di operare direttamente sui geni), come conseguenza degli studi di biologia molecolare e dell'informatica, hanno consentito di aprire nuovi spazi di ricerca e di applicazione in ambito farmacologico con promettenti ricadute industriali. La sempre più precisa conoscenza dei bersagli molecolari (recettori) consente di ottenere farmaci in grado di intervenire direttamente sui meccanismi che sono all'origine di una malattia. L'analisi genetica delle alterazioni che determinano alcune manifestazioni patologiche permette di curarle fornendo all'organismo i geni di cui è privo o sostituendo quelli alterati con altri 'sani' (terapia genetica) o ancora di individualizzare la terapia farmacologica attraverso uno screening genetico, che consente di costruire un farmaco su misura per ogni singolo malato (genomica). A partire dagli anni Ottanta del 20° secolo le tecniche di ingegneria genetica hanno reso possibile la produzione su larga scala (trasferendo nei batteri geni specifici) di insulina, di alcuni tipi di interferone, di somatostatina ed eritropoietina. Oggi la produzione di proteine di utilità terapeutica è facilitata dall'uso di animali transgenici (Mammiferi nel cui corredo genetico sono stati introdotti specifici geni umani). Anche la progettazione, l'analisi e la produzione dei farmaci hanno subito un enorme cambiamento con l'introduzione delle tecniche di elaborazione informatica (genomica), che consentono di progettare virtualmente un farmaco (computer drug model) prima di realizzarlo materialmente, oppure permettono di esaminare a grande velocità le possibili affinità recettoriali di milioni di composti noti o ignoti (high throughpot screening) selezionandone così solo un piccolo numero da studiare da un punto di vista farmacologico. Sono queste le prospettive della farmacologia del futuro che dovrebbe consentire di avere farmaci più puri e anche più sicuri, somministrati oltre che con le tradizionali compresse, capsule, supposte o iniezioni endovenose e intramuscolari, con sistemi anch'essi tecnologicamente più sofisticati (come cerotti transdermici, spray nasali, capsule a rilascio controllato) per consentire un'assunzione più precisa e costante nel tempo del principio attivo, come gli studi di farmacocinetica hanno insegnato, al fine di ottenere il miglior risultato terapeutico possibile. Tuttavia, la farmacologia del futuro e la sanità del presente devono riflettere sull'ambivalenza insita nel concetto di farmaco: pozione benefica, ma anche veleno; rimedio innovativo e sovente insostituibile, ma anche prodotto di un'organizzazione industriale che ne fa talvolta solo oggetto di profitto economico. Un'ambivalenza che deve essere tenuta ben presente da chi svolge la ricerca scientifica, da chi effettua la produzione industriale e da chi suggerisce l'impiego clinico di ogni nuovo farmaco.

Principi di farmacologia

di Vittorio Erspamer


1.

Definizione

Generalmente si considera farmaco ogni sostanza attiva esogena, organica o inorganica, atta a modificare, direttamente o indirettamente, reversibilmente o irreversibilmente, i processi biochimici e quindi l'attività funzionale del protoplasma vivente. Il farmaco agisce non solo sulle cellule normali o patologiche degli organismi pluricellulari, in particolare dei Vertebrati, ma anche su qualsiasi altra struttura vivente, fino ai microrganismi e ai virus (agenti chemioterapici e antibiotici). Il concetto di sostanza esogena, equivalente all'inglese drug, esclude dai farmaci gli ormoni, i neurotrasmettitori, gli enzimi e tutte le altre molecole attive, sintetizzate e liberate nell'organismo durante i normali processi biochimici e funzionali. Tuttavia, qualsiasi sostanza attiva endogena diventa esogena, e quindi farmaco, quando, dopo essere stata estratta dai tessuti o sintetizzata, è reintrodotta nell'organismo con dosaggi, modalità e tempi di somministrazione che non riproducono con esattezza la biodisponibilità e il turnover del prodotto endogeno. Così sono farmaci la tiroxina, l'insulina, i glucocorticoidi, l'ormone della crescita somministrati a scopo terapeutico, sia pure come terapia sostitutiva. Dello studio dei farmaci si occupa la farmacologia, disciplina biologica dai confini sfumati, che si intreccia e compenetra con la biochimica, la fisicochimica, la fisiologia e, subordinatamente, con l'immunologia, la microbiologia, la genetica, la clinica, e si articola in distinte branche di ricerca (farmacologia generale, di organo o sistema, farmacologia cellulare e molecolare, neurofarmacologia, psicofarmacologia, neuroendocrinofarmacologia, cronofarmacologia, farmacogenetica, chemioterapia, anestesiologia, farmacologia preclinica e clinica, umana e veterinaria). Strettamente legata e inscindibile dalla farmacologia è la tossicologia. Non esiste farmaco che non possa essere anche veleno e non esiste veleno che, almeno potenzialmente, non possa essere anche farmaco. La tossicologia ha attualmente invaso, con i problemi dell'inquinamento ambientale (aria, terreno e acqua) e degli alimenti, tutti i campi dell'attività umana e della vita animale. Il recente rapido sviluppo tecnologico, con l'introduzione, anche nella ricerca farmacologica, di metodiche di analisi e di sintesi sempre più raffinate, sofisticate e largamente automatizzate, ha offerto allo sperimentatore possibilità prima impensabili di identificazione, isolamento, studio strutturale e preparazione di nuove molecole attive, nonché di più precise informazioni, per farmaci nuovi e vecchi, sul loro destino nell'organismo, la loro biodisponibilità, il loro metabolismo, il loro meccanismo d'azione, anche a livello molecolare.

2.

I recettori

Affinché le sostanze attive endogene, nella loro totalità (ormoni, neurotrasmettitori, neuromodulatori ecc.), e molti farmaci esogeni possano agire sulla cellula bersaglio è necessario che si aggancino a siti di legame o recettori, strutture macromolecolari poste sulla superficie (membrana) o all'interno della cellula. Da questo agganciamento originano i complessi segnali che portano alla risposta cellulare. Si è definitivamente accertato che per i liganti endogeni, quelli più a fondo studiati, esistono più tipi di recettori, spesso distribuiti in cellule diverse e talora presenti anche in una medesima cellula. Può anche verificarsi, per i neurotrasmettitori, che i recettori emergano oltre che sulle strutture postsinaptiche, cioè situate sulla membrana del secondo neurone, anche sulla stessa terminazione nervosa che li ha liberati, ossia a livello presinaptico. Così, per es., abbiamo i recettori adrenergici α₁ e α₂, β₁ e β₂, i recettori colinergici muscarinici (con vari sottotipi) e nicotinici, i recettori dell'istamina H₁ e H₂, i recettori oppioidi μ, δ, k ecc. Ma ai vari tipi e sottotipi di recettori possono agganciarsi sia molecole capaci di modificare, in senso positivo o negativo, la risposta cellulare, i cosiddetti liganti agonisti, sia altre molecole (più o meno simili strutturalmente alle precedenti) le quali, pur in grado di legarsi anche tenacemente al recettore, sono incapaci di per sé d'indurre direttamente una qualsiasi risposta cellulare. Se un recettore è occupato da uno di questi liganti inerti, il ligante agonista sarà privo di accesso al recettore e, quindi, la sua attività sarà bloccata. Tali liganti, di per sé sforniti di qualsiasi effetto primario, si dicono antagonisti poiché sono in grado di svolgere azioni farmacologiche indirette, ma altrettanto preziose, attraverso il blocco dei rispettivi agonisti. Così in farmacologia sperimentale e in terapia abbiamo gli α₁ e gli α₂, i β₁ e i β₂ bloccanti adrenergici, gli antistaminici H₁ e H₂ bloccanti, i bloccanti dei recettori della dopamina, dei recettori nicotinici e muscarinici dell'acetilcolina, i bloccanti dei recettori μ e δ degli oppioidi ecc.

Accanto agli antagonisti puri, vi sono gli antagonisti parziali, molecole cioè dotate di attività sia antagonista sia agonista. Di parecchi recettori, tutti di natura proteica, si conosce ormai la struttura primaria, cioè la composizione e la sequenza aminoacidica. L'importanza di queste acquisizioni è notevole, sia per la comprensione dell'affinità di legame ligante-recettore, sia per la progettazione di liganti (agonisti e antagonisti) nuovi, cioè di farmaci nuovi. L'esatta conoscenza della distribuzione dei recettori nei vari tessuti e della loro densità (cioè del loro numero nelle cellule bersaglio) è resa possibile dall'uso di liganti marcati, radioattivi, che, con la tecnica dell'autoradiografia, rivelano distribuzione e densità dei loro recettori nei diversi tessuti, a livello cellulare e subcellulare. Le implicazioni teoriche e pratiche derivanti da queste conoscenze sono assai rilevanti. Infatti dall'identificazione della mappa recettoriale di una sostanza attiva, soprattutto nuova, si potranno avere decisive informazioni sulla sua possibile funzione: l'azione di una sostanza sarà tanto più selettiva quanto più ristretta sarà l'area di distribuzione dei suoi recettori e una molecola perderà o attenuerà la sua azione in caso di assenza primaria, congenita, dei suoi recettori specifici o di riduzione secondaria, patologica, di questi recettori. Così, per es., se il tubulo renale distale sarà congenitamente privo dei normali recettori per l'ormone antidiuretico, si avrà il diabete insipido nefrogeno, che non potrà essere corretto da una terapia ormonale sostitutiva; se le cellule neoplastiche del cancro tiroideo e di quello della mammella avranno perso i rispettivi recettori per lo iodio e per gli steroli, la terapia con iodio radioattivo o con ormoni sessuali sarà priva di successo; se la placca motrice del muscolo scheletrico risulterà depauperata, per ragioni autoimmunitarie, dei recettori nicotinici dell'acetilcolina, come si verifica nella miastenia grave, il muscolo perderà il suo tono normale, e al grave inconveniente si potrà ovviare in modo duraturo facilitando la sintesi di molecole recettoriali nuove mediante una terapia immunosoppressiva, invece che con farmaci anticolinesterasici.

Per quanto concerne i liganti antagonisti, con l'agganciamento al recettore la loro funzione è esaurita. Le eventuali ripercussioni intracellulari di questo agganciamento non sono conseguenti a una qualche azione positiva, ma semplicemente al blocco di legame dei rispettivi agonisti. Blocco, tuttavia, che può essere di grande rilievo sperimentale, perché spesso capace d'indicare il meccanismo d'azione di un farmaco e di permettere l'individuazione e la distinzione di vari tipi e sottotipi di recettori, e di grande importanza terapeutica in caso di eccesso di disponibilità di agonisti esogeni ed endogeni o di eccessiva densità o reattività dei recettori. Si pensi al vasto impiego degli agenti di blocco adrenergico, degli antagonisti dell'angiotensina e della serotonina nel trattamento della malattia ipertensiva, all'impiego degli H₂ bloccanti istaminici nel trattamento dell'ulcera peptica, all'uso del naloxone nell'avvelenamento da oppiacei e dell'atropina nell'avvelenamento da funghi muscarinici. Per le sostanze agoniste, invece, l'agganciamento recettoriale causa l'innesco, tramite le G-proteine di membrana, di tutta una cascata di eventi biochimici e biofisici intracellulari sfocianti nella risposta cellulare. Somministrando endovena liganti (neurotrasmettitori, oppiacei, benzodiazepine ecc.) marcati con isotopi emettenti positroni si è oggi giunti, con la tecnica della PET (Positron emission tomography), a visualizzare e a quantificare la distribuzione dei relativi recettori nel cervello umano (figg. 12 A, B).

3.

I canali ionici

Uno degli argomenti di punta della farmacologia molecolare è rappresentato dallo studio dei cosiddetti canali ionici, di grandissima importanza per l'interpretazione dei fenomeni fisiologici e farmacologici che avvengono soprattutto a livello dei tessuti eccitabili, quali il tessuto nervoso e il tessuto muscolare, liscio e striato. Si tratta di canali di membrana, costituiti da glicoproteine di varia complessità (proteine di canale o di poro) che permettono il passaggio, spesso solo selettivo, di ioni o attraverso la parete della cellula o, nell'interno della cellula, attraverso la parete di organelli intracellulari (reticolo endoplasmatico, mitocondri), determinando in questo modo variazioni nella concentrazione di ioni nel citosol. Gli ioni più importanti e maggiormente studiati sono i cationi Na⁺, K⁺ e Ca⁺⁺ e l'anione Cl‒. Le variazioni nella loro concentrazione citosolica sono d'importanza cruciale per l'insorgenza e la trasmissione dei potenziali d'azione, la liberazione dei mediatori e, nelle cellule effettrici, per l'attivazione o il blocco della risposta cellulare. I canali ionici possono essere strettamente associati ai recettori oppure fungere essi stessi da recettori per neurotrasmettitori, farmaci e tossine. L'apertura e la chiusura dei canali sono causate da variazioni nella struttura delle proteine di canale, in risposta a un agente chimico (canali chemio-dipendenti) o a una modificazione del potenziale di membrana (canali potenziale-dipendenti). La conoscenza più approfondita dei tipi e del funzionamento dei canali ionici non solo rende possibile una migliore comprensione di numerosi fenomeni elettrofisiologici che si svolgono nell'ambito del sistema nervoso centrale e periferico e di altre strutture eccitabili ma, come si è detto, permette anche d'identificare il sito d'azione molecolare di svariati farmaci e di conseguenza di programmare la creazione di farmaci nuovi, attivatori o bloccatori dei canali ionici, spesso con considerevoli implicazioni terapeutiche. È questo il caso dei bloccatori dei canali del calcio (i calcio-antagonisti) quali il verapamil, la nifedipina, il diltiazene e altri, che trovano vasto impiego nel trattamento dell'angina, delle aritmie cardiache, dell'ipertensione, dell'asma e di malattie vascolari periferiche. Sono anche in studio sperimentale attivatori dei canali del calcio e attivatori e inibitori di altri canali ionici. Ci si è soffermati in modo particolare sui canali della cellula nervosa e della fibra muscolare, ma è evidente che questi canali giocano un ruolo fondamentale nell'attività funzionale delle cellule dell'organismo, tutte legate a ben precisi equilibri nella composizione e nella concentrazione ionica intracellulare. I canali ionici infatti intervengono in modo decisivo in tutti i processi secretori, in tutti i processi di assorbimento (soprattutto intestinale) e nei processi d'interscambio ionico che avvengono nel tubulo renale, i quali sono alla base dell'omeostasi ionica in tutti i liquidi extracellulari.

4.

Secondi messaggeri ed eventi intracellulari

I neurotrasmettitori, gli ormoni, i fattori di crescita e molti farmaci non naturali, come si è già rilevato, trasmettono i loro messaggi attraverso l'agganciamento a recettori specifici. Il segnale così recepito viene trasdotto e amplificato da particolari proteine di membrana leganti un nucleotide guaninico (le G-proteine). Sono esse le dirette responsabili dell'attivazione di canali ionici e di sistemi enzimatici, sempre di membrana, che catalizzano la formazione di secondi messaggeri, i veri promotori di quella successione finale di reazioni biochimiche che determinano la risposta cellulare. Gli enzimi attivati dalle G-proteine più conosciuti, con i relativi secondi messaggeri, sono quelli di seguito elencati.

a) Adenilatociclasi. Essa genera l'adenosinmonofosfato ciclico (cAMP), capace, dopo amplificazione catalitica del suo messaggio, di controllare a mezzo di processi di fosforilazione una serie di reazioni metaboliche liberatrici di energia e attraverso cui sembra attuarsi l'azione della corticotropina sulle cellule della corteccia surrenale (produzione di glucocorticoidi), quella delle gonadotropine sulle cellule sessuali (produzione di ormoni sessuali), quella dell'adrenalina, quando s'agganci ai recettori β. Un'attivazione o un'inibizione nella formazione del cAMP piastrinico a opera delle prostacicline e, rispettivamente, dei trombossani, sembra giocare un ruolo importante nell'aggregazione e nell'adesività di questi elementi del sangue e quindi nella patogenesi della malattia trombotica.

b) Guanilatociclasi. Dà origine al guanosinmonofosfato ciclico (cGMP), il quale è responsabile, per es., della risposta della fibrocellula muscolare liscia e delle cellule del tubulo renale ai peptidi natriuretici atriali.

c) Fosfolipasi C. Catalizzando l'idrolisi dei polifosfoinositidi (PIP), la fosfolipasi dà origine a due ulteriori secondi messaggeri, rappresentati dal diacilglicerolo e da uno sciame di inositolfosfati, dei quali il più importante e di gran lunga il più attivo è l'inositolo trifosfato (IP₃) che diffonde nel citosol producendo la liberazione in esso del calcio depositato negli organelli intracellulari, calcio che, a sua volta, può controllare i canali ionici della membrana plasmatica, come per es. i canali del potassio calciodipendenti. Un accumulo eccessivo di IP₃ citosolico è impedito dall'entrata in gioco di enzimi inattivanti, fosfatasi e chinasi, che trasformano l'IP₃ in IP₂ e IP₄ (inositolo di- e tetrafosfato) inattivi. Il diacilglicerolo, che sembra formarsi nella membrana cellulare, innesca, per suo conto, da una parte l'attivazione della proteinochinasi C, dall'altra l'attivazione della fosfolipasi A, con conseguente liberazione di acido arachidonico e generazione dei suoi potenti metaboliti (prostaglandine e trombossani). Nei tessuti eccitabili la fosfolipasi C sembra poter essere attivata, senza l'intermediazione del diacilglicerolo, anche da un aumento del calcio citosolico di provenienza extracellulare.

5.

Lo sviluppo di un medicamento

Attualmente il numero di medicamenti, che si possono definire veramente nuovi, immesso sul mercato mondiale ogni anno è inferiore alla decina. Infatti, prima che un farmaco diventi disponibile per la terapia umana devono passare parecchi anni di ricerca e sviluppo, con un impiego finanziario che attualmente s'aggira sui 150-200 miliardi. I punti di partenza per la scoperta di un nuovo farmaco/medicamento possono essere diversi: 1) sintesi casuale di entità chimiche che poi vengono sottoposte a una batteria di test, allo scopo di rilevare gli aspetti più diversi della loro attività farmacologica; si tratta di un metodo di ricerca scarsamente efficiente: si calcola che solo una su 10.000 molecole sottoposte a screening è destinata a diventare un medicamento; 2) sintesi e saggio di analoghi chimici di medicamenti già esistenti e affermati; salvo sorprese, si hanno soltanto vantaggi minori, quali miglior assorbimento, modificazioni nell'emivita e quindi nella durata d'azione, maggiore potenza e selettività d'azione; per questa via peraltro è stato possibile giungere anche a farmaci importanti e nuovi, quali per es. i diuretici tiazidici e gli ipoglicemizzanti orali; 3) sintesi di una sostanza programmata per svolgere un'azione farmacologica ben precisa; si tratta di un metodo più recente e razionale, al quale sono dovute la scoperta e l'introduzione in terapia, per es., degli agenti di blocco adrenergico, degli antistaminici H₁ e H₂ bloccanti, degli analoghi e antagonisti della 5-HT, degli ACE-inibitori, degli antimetaboliti nella chemioterapia antineoplastica ecc.; 4) riesame di rimedi tradizionali e popolari, generalmente di origine vegetale, allo scopo di identificare in essi nuovi costituenti attivi. Come gruppo a parte deve essere considerata la scoperta di nuovi antibiotici. Questa viene generalmente ottenuta attraverso l'esame delle più diverse muffe, di microrganismi e anche di tessuti vegetali e di tessuti animali.

Prima che una sostanza chimica farmacologicamente attiva possa essere utilizzata a scopo terapeutico devono passare, come si è detto, mesi e anni, impiegati nello sviluppo di tecniche analitiche e soprattutto in studi di farmacodinamica e farmacocinetica. Questi studi sono stati seguiti, per le molecole particolarmente promettenti, da approfondite indagini tossicologiche sull'animale, volte a stabilire in fasi successive: la tossicità acuta, basata sulla determinazione della dose letale al 50%, in seguito a somministrazione della sostanza per vie diverse; la tossicità subacuta, quale appare in seguito a somministrazione della sostanza a due, tre diverse specie animali, a dosi di parecchio superiori a quelle previste per l'uomo, per 60, 90 giorni; la tossicità cronica, stabilita attraverso la somministrazione a due, tre diverse specie animali, a diversi livelli posologici, per almeno sei mesi. Dopo aver ripetutamente controllato la funzionalità dei vari visceri, se ne esegue un accurato esame istologico e si rivolge particolare attenzione anche alle azioni della sostanza in esame sulla capacità riproduttiva dell'animale e al suo eventuale potere mutagenico, con particolare riguardo alla teratogenesi e alla cancerogenesi. Superate queste prove, la sperimentazione deve essere trasferita all'uomo, in quanto è solo nell'uomo che possono essere valutati gli eventuali fenomeni collaterali indesiderati o pericolosi. Solo dopo tale vaglio si può accettare il farmaco quale medicamento. Gli studi clinici vengono convenzionalmente suddivisi in varie fasi, sempre più approfondite e impegnative, finché si arriva agli studi dell'ultima fase, estesi a un notevole numero di pazienti e miranti a stabilire se il nuovo medicamento è più efficace di una medicazione fittizia (placebo) e se esso è superiore, nel bilancio tra vantaggi e inconvenienti, al migliore trattamento già disponibile per quella patologia. La reale efficacia del medicamento viene accertata tramite l'impiego combinato di appropriate tecniche soggettive e obiettive per le quali è di grande importanza che la fase finale di sperimentazione clinica abbia carattere policentrico. Nella sperimentazione umana, sia preclinica su volontari sani (diretta a confermare le azioni farmacologiche assodate nell'animale e a mettere in luce gli effetti collaterali), sia propriamente clinica su pazienti affetti dalla malattia che il medicamento è destinato a curare, è perentoriamente richiesto il consenso, previa informazione, da parte delle persone sottoposte allo studio.

Avvenuta la raccolta di sufficienti dati preclinici e clinici, che richiede almeno tre o quattro anni, il medicamento viene sottoposto per l'approvazione e la susseguente registrazione alla competente commissione del Ministero della Sanità. Se la documentazione è ritenuta adeguata, il medicamento viene registrato e diviene disponibile per la libera prescrizione medica generica o specialistica.

6.

Monitoraggio dei medicamenti e farmacovigilanza

Dopo che un farmaco è stato registrato, è divenuto cioè un medicamento a disposizione di tutti i medici, esso deve essere sorvegliato attentamente per anni, allo scopo d'individuare e valutare gli effetti collaterali indesiderati e pericolosi che esso inevitabilmente produrrà in un numero maggiore o minore di pazienti. Possiamo affermare che un effetto collaterale è attribuibile a un dato medicamento quando esiste una ragionevole sequenza cronologica tra la sua somministrazione e l'effetto collaterale e quando la reazione osservata non può essere plausibilmente attribuita alla storia naturale della malattia in atto nel paziente. Bisogna poi anche tenere presente la possibilità di danni a lungo termine: gli effetti cancerogeni ultratardivi, come quelli da arsenico o thorotrast; le embriopatie da farmaci, quali quella da talidomide; le conseguenze cancerogene in generazioni successive, quali quelle verificatesi in seguito alla somministrazione di dietilstilbestrolo durante la gravidanza. L'attenta registrazione di tutti i fenomeni indesiderati di un farmaco, acuti o cronici, vicini o remoti, spesso rilevabili dopo che il farmaco è stato somministrato a decine di migliaia di pazienti di tutte le età, affetti a volte da più malattie e che esigono pertanto associazioni di medicamenti, è oggetto di quello che viene chiamato monitoraggio dei farmaci, affidato più che alla buona volontà e acume dei singoli medici o infermieri, a gruppi di esperti in istituzioni ospedaliere create allo scopo. Gli esperti hanno il compito di segnalare, attraverso pubblicazioni scientifiche e mediante denuncia a enti pubblici, tutte le morti sospette da medicamenti e tutte le reazioni avverse, previste o del tutto inattese, che abbiano modificato in misura considerevole le condizioni generali del paziente, il decorso della malattia e la durata della ospedalizzazione. A questo punto entra in gioco la farmacovigilanza, servizio sociale di carattere nazionale e internazionale che, utilizzando tutti i dati affluiti dal monitoraggio, ha la mansione di valutare obiettivamente, in modo qualitativo e quantitativo, la pericolosità dei singoli medicamenti, di precisarne i limiti posologici, la durata del trattamento e le controindicazioni, attuando in questo modo una prevenzione realmente efficace dei danni dei medicamenti che, ove risultassero soverchianti rispetto ai benefici, ne comporterebbero la proibizione e il ritiro dal commercio. Il monitoraggio e la farmacovigilanza sono divenuti indispensabili in seguito ai fenomeni dilaganti dell'abuso di farmaci e dell'automedicazione. Compete altresì alla farmacovigilanza l'indicazione dei metodi più affidabili e raffinati per diagnosticare per tempo danni, da medicamenti, epatici, renali, cardiaci ecc. Il problema dei fenomeni collaterali dannosi da farmaci è di enorme interesse individuale, economico e sociale, in quanto è alto il numero degli affetti da malattie iatrogene, dei conseguenti ricoveri e delle morti da farmaci, episodi questi spesso dovuti a tossicità intrinseca del farmaco (per es. agenti antineoplastici), a ipersensibilità individuale (per es. penicillina), a un uso irrazionale del farmaco da parte del medico oppure a inadempienze e automedicazione da parte del paziente.

7.

Uso corretto dei farmaci

Un corretto utilizzo dei farmaci richiede una serie di precise valutazioni, nonché di cautele, come di seguito elencato: 1) dimostrazione dell'efficacia terapeutica in una percentuale di pazienti nettamente superiore a quella che può trarre giovamento da una medicazione con placebo; 2) impiego del farmaco alle dosi e per il tempo necessari per ottenere l'effetto terapeutico; assai spesso sono più pericolose dosi moderate date per lungo tempo che non dosi singole notevolmente elevate, come per i cortisonici; 3) accurato bilancio fra vantaggi attesi dal farmaco e suoi possibili danni; si possono accettare pesanti effetti collaterali solo in presenza di severe condizioni morbose (tumori, virosi ecc.); esporre il paziente al rischio di una grave malattia iatrogena (cortisonici, antipsicotici, antibiotici ecc.) è atto colposo se la malattia che si vuole curare è di lieve entità; 4) consapevolezza del fatto che parecchi farmaci danno assuefazione o abitudine; l'impiego futile o inutilmente protratto di questi farmaci spunta le armi terapeutiche, che saranno poi inefficaci quando si dovranno usare seriamente: il sonnifero non produrrà più il sonno, il tranquillante non toglierà più l'ansia, l'analgesico non rimuoverà più il dolore. Lo stesso vale nel campo della chemioterapia: per assuefazione o selezione il germe sarà diventato resistente all'antibiotico usato in modo scorretto. Alcuni casi di abitudine, come quelli da barbiturici, da anfetamina, da nicotina, sono spiegati dal fatto che tali sostanze inducono la formazione di enzimi metabolizzanti nei microsomi della cellula epatica. Tale fenomeno indebolisce sia l'azione farmacologica della droga induttrice, sia l'azione di altre droghe che per il loro metabolismo si avvalgono degli stessi sistemi enzimatici.

8.

Cronoterapia e farmacogenetica

Numerose funzioni fisiologiche vanno incontro a variazioni durante il corso delle 24 ore (ritmi circadiani o nictemerali) o nel corso dell'anno (ritmi circannuali) e, conseguentemente, anche la somministrazione di un medicamento può avere effetti diversi a seconda del tempo in cui viene attuata, nell'arco delle 24 ore o nelle diverse stagioni. Per es., poiché la secrezione dei glucocorticoidi da parte della corteccia surrenale è massima verso le ore 8 e minima verso le ore 18, è logico che una terapia sostitutiva corretta preveda la somministrazione di una dose maggiore di ormone alla sera e minore al mattino. Un'applicazione pratica importante della cronoterapia sembra si possa avere anche nella chemioterapia antineoplastica che, attuata secondo protocolli basati sui ritmi circadiani, potrebbe essere più efficace e meno tossica. È stato constatato che, per es., l'adriamicina è meglio tollerata al mattino e il cisplatino di sera. Nel campo dei tumori esistono, inoltre, differenze stagionali per incidenza e aggressività, ovviamente legate a variazioni nell'assetto neuroumorale e immunitario, che impongono un più attento monitoraggio della malattia nel periodo più a rischio (spesso la primavera) e quindi congrue modificazioni negli schemi terapeutici. Per quanto riguarda gli aspetti legati alla genetica, è stato osservato che fra individuo e individuo possono esistere grandi differenze nei processi di ossidazione intracellulari e, conseguentemente di inattivazione di certi farmaci che si palesano già alle prime somministrazioni e sono, pertanto, da considerare congenite. Esempio classico di farmacogenetica sono i medicamenti antidepressivi triciclici. In pazienti con processi ossidativi deficitari i composti triciclici producono, alle normali dosi terapeutiche, concentrazioni ematiche eccessivamente elevate e pesanti effetti collaterali, mentre in pazienti con processi ossidativi molto rapidi producono basse concentrazioni ematiche, terapeuticamente inefficaci. Altri esempi di anomalie enzimatiche genetiche sono la carenza di pseudocolinesterasi plasmatica, che causa ipersensibilità ed eccesso di risposta curarica al suxametonio; l'eccesso di attività della glucoso-6-fosfato deidrogenasi, che può provocare gravi episodi di emolisi dopo somministrazione di certi sulfamidici; la carenza di catalasi nei globuli rossi e nelle cellule tessutali, che impedisce la liberazione di ossigeno dall'acqua ossigenata. L'individuazione di variazioni genetiche nell'assetto degli enzimi ematici e cellulari - probabilmente più numerose di quanto finora accertato - permetterà di prevenire gravi reazioni da ipersensibilità e di attenuare o abolire parecchi effetti collaterali dei farmaci.

9.

Farmaci orfani

Non tutti i farmaci potenzialmente utili (inclusi alcuni vaccini e alimenti destinati a diete speciali) sono disponibili sul mercato, a motivo del loro limitato interesse commerciale. Tali sostanze possono essere definite farmaci orfani. In pratica si tratta di farmaci destinati al trattamento di malattie rare, non registrati o con registrazioni (patenti) vicine all'estinzione, impiegati in paesi poveri (in particolare per malattie endemiche tropicali) impossibilitati a pagarli. Tutto ciò si traduce nella mancanza di adeguati profitti per le case farmaceutiche. Se si tiene conto che negli Stati Uniti una malattia è considerata comune quando incide sulla popolazione per almeno 1'1% e rara quando riguarda lo 0,025% (meno di 50.000 pazienti), e che lo sviluppo di un medicamento veramente nuovo ha costi enormi - dall'iniziale sperimentazione farmacologica alla registrazione -, si comprende come le case farmaceutiche siano state o continuino a essere restie a occuparsi di medicamenti di limitato consumo e di mercato comunque poco redditizio. Il problema sembra tuttavia avviato a una parziale risoluzione. Sia spontaneamente, per ragioni umanitarie e di prestigio, sia in seguito a consistenti incentivazioni di vari governi (sovvenzioni, esenzioni fiscali, licenze esclusive), case farmaceutiche e istituti di ricerca statali si sono impegnati a produrre una serie di farmaci orfani e a programmare ricerche finalizzate alla terapia di malattie rare.

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