Farmacologia

Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)

Farmacologia

Giancarlo Pepeu

sommario: 1. Introduzione. 2. Definizione della farmacologia e delle discipline satelliti. 3. Le scoperte della farmacologia nel decennio 1975-1985. a) Farmaci che agiscono sui recettori. b) Farmaci che interferiscono con i flussi di calcio. c) Farmaci che modificano o imitano l'azione dei polipeptidi endogeni. d) Farmaci che interferiscono con il sistema prostaglandine-prostaciclina-trombossani-leucotrieni. e) Farmaci che inibiscono reazioni enzimatiche. f) Farmaci di origine naturale. g) Farmaci dei meccanismi difensivi naturali e acquisiti. 4. La tossicità dei farmaci. 5. Farmacologia e società. □ Bibliografia.

1. Introduzione

L'elegante trattazione dell'articolo farmacologia, scritto da P. Di Mattei per il II volume di questa Enciclopedia, copre i primi 75 anni di questo secolo. Oltre a definire la posizione concettuale della farmacologia, l'articolo descrive l'origine e la scoperta dei principali gruppi di farmaci che nella prima parte di questo secolo hanno cambiato radicalmente la terapia di molte malattie. Fra gli esempi più noti possiamo ricordare che la scoperta degli antibiotici ha permesso di guarire rapidamente la maggior parte delle malattie di origine batterica e che schizofrenia, epilessia, morbo di Parkinson sono da alcuni decenni se non guaribili quantomeno controllabili, tanto da permettere ai pazienti una qualità della vita decisamente migliore. Di Mattei ha messo inoltre in risalto come l'applicazione alla farmacologia delle conoscenze di chimico-fisica, biochimica, fisiologia e patologia accumulate nella prima parte del secolo abbia permesso di cominciare a capire il meccanismo d'azione dei farmaci e di porre su basi meno empiriche e più scientifiche sia le ricerche di nuovi farmaci sia la loro applicazione in terapia. Questi successi della farmacologia hanno creato l'illusione che possa esistere un farmaco per ogni situazione e hanno portato a un'enorme espansione del consumo di farmaci, con rilevanti conseguenze tossicologiche ed economiche di cui si parlerà diffusamente nel seguito di questo articolo.

La presente trattazione descrive lo stato dell'arte, i problemi e le conquiste della farmacologia dal 1975 al 1985, i nuovi farmaci introdotti in terapia, gli effetti nocivi che accompagnano l'uso esteso dei farmaci e infine i complessi rapporti di accettazione e rifiuto che sono andati stabilendosi tra farmaci e società. La vitalità della farmacologia trova una conferma nel fatto che anche in questo decennio, come in quelli precedenti, essa è stata onorata da un premio Nobel assegnato nel 1982 al farmacologo inglese John Vane, insieme ai biochimici svedesi Sune Bergström e Bengt Samuelsson, per le ricerche che hanno portato alla scoperta delle prostaglandine, della prostaciclina e dei trombossani e del loro ruolo in numerosi processi fisiologici e patologici, e all'identificazione del meccanismo d'azione dell'aspirina e dei farmaci analoghi. L'aspirina fu sintetizzata verso la metà del secolo scorso e fu introdotta in terapia da H. Dreser nel 1899: quasi un secolo, dunque, doveva passare prima che ne venisse identificato il principale meccanismo d'azione. La storia dell'aspirina è uno dei migliori esempi della continuità della ricerca farmacologica, del lento ma continuo sviluppo delle conoscenze biomediche e della stretta dipendenza delle conoscenze cliniche dall'avanzamento delle discipline di base. La farmacologia ha un ruolo di primaria importanza in quel processo di trasferimento delle conoscenze di base alla clinica che è fondamentale per far sì che sia sempre meno vera la celebre frase di Voltaire: ‟I medici somministrano farmaci dei quali sanno poco, per curare malattie delle quali sanno anche meno, in esseri umani dei quali non sanno nulla".

2. Definizione della farmacologia e delle discipline satelliti

L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce farmaco ogni agente chimico che influenza i processi viventi. Questa definizione rende estremamente estesi i limiti della farmacologia, intesa come disciplina che studia i farmaci. Essa si è pertanto articolata in numerose branche e ha dato origine a discipline satelliti che, pur trattando aspetti particolari, mantengono in comune con la disciplina d'origine il metodo sperimentale e l'obiettivo di studiare le interazioni fra organismi viventi e sostanze esogene. Queste sono anche definite sostanze xenobiotiche, con una parola di recente conio che indica sia i farmaci, intesi come agenti terapeutici, sia i tossici.

In questo capitolo descriveremo quelle discipline farmacologiche la cui autonomia è giustificata da un'alta specializzazione e dall'esistenza di riviste internazionali e di trattati a esse dedicati, e che nell'ultimo decennio hanno ottenuto un riconoscimento accademico in quanto sono diventate oggetto di specifici corsi di insegnamento in molte sedi universitarie italiane e straniere.

La ‛farmacologia medica', suddivisa in preclinica e clinica, è l'erede della ‛materia medica' del secolo scorso: per ragioni storiche e importanza pratica rimane la disciplina farmacologica principale e per il grande pubblico si identifica addirittura con la farmacologia. Essa fornisce al medico le ‟basi farmacologiche della terapia", per usare le parole del titolo dato da L. S. Goodman e A. Gilman nel 1940 a quello che è diventato il più diffuso trattato internazionale di farmacologia, raggiungendo nel 1985 la settima edizione (v. Goodman e altri, 19857). Questa disciplina infatti tratta le azioni terapeutiche e tossiche, i loro meccanismi cellulari e molecolari, gli effetti collaterali e la farmacocinetica dei farmaci usati in terapia; la sua suddivisione in preclinica e clinica tiene conto del fatto che le informazioni sui farmaci si basano su ricerche condotte inizialmente su animali da laboratorio o colture cellulari o microrganismi, per poi essere estese all'uomo. Questa suddivisione riguarda in realtà solo i metodi di studio, perché l'insegnamento della farmacologia medica, occupandosi dei farmaci usati nell'uomo, si basa su risultanze ottenute sia dalla ricerca che dalla sperimentazione preclinica e clinica. Tuttavia nell'ultimo decennio la ‛farmacologia clinica' ha acquistato una sua autonomia e il suo insegnamento è stato introdotto in molte facoltà mediche italiane e straniere.

Gli scopi e l'organizzazione della farmacologia clinica sono stati stabiliti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1970. Secondo l'OMS la farmacologia clinica dovrebbe occuparsi prevalentemente della cinetica e del metabolismo dei farmaci nell'organismo umano, della biodisponibilità dei farmaci e dei loro effetti collaterali e - secondo L. Lasagna (1985), storicamente il primo dei farmacologi clinici - quantificare i benefici e i rischi di un farmaco in termini epidemiologici. L'impiego terapeutico dei farmaci per trattare le condizioni patologiche del singolo paziente spetta alla clinica, che comprende la terapia, anche se in alcune sedi universitarie esiste un insegnamento autonomo di terapia che rappresenta un ponte culturale fra la farmacologia e la clinica.

La ‛chemioterapia', definita da P. Ehrlich all'inizio del secolo come ‟l'uso di farmaci per danneggiare un organismo parassita senza danneggiare l'ospite", mantiene nei riguardi della farmacologia un'autonomia più didattica e pratica che concettuale. Infatti essa è generalmente parte integrante dei trattati di farmacologia, anche se la sua suddivisione in chemioterapia delle infezioni protozoarie, chemioterapia antimicrobica, antivirale e antineoplastica, la continua scoperta e introduzione in terapia di nuovi agenti chemioterapici e la complessità degli schemi terapeutici ne hanno fatto una disciplina altamente specialistica.

Nelle Facoltà di Farmacia il corso fondamentale di farmacologia è denominato ‛farmacologia e farmacognosia'. Questo insegnamento dà più spazio allo studio della natura e dell'origine dei farmaci e della farmacologia preclinica di quanto non ne dia la farmacologia medica.

La ‛farmacologia veterinaria' studia e insegna a usare i farmaci per il trattamento e la prevenzione delle malattie degli animali. L'importanza di questa disciplina è rilevante soprattutto per il significato economico e alimentare dell'allevamento del bestiame. Essendo la farmacologia una scienza basata sulla ricerca nell'animale da laboratorio, la farmacologia veterinaria non è che un'estensione della farmacologia preclinica. Tuttavia, da un punto di vista pratico, la farmacologia veterinaria deve occuparsi anche di specie animali, quali i Ruminanti e gli equini, che non sono comunemente utilizzate per le ricerche di laboratorio dai farmacologi preclinici. Ciò comporta una serie di problemi applicativi peculiari di questa disciplina e ha determinato la nascita della farmacologia veterinaria clinica.

Il nome di ‛fitofarmacologia' va riservato allo studio delle sostanze usate per il trattamento e la prevenzione delle malattie delle piante e per l'eradicazione delle piante parassite. Malgrado la sua evidente importanza economica e le sue connessioni con la tossicologia, soprattutto con la tossicologia dell'ambiente, questa disciplina ha ancora un limitato sviluppo.

Per ‛farmacologia generale' si intende la disciplina che studia i principi generali dei meccanismi delle azioni terapeutiche e tossiche dei farmaci e il loro destino nell'organismo. A essa sono dedicate le prime pagine di tutti i testi di farmacologia sistematica. Poiché i principi generali dell'interazione tra farmaci e organismi trascendono gli aspetti applicativi dell'uso dei farmaci in medicina o veterinaria, l'insegnamento della farmacologia generale ha trovato posto anche nel curriculum di studi del corso di laurea in Scienze biologiche, nel nostro paese, o in lauree equivalenti all'estero. Una parte dei principi generali dell'interazione farmaco-organismo, per esempio i fattori che influenzano l'assorbimento, la distribuzione e l'eliminazione dei farmaci, è ormai consolidata e apparentemente immutabile. A questi principi si aggiungono gradualmente nuove conoscenze, frutto di una ricerca che utilizza spesso sia i metodi che le acquisizioni della biochimica e della biofisica. Esiste una rivista intitolata ‟General pharmacology", mentre il testo più diffuso dedicato a questa disciplina è quello di A. Goldstein, L. Aronow e S. M. Kalman (v., 19742).

Le sezioni della farmacologia generale in più rapida evoluzione hanno assunto il carattere di discipline autonome: è il caso della ‛farmacologia molecolare' e della ‛farmacogenetica'. Nell'editoriale del primo numero della rivista ‟Molecular pharmacology", pubblicata a partire dal 1965, si definisce questa disciplina come quella che studia i meccanismi dell'azione e della tossicità dei farmaci a livello molecolare. Le molecole dei farmaci interagiscono con le macromolecole degli organismi viventi interferendo con la funzione delle membrane cellulari, degli enzimi extra- e intracellulari, del materiale genetico. Lo studio delle caratteristiche strutturali, stereochimiche ed elettroniche delle molecole dei farmaci esula in buona parte dalla farmacologia molecolare per ricadere nella chimica farmaceutica, mentre la farmacologia molecolare approfondisce soprattutto le interazioni con le macromolecole. Particolare sviluppo ha avuto in questo decennio lo studio, anche di tipo quantitativo, dell'interazione tra i farmaci e le macromolecole che costituiscono i recettori (v. cap. 3, § a).

La ‛farmacogenetica' è un'altra sezione della farmacologia generale che ha assunto una rilevante importanza nell'ultimo decennio, senza tuttavia raggiungere autonomia di insegnamento: essa studia l'influenza del genotipo sulle risposte ai farmaci o ai tossici, identificando quelle variazioni genetiche del metabolismo dei farmaci che sono la causa delle differenze razziali e una delle cause delle differenze interindividuali nella risposta ai farmaci e in particolare nelle risposte anormali. Un esempio è costituito dalla scoperta che la colinesterasi plasmatica atipica, che si trova nello 0,05% dei caucasici, ha un'incidenza 300 volte minore negli asiatici, nei quali è pertanto minima la probabilità di un incidente nel corso di anestesia per il prolungarsi inatteso della paralisi da succinilcolina, un agente curarizzante la cui inattivazione è dovuta alle colinesterasi.

La ‛tossicologia' nelle sue diverse branche - tossicologia clinica, ambientale e industriale - si occupa degli effetti tossici dei farmaci e delle sostanze esogene presenti nell'ambiente e con le quali gli organismi viventi possono venire in contatto. La tossicologia si serve degli stessi principî generali e degli stessi metodi sperimentali della farmacologia, della quale inizialmente faceva parte, e tutti i trattati di farmacologia sistematica dedicano ampio spazio agli effetti tossici dei farmaci. Tuttavia l'estensione dei problemi tossicologici ha portato, come per la chemioterapia, alla necessità di una maggiore specializzazione, che si è tradotta in un insegnamento autonomo in molte sedi universitarie e nell'esigenza di trattati e di riviste specializzate.

La ‛farmacologia applicata' più che una disciplina autonoma è la definizione data a una parte della farmacologia in un fortunato libro inglese, dal titolo appunto Farmacologia applicata, pubblicato da A. J. Clark nel 1923, di cui sono comparse, fino ai nostri giorni, una dozzina di altre edizioni curate da A. Wilson e H. O. Schild, e anche traduzioni in italiano. Secondo Clark lo scopo della farmacologia applicata è quello di collegare la farmacologia con la terapia. La farmacologia applicata è un insegnamento autonomo in alcune sedi universitarie, anche se è difficile darne una precisa definizione e, nelle facoltà mediche, distinguerla chiaramente dalla farmacologia clinica.

Più facile è riconoscere un'autonomia culturale, didattica e soprattutto scientifica a diverse discipline farmacologiche altamente specialistiche quali: la ‛psicofarmacologia' (v. psicofarmacologia), che si occupa di tutte le sostanze che influenzano il pensiero, l'umore, le percezioni, senza alterare profondamente lo stato di coscienza; la ‛neurofarmacologia', che studia farmaci utilizzati nel trattamento delle malattie non psichiatriche del sistema nervoso centrale e delle malattie del sistema nervoso periferico; la ‛cardiofarmacologia', e l'‛immunofarmacologia', i cui campi sono rispettivamente i farmaci attivi sull'apparato cardiovascolare e quelli che modificano i processi immunitari e difensivi dell'organismo.

‛Farmacologia renale', ‛farmacologia comparata', ‛farmacologia dello sviluppo' sono suddivisioni sorte negli ultimi anni a causa dell'elevato grado di specializzazione cui è andata incontro la ricerca scientifica nei diversi campi della farmacologia. Altri aggettivi possono essere aggiunti alla parola farmacologia, ma non ne modificano i principi concettuali e metodologici: indicano solo l'apparato o il particolare gruppo di soggetti - neonati, bambini, vecchi - nell'ambito del quale sono studiate le azioni dei farmaci e le loro applicazioni terapeutiche.

L'ultimo decennio ha assistito a una rinascita di interesse per l'‛etnofarmacologia', una disciplina che sembrava scomparsa con la fine delle grandi esplorazioni del secolo scorso. Essa è stata definita da B. Holmstedt, uno dei suoi massimi cultori, come ‟l'esplorazione scientifica interdisciplinare di sostanze dotate di attività biologica tradizionalmente impiegate o osservate dall'uomo". L'etnofarmacologia non ha lo scopo di proporre l'uso di medicine tradizionali nelle forme utilizzate dagli aborigeni, ma di salvare e documentare un'importante eredità culturale, prima che vada perduta, e studiame e valutarne il potenziale valore pratico per la medicina scientifica. Se si considera che solo la flora del bacino del Rio delle Amazzoni comprende circa 73.000 specie e che fra queste negli ultimi 30 anni ne sono state identificate 1.300 dotate di attività biologica, si comprende quali possibilità di scoprire nuovi farmaci esistano ancora.

La ‛cosmetologia' è una disciplina che, pur non essendo originariamente di derivazione farmacologica, sta diventando parte della farmacologia, perché da questa acquisisce i metodi per la ricerca. La cosmetologia studia i cosmetici, prodotti che non possono essere considerati farmaci in senso stretto, in quanto non agiscono su processi patologici ma servono a mantenere o perfezionare la bellezza e a proteggere tessuti sani. Tuttavia, secondo l'estesa definizione di farmaco data dall'OMS, anche i cosmetici sono sostanze esogene che interagiscono con strutture biologiche, in questo caso la cute e i suoi annessi. Inoltre le autorità sanitarie di molti paesi chiedono che sia documentata sempre più accuratamente l'innocuità delle sostanze che compongono i cosmetici, sottoponendoli a controlli della loro attività biologica simili a quelli eseguiti sui farmaci e impiegando gli stessi metodi di studio in vitro e in vivo usati per questi.

3. Le scoperte della farmacologia nel decennio 1975-1985

Nell'ultimo decennio la farmacologia è stata caratterizzata da una grande espansione della ricerca e da uno straordinario aumento delle conoscenze sui meccanismi d'azione dei farmaci, sul loro metabolismo e sulla loro cinetica nell'organismo. Lo studio dei farmaci ha portato talvolta anche a una migliore comprensione dei meccanismi patogenetici delle malattie, e tuttavia il numero di nuovi farmaci scoperti in questo decennio è stato relativamente piccolo rispetto al passato. Le cifre investite dall'industria farmaceutica nella ricerca, assorbite in buona parte dalla farmacologia e dalla tossicologia, permettono di farsi un'idea dello sforzo compiuto.

Negli Stati Uniti la spesa per la ricerca farmaceutica è passata da 1 miliardo di dollari nel 1975 a 3,5 miliardi nel 1983. Secondo dati ‟ISIS news" (agosto 1985) la spesa sostenuta dall'industria farmaceutica italiana per la ricerca è passata da meno di 100 miliardi di lire nel 1975 a quasi 500 nel 1984 e l'incidenza sul fatturato dal 6,5 al 9,9%.

Nei prossimi paragrafi saranno illustrati i principali temi della ricerca farmacologica e i farmaci più importanti introdotti in terapia in questo decennio.

a) Farmaci che agiscono sui recettori

I farmaci modificano le funzioni delle strutture biologiche o interagendo con macromolecole specifiche che chiamiamo recettori o perturbando in maniera non specifica le membrane cellulari. Il concetto di recettore, come sito che riconosce la struttura chimica di un farmaco il quale esercita attraverso di esso le sue azioni, fu introdotto da Ehrlich nella seconda metà del secolo scorso e ha trovato continue conferme sperimentali ed elaborazioni teoriche. J. N. Langley, H. Dale, A. J. Clark, J. H. Gaddum, H. O. Schild e R. P. Ahlquist sono i principali ricercatori cui si devono quelle basi teoriche e sperimentali dello studio dei recettori che ne hanno fatto uno dei cardini della farmacologia. Le ricerche sui recettori e sui farmaci recettoriali hanno avuto uno straordinario sviluppo nell'ultimo decennio e si sono estese dalla farmacologia alla fisiologia, la patologia e la clinica. Ciò è dovuto allo sviluppo della radiochimica e alla conseguente disponibilità, all'inizio degli anni settanta, di numerosi leganti radioattivi con alta attività specifica. Per legante si intende qualsiasi molecola che si lega specificamente e con grande affinità a un recettore. Inoltre nello stesso periodo sono state messe a punto, per opera di S. Snyder, P. Quatrecasas, M. J. Kuhar e altri, tecniche relativamente semplici di studio (radioreceptor binding techniques) del legame fra leganti radioattivi e recettori, utilizzando membrane cellulari preparate da organi di animali o da tessuti prelevati dall'uomo mediante biopsia o dopo la morte. Sono stati inoltre elaborati i metodi matematici che permettono di calcolare sia il numero dei recettori sia l'affinità del legante per il recettore. Caratteristica dei recettori è di avere una grande affinità per il legante e di essere stereospecifici, di numero finito e pertanto saturabili. È possibile visualizzare i recettori con tecniche di autoradiografia e creare delle mappe di ciascun recettore nel sistema nervoso centrale. Infine, l'introduzione della tomografia a emissione di positroni (PET) e l'impiego di leganti marcati con radionuclidi quali 15O, 13N, 11C e 18F, che emettono positroni e che per la loro breve semivita danno livelli di radiazioni non pericolosi, hanno permesso di visualizzare alcuni recettori anche nell'uomo. Per il momento queste ricerche sono limitate ai recettori per la dopammina nei nuclei della base del cervello umano e ai recettori muscarinici dell'acetilcolina, ma è prevedibile che il loro sviluppo possa aprire nuove possibilità per la diagnosi delle malattie e per lo studio del meccanismo d'azione dei farmaci.

I primi recettori studiati estesamente sono stati quelli dei mediatori chimici della trasmissione nervosa nel sistema nervoso centrale e periferico, degli ‛autacoidi' - il nome dato da qualche anno ai cosiddetti ormoni locali di cui l'istamina è il più noto - e di alcuni ormoni, per esempio l'insulina o gli estrogeni. Tutte queste sostanze possono essere considerate leganti endogeni dei loro specifici recettori.

Gli effetti dell'acetilcolina, dell'adrenalina e noradrenalina e dell'istamina sui loro recettori erano stati studiati ben prima che fossero introdotti i leganti radioattivi. Erano stati sintetizzati molti composti definiti agonisti o antagonisti, che agiscono rispettivamente stimolando o bloccando questi recettori, e ne erano stati stabiliti i requisiti strutturali e l'affinità servendosi dei tradizionali metodi di farmacologia quantitativa su organi isolati per lo studio dei rapporti struttura-azione. L'introduzione dei leganti radioattivi ha permesso di identificare numerosi sottotipi dei recettori già noti, numerosi nuovi recettori e nuovi leganti endogeni; ha consentito inoltre di approfondire le conoscenze sui rapporti fra i due principali componenti del recettore: il sito di riconoscimento, cui si legano gli agonisti e gli antagonisti, e l'effettore, cioè il sistema enzimatico o il canale per uno ione, la cui attivazione o inibizione, nel primo caso, o la cui apertura o chiusura, nel secondo, permettono la propagazione del segnale del quale sono mediatori il neurotrasmettitore o l'ormone. Lo studio dei recettori effettuato con leganti radioattivi facilita la progettazione e l'identificazione di nuovi farmaci e inoltre, eseguito su tessuti umani post mortem o su cellule del sangue o materiale bioptico, ha permesso al clinico di rendersi conto che le alterazioni dei recettori possono avere un ruolo nella patogenesi di alcune malattie.

Esporremo alcuni esempi che illustrano il significato terapeutico e clinico degli sviluppi della ricerca farmacologica in campo recettoriale. Uno dei recettori più studiati nell'ultimo decennio è stato quello attraverso il quale l'acetilcolina liberata dai motoneuroni spinali trasmette gli impulsi nervosi alle fibre muscolari (v. sinapsi: Fisiologia della sinapsi periferica e Farmacologia della sinapsi neuromuscolare). Esso fu definito nicotinico da Dale, all'inizio del secolo, perché può essere attivato dalla nicotina, oltre che dall'acetilcolina. Lo studio di questo recettore è stato facilitato dalla presenza di recettori nicotinici nell'organo elettrico delle torpedini: infatti, la possibilità di ottenerne da questi pesci una grande quantità ha permesso a J. M. Lindström, M. A. Rafterv e J.-P. Changeux di purificare i recettori, stabilirne la struttura proteica e prepararne gli anticorpi monoclonali. La disponibilità di un legante specifico per i recettori nicotinici, quale l'α-bungarotossina ottenuta dal veleno del serpente Bungarus multicinctus, ha permesso a D. H. Fambrough e successivamente a numerosi altri ricercatori di dimostrare che nella miastenia grave vi è una diminuzione del numero dei recettori nicotinici delle giunzioni neuromuscolari. La miastenia grave è una malattia caratterizzata da riduzione del tono muscolare, estrema debolezza e infine paralisi respiratoria, dovute al fatto che la diminuzione del numero dei recettori nicotinici rende inadeguata la trasmissione degli impulsi nervosi dai motoneuroni ai muscoli. Il quadro clinico della miastenia ricorda la paralisi muscolare indotta dai curari, che sono bloccanti dei recettori nicotinici. La purificazione dei recettori e la preparazione di anticorpi specifici, la cui iniezione in animali da esperimento riproduce i sintomi della miastenia, hanno permesso di scoprire che la riduzione del numero dei recettori nella miastenia grave è dovuta alla presenza di anticorpi antirecettore nicotinico nel plasma dei pazienti miastenici. La miastenia grave può essere pertanto considerata una malattia autoimmunitaria e la terapia da puramente sintomatica è diventata patogenetica: buoni risultati terapeutici si possono infatti ottenere impedendo la formazione di anticorpi mediante l'impiego di farmaci immunosoppressori, o rimuovendoli dal plasma mediante plasmaferesi.

Alleviare il dolore è stato considerato sempre il primo compito del medico e la farmacologia ha sempre cercato di sviluppare nuovi e migliori analgesici e di capirne il meccanismo d'azione. La morfina, somministrata in passato sotto forma di preparazioni di oppio e successivamente come alcaloide puro, è il prototipo degli analgesici, ma il suo uso è ostacolato dalle proprietà stupefacenti e dagli effetti collaterali. Di qui la continua ricerca di migliori sostanze analgesiche. Da molti anni era stata formulata l'ipotesi che la morfina e i suoi derivati per esercitare la loro azione si legassero a specifici recettori posti sulla superficie o nell'interno delle cellule nervose: era ben nota la specificità sterica e strutturale che caratterizza i composti analgesici derivati dall'oppio e inoltre era stato osservato che piccole variazioni della struttura danno origine a potenti antagonisti come il naloxone. Fra il 1971 e il 1973 la disponibilità di levorfanolo ed etorfina triziati permise ad A. Goldstein, E. J. Simon, L. Terenius e S. H. Snyder di dimostrare l'esistenza di siti di legame stereospecifici per i derivati dell'oppio in tutti i Vertebrati, compreso l'uomo, ma non negli Invertebrati. Da un punto di vista teleologico sembrava improbabile che questi recettori si fossero sviluppati per combinarsi con alcaloidi di origine vegetale e fu pertanto ipotizzata l'esistenza di leganti endogeni che, agendo sui recettori per gli oppioidi, esercitassero un controllo delle percezioni nocicettive e fossero la causa dell'analgesia ottenibile con la stimolazione elettrica di alcuni nuclei del cervello o dei nervi periferici o con l'agopuntura. Nel dicembre del 1975 J. Hughes e i suoi collaboratori isolarono dal cervello e descrissero la struttura di due pentapeptidi, che chiamarono encefaline, dotati di azione morfinosimile e di affinità per i recettori degli oppioidi. Negli anni successivi sono stati identificati numerosi altri peptidi dotati di affinità per i recettori degli oppioidi e la tecnica del DNA ricombinante ha permesso di suddividerli in 3 gruppi: encefaline, endorfine e dinorfine, con distribuzioni anatomiche diverse.

La scoperta dei peptidi oppioidi è stata uno dei più importanti successi della farmacologia dell'ultimo decennio e ha avuto rilevanti conseguenze euristiche e pratiche: si è infatti dimostrato che questi peptidi hanno un ruolo nel controllo della percezione dolorifica e nella risposta allo stress e sono coinvolti nella regolazione cardiovascolare e in altre funzioni fondamentali, quali la temperatura e l'appetito. Essi offrono una spiegazione neurochimica degli effetti dell'agopuntura e di altri trattamenti analgesici non farmacologici nel corso dei quali, come è stato dimostrato, si ha la liberazione di oppioidi endogeni. La tolleranza, la dipendenza fisica e la sindrome di astinenza che accompagnano la somministrazione cronica di derivati della morfina e la sospensione della loro somministrazione possono essere spiegate da alterazioni dei meccanismi oppioidi. Fra le conseguenze pratiche degli studi sui recettori per gli oppioidi ricorderemo che la loro identificazione nel midollo spinale ha indotto a usare la via intratecale per la somministrazione della morfina e dei suoi derivati al fine di ottenere un'intensa analgesia con minori effetti collaterali rispetto alle vie orale e parenterale. Inoltre l'identificazione di recettori multipli per gli oppiacei, responsabili alcuni dell'effetto analgesico, altri degli effetti collaterali, ha permesso di sintetizzare nuovi analgesici più attivi e maneggevoli, come per esempio la buprenorfina.

Il ragionamento euristico che ha portato alla scoperta dei leganti endogeni dei recettori oppioidi è stato esteso ad altri farmaci, per esempio alle benzodiazepine che, per le loro azioni ansiolitica, ipnotica e anticonvulsivante e per la loro bassa tossicità, rappresentano uno dei gruppi di farmaci più usati in terapia: dalla metà degli anni cinquanta, epoca della loro scoperta, sono state sintetizzate decine di benzodiazepine con strutture chimiche molto simili. È stato pertanto ipotizzato che alla struttura delle benzodiazepine corrisponda un sito di riconoscimento specifico sulle membrane cellulari. R. F. Squires e C. Braestrup, H. Mohler e T. Okada dimostrarono nel 1977, impiegando benzodiazepine triziate, l'esistenza nel cervello di tutti i Vertebrati, compreso l'uomo, di siti di legame ad alta affinità, stereospecifici e saturabili per le benzodiazepine. La scoperta di questi recettori ha contribuito alla comprensione del meccanismo d'azione delle benzodiazepine, ha portato alla sintesi di antagonisti e ha posto il problema dei leganti endogeni. La ricerca dei leganti endogeni dei recettori delle benzodiazepine, ancora in corso, ha portato all'identificazione di un polipeptide definito DBI (diazepam binding inhibitor, inibitore del legame del diazepam) che, oltre ad avere affinità per i recettori delle benzodiazepine, induce ansia nell'animale da esperimento. Le ricerche farmacologiche permettono oggi di ipotizzare che l'ansia sia sostenuta da un'eccessiva produzione di questo peptide, o di peptidi simili, e che le benzodiazepine agiscano antagonizzando l'effetto di questi peptidi e di altre sostanze ansiogene, come alcune β-carboline.

La ricerca farmacologica offre pertanto una spiegazione neurochimica dell'ansia e nuovi farmaci per il suo trattamento, e sta allargando l'indagine al campo della depressione. La terapia di questa affezione psichiatrica che, in forma più o meno grave, affligge circa il 10% della popolazione dei paesi industrialmente avanzati, si basa su due gruppi di farmaci scoperti alla fine degli anni cinquanta, gli antidepressivi triciclici e gli inibitori delle monoamminossidasi, e su numerosi farmaci introdotti in terapia per lo più nell'ultimo decennio, che, non avendo in comune nè la struttura chimica nè un evidente meccanismo d'azione, sono stati definiti antidepressivi atipici o della seconda generazione. Fra essi ricorderemo il trazodone, l'iprindolo, la mianserina, l'amineptina. Il meccanismo mediante il quale questi farmaci, così diversi tra loro da un punto di vista chimico, possono modificare l'umore e le condizioni affettive di un paziente, determinando la remissione o l'attenuazione della depressione, è studiato da trent'anni ma rimane uno dei problemi più difficili e ancora in buona parte irrisolti della farmacologia odierna. D'altra parte la sua soluzione non solo permetterebbe di sintetizzare farmaci più specifici e più attivi, ma farebbe luce sui meccanismi patogenetici della depressione e di conseguenza sulle basi biologiche dell'umore e del comportamento affettivo. I criteri euristici applicati agli oppioidi e alle benzodiazepine hanno portato ad alcune importanti osservazioni anche in questo campo. Sono stati infatti identificati siti di legame ad alta affinità, stereospecifici e saturabili per alcuni antidepressivi. Questi siti di legame si trovano sia su particolari terminali nervosi, dei quali probabilmente modulano la funzione, sia sulle piastrine ematiche. È stato dimostrato che le piastrine ottenute dal sangue di pazienti depressi non trattati hanno un minor numero di siti di riconoscimento che quelle di soggetti non depressi. Sono attualmente in corso ricerche per identificare i leganti endogeni di questi siti di riconoscimento, la cui scoperta potrebbe dare una precisa base biochimica alla depressione.

Le ricerche sui recettori oppioidi, le benzodiazepine e gli antidepressivi sono state descritte con relativa ampiezza perché offrono un chiaro esempio dei più recenti sviluppi della farmacologia del sistema nervoso e dell'influenza che la farmacologia esercita sullo studio dei meccanismi patogenetici. Tuttavia si potrebbe affermare criticamente che queste ricerche sui recettori, che non hanno in realtà prodotto nell'ultimo decennio alcun farmaco nuovo, sono la ricaduta delle scoperte farmacologiche del precedente periodo.

Esistono tuttavia campi nei quali la ricerca recettoriale dell'ultimo decennio ha prodotto nuovi farmaci che hanno radicalmente modificato la terapia. È questo il caso degli antagonisti dei recettori H2 dell'istamina, che sono diventati i principali farmaci per l'ulcera gastrica e duodenale e per gli stati ipersecretivi gastrici. J. Black e i suoi collaboratori, nel 1972, dimostrarono in maniera definitiva che l'istamina esercita le sue azioni su due recettori diversi chiamati H1 e H2. I recettori H2 mediano gli effetti dell'istamina sulla secrezione gastrica. Lo studio dei rapporti struttura/azione ha portato Black alla sintesi della burimamide, il primo farmaco che bloccava l'effetto stimolante dell'istamina e della pentagastrina sulla secrezione gastrica di acido cloridrico. La burimamide non potè essere usata in terapia perché poco assorbita e il suo successore, la metiamide, dovette essere ritirato dal commercio perché induceva agranulocitosi. Tuttavia questi due farmaci permisero di stabilire i requisiti strutturali degli antagonisti dei recettori H2 e resero possibile nel 1975 la sintesi della cimetidina, la cui somministrazione determina l'immediata scomparsa del dolore e la rapida cicatrizzazione dell'ulcera gastrica nel 5o-75% dei casi trattati. Nel 7o-8o% dei casi di ulcera duodenale trattati con cimetidina l'esame endoscopico rivela una cicatrizzazione, contro il 30-40% dei casi trattati con un placebo. La cimetidina è stata seguita pochi anni dopo dalla ranitidina, dotata di maggiore attività e di minori effetti collaterali. L'interruzione della terapia è spesso seguita da ricadute: ciò dimostra che questi farmaci non agiscono sulle cause dell'ulcera ma sul suo meccanismo patogenetico, e tuttavia il loro impiego arreca un grande e immediato beneficio al paziente e ha portato a una netta diminuzione degli interventi chirurgici di resezione gastrica.

Poiché questa trattazione vuole solo illustrare le linee del ragionamento scientifico che ha guidato la ricerca farmacologica dell'ultimo decennio, e non descrivere tutti i farmaci che ne sono derivati, ci limiteremo a pochi altri esempi di farmaci recettoriali.

I recettori della dopammina nel sistema nervoso centrale e negli organi periferici sono stati oggetto di numerosissime ricerche che hanno portato alla scoperta di sottotipi, identificati come recettori D1 e D2, e alla definizione della loro funzione fisiologica e dei meccanismi biochimici attraverso i quali essi trasducono il segnale risultante dalla loro attivazione. Sono stati sintetizzati numerosi farmaci sia agonisti che antagonisti di questi recettori. Fra gli agonisti alcuni, come la bromocriptina e la lisuride, possono essere usati nel morbo di Parkinson e nei disturbi endocrini da iperprolattinemia. Nessuno dei nuovi antagonisti ha acquistato l'importanza terapeutica delle fenotiazine e dei butirrofenoni alla cui attività antipsicotica hanno aggiunto poco, ma quelli che non agiscono sul sistema nervoso centrale, come il domperidone, rappresentano importanti farmaci per il controllo della nausea e del vomito. Lo studio delle alterazioni dei recettori dopamminergici nel morbo di Parkinson e nella schizofrenia rappresenta un altro punto d'incontro della farmacologia con la patologia e con la ricerca clinica.

Nuovi antistaminici anti-H1 utili nelle allergie, che non passano la barriera ematoencefalica e danno minori effetti collaterali, nuovi antagonisti dei recettori beta per il trattamento dell'ipertensione e dell'insufficienza coronarica, nuovi agonisti beta-selettivi utili nell'asma: sono altri importanti, anche se non rivoluzionari, risultati della farmacologia recettoriale degli ultimi anni, che hanno messo a disposizione del medico farmaci sempre più specifici e dotati di minori effetti collaterali.

b) Farmaci che interferiscono con i flussi di calcio

Se la differenza di potenziale fra l'interno e l'esterno della cellula, che è alla base dell'eccitabilità cellulare, è mantenuta dalla diversa distribuzione intra- ed extracellulare del sodio e del potassio, numerose funzioni specializzate della cellula, quali la secrezione di neurotrasmettitori dalle terminazioni nervose, le secrezioni ghiandolari esocrine ed endocrine, l'attività delle cellule pace-maker cardiache, la contrazione della muscolatura scheletrica, liscia e cardiaca, sono dovute all'entrata nelle cellule e alla mobilizzazione intracellulare di ioni calcio. Il calcio svolge pertanto un ruolo fondamentale nell'accoppiamento fra eccitazione e risposta cellulare. D'altra parte l'accumulo di ioni calcio nel tessuto cardiaco o cerebrale è causa di gravi danni ai mitocondri e di profonde alterazioni biochimiche che possono portare alla morte cellulare.

La comprensione del ruolo del calcio in fisiologia e patologia è il risultato di decenni di ricerche iniziate con l'osservazione, fatta nel 1882 da S. Ringer, che la perfusione con soluzioni saline prive di calcio causava l'arresto del cuore di rana. Verso la fine degli anni sessanta fu chiarito, per merito soprattutto di A. Fleckenstein e P. Godfrain, che alcuni farmaci introdotti in terapia per le loro proprietà vasodilatatrici, quali il verapamile, la prenilamina, la cinnarizina, erano in realtà dei bloccanti dell'entrata del calcio nelle cellule muscolari lisce. Negli anni successivi le ricerche sui movimenti transmembrana del calcio e sui farmaci che interferiscono con essi hanno avuto una straordinaria espansione. Sono stati sintetizzati nuovi farmaci, i più importanti dei quali sono il diltiazem e la nifedipina e i suoi derivati. Essi sono stati introdotti in terapia e hanno permesso di ottenere brillanti risultati nel trattamento di alcune malattie dell'apparato cardiovascolare, quali le aritmie, l'ipertensione e le insufficienze vascolari coronariche e periferiche. I farmaci che influenzano i flussi di calcio sono stati definiti ‛calcioantagonisti' e ‛calcioagonisti'. Il termine ‛calcioantagonisti', introdotto da Fleckenstein, non è esatto da un punto di vista farmacologico, perché questi farmaci non impediscono l'azione del calcio bloccandone il legame con un sito attivo, ma ne limitano la disponibilità riducendone i flussi di entrata in alcune cellule, mediante un'interazione con i canali lenti del calcio la cui apertura dipende dal potenziale di membrana, e cioè sono aperti dall'arrivo dell'impulso elettrico.

Per questi farmaci sono stati proposti pertanto altri nomi - quali ‛bloccanti dei canali lenti del calcio', ‛bloccanti dell'entrata del calcio', ecc. - che ne descrivono meglio il meccanismo d'azione, consistente in una inibizione selettiva, in funzione della dose, della corrente di entrata del calcio che attraversa il sarcolemma, utilizzando i cosiddetti canali lenti. Tuttavia un blocco completo dei canali del calcio sarebbe incompatibile con la vita, in quanto porterebbe all'arresto dell'automatismo cardiaco e alla perdita della forza di contrazione. In realtà l'uso clinico dei calcioantagonisti mira a ottenere una normalizzazione del flusso di calcio quando esso aumenta per motivi patologici. La possibilità di usare con successo in terapia i calcioantagonisti si basa sul fatto, messo in luce proprio dalla disponibilità di molecole specifiche, che esistono spiccate differenze nel modo con il quale il calcio è reso disponibile per le diverse funzioni cellulari.

Così fra i calcioantagonisti che bloccano i canali lenti del calcio si distinguono molecole più attive sul miocardio e le cellule del nodo del seno, quali il verapamile e il diltiazem, e molecole più attive sulle cellule muscolari lisce della parete vascolare, quali la nifedipina e analoghi. Pertanto la nifedipina trova impiego nel trattamento dell'ipertensione, mentre il verapamile è usato nelle aritmie e nell'insufficienza coronarica. Inoltre i calcioantagonisti che abbiamo ricordato ostacolano solo a dosi molto alte i flussi di calcio responsabili delle secrezioni ghiandolari e della liberazione di neurotrasmettitori dalle terminazioni nervose: pertanto alle dosi usate comunemente in clinica queste funzioni sono rispettate.

Ugualmente, la concentrazione di calcio libero intracellulare necessaria per indurre la contrazione delle fibre della muscolatura scheletrica è regolata dai depositi di calcio del reticolo sarcoplasmatico e mitocondriale e non dai canali, e pertanto i calcioantagonisti non hanno effetti apprezzabili sulla forza muscolare scheletrica. La riduzione del tono e della forza di contrazione della muscolatura scheletrica può essere ottenuta con farmaci che diminuiscono la quantità di calcio liberata dal reticolo sarcoplasmatico: ne è un esempio il dantrolene, che viene utilizzato per trattare condizioni di spasticità e il cui effetto collaterale più importante è una spiccata debolezza muscolare.

Sono state anche scoperte sostanze (chiamate per analogia calcioagonisti) che stimolano il flusso di calcio, come la maiotossina, che stimola la muscolatura liscia, o alcuni derivati della nifedipina dotati di azione inotropa positiva. Queste sostanze non sono ancora usate in terapia, ma è prevedibile che potranno diventare importanti strumenti terapeutici in malattie nelle quali la contrazione o le secrezioni calciodipendenti sono patologicamente depresse. I calcioantagonisti sono invece considerati farmaci di prima scelta per il medico pratico nell'ipertensione, nell'insufficienza coronarica, nelle aritmie cardiache e nell'ictus cerebrale ed è prevedibile che negli anni venturi domineranno la farmacologia cardiovascolare e probabilmente anche altri campi della farmacologia.

c) Farmaci che modificano o imitano l'azione dei polipeptidi endogeni

Lo sviluppo delle tecniche di separazione cromatografica, dei metodi di dosaggio radioimmunobiologico e di identificazione e sintesi delle sequenze amminoacidiche ha portato negli ultimi anni alla scoperta di un numero sempre maggiore di polipeptidi dotati di importanti azioni fisiologiche sia a livello di organi periferici che del sistema nervoso centrale. Accanto a ormoni di natura polipeptidica, quali l'insulina, l'ossitocina, la vasopressina, agli enzimi digestivi, alle chinine plasmatiche, all'angiotensina, alla sostanza P - tutte sostanze note da tempo - sono apparse le encefaline, le endorfine, la colecistochinina, il peptide vasoattivo intestinale (VIP), il neuropeptide Y, la somatostatina, la bombesina, la neuromedina, il peptide natriuretico atriale e molti altri.

Essi formano una numerosa famiglia di sostanze attive, del cui ruolo devono tener conto il fisiologo, il farmacologo e il clinico. Un importante contributo alla identificazione di queste sostanze e delle loro azioni è stato dato dalla farmacologia italiana per opera di V. Erspamer e dei suoi collaboratori. Molti di questi peptidi sono liberati dalle terminazioni nervose assieme ai neurotrasmettitori classici, quali l'acetilcolina o le monoammine, e hanno funzioni multiple, agendo come neurotrasmettitori o neuromodulatori nel sistema nervoso centrale e periferico. In altri casi esercitano azioni su organi periferici, come per esempio la colecistochinina che stimola la muscolatura liscia, o la sostanza P che aumenta la permeabilità capillare. Il nome di neurochinine, attribuito recentemente alla sostanza P e a due suoi analoghi naturali, indica appunto la duplice azione centrale e periferica di queste sostanze.

L'allargarsi delle conoscenze sui peptidi offre alla farmacologia numerose possibilità di scoprire nuovi farmaci. È infatti possibile utilizzare i peptidi come farmaci, inibire la loro sintesi, liberazione e inattivazione, e sintetizzare derivati dei peptidi naturali dotati di più intense azioni agoniste o di azioni antagoniste: lungo queste linee si muove la ricerca farmacologica. Qui ricorderemo solo alcuni esempi. L'ACE (angiotensine converting enzyme), l'enzima che converte il decapeptide angiotensina I, inattivo, nell'octapeptide angiotensina II, dotato di intensa attività vasocostrittrice, è un'esopeptidasi di membrana. L'angiotensina I si forma dall'angiotensinogeno plasmatico per azione della renina, un enzima proteolitico che si libera dalle cellule giustaglomerulari del rene in condizioni di ischemia renale, di riduzione della pressione e del volume del sangue o di deplezione di sodio. Il sistema renina-angiotensina svolge un importante ruolo nella patogenesi di alcune forme di ipertensione e nello scompenso cardiaco (v. ipertensione arteriosa). Nel 1977, come risultato di una complessa serie di ricerche sulla struttura delle peptidasi e dei loro inibitori, M. A. Ondetti e i suoi collaboratori sintetizzarono il captopril, il primo degli inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina somministrabile per via orale e utilizzabile in terapia. Il captopril, un farmaco scoperto in seguito a un'accurata e ben mirata ricerca di farmacologia biochimica, si è rivelato molto utile nel trattamento dell'ipertensione, in quanto riduce le resistenze periferiche, e nello scompenso cardiaco congestizio. La sintesi del captopril è stata seguita da quella dell'enalapril ed è prevedibile che numerosi nuovi farmaci di questo tipo saranno offerti al medico nel prossimo futuro.

L'esopeptidasi che converte l'angiotensina I nell'angiotensina II è una carbossipeptidasi che degrada anche altri polipeptidi, comprese le encefaline. L'importanza pratica dell'inibizione del metabolismo delle encefaline non è stata ancora definita. Tuttavia la possibilità di potenziare l'azione degli oppioidi endogeni per ottenere un effetto analgesico è attualmente oggetto di numerose ricerche, volte da un lato a definire le caratteristiche delle peptidasi responsabili dell'inattivazione delle encefaline, dall'altro a sintetizzare inibitori selettivi e a studiarne le azioni farmacologiche. I lavori di J. C. Schwartz e collaboratori hanno dimostrato la presenza nel sistema nervoso centrale di una encefalinasi, relativamente specifica, la cui inibizione causa analgesia in molte situazioni di dolore sperimentale. È prevedibile che gli inibitori delle encefalinasi potranno essere introdotti in terapia come farmaci analgesici nel giro di pochi anni.

Alcuni polipeptidi naturali sono usati come farmaci: da molti anni l'ossitocina viene somministrata per indurre il parto e la vasopressina per curare il diabete insipido, mentre è di questi ultimi anni l'uso del TRH (thyrotropin-releasing hormone) o tireoliberina nel trattamento delle lesioni traumatiche e degenerative dei motoneuroni spinali e si profila la possibilità di un impiego clinico della neurotensina.

Sono stati anche sintetizzati gli antagonisti di numerosi peptidi, per esempio delle neurochinine, dell'angiotensina, della vasopressina, ecc., che hanno permesso di dimostrare che i polipeptidi, come le ammine classiche, agiscono su diversi tipi di recettori. Questi antagonisti, tuttavia, non sono ancora stati introdotti in terapia e rappresentano solo una promettente via di ricerca per il prossimo futuro. Analoga è la situazione di numerosi derivati di sintesi dei polipeptidi naturali dotati di attività agonista: per esempio, sono stati sintetizzati numerosi derivati delle encefaline e delle endorfine, ma quelli sinora sperimentati nell'uomo non hanno dimostrato effetti terapeutici, in particolare attività analgesica, superiori o più vantaggiosi di quelli della morfina e dei suoi derivati sintetici. Tuttavia è prevedibile che la sintesi di nuovi polipeptidi possa portare nel futuro alla scoperta di importanti farmaci.

d) Farmaci che interferiscono con il sistema prostaglandine-prostaciclina-trombossani-leucotrieni

Uno dei più importanti argomenti di ricerca della farmacologia degli anni sessanta è stato lo studio delle azioni farmacologiche delle prostaglandine e del meccanismo d'azione dei farmaci antinfiammatori non steroidei, dei quali l'aspirina è il prototipo. L'interesse suscitato da questo argomento è documentato dal fatto che al primo simposio internazionale sulle prostaglandine, nel 1966, furono presentate 35 comunicazioni e al quarto simposio, nel 1979, le comunicazioni si contavano a centinaia e gli atti del simposio superavano le 2.000 pagine. L'ultimo decennio ha portato a nuovi importanti sviluppi in questo campo, nel quale la comprensione dei meccanismi patogenetici di alcuni quadri morbosi e la scoperta di nuovi farmaci sono più che mai legate.

Prostaglandine, prostaciclina, trombossani e leucotrieni sono derivati dell'acido arachidonico, liberato dai fosfolipidi delle membrane cellulari per azione delle fosfolipasi A2 e C, attivate dai più svariati stimoli fisici, chimici, ormonali, immunologici. L'acido arachidonico prende due vie: da una parte dà origine alle prostaglandine primarie, ai trombossani e alla prostaciclina, per opera di una complessa serie di reazioni chimiche iniziate dalle ciclossigenasi, dall'altra viene trasformato in leucotrieni per opera della lipossigenasi e di successive altre reazioni enzimatiche. Tutti questi derivati dell'acido arachidonico sono dotati di un numero straordinario di azioni. Senza entrare in dettagli, ricorderemo che è stato dimostrato un ruolo delle prostaglandine nella fisiologia della riproduzione e nel meccanismo del parto, che le prostaglandine e i leucotrieni contribuiscono in maniera rilevante al processo infiammatorio e alla risposta immunitaria, che i leucotrieni inducono broncospasmo e sono coinvolti nella patogenesi dell'asma, che la prostaciclina ha un'intensa azione dolorifica, che il trombossano A2 ha un'intensa azione aggregante piastrinica e la prostaciclina una potente azione antiaggregante. La farmacologia ha dimostrato che alcune prostaglandine possono essere usate come contraccettivi e per facilitare il parto, che alcuni derivati delle prostaglandine possono esercitare un'azione antiulcera, che la perfusione con prostaciclina può essere utile nelle trombosi arteriose, nella prevenzione dell'aggregazione piastrinica in cardiochirurgia e nell'emodialisi. Tutti i farmaci antinfiammatori, a cominciare dall'aspirina, sono inibitori della sintesi delle prostaglandine, ma la ricerca farmacologica è oggi volta a trovare inibitori più selettivi, che possano essere usati come antiaggreganti piastrinici o esercitino un effetto antinfiammatorio senza gli effetti collaterali che derivano dall'inibizione della sintesi delle prostaglandine a livello gastrico, renale, uterino. È in corso la ricerca di farmaci inibitori della sintesi dei leucotrieni, che possano servire nella terapia dell'asma e per ridurre il ruolo dei leucotrieni nell'infiammazione. La ricerca è anche orientata verso la sintesi di nuove prostaglandine e di antagonisti selettivi dei derivati dell'acido arachidonico.

e) Farmaci che inibiscono reazioni enzimatiche

Questo meccanismo d'azione è proprio di molti dei farmaci dei quali abbiamo già parlato, per esempio l'aspirina che inibisce la reazione enzimatica mediante la quale si formano le prostaglandine dall'acido arachidonico, o gli inibitori dell'enzima che converte l'angiotensina. Tuttavia in questo paragrafo vogliamo richiamare l'attenzione su quello che è uno degli approcci euristici più importanti della farmacologia: identificare una reazione enzimatica cruciale nel processo fisiologico o patologico che si vuole modificare con un farmaco, caratterizzarla da un punto di vista biochimico, definire la struttura del sito attivo dell'enzima e sintetizzare molecole che possano interagirvi. Questo procedimento non è nuovo e già negli anni cinquanta permise di definire il meccanismo d'azione dei composti organofosforici e di sintetizzarne gli antidoti (v. farmacologia). I composti organofosforici, la cui tossicità è dovuta all'inibizione delle colinesterasi, sono usati come insetticidi o come gas nervini.

Un esempio recente dei risultati ottenuti seguendo questa via sperimentale è offerto dagli inibitori dell'aldosoreduttasi progettati per il trattamento della neuropatia diabetica. Infatti, se il trattamento con l'insulina permette il prolungamento della vita dei pazienti affetti da diabete, esso non impedisce la comparsa di una serie di complicazioni di questa malattia, che vanno dalla cataratta alla neuropatia e sono dovute all'accumulo di sorbitolo nei tessuti. In condizioni normali il glucosio è trasformato in glucosio-6-fosfato dall'enzima esochinasi, ma in presenza di elevate concentrazioni tessutali di glucosio, come avviene nei diabetici, tale zucchero viene trasformato in sorbitolo dall'aldosoreduttasi e quindi in fruttosio dalla sorbitolodeidrogenasi. Poiché la prima tappa di questa reazione è più veloce della seconda, si accumula sorbitolo nei tessuti. Questo composto, essendo poco diffusibile, esercita un intenso effetto osmotico che altera le funzioni cellulari e la formazione della guaina mielinica dei nervi periferici. Dei molti inibitori dell'aldosoreduttasi sintetizzati, l'alrestatin e il sorbinil sono stati sperimentati nell'uomo e hanno dimostrato la capacità di ridurre i sintomi della neuropatia diabetica offrendo la possibilità di una più completa terapia di questa grave malattia.

f) Farmaci di origine naturale

Nell'articolo farmacologia sono descritti numerosi gruppi di farmaci di origine naturale, provenienti dal mondo vegetale, animale e minerale. Spesso l'impiego in terapia di questi farmaci risale all'empirismo dei secoli passati, come nel caso dell'oppio, ma anche nell'ultimo decennio sono stati introdotti in terapia nuovi farmaci di origine naturale e altri sono attualmente oggetto di studio a dimostrazione che anche la farmacologia moderna si serve del metodo tradizionale di cercare nella natura sostanze utili in terapia. Queste ricerche sono particolarmente sviluppate in Cina con l'obiettivo di verificare se le piante medicinali della medicina tradizionale cinese contengano effettivamente principi attivi utili. Qui ci limiteremo a riportare due esempi di sostanze di origine vegetale di particolare interesse teorico, di cui è prevedibile l'introduzione in terapia.

Il primo esempio è offerto dal gossipolo, un composto fenolico estratto da alcune specie di piante del cotone, della famiglia delle Malvacee, in grado di esercitare un intenso effetto inibitore sulla spermatogenesi in molte specie animali e nell'uomo. Esso è stato scoperto e studiato in Cina ed è prevedibile la sua prossima introduzione come agente antifertilità maschile per il controllo delle nascite. Il secondo esempio è dato dal forskolin, un terpene estratto dalla pianta Coleus forskohlii e dotato di attività cardiotoniche, vasodilatatrici e antipertensive. Tuttavia l'aspetto più interessante di questa sostanza sta nella sua proprietà di stimolare direttamente l'adenilatociclasi, l'enzima che produce il 3,5-adenosinmonofosfato ciclico (3,5cAMP), una sostanza endocellulare coinvolta in numerosi processi biochimici essenziali per la funzione cellulare, quali le fosforilazioni e i movimenti del calcio. La sperimentazione clinica del forskolin è solo all'inizio, ma il farmaco si è già rivelato un utilissimo mezzo per studiare l'adenilatociclasi e il suo ruolo.

Numerose sono le sostanze estratte da organi animali, introdotte in terapia nell'ultimo decennio o attualmente oggetto di ricerche precliniche e cliniche. La disponibilità di ormoni di natura polipeptidica è attualmente facilitata dalla tecnica del DNA ricombinante, che permette di indurne la produzione da parte di batteri. È questo il caso dell'ormone della crescita, utilizzato con successo in bambini con difetti di crescita dovuti a insufficienza ipofisaria. Fra le sostanze di origine animale - e in alcuni casi di origine umana - il cui impiego in terapia è iniziato negli ultimi anni ricorderemo ancora l'urochinasi, usata per la sua intensa azione proteolitica, che permette la dissoluzione di trombi arteriosi o venosi; la calcitonina, di largo uso nella patologia ossea senile e tumorale; la fosfatidilserina, un fosfolipide di membrana di cui si è proposto l'impiego nella patologia cerebrale senile; i ganghosidi, impiegati per facilitare la riparazione e rigenerazione delle fibre nervose periferiche o centrali lese da svariati eventi patologici; la carnitina, utilizzata in alcuni difetti metabolici.

I fattori tessutali di crescita, dal nerve growth factor all'epidermal growth factor, rappresentano un affascinante campo di ricerca farmacologica del futuro. Il primo e più noto di questi fattori, che permettono la crescita e l'organizzazione delle cellule di specifici tessuti, è quello nervoso di crescita, scoperto da R. Levi Montalcini e V. Hamburger nel 1951. (Per questa scoperta, a Rita Levi Montalcini è stato conferito nel 1986 il premio Nobel per la Medicina). Nell'ultimo decennio ne è stata definita la struttura chimica e ne sono state scoperte le proprietà trofiche e neurotrope, cioè la sua capacità di indurre lo sviluppo di numerosi tipi di neuroni e il decorso delle fibre nervose fino a raggiungere l'organo alla cui innervazione sono deputate (v. neurogenesi). Sono stati recentemente scoperti altri fattori nervosi di crescita ed è prevedibile che essi possano essere impiegati anche come farmaci per facilitare i processi riparativi del sistema nervoso o in difettose situazioni di sviluppo. Il fattore di crescita epidermico, presente nella saliva, nel plasma e nel latte, può essere ottenuto con la tecnica del DNA ricombinante ed è stato recentemente usato con promettenti risultati per indurre lo sviluppo dell'epitelio intestinale in un bambino con atrofia congenita dei villi intestinali, condizione considerata sinora incompatibile con la vita.

g) Farmaci dei meccanismi difensivi naturali e acquisiti

Sotto questa definizione rientrano i farmaci chemioterapici antibatterici, antivirali, antiparassitari e antitumorali - che rappresentano meccanismi difensivi acquisiti - e i vaccini, gli immunostimolatori e gli immunosoppressori, che attivano o inibiscono i meccanismi difensivi naturali. I farmaci chemioterapici antibatterici, dai sulfamidici agli antibiotici, hanno rappresentato il maggior successo della farmacologia fra il 1935, anno di introduzione dei sulfamidici, e la fine degli anni cinquanta. Essi hanno permesso di curare le principali malattie di natura batterica, dal tifo alla sifilide, dalla tubercolosi alla polmonite da pneumococco, eliminando alcune delle più gravi piaghe sociali del passato.

La terapia con chemioterapici, tuttavia, tende a indurre resistenza batterica in germi precedentemente sensibili ed è una delle ragioni della comparsa e della diffusione di nuove specie batteriche patogene per l'uomo. Ciò obbliga alla continua ricerca di nuovi chemioterapici verso i quali non vi sia resistenza e che siano dotati di un più ampio spettro batterico. Un altro obiettivo della ricerca in questo campo è quello di fornire al medico farmaci con caratteristiche farmacocinetiche tali da permettere somministrazioni per via orale, meno frequenti nella giornata e con minori effetti collaterali. Risultato di queste ricerche sono le nuove penicilline appartenenti al gruppo delle ureidopenicilline, come la piperacillina, le cefalosporine cosiddette di terza generazione quali la cefotassina, il ceftriassone, la ceffadizina, alcuni nuovi antibiotici β-lattamici, quali l'imipen e l'aztreonan, la netilmicina e l'amicacina nel gruppo degli antibiotici amminoglucosidici, i nuovi disinfettanti urinari chinolonici. Da questo elenco risulta che tutti i gruppi tradizionali di antibiotici sono stati arricchiti di nuove molecole che, pur non offrendo novità di tipo concettuale, hanno messo a disposizione del medico farmaci di grande efficacia, che permettono di controllare anche infezioni causate da batteri di particolare pericolosità come Pseudomonas.

Lo sviluppo della chemioterapia antivirale ha continuato a incontrare difficoltà anche nell'ultimo decennio. Ciò è dovuto al fatto che i virus, a differenza di altri agenti infettivi, sono parassiti intracellulari obbligati, la cui eliminazione richiede la partecipazione attiva dei processi metabolici delle cellule infettate. Solo l'aciclovir si è aggiunto agli antivirali già esistenti quali l'idoxuridina e la vidarabina. Anche l'aciclovir è un inibitore della sintesi del DNA, ma deve le sue proprietà chemioterapiche al fatto che la sua affinità per gli enzimi di alcuni virus è centinaia di volte superiore a quella per gli enzimi delle cellule dei Mammiferi. L'acidovir è utile nelle infezioni da herpes simplex e da varicella zoster. La chemioterapia antivirale spera oggi di trovare negli interferoni alfa, beta e gamma i farmaci antivirali del prossimo futuro. La tecnica del DNA ricombinante permette di disporre di illimitate quantità di queste glicoproteine prodotte da molte cellule dell'organismo in risposta alle infezioni virali. Gli interferoni esercitano numerose azioni biologiche sui meccanismi immunitari e aumentano la resistenza alle infezioni virali. Sono in corso sperimentazioni cliniche in molti paesi per valutare l'efficacia degli interferoni nei riguardi di molti virus responsabili di malattie gravi, quali il linfoma, l'herpes zoster, l'epatite B, ma anche di malattie meno gravi ma fastidiose e largamente diffuse, come il raffreddore. I favorevoli risultati ottenuti finora sembrano giustificare l'uso su larga scala di queste sostanze.

Nell'ultimo decennio la chemioterapia dei tumori ha ottenuto importanti risultati, non tanto per l'introduzione di nuovi composti, quanto per la messa a punto di nuovi schemi terapeutici che prevedono la somministrazione contemporanea di più farmaci e permettono di controllare i loro effetti tossici. Ciò è stato reso possibile da un'approfondita conoscenza del meccanismo d'azione dei farmaci antitumorali, dallo studio dei meccanismi della riproduzione cellulare, della carcinogenesi chimica e virale, della immunologia dei tumori, delle caratteristiche cellulari e di metastatizzazione dei diversi tumori. Queste conoscenze sono derivate dalle ricerche condotte da farmacologi, patologi, virologi e immunologi in uno sforzo nel quale si perdono i confini delle varie discipline. La farmacologia ha contribuito anche con l'introduzione di alcuni nuovi farmaci antitumorali fra i quali ricorderemo la vindesina, un nuovo alcaloide semisintetico della Vinca rosea, alcuni derivati semisintetici della podofillotossina, la bleomicina, la 4-epiadriamicina, nuovi agenti alchilanti, nuovi antimetaboliti, tutti farmaci che renderanno ancora più efficace la chemioterapia antitumorale del prossimo futuro ( v. sangue: Leucemie).

Accanto alla chemioterapia, la vaccinoterapia, che induce la produzione di anticorpi specifici, ha permesso di sradicare il vaiolo in tutto il mondo e di ridurre, nei paesi economicamente sviluppati, compresa l'Italia, l'incidenza di gravi malattie epidemiche del passato, quali la difterite e la poliomielite.

L'ultimo decennio è stato caratterizzato da uno straordinario sviluppo delle conoscenze sui meccanismi dell'immunità umorale, basata sulla formazione di anticorpi da parte dei linfociti B, e di quella cellulare, della quale sono responsabili le cellule T. Sono stati identificati numerosi mediatori dell'immunità cellulare o linfochine. L'aumento delle conoscenze immunologiche di base si è tradotto nell'introduzione di nuovi farmaci immunomodulatori con lo scopo di attivare i meccanismi difensivi immunitari, per esempio per stimolare l'immunità antitumorale mediata dalle cellule o per ripristinare i meccanismi immunitari depressi per ragioni patologiche o nel corso di trattamenti farmacologici. La bestatina, il levamisolo, il metisoprinolo, i fattori timici, oltre ai già citati interferoni, sono immunomodulatori già entrati in terapia o sottoposti attualmente a sperimentazione clinica.

D'altro canto esistono situazioni patologiche nelle quali è utile deprimere la risposta immunitaria. Il caso più tipico è quello dei trapianti d'organo, nei quali il successo terapeutico, cioè la sopravvivenza dell'organo trapiantato, dipende dalla possibilità di impedirne il rigetto. Il farmaco immunosoppressore più recente e più utile è la ciclosporina, un antibiotico che agisce specificamente sul primo stadio dell'attivazione dei linfociti T in risposta agli antigeni. L'immunosoppressione è utile anche in malattie nelle quali un'esagerata risposta immunitaria sembra essere un importante elemento patogenetico, come nell'artrite reumatoide o nelle malattie autoimmuni. L'azatioprina è il più recente farmaco introdotto in terapia per queste condizioni (v. immunologia e immunopatologia: Malattie autoimmuni; v. chirurgia dei trapianti).

4. La tossicità dei farmaci

Tutti i farmaci possono causare, con maggiore o minore frequenza, assieme agli effetti terapeutici anche effetti tossici. I farmaci sono una delle maggiori cause di quel danno iatrogeno che accompagna purtroppo i benefici della medicina e alla cui eliminazione devono tendere gli sforzi della classe medica e delle autorità sanitarie. Gli effetti tossici possono essere non prevedibili e di natura allergica o dovuti a ipersensibilità individuale su base genetica. Non esiste un farmaco del tutto innocuo e sicuro: il medico deve sempre prevedere la possibile comparsa di effetti nocivi di ogni farmaco che prescrive e il paziente non deve esserne sorpreso o imputarli a imperizia del medico. Dagli studi epidemiologici risulta che effetti nocivi di diversa gravità compaiono in circa il 13% dei pazienti trattati e che l'incidenza supera il 20% nei pazienti anziani. Le probabilità che compaiano effetti nocivi aumentano se sono prescritti contemporaneamente più farmaci, in quanto possono verificarsi interazioni fra di essi. Alcuni farmaci causano raramente effetti tossici o collaterali: per esempio la tossicità della penicillina è limitata quasi esclusivamente a non frequenti reazioni allergiche, ma anche queste, talvolta, possono essere mortali. Con altri farmaci gli effetti tossici sono gravi e inevitabili, come nel caso dei chemioterapici antitumorali che, oltre a distruggere le cellule tumorali, danneggiano tutte le cellule a rapida crescita dell'organismo. Pertanto il criterio che deve essere tenuto sempre presente dalle autorità sanitarie responsabili del controllo dei farmaci, dal medico che decide una prescrizione e dal paziente è quello di soppesare il rischio rispetto al beneficio. Di fronte alla possibilità di curare una forma tumorale che porta sicuramente a morte sono accettabili anche i gravi ma transitori effetti tossici causati dalla terapia e il rischio che la terapia stessa possa portare a morte il paziente, ma di fronte a una forma influenzale, che tende a guarire spontaneamente in una settimana, il rischio da farmaci è inaccettabile e la terapia deve essere condotta in maniera limitata e con farmaci che diano il massimo della sicurezza.

Questi problemi sono sempre esistiti, ma nell'ultimo decennio sono stati percepiti più chiaramente per diverse ragioni: esistono farmaci più attivi che in passato; vi è un maggior consumo di farmaci e un aumento della popolazione anziana, più sensibile ai loro effetti tossici; la vigilanza sui farmaci è più efficiente; infine, vi sono stati alcuni episodi di tossicità da farmaci che hanno allarmato il pubblico.

Il primo e più drammatico di questi episodi risale al 1962 e fu causato dall'introduzione in terapia della talidomide, un ipnotico che, preso nella prima fase della gravidanza, induce gravi malformazioni fetali: esso provocò, in alcuni paesi europei, la nascita di migliaia di bambini privi delle braccia (focomelia). Più recente è stato il caso del benoxaprofen, un nuovo potente antinfiammatorio non steroideo tolto dal commercio nel 1982, poco dopo la sua introduzione in terapia, perché responsabile di alcuni casi di ittero colestatico fatale, specialmente in persone anziane. Gli ultimi anni hanno visto il ritiro, causato da segnalazioni di effetti tossici, di diversi altri farmaci talvolta in uso da tempo.

In questi casi viene messa sotto accusa la farmacologia, cui si imputa l'incapacità di scoprire gli effetti tossici dei nuovi farmaci nella fase di sperimentazione preclinica o nella prima fase della sperimentazione sull'uomo. Questa incapacità può dipendere, in realtà, da una sperimentazione affrettata o superficiale, ma più spesso dalla mancanza di adeguati modelli sperimentali nell'animale. Prendiamo l'esempio di un effetto collaterale non pericoloso, ma indubbiamente fastidioso, come la cefalea da farmaci: solo la sperimentazione sull'uomo potrà svelare se un nuovo farmaco causa cefalea, perché questo sintomo non è osservabile nell'animale. Inoltre, se la cefalea compare soltanto in uno su 50.000 pazienti trattati, almeno un milione di pazienti dovranno essere trattati prima che vi siano una ventina di segnalazioni e si possa sicuramente imputare questo effetto al nuovo farmaco. D'altra parte, i casi nei quali una accurata sperimentazione sull'animale ha svelato effetti tossici che hanno obbligato a sospendere lo sviluppo di un nuovo farmaco non vengono segnalati, ma gli archivi di tutti i laboratori di ricerca farmacologica industriale ne contengono esempi. Non bisogna dimenticare che, come ha scritto nel 1970 sir Derrick Dunlop, presidente del Comitato per la sicurezza dei farmaci della Gran Bretagna, ‟le reazioni tossiche sono parte del prezzo che noi paghiamo per farmaci più efficaci". Occorre poi ricordare che, se in molti casi la tossicità si manifesta a dosi terapeutiche, talvolta i farmaci diventano tossici per colpa del medico che li somministra in maniera impropria. Anche questo però è un problema che riguarda la farmacologia, in quanto è compito del farmacologo insegnare nei corsi universitari e postuniversitari i vantaggi, i rischi e l'appropriato uso dei farmaci.

5. Farmacologia e società

L'importanza della farmacologia nella società dei paesi industrializzati è dimostrata dal consumo dei farmaci. Secondo i dati della Farmindustria il valore dei consumi farmaceutici in Italia ha raggiunto, nel 1984, quasi 8.000 miliardi di lire con un totale di 1.500 milioni di confezioni e una spesa individuale di 138.000 lire. I consumi sono anche superiori in alcuni altri paesi della Comunità Economica Europea e negli Stati Uniti. In Italia il consumo di farmaci è aumentato del 274% fra il 1960 e il 1979 ed è andato successivamente stabilizzandosi, con una lieve tendenza alla diminuzione. Queste cifre dimostrano che i farmaci rappresentano un importante bene di consumo nella società moderna e fanno parte della vita quotidiana, ma già nel 1891 il famoso clinico inglese sir William Osler affermava: ‟Il desiderio di prendere medicine è, forse, la grande caratteristica che distingue l'uomo dagli altri animali". Poiché la farmacologia ha un ruolo predominante nella scoperta e nello sviluppo dei farmaci e ne insegna il corretto impiego, è evidente che essa esercita una rilevante influenza sulla società e viene a sua volta influenzata dall'atteggiamento della società nei riguardi dei farmaci. Fra gli esempi più evidenti dei cambiamenti che essa ha indotto nella società ricorderemo la chiusura dei sanatori, dovuta alla scoperta dei farmaci antitubercolari. Alla scomparsa, nei paesi economicamente sviluppati, del flagello sociale rappresentato dalla tubercolosi hanno certamente contribuito anche le migliorate condizioni igieniche e alimentari, ma la guarigione delle migliaia di pazienti ricoverati nel secondo dopoguerra è stata resa possibile soprattutto dai chemioterapici, che permettono di rendere rapidamente non contagiosi gli eventuali nuovi casi e di portarli a guarigione in pochi mesi.

Considerazioni simili si possono fare per la sifilide e le altre malattie veneree di natura batterica. Il loro controllo e la disponibilità di farmaci e presidi anticoncezionali sono stati fattori importanti per la diffusione di quella libertà sessuale che ha caratterizzato i costumi dell'ultimo ventennio e trova ora un inatteso freno nel timore del contagio da malattie di origine virale quali l'herpes genitale e la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS).

L'introduzione nel 1954 del primo antipsicotico, la clorpromazina, ha dato inizio a una progressiva diminuzione dei ricoveri negli ospedali psichiatrici e a una radicale trasformazione della terapia delle malattie mentali. La possibilità di controllare le manifestazioni più acute delle malattie mentali e di comunicare con il paziente ha cambiato l'atteggiamento del medico e della società nei riguardi del malato mentale e, rendendo meno necessario il ricovero in un'istituzione, ha determinato la riduzione del numero dei posti letto in molti paesi europei, negli Stati Uniti e nel Canada, con una notevole riduzione del costo delle malattie mentali per la comunità. In Italia la discussa legge n. 180 del 1978, sull'assistenza psichiatrica, ha determinato di fatto la chiusura della maggior parte degli ospedali psichiatrici.

Questi importanti cambiamenti indotti dai farmaci nella patologia, con le loro conseguenze nella vita della comunità, hanno stimolato lo sviluppo di una ‛cultura del farmaco' basata sulla speranza e spesso sull'illusione di risolvere tutti i problemi della propria salute fisica e psichica con l'assunzione di farmaci. A ciò non è estranea anche l'attività promozionale dell'industria farmaceutica, che dalla vendita dei suoi prodotti vuole ricavare giustificati, ma talvolta anche ingiustificati, profitti. Tutto ciò porta a quella medicalizzazione della società denunciata da I. Illich (v., 1976), e a quella ricerca di ‟attenuatori della realtà" - secondo la definizione di Nathan Kline - che è responsabile del cattivo uso dei farmaci, della frequente automedicazione e dell'insorgere della dipendenza dai farmaci ed è causa, in ultima analisi, dell'attuale contraddittoria posizione della società nei riguardi dei farmaci e della farmacologia. La stessa società che dei farmaci è così avida consumatrice si lamenta oggi del costo eccessivo della spesa farmaceutica; accusa, non senza qualche fondamento, la farmacologia di offrire una giustificazione scientifica ai profitti dell'industria farmaceutica e di essere una delle cause della diffusione delle tossicomanie; si allarma in maniera talvolta irrazionale per la tossicità dei farmaci; richiede controlli così rigorosi da rischiare la paralisi della ricerca farmaceutica. Nello stesso tempo chiede di ridurre o addirittura di abolire la sperimentazione farmacologica e tossicologica sugli animali e si rivolge con rinnovato interesse alle piante medicinali per continuare a consumare farmaci, ma meno tossici, dimenticando che se le piante medicinali sono efficaci lo devono a quei principi attivi che due secoli di sviluppo della chimica e della farmacologia hanno isolato e trasformato in farmaci puri e controllati e che l'efficacia terapeutica non è mai disgiunta da effetti nocivi. Tutti questi aspetti negativi non devono però far dimenticare che, come ha scritto Walter Modell, direttore del ‟Journal of clinical pharmacology", ‟mai prima d'ora nella sua storia la medicina ha avuto a disposizione tanti farmaci utili ed efficaci, e mai prima d'ora vi sono state tante premesse per futuri farmaci migliori": i farmaci futuri che la società chiede alla farmacologia per affrontare la patologia che accompagna l'aumento dell'età media e la complessità della società postindustriale ma il cui impiego deve essere sempre più visto nel contesto di un'articolata medicina preventiva che tenga conto dei fattori alimentari e agisca sulle condizioni di vita.

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