FEDECOMMESSO

Enciclopedia Italiana (1932)

FEDECOMMESSO

Romualdo Trifone

È una speciale disposizione di ultima volontà con la quale chi è istituito erede ha l'obbligo di conservare e restituire in tutto o in parte l'eredità a un'altra persona.

Le più antiche disposizioni del genere risalgono al diritto romano classico e furono adottate come espediente creato dal bisogno dell'opera di una terza persona tra il disponente e il successore. Non avevano bisogno di forme speciali e servivano soprattutto per favorire persone incapaci, ma gli abusi cui l'istituto diede luogo fecero sentire la necessità di una sua disciplina. Prima si affidò ai consoli e ai pretori l'incarico di garantire la volontà del disponente; poi con i senatoconsulti Trebelliano e Pegasiano si regolarono i rapporti tra l'onerato e il fedecommissario. Giustiniano fuse i legati e i fedecommessi particolari per accordare a questi le garanzie dei primi. I fedecommessi conservarono però molti degli elementi che furono poi oggetto di più radicali trasformazioni. Il testatore, volendo lasciare all'erede il suo patrimonio solo temporaneamente e fino al verificarsi di speciali circostanze, dovette far uso del fedecommesso. La cosa riguardò specialmente la famiglia e i parenti, perciò l'applicazione più importante si ebbe nel fedecommesso di famiglia.

La tendenza a conservare nei superstiti le sostanze familiari si mantenne e prese direttive più decise nel diritto bizantino, perché via via si lasciarono agli epitropi molte di quelle mansioni che un tempo erano proprie dei fiduciarî romani; l'espediente della restituzione fu cosi adottato solo per assicurare la conservazione temporanea dei beni nella famiglia. Qualche cosa di analogo si verificò sotto l'influenza del diritto barbarico e a contatto dell'istituto dei salmanni. Ciò che serviva a evitare la dispersione dei beni divenne elemento esclusivo del fedecommesso. Dopo questa chiarificazione, cominciò ad affermarsi la doppia tendenza, verso l'inalienabilità e verso l'indivisibilità del patrimonio. La prima, rafforzata dal sistema feudale a tipo longobardo (nel quale la prohibitio alienationis agiva cosi come nel fedecommesso); la seconda, dal sistema feudale a tipo franco e da tutto quel movimento diretto a ridurre i diritti successorî delle donne e a concentrare il patrimonio nelle mani di un solo.

Agl'inizî del sec. XIV il fedecommesso, dopo avere assorbito dall'ambiente giuridico tutti gli elementi capaci di produrre l'inalienabilità del patrimonio e la conservazione e la trasmissione dei beni, attraverso la linea agnatizia maschile - e non già, come si ritenne, sotto l'influenza degli usi spagnoli - si trovò ad aver raggiunto una costruzione logica e corrispondente alla funzione economica e sociale di conservare il decoro e la potenza del casato di fronte al dissolvimento dei poteri pubblici e costituire anche un cespite sicuro per le pubbliche finanze. Dal sec. XV in poi da dividuo, che era, cominciò, per gli elementi feudali a sistema franco che andava assorbendo, a diventare individuo. Nei secoli XVI e XVII raggiunse il massimo sviluppo nella forma delle primogeniture, dei maiorascati, dei seniorati e degli iuniorati. Ma esso, come diceva il Pellegrini, andò sempre più rivelando i suoi difetti. Qualche rimedio opposero Urbano VIII e Carlo Emanuele I; ma i provvedimenti più radicali furono adottati nel sec. XVIII, allorché si posero in evidenza i vincoli che col fedecommesso si ponevano alla libera circolazione dei beni e l'ingiustizia che si sanciva a danno di coloro che, appartenendo alla stessa famiglia, venivano esclusi dall'eredità.

Prima che la Rivoluzione francese abolisse i fedecommessi (4 agosto 1789) e con i decreti del 1792 sancisse che i beni fedecommissarî dovessero restare nelle mani di chi li possedeva o andare al prossimo chiamato (nel caso che la sostituzione fosse già aperta o verificata), Vittorio Amedeo II, Francesco I di Lorena, Leopoldo I e specialmente Francesco III d'Este avevano provveduto in qualche modo a restringere la durata dei fedecommessi e a limitare la facoltà d'istituirli ai soli nobili o con titoli del debito pubblico. Con la dominazione napoleonica la nuova legislazione francese fu estesa all'Italia (1797); ma non mancarono nelle provincie napoletane tentativi di ricostituzione dei maiorascati. Con la Restaurazione (1815) si tornò invece in buona parte all'antico. Nelle Due Sicilie (1819) si limitò il fedecommesso al primo grado e s'impose l'assenso regio per l'istituzione di maggioraschi nuovi; nel Lombardo-Veneto (1816) si permisero le sostituzioni e i fedecommessi di famiglia perpetui; a Parma, Piacenza e Guastalla (1820) si lasciò ai nobili piena facoltà di istituire fedecommessi e primogeniture e agli altri ceti una facoltà limitata dal preventivo assenso sovrano; nel Piemonte (1837), negli Stati estensi (1832) e pontifici (1834) si fu ancora più larghi. Solo nella Toscana e a Lucca restarono in piedi le disposizioni francesi.

Il codice civile italiano, dopo avere con le disposizioni transitorie (art. 24, 25) sciolto tutti i vincoli fedecommissarî esistenti, dividendo i beni fra il possessore al 1° gennaio 1866 e il primo o i primi chiamati, purché nati o concepiti a quel giorno, vietò nel modo più ampio le successioni fedecommissarie (articoli 899, 900) ed equiparò ad esse, agli effetti del divieto, l'usufrutto successivo (art. 901). Ultima ad abolire il fedecommesso è stata la Spagna (1931), a breve distanza di tempo dalla Germania e dall'Austria.

Bibl.: T. Cuturi, Dei fedecommessi e delle sostituzioni nel dir. civ. italiano, Città di Castello 1889; V. Vitali, Il fedecommesso di residuo, Piacenza 1889; B. Brugi, Fedecommesso, in Digesto Italiano, XI, i, Torino 1895; R. Trifone, Il fedecommesso, storia dell'istituto in Italia, Roma 1914.

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