FEDERALISMO FISCALE

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

FEDERALISMO FISCALE.

Pier Luca Cardella

– Il quadro costituzionale. La legge delega del 2009. I decreti delegati. Bibliografia

Volgendo lo sguardo al passato decennio, e ricorrendo a un’immagine icastica, si può dire che l’attuazione del f. f. abbia seguito, nell’intervallo di tempo considerato, una traiettoria di tipo parabolico: e invero, dopo il lungo stallo seguito alla riforma del titolo V della parte II della Costituzione, si è toccato il culmine con il varo della l. delega 5 maggio 2009 nr. 42 (cd. delega Calderoli) e la successiva stesura dei decreti delegati; a partire dal mese di dicembre 2011 si è registrata, tuttavia, una pesante battuta di arresto con alcune scelte legislative, soprattutto in materia di fiscalità municipale, in controtendenza rispetto alle linee evolutive di un sistema effettivamente orientato in senso federalista.

Il quadro costituzionale. – È essenziale ripercorrere, seppur brevemente, le tappe fondamentali del cammino iniziato all’alba del nuovo millennio con la riforma del titolo V della parte II della Costituzione. All’esito di una lunga e faticosa gestazione, la l. costituzionale 19 genn. 2001 nr. 3, riformando il sistema delle autonomie, ha introdotto significative novità in punto di potestà normativa tributaria. Il 1° co. del novellato art. 117 Cost., ponendo su un piano di sostanziale equiordinazione il legislatore statale e quello regionale, ha stabilito che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Lo stesso articolo, plasmando nei successivi commi il criterio della competenza per materia, ha disposto che: è riservata in via esclusiva alla legislazione statale la disciplina del «sistema tributario e contabile dello Stato» (2° co., lett. e); è materia di legislazione concorrente quella relativa al «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (3° co.); spetta alle Regioni, nelle materie di legislazione concorrente, «la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato» (3° co., ultima parte); compete, infine, «alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» (4° co.). In via di estrema sintesi, lo Stato legifera in materia di sistema tributario statale; la materia del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» è, invece, riservata alla legislazione statale, per i principi fondamentali, e alla legislazione regionale quanto al resto. In tema di autonomie e potestà normativa tributaria, il framework costituzionale è completato dal successivo art. 119 Cost. che, dopo aver riconosciuto alle Regioni a statuto ordinario e agli enti locali autonomia finanziaria e di spesa, definisce il perimetro entro il quale detta autonomia deve estrinsecarsi: si prevede, in particolare, che le Regioni e gli enti locali abbiano risorse autonome e stabiliscano, applicandoli, «tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (2° co.). Il disegno riformatore che si ricava dalla complessiva lettura dell’art. 119 Cost. risponde a una precisa logica di sistema: nell’ottica della cd. clausola di congruità, i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni devono poter integralmente finanziare le funzioni pubbliche loro attribuite potendo a tal fine contare, oltre che sulle menzionate entrate tributarie proprie, sulla compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al singolo territorio e sulla quota di un fondo perequativo a garanzia dei territori «con minore capacità fiscale per abitante» (art. 119, 3° co.).

La legge delega del 2009. – Definita la cornice dei principi costituzionali, la piena esplicazione di potestà regionali autonome necessitava di un decisivo contributo del Parlamento: e invero, secondo l’orientamento della Corte costituzionale, l’attuazione del nuovo assetto della finanza pubblica richiedeva, come necessaria premessa, l’intervento del legislatore statale che, nell’individuare i principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario, ha il potere di fissare, con propria legge, «non solo [...] i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee del sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali» (sentenza 15 apr. 2008 nr. 102).

Ed è proprio seguendo questo sentiero che si è giunti, a distanza di otto anni dal varo della riforma costituzionale, all’approvazione della l. delega 42/2009 che, autoqualificandosi come attuativa dell’art. 119 Cost., detta una lunga serie di principi e criteri direttivi di non sempre agevole riconduzione a sistema. Più in particolare, e avuto riguardo al quadro di coordinamento delle diverse fiscalità facenti capo a Stato, Regioni ed enti locali, l’art. 2 della l. delega avverte la necessità di precisare che, nella fase attuativa, non deve essere alterato «il criterio della progressività del sistema tributario» e deve essere rispettato il «principio della capacità contributiva ai fini del concorso alle spese pubbliche» (2° co., lett. l); esclude, facendo salvo il caso delle addizionali, che vi possano essere spazi per fenomeni di «doppia imposizione sul medesimo presupposto» (2° co., lett. o); ammette che «la legge regionale possa, con riguardo ai presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato: 1) istituire tributi regionali e locali; 2) determinare le variazioni delle aliquote o le agevolazioni che comuni, province e città metropolitane possono applicare nell’esercizio della propria autonomia con riferimento ai tributi locali di cui al numero 1)» (2° co., lett. q); indica, infine, richiamando uno dei cardini della sistematica federalista, l’obiettivo della «tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio in modo da favorire la corrispondenza tra responsabilità finanziaria e amministrativa», nonché la «continenza e responsabilità nell’imposizione di tributi propri» (2° co., lett. p). Quanto invece ai principi e ai criteri direttivi in materia di fiscalità locale, il successivo art. 12 stabilisce che la legge statale individua «i tributi propri dei comuni e delle province, anche in sostituzione o trasformazione di tributi già esistenti e anche attraverso l’attribuzione agli stessi comuni e province di tributi o parti di tributi già erariali» (lett. a); apre alla possibilità che siano istituiti, valorizzando la riconosciuta autonomia di entrata, sia tributi comunali che tributi provinciali (lett. d-e); ammette che le Regioni, nell’ambito dei propri poteri legislativi in materia tributaria, «possano istituire nuovi tributi dei comuni, delle province e delle città metropolitane nel proprio territorio» (lett. g); consente, infine, che gli enti locali, entro i limiti fissati dalle leggi, «possano disporre del potere di modificare le aliquote dei tributi loro attribuiti da tali leggi e di introdurre agevolazioni» (lett. h).

I decreti delegati. – Individuate le concrete direttrici di attuazione del disegno di riforma, restavano da varare i decreti delegati e in effetti il cerchio sembra essersi chiuso, quanto ai temi di squisita matrice tributaria, nel primo semestre 2011 con l’entrata in vigore del d. legisl. 14 marzo 2011 nr. 23 (recante le disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) e del d. legisl. 6 maggio 2011 nr. 68 (recante, tra l’altro, le disposizioni in materia di autonomia di entrata delle Regioni a statuto ordinario e delle Province). Un rapido cenno al contenuto dei due decreti. In tema di fiscalità regionale, il d. legisl. 6 maggio 2011 nr. 68 prefigura un sistema basato, tra l’altro, sul potere di agire sull’aliquota dell’addizionale regionale dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF); sulla possibilità di ridurre le aliquote dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e di introdurre deduzioni dalla base imponibile; sulla compartecipazione regionale all’imposta sul valore aggiunto (IVA) e sulla possibilità di istituire, a far data dal 2013, tributi propri. Quanto invece alla fiscalità municipale, il decreto 23/2011 prevede, innanzi tutto, la devoluzione ai Comuni, relativamente agli immobili ubicati nel loro territorio, del gettito (totale o parziale) di alcuni tributi statali (imposta di registro e imposta di bollo sugli atti di trasferimento immobiliare e sui contratti di locazione relativi a immobili, imposte ipocatastali, IRPEF sui redditi fondiari, tributi speciali catastali, tasse ipotecarie e cedolare secca sugli affitti); ai Comuni viene, inoltre, attribuita una compartecipazione del gettito IVA in una percentuale da individuarsi «assumendo a riferimento il territorio su cui si è determinato il consumo che ha dato luogo al prelievo» (art. 2, 4° co.). La seconda colonna su cui avrebbe dovuto poggiare la fiscalità municipale era quella dei tributi propri derivati e, su questo fronte, il decreto 23/2011 istituiva l’imposta municipale unica (IMU) che, a partire dal 2014, avrebbe dovuto sostituire l’IRPEF e le addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati e l’imposta comunale sugli immobili (ICI). All’IMU si sarebbe dovuta affiancare, sempre a partire dal 2014, l’imposta municipale secondaria (IMUS) che, nelle intenzioni del legislatore delegato, avrebbe dovuto sostituire i prelievi comunali sull’occupazione di spazi e aree pubbliche, quelli sulla pubblicità e i diritti sulle pubbliche affissioni.

L’impiego del condizionale è tuttavia d’obbligo giacché, alla fine del 2011, al culmine della più violenta crisi economico-finanziaria del dopoguerra, il neo insediato governo Monti anticipava, quasi che si trattasse di una prova di laboratorio, «in via sperimentale» l’istituzione dell’imposta municipale propria (art. 13, d.l. 6 dic. 2011 nr. 201). Accanto alla riserva, a favore dello Stato e con versamento diretto a esso, di una quota del tributo locale (art. 13, 11° co.), la novità più importante recata dal decreto cd. Salva Italia era costituita dall’affermazione, tutt’altro che coerente con le indicazioni fornite dalla delega Calderoli, secondo cui «l’imposta municipale propria ha per presupposto il possesso di immobili, ivi comprese l’abitazione principale e le pertinenze della stessa» (cfr. l’art. 13, 2° co., del medesimo decreto legge). Parallelamente all’anticipazione dell’IMU, veniva istituito in tutti i Comuni del territorio nazionale, a decorrere dal 1° genn. 2013, il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi (TARES) destinato a coprire i costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento e i costi relativi ai servizi indivisibili dei Comuni (art. 14, 1° co.). La XVII legislatura si è aperta con un nuovo, repentino capovolgimento di fronte. L’art. 1, 1° co., d.l. 21 maggio 2013 nr. 54, annunciando un’imminente riforma della disciplina dell’imposizione fiscale sul patrimonio immobiliare, ha «sospeso» il versamento della prima rata 2013 dell’IMU dovuta sull’abitazione principale. Il trascorrere del tempo, tuttavia, ben lungi dal favorire un’auspicabile sistemazione della materia, ha portato a un ulteriore, incomprensibile rimesco lamento di carte. L’art. 1, 639° co., l. 27 dic. 2013 nr. 147 ha, infatti, istituito l’imposta comunale unica (IUC) che, per testuale riconoscimento legislativo, si compone dell’imposta municipale propria (IMU), di natura patrimoniale, dovuta dal possessore di immobili, escluse le abitazioni principali, e di una componente riferita ai servizi, che si articola nel tributo per i servizi indivisibili (TASI), a carico sia del possessore sia dell’utilizzatore dell’immobile, e nella tassa sui rifiuti (TARI), destinata a finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, a carico dell’utilizzatore. E veniamo così ai giorni nostri. Stando alle anticipazioni fornite dal ministro dell’Economia e delle Finanze, in occasione di una recentissima interrogazione parlamentare, si va prefigurando un nuovo intervento in materia di fiscalità locale che dovrebbe portare, a partire dal 2016, al varo di una cd. local tax ossia di un’imposta unica capace di razionalizzare la materia con l’assorbimento in un unico tributo dell’IMU, della TASI e di una congerie di tributi minori (cfr. la risposta fornita dal ministro dell’Economia e delle Finanze in occasione del question time del 4 marzo 2015).

Orbene, e posto che nulla di più si può dire circa le linee evolutive di un sistema segnato da cronica instabilità, due telegrafiche considerazioni si impongono per chiude re il discorso.

L’intensa attività legislativa degli ultimi anni tradisce, anche a causa dei durissimi colpi inferti dalla crisi economica ai già precari equilibri della finanza pubblica, la scarsa capacità politica di compiere scelte coerenti con i capisaldi di un sistema fiscale effettivamente federale. Paradigmatica è, da questo punto di vista, l’annosa vicenda della tassazione delle unità immobiliari destinate al soddisfacimento del fabbisogno abitativo: e invero, se si ritiene che il collegamento dell’imposta con il beneficio correlato al godimento dei servizi indivisibili costituisca tratto caratterizzante ogni sistema ispirato a logiche federalistiche, è quantomeno singolare che proprio i soggetti che più intensamente godono di questi servizi (e cioè i proprietari delle prime case) vengano, seppur a fasi alterne e con differenti modalità, in tutto o in parte detassati (Bizioli 2012). Il tema è oggettivamente complesso toccando le delicatissime corde della tutela del minimo vitale ossia di quel minimo di capacità economica necessario a soddisfare le esigenze primarie dell’individuo, ma un dato è certo: le scelte in materia di tassazione degli immobili in parola, anche in ragione della loro rilevanza sociale, esigono una riflessione seria e non possono certo essere abbandonate alla schizofrenia del ciclo politico-elettorale. Sullo sfondo resta poi quella che è probabilmente la più grande ipoteca posta sulla strada che conduce alla piena attuazione del f. f.: la riforma costituzionale del 2001, pur riconoscendo agli enti locali rilevanti spazi di autonomia finanziaria, ha assegnato al Parlamento la pressoché totale competenza in ordine alla definizione delle coordinate del sistema finanziario e tributario delle autonomie locali, creando così i presupposti per un assetto istituzionale che, ben lungi dal favorire i processi di decentramento, tende per moto spontaneo alla conservazione dello status quo (Bizioli 2012).

Bibliografia: F. Gallo, Federalismo fiscale, in Enciclopedia giuridica, Istituto della Enciclopedia Italiana, 25° vol., Roma 1996, ad vocem; A. Giovanardi, Federalismo fiscale, in Enciclopedia giuridica, Istituto della Enciclopedia Italiana, 25° vol., Roma 2009, ad vocem; G. Bizioli, Federalismo fiscale, in Digesto delle discipline privatistiche - sezione commerciale, 6° aggiornamento, Torino 2012, ad vocem. Si veda inoltre A. Amatucci, Federalismo fiscale (dir. trib.), http://www.treccani.it/enciclopedia/ federalismofiscale-dir-trib_(Diritto_on_line)/ (1° apr. 2015).

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