BADOER, Federico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 5 (1963)

BADOER, Federico

Aldo Stella

Nacque a Venezia il 2 genn. 1519. Suo padre Alvise era un influente uomo politico e provvide ad avviare i sei figli alla carriera diplomatica e amministrativa della Repubblica; finché visse, la famiglia prosperò e anche per mezzo di matrimoni con altre "case vecchie" (Dolfin, Morosini e, poi, Malipìero) assurse a tanta potenza da destare pericolose invidie e qualche preoccupazione nello stesso ceto dirigente, costituito in gran parte da "case nuove".

Il B. soprattutto sembrava sicuramente avviato ai più alti gradi delle dignità senatoriali veneziane; ancora adolescente lo avevano esaltato letterati famosi e appena trentenne aveva ottenuto le lodi del Bembo e di Paolo Manuzio, di Daniele Barbaro e del Tolomei, oltre, naturalmente, a quelle dell'Aretino. Il suo cursus honorum fu assai rapido: era savio agli ordini già nel 1539. Il 28 febbr. 1547 venne scelto dal Senato come ambasciatore straordinario a Guidobaldo II d'Urbino, al fine di presentare le condoglianze per la morte della duchessa Giulia. La relazione di tale ambasceria è significativa specialmente per un'indiretta critica all'eccessiva parsimonia di qualche patrizio veneto: "prometto e m'obligo di far sì che io non possa mai essere accusato da niuno di negligenza né di sordidezza".

Il 12 ott. 1548 fu designato per accompagnare il principe Filippo di Spagna, che incontrò nel novembre a Genova mentre si accingeva a partire per le Fiandre. Il 10 ag. 1549 venne eletto ambasciatore alla corte di Ferdinando I d'Asburgo, dove rimase dalla primavera del 1550 al maggio dei 1552. Nel 1553 ricoprì la carica di Avogador di Comun; il 24 marzo 1554 fu nominato ambasciatore presso la corte imperiale e vi assunse l'incarico nel mese di novembre, adoperandosi efficacemente per salvaguardare la Repubblica di Siena dalle insidie di Cosimo de' Medici. Dopo l'abdicazione di Carlo V, il B. si recò alla corte di Filippo II e insistette perché non si effettuasse la temuta invasione spagnola dello Stato pontificio contro Paolo IV. Fece ritorno a Venezia nel febbraio del 1557 e menò vanto del buon successo riportato durante la lunga ambasceria in una ampia relazione che è fra le più interessanti di tutto il periodo, per la ricca originale documentazione e per il vasto orizzonte diplomatico che abbraccia complessi problemi riguardanti sia la pace in Italia sia l'intero equilibrio europeo.

Dopo questi successi, che sembravano promettergli una brillante carriera diplomatica, un'avventura intricata, legata alla figura di Domenico Venier e alla storia della celebre Accademia veneziana della Fama: il B., che ne fu uno dei fondatori, volle anche provvedere al suo mantenimento col fasto che richiedeva l'alto prestigio cui l'Accademia era assurta in breve tempo. Senonché le ricchezze del B. non erano pari alla sua prodigalità e, quando i debiti dell'Accademia ascesero ad alcune migliaia di ducati, i creditori finirono col denunciarlo al Senato, che ne decretò l'arresto (19 ag. 1561), insieme con i nipoti Alvise, Giustiniano e Giovanni, facendo sequestrare i libri della contabilità e "bollar le robbe, zoie che si trovano nelle case... per caution delli creditori dell'Accademia Venetiana".

Questo dissesto finanziario suscitò grande scandalo, ma sembra che non si trattasse soltanto di cattiva amministrazione della cassa dell'Accademia, tanto più che il B. non ne rispondeva direttamente, avendovi delegato i nipoti in data 30 dic. 1560, quando dovette assentarsi da Venezia per un'ispezione ai beni pubblici nella terraferma; furono forse determinanti i sospetti di qualche imprudente relazione del B. con agenti di principi stranieri, secondo quanto lascia intendere una successiva lettera indirizzata dal Consiglio dei Dieci al duca Enrico di Braunschweig: "... sapendo noi quello che altre volte esso Badoaro ha operato con Alemanni, per il che anco fo condannato dalli giudici nostri a questo deputati" (Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci...,f. 31r, 10 dic. 1568).

La causa si protrasse per diversi anni e si complicò con nuove imputazioni che colpirono anche il segretario del B., Marlupino Marlupini, condannato col bando di due anni (19 ott. 1567). Grave imprudenza fu ritenuta quella di non aver chiesta l'autorizzazione del Consiglio dei Dieci prima d'interessarsi attivamente a favore del duca di Braunschweig che desiderava stabilirsi a Venezia con un figlio e una figlia naturale, rinunciando al protestantesimo (disponeva di una rendita annua di 100.000 talleri, offriva alla Repubblica in caso di bisogno 20.000 fanti e 8000 cavalieri, sia pure non cattolici, e intendeva acquistare molti beni fondiari oltre al palazzo Loredan per 40.000 scudi). Il B. aveva a suo tempo offerto al duca come segretario quel Marlupini che era stato al suo servizio, brigando, tramite il nunzio apostolico, perché gli fosse revocato il bando. Questo contribuì ad accrescere il sospetto del Consiglio dei Dieci, che il 7 dic. 1568 ordinò un nuovo arresto del B. unitamente al suo familiare Marziale Avanzo.

Il 10 dic. 1568 gli fu fatto intendere "con grave forma di parole quanto dispiacer habbi apportato a questo Consiglio l'operationi fatte da lui" a favore del duca di Braunschweig, "et quando non si comprendesse ciò esser causato dall'inconsiderato proceder suo, si devenirebbe a proceder contra di lui di quel modo che meritasse il delitto, ma che per questa volta si ha voluto escusar questa sua colpa col suo poco antiveder et considerar, facendoli ben intender che se nell'avenir se ingerirà in pratica d'alcuna sorte con fatti, con parole o con scrittura con alcun prencipe, personaggio, ambassator o agente, né andar a casa senza licentia delli Capi predetti, che se procederà di maniera contra di lui, havendosi anco allhora in consideration la colpa soprascritta, che'l sarà essempio ad altri de astenerse da simil operatione, stando nelli termini so honesti, vivendo secondo la forma delle leggi" (Arch. di Stato di Venezia, Consiglio..., f. 30 r).

Gli fu, tuttavia, imputato di aver trasgredito alla deliberazione del 9 sett. 1542 del Consiglio dei Dieci, che vietava ai gentiluomini veneziani di praticare principi stranieri o ambasciatori dimoranti in Venezia sotto pena di 500 ducati e l'esclusione per cinque anni dai pubblici uffici. Il 15 dic. 1568 gli vennero sequestrate, e depositate nel banco di Daniele Dolfin, tutte le somme (sia in danaro liquido sia in lettere di cambio "per la summa in tutto de scudi d'oro in oro 13.375 et de ducati 9314") e gli atti notarili di compravendita per conto del duca di Braunschweig.

Successive indagini allargarono il numero degli imputati (fra gli altri i fratelli Carlo e Ludovico Paluello e Andrea Badoer, che sarebbe stato l'intermediario fra il B. e il duca di Braunschweig) e sollecitarono il Consiglio dei Dieci a riesaminare il processo come "caso di Stato" (riferì il nunzio pontificio nel dispaccio del 3 ag. 1569). Per fortuna del B., del Consiglio facevano parte allora Antonio Malipiero, che lo difese energicamente, e Piero Morosini, che, quantunque escluso dalle votazioni per la parentela che lo legava all'imputato, poté ugualmente influire sui colleghi. E anche il nunzio Facchinetti si adoperò per assicurargli il favore della Curia romana, prevedendo che il B. si sarebbe riabilitato.

Per qualche mese poté sottrarsi all'arresto e quando si presentò al Consiglio dei Dieci, nel gennaio del 1570, dopo reiterati ballottaggi con esito incerto, fu dichiarato assolto il 23 genn. 1570. Solo Carlo Paluello venne bandito per cinque anni nella citta di Zara. Un nipote del B., Alvise, figlio del fratello Sebastiano, cercò poco dopo di vendicare lo zio tentando di pugnalare Nicolò Contarini, che come avogador di Comun era stato il più irriducibile fra gli accusatori.

Nel frattempo il B. aveva potuto restaurare le proprie risorse finanziarie, sposando il 30 genn. 1569 Elisabetta Malipiero, vedova di Nicolò Dolfin, che gli portò una dote di 22.000 ducati, computando vasti possedimenti fondiari presso Mirano e Ponte di Brenta "a rason de ducati ottanta il campo" (ereditati dalla defunta figlia Anzoletta, già moglie di Giacomo Dolfin).

Finché la Repubblica fu dominata dalle consorterie oligarchiche dei Consiglio dei Dieci, il B. dovette rinunciare ad ogni ambizione politica; ma nel 1582 gli si presentò l'occasione di riabilitarsi, assumendo il comando di quella fazione cosiddetta dei "giovani" in cui militavano gli oppositori del regime autoritario e poliziesco instaurato dal Consiglio dei Dieci. Il 21 dic. 1582, nella seduta del Maggior Consiglio, pronunciò un importante discorso politico, e fu "nobilissima azione" (come la qualificò nella sua cronaca G. A. Venier) l'aver sostenuto con appassionata eloquenza che era saggio ripristinare la "divisione dei poteri" come avevano stabilito gli antenati, riducendo il potere del Consiglio dei Dieci ai limiti costituzionali, per riaffidare al Senato "armi, confederazioni e dinari", mentre al Maggior Consiglio sarebbe spettata la funzione legislativa e al Consiglio dei Xl quella giudiziaria. I "giovani" ebbero partita vinta nelle votazioni, che si conclusero il 3 maggio 1583, ma il B. non ne trasse vantaggi personali perché alla guida dei "giovani" si impose Leonardo Donà, di ritorno dall'ambasciata presso la S. Sede, coadiuvato efficacemente da quei senatori che lo avrebbero poi sostenuto fino all'ascesa al dogato. È probabile che alla diminuzione dei prestigio personale del B. nei confronti del Donà abbia influito l'acutizzarsi delle polemiche giurisdizionali fra la Repubblica veneta e la Curia romana, da cui si ritrassero insieme col B. quanti erano "ben affetti" alla Chiesa. Così i vantaggi per il diminuito potere del Consiglio dei Dieci furono a poco a poco accaparrati da quella minoranza della fazione dei "giovani" che era decisamente ostile alle pretese giurisdizionali della Santa Sede.

Rimasto negli ultimi anni di vita quasi estraneo ai dibattiti politici e attendendo solo all'amministrazione familiare e agli studi prediletti, morì il 13 novembre del 1593 e fu sepolto in S. Canziano. Il 16 novembre la vedova Elisabetta si presentò al doge Pasquale Cicogna e mostrò il contratto di nozze per rientrare in possesso dei "fondi dotali".

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato, Dispacci Germania,filza dal 21 dic. 1550 al 22 maggio 1552 e copiari nn. 3-4 (27 maggio 1550-11 marzo 1551); Dispacci Spagna,filze 1-2(16 marzo 1555-26 genn. 1557); Avogaria di Comun, Raspe,reg. 3678, ff. 247 v-249 v; Consiglio dei Dieci, Criminal,reg. XI, ff. 29 r-31r, 48 r, 51 r-52 v, 69 r-70 v, 72 r e filza 15 (in data 15 dic. 1568 e 29 nov. 1569); Arch. Segreto Vaticano, Segr. Stato, Venezia,5, ff. 62 v-63 r, 67 v; 6, ff. 22 e 66 r; Venezia, Biblioteca Correr ms. Cicogna 672-27 orig.; E. Alberi, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il sec. XVI, s. 1 III, Firenze 1853, pp. 174-330; s. 2, V, ibid. 1858, pp. 377-406; Venetianische Depeschen vom Kaiserhofe,a cura di G. Turba, II, Wien 1892, pp. IX-X, 427 ss.; Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato,a cura di A. Segarizzi, II, Bari 1913, pp. 159-182, 268; G.M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia,II 1, Brescia 1758, pp. 30-32; G.Tiraboschi, Storia della letteratura italiana,III,Milano 1833, pp. 372 s.; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-ecclesiastica,XCL, Venezia 1858, pp. 349 s.; A. Stella, La regolazione delle pubbliche entrate e la crisi politica veneziana del 1582, in Miscellanea R. Cessi,II,Roma 1958, pp. 166-168; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini,Venezia-Roma 1958, p. 6; Nunziature di Venezia,VIII,a cura di A. Stella, Roma 1963, pp. 461, 464, 469.

CATEGORIE
TAG

Ferdinando i d'asburgo

Consiglio dei dieci

Invasione spagnola

Cosimo de' medici

Nunzio apostolico