DELLA VALLE, Federico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 37 (1989)

DELLA VALLE, Federico

Giovanna Romei

Nacque intorno al 1560 nel territorio dell'Astesana, probabilmente nelle Langhe, sotto la giurisdizione gonzaghesca o sabauda. L'attributo di "Astegiano" che compare nel frontespizio dell'edizione 1629 dell'Adelonda di Frigia non garantisce più precise ipotesi sul luogo di nascita. Il Filosa ritiene che il D. appartenesse alla "buona borghesia attiva e industre" e, più recentemente, de Tommaso ne ha precisato la collocazione comunque socialmente marginale, nobile o borghese che fosse.

Il 1585 è la prima data certa che lo collega alla corte sabauda, quella della composizione di un "faticoso" Epitalamio "ne la venuta di Spagna de la serenissima Infante" Caterina d'Austria, figlia di Filippo II re di Spagna, andata in sposa a Carlo Emanuele 1 di Savoia a Saragozza l'11 marzo di quell'anno.

Sull'esatta cronologia degli avvenimenti nUziali tuttavia il D. si dimostra incerto: 1, operina è esempio di tradizionale poesia cortigiana, in cui il rapporto tra letteratura -e politica non è incrinato da tensioni. L'Epitalamio fu edito in Scelta di rime di diversi moderni autori non più stampate, parte I, in Genova, appresso gli heredi di Gieronimo Bartoli, 1591. Sempre nel '91, nella II parte della Scelta edita a Pavia, comparve il madrigale "Se tu sapessi amore", dal carattere stilistico più netto rispetto alla prima prova, sebbene non del tutto originale. All'edizione di Torino, "per l'herede del Bevil'acqua", 1589, della Sacra HistoriaThebea di Guglielmo Baldesano, il D. premise il sonetto "Dal Nilo a l'Alpi, indi a l'estremo Reno", detto "Ai Santi e Gloriosi Campioni Tebei" nell'edizione stampata a Torino nel 1604, con il titolo La sacra historia di San Mauritio. Il sonetto testimonia già un impegno politico, cattolico-controriformistico e sabaudo. Allo stesso ambito di produzione di maniera - che comunque attesta un ruolo di intellettuale cortigiano - ma ad un mutato atteggiamento etico-politico e ad un deteriorato rapporto con i Savoia, risalgono i quattro sonetti celebrativi per la pace di Lione del 17 genn. 1601, che si trovano manoscritti nel codice miscellaneo 287, fasc. 43, della Biblioteca reale di Torino. Nella stessa Biblioteca si conserva manoscritto (Varia 288, fasc. I) un abbozzo di poema in lode di Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde, di cui restano quarantasei scialbe ottave che risentono anch'esse dell'intiepidirsi dei sentimenti filosabaudi del Della Valle. B. Peyron (Codices Italici manu exarati, qui in Bibliotheca Taurinensis... asservabantur, Taurini 1904) segnala un componimento in versi, Ordine de la mascarata de li quattroelementi, oraperduto, e lo attribuisce al Della Valle.

Al 9 sett. 1586 risalgono le testimonianze che vogliono il D. furiere maggiore della cavallerizza della duchessa di Savoia, incarico - come accuratamente precisato da Firpo - molto meno delicato di quanto congetturato da Filosa. Relativa a tale incarico è una delle poche testimonianze autografe del D., la lettera al cavallerizzo maggiore, marchese Giacomo Aurelio Pallavicino, del 26 giugno 1587, conservata nell'Archivio di Stato di Torino (Lettere particolari, mazzo IX): sul problema dell'autografia dei manoscritti delle opere del D. pervenutici non concordano i pareri degli esperti, in particolare per quel che riguarda la redazione bergamasca di Maria la reina.

Il 7 giugno 1595 gli venne concessa una modesta patente ducale; il 25 novembre, nell'ambito dei festeggiamenti per la venuta del cardinale Alberto arciduca d'Austria, venne rappresentata a corte la tragicommedia Adelonda di Frigia, con intermezzi del D. e probabilmente dello stesso Carlo Emanuele, su musiche di Pietro Veccoli, madrigalista e musico di corte, e con l'intervento, in veste di attori, di dame e cortigiani. Eppure, dal 1596 non si hanno più notizie del D. nell'ambito dell'amministrazione sabauda, se non di probabili debiti da saldare registrati nel 1598. Del resto, come risulta da P. Filippi, Complimenti, Torino 1601, Filippo d'Este, marchese di San Martino in Rio, risponde al D. da Fossano - e quindi fra il luglio 1599 e il maggio 1600 - ringraziandolo convenzionalmente della "sua cortesia": dunque il D. doveva essere in quel tempo ancora alla ricerca di protettori e impieghi, come già attestato dalla dedica a Ranuccio Farnese duca di Parma e Piacenza, premessa alla seconda redazione di Maria la reina, che risale al 1595 (e si conserva manoscritta nella Biblioteca nazionale di Napoli, XIII E 2).

Altri scarni cenni biografici si ricavano dalle vicende.delle opere dellavalliane: nel 1591, "tramutatosi di cavallaro in poeta", come realisticamente nota Firpo, il D. dedicò alla marchesa Vittoria Solara la prima stesura di Maria la reina, conservata ms. nella Biblioteca civica di Bergamo, Σ III 24 (MM 166). Ai primi mesi del 1593 risale il Ragionamento fatto ne la raunanza degli stati de la Francia per l'elezione d'un re, manoscritto custodito nella Biblioteca nazionale di Torino (N IV 9).

Il D. caldeggia idealmente, per bocca di un oratore sabaudo, la candidatura al trono di Francia avanzata, peraltro cautamente, dal duca di Savoia: il discorso si finge pronunciato dinanzi all'Assemblea degli stati apertasi a Parigi il 26 genn. 1593 per la scelta del nuovo re dopo l'uccisione di Enrico III di Valois. L'opera del D. "è stata fatta per esercizio, e non per presentarsi", come si legge nella lettera di dedica a Carlo Emanuele: e in realtà ad essa manca ogni finalità pratica, essendo tardiva rispetto alla data dell'Assemblea; piuttosto si inserisce nel genus demonstrativum di oratoria politica tragica (Folena), in quel filone di scritture pseudodiplomatiche e cortigianesche fiorito intorno all'iniziativa di Carlo Emanuele. La chiarezza espositiva, la coerenza di argomentazioni, la dignità stilistica dello scritto, confermano l'impegno più letterario che diplomatico del arcana imperii (Firpo). La fiducia - di stampo conservatore - nell'autorità riesce quindi ad esprimersi in realismo drammatico e romanzesco, in gusto per una rappresentazione drammatica degli avvenimenti contemporanei (F. Croce).

Se i sonetti per la pace di Lione (1601) indicano ancora la vicinanza del D. alla corte sabauda, nel 1608 il suo nome non compare tra i poeti che composero in lode del duca le brevi poesie premesse al Ritratto del serenissimo don Carlo Emanuello di G. B. Marino. Ma soltanto dal 1621 Si può supporre la presenza del D. a Milano, meta comune anche a molti spagnoli dopo la morte nel 1597 della duchessa di Savoia. Di certo dall'Oratione nelle essequie di Filippo terzo re potentissimo di Spagna, Milano 1627, risulta che il D. fu in Spagna, probabilmente tra quella folta schiera di piemontesi che vi soggiornò dal giugno 1603 all'agosto 1606 al seguito dei tre figli maggiori di Carlo Emanuele.

Nell'aprile 1621 si celebrarono a Milano i funerali di Filippo III, morto il 31 marzo: il D. compose un'orazione, dedicata a Filippo IV e probabilmente mai pronunciata, in cui il convenzionale tessuto del planctus fa trasparire un intenso linguaggio psicoteologico (Folena). L'artificio retorico, che giustifica l'insipienza politica del sovrano con una remissione alle forze soprannaturali, si concilia con gli ideali del pacifismo conservatore e con la consapevolezza della vanità dell'umano e della totale svalutazione della politica; consapevolezza maturata nelle tragedie, specie nella Iudit, cui l'orazione dellavalliana si richiama anche nei toni pittoreschi sfarzosi e lugubri, nel ricorso a formule argute e nello stile sovrabbondante (F. Croce).

Nello stesso 1627 il D. curò la stampa dell'Orationenell'essequie della ecc.ma sign.ra duchessa di Feria, moglie del governatore del ducato, spentasi a Milano il 15 genn. 1623: in questo scritto - dedicato appunto a don Gonzalo di Cordova - non si incontrano sentimento e retorica, si fa scoperta la volontà edificatoria e moralistica e "il ritratto che ne emerge è quello senza lume né colore di una donnetta squallida" (Firpo).

Gli unici esemplari superstiti delle due orazioni sono conservati nella Biblioteca Trivulziana di Milano.

Le ultime notizie sulla vita del D. lo vedono impegnato tra il 1627 e il '28 nell'edizione sistematica delle sue opere presso gli "heredi di Melchior Malatesta", a Milano: nel 1627 furono pubblicate Iudit et Esther e le orazioni funebri, nel 1628 la Reina di Scotia. Nel 1629 fu edita a Torino, appresso il Cavalleris, l'Adelonda di Frigia, a cura di Federico Parona, nipote del D., il quale, nella dedica a Carlo Emanuele datata 13 gennaio, menziona lo zio come morto.

In epoca moderna il D. fu "scoperto" da Benedetto Croce grazie soprattutto alla Reina di Scotia, la tragedia che molti indicano come il suo capolavoro, e di cui restano le prime due redazioni manoscritte (con il titolo di Maria la reina) el'edizione definitiva a stampa, dedicata a papa Urbano VIII.

Pur non essendo chiarissime le vicende di composizione, il percorso tecnico-retorico che va dalle prime redazioni alla stesura definitiva del 1628 - curata dallo stesso autore - illustra bene il più vasto itinerario del D. tragediografo, dalla "scolastica" Adelonda al moderato senechismo di Esther e Iudit, che media le asperità di cui risentono le redazioni mss. della Reina degli anni '91 e '95 con la tendenza, nella versione a stampa, a smorzare l'esasperazione drammatica in commozione poetica. L'aggancio immediato con i dati dell'attualità (l'esecuzione della Stuarda risale al febbraio del 1587) non deve oscurare il fatto che da parte del D. si tratta della scelta meditata di un genere - e dunque di un contenuto - tragico, che, sulla scia del Torrismondo tassiano, si propone alla cultura del tempo come sistema conipositivo in grado di dibattere al suo interno le problematiche più urgenti dell'Italia a dominazione spagnola; in alternativa all'evasivo dettato guariniano, a favore di uno spettacolo "responsabile", peraltro destinato a quell'insuccesso in parte complice del silenzio secolare che circondò le opere del D. (Ariani).

Dalla prima redazione alla stampa il D. progressivamente elimina i riferimenti alla cronaca, certe astrattezze di sentimento, alcune forme metriche meno musicalmente funzionali ad un recupero in senso tragico di forme da madrigale (F. Croce). In altri termini, dalla prima redazione alla stampa si passa da una sorta di dramma romanzesco alla staticità di una tragedia "assolut", capace di creare da sé e in sé le proprie forme e motivazioni. Analogamente, l'immagine della vita di corte si spoglia da complicazioni polemiche di impronta cortigiana e politica, presenti nelle redazioni manoscritte: la regalità si congiunge infine in Maria con la religiosità e il D. conclude il tema rinascimentale della tirannia con l'idea conservatrice di un potere regale conferito da Dio, che esclude la storia, l'umana azione politica, e coincide infine con la fedeltà cattolica. Ma, come sottolinea Franco Croce, il D. raggiunge esiti non del tutto conservatori nell'elegia dolorosa ma indomita di Maria, la cui regalità è, in assenza di potere, resistenza di fronte al male.

Se pure è parola tabù che compare in un solo passo della Reina e viene sostituita con eufemismi, il "fatto", nell'accurata indagine condotta da S. Raffaelli, risulta sempre presente nella struttura semantica profonda, rivelata da sostituti generici e voces mediae come "fortuna". Le altre parole chiave deì lessico dellavalliano si concentrano intorno a due nuclei, il chiaroscuro "timore-speranza" e il dominio del "dolore", dando luogo a quella monocroma coerenza che a ragione Folena precisa quanto sia difficile inquadrare nel manierismo tardorinascimentale e nel barocco. "Unità intensa e monotona del linguaggio" che per alcuni versi prelude all'Alfieri, per altri richiama la tradizione recente, in particolare Tasso e certo petrarchismo.

Benché sia. rintracciabile un precedente classico nell'Octavia pseudosenecana, l'argomento della tragedia fu senz'altro dettato dalla violenta reazione che suscitò in campo cattolico la sfortunata vicenda della Stuarda, ricca d'altronde di motivi di immediata solidarietà umana e poetica che ispirarono molti, da Campanella a Schiller. Le prime due redazioni si collegano strettamente all'ambiente sabaudo nell'enfatizzazione di alcuni riferimenti a personaggi come l'ambasciatore di Carlo Emanuele, il conte di Moretta (imparentato - secondo alcuni - con. la marchesa Vittoria Solara, cui e dedicata la redazione bergamasca), ed il presunto amante di Maria, il piemontese Davide Rizzio.

Dalla sconsolata considerazione della triste condizione cui la costringono gli avvenimenti, nell'ossessivo microcosmo della prigione e nella sospensione del tempo atitiale scandita dai ricordi, Maria si apre alla speranza, spinta dalla fedele cameriera e dal coro delle dame. Tuttavia, nel costante rifiuto delle motivazioni che muovono la rivale Elisabetta/ Isabella e nell'alternanza di timori e speranze alimentata da messaggeri e consiglieri, Maria rafforza il suo convincimento nell'eticità della regalità e si decide al martirio. La lirica meditazione a tre voci della regina condannata, della cameriera e delle dame, si accompagna alla drammaticità della narrazione della decapitazione, condotta con senecani accenti secchi e realistici, di dura densità: accenti che non smentiscono il rigoglioso sentimento della dignità umana presente nell'ultima versione della Reina e a cui il D. giunse a conclusione della sua vicenda poetica, decantate una volta per tutte le punte più accese della polemica anticortigiana.

Della tragicommedia Adelonda di Frigia si sa con certezza che fu rappresentata alla corte sabauda: il testo è però pervenuto nella sola edizione postuma, mal curata dal nipote del D. e stampata con gravissime scorrettezze dai Cavalleris, che pure pessimi tipografi di regola non erano. L'edizione moderna di Cazzani è lacunosa e quella di Fassò dubbia nella misura in cui è in gran parte ricostruita per via congetturale. Nell'intricata - per mancanza di documentazione - cronologia dellavalliana, l'immaturità di questa prova tragicomica viene riferita alla mancanza di una versione definitiva (per cui il Parona avrebbe affidato agli editori una copia di lavoro provvisoria che non coinciderebbe con il testo della rappresentazione del 25 nov. 1595), e agli esordi poetici del D (e quindi l'Adelonda precederebbe la prima redazione del 1591 della Reina).

La tragicommedia rivisita in chiave cattolico-controriformistica l'Ifigenia taurica euripidea e la contamina con i toni romanzeschi del manierismo avventuroso-cavalleresco del Tasso; inoltre, l'occasione rappresentativa - forse collegata, come ipotizza Firpo, all'attività gesuitica in campo teatrale - sembra influenzare il tono propagandistico del tema, religioso e ridurre il risentito motivo della vanità dell'umano ad una casistica degli "schetzi" di fortuna in toni di galanteria metastasiana. In definitiva, i temi, i nuclei lessicali, i procedimenti stilistici rilevabili nella Reina, sono presenti nell'Adelonda come declassati al livello strumentale di espedienti narrativi. Se da un lato si conferma così un limite di tutta la letteratura della Controriforma che non riesce ad esprimerne gli ideali minori se non nelle forme edonistiche del gusto per il romanzesco (F. Croce), d'altra parte viene ribadita la sostanziale estraneità del D. ad una scrittura propriamente teatrale, che lo condusse ad espungere dalle edizioni a stampa delle tragedie la divisione in atti e scene e a far costantemente prevalere le notazioni temporali su quelle spaziali - con l'eccezione di alcuni passi della Iudit.

In cerca dell'amata Adelonda, scomparsa in mare durante un naufragio, il principe greco Mirmirano sbarca nel regno delle Amazzoni e per questo viene condannato a morte, secondo il crudele dettato della legge divina di cui la regina Antiope è severa custode e la stessa Adelonda è diventata ministra e sacerdotessa. Il lieto fine è garantito da un nuovo decreto dell'Idolo, che sostituisce alla "dalsa religion" del timore la legge dell'amore da soddisfarsi "come natura insegna".

Agli ovvi echi delle pastorali tassiana e guariniana si mescola la più severa tematica della Ragion di Stato del Botero, qui fondata sul volere divino e opposta all'arbitrarietà delle leggi umane: se Mirmirano si richiama all'assolutismo regale ("t viva legge il re"), Antiope gli risponde sicura della sua osservanza alla legge celeste ("dritto e giusto sovra tutti i giusti / È l'ubidir al Ciel"), in una disputa che comunque resta estranea al nucleo della fabula.

L'Esther e la Iudit sono le tragedie di argomento biblico che appartengono agli ultimi anni del soggiorno torinese del D., e ne concludono la sperimentazione tragica: dopo di esse, il D. tornò ad occuparsi della Reina nella direzione già illustrata di moderazione e conciliazione con le soluzioni ritmico-musicali dell'Esther. Solo di questa tragedia è giunto il manoscritto, dedicato a Carlo Emanuele e conservato nella Biblioteca nazionale di Torino (N. IV. 23), con leggere varianti rispetto all'editio princeps del 1627, dedicata all'"Altissioa Reina de' Cieli", che contiene anche la Iudit, il cui manoscritto andò invece distrutto nell'incendio della Biblioteca nel 1904.

Su queste due tragedie dellavalliane si è più apertamente esercitato un criterio valutativo, soprattutto in riferimento alla Reina di Scotia. In realtà, Esther riproduce l'impossibilità, comune a tutto il mondo tragico del D., a configurarsi come realtà emozionale maturata nel vissuto: ancora. una volta, il pathos non scaturisce dalla verifica teatrale del rapporto tra parola e azione ma dalla capacità di rimemorare un percorso mitico (Senardi).

Il D. riprese in Esther la pagina della Genesi, sul miracolo della creaziorie, in sintonia con quel recupero di una tematica controriformistica presente nel Tasso del Mondo creato e nel Marino della prima delle Dicerie sacre: inoltre, il soggiorno a Torino di tutti e tre i poeti precisa la collocazione della corte sabauda tra i centri di elaborazione di contenuti controriformistici.

Verificata con la Reina l'"impurità" della storia, il D. si affida alla certezza delle Sacre Scritture e tende a risolvere la tragedia idparabola. Parabola anche personale, se la composizione di Esther e Iudit risale agli anni in cui il D. andava mutando la sua concezione politica, in particolare riferimento alla sfortunata esperienza alla corte dei Savoia. La fiducia nella regalità benigna, in base alla quale tra Maria e i suoi sudditi esiste - e resiste nel corso del dramma - un rapporto di solidarietà, è sostituita dalla fede nel trascendente. La polemica contro le corti malvage conclude una vicenda di progressivo estraniamento dalla servitù. cortigiana accettata con convinzione e sfocia nella negazione della possibilità stessa di una politica giusta (F. Croce). Ma queste urgenze mai si accordano con l'intreccio biblico, che il D. in un certo senso "subisce", limitandosi ad esporre i temi dell'instabilità del regale potere terreno, della mutevolezza delle fortune umane, del dolore degli uomini senza Dio. Piuttosto sono da sottolineare i procedimenti di stile e di linguaggio, risolti più felicemente nella Iudit, che segnalano il mutamento dell'ispirazione tragica dellavalliana: il realismo pittoresco che, scemando, concede larghi spazi e pause e vagheggiamenti tesi ad esprimere un mondo statico, il passaggio dall'endecasillabo al musicale intreccio di questi con i settenari (F. Croce); il montaggio paratattico tra gioco e ostentazione di moduli stilistici consumati che duplica la consapevolezza di una dissoluzione interna, l'insistenza manieristica sulle rime intermedie per cui l'accento cade sui particolari incastonati in un'opaca cornice di pretesto (Senardi).

L'ebrea Esther, moglie del re Assuero, riesce a smascherare le trame del ministro Aman e di sua moglie Zares, che perseguitano il popolo giudeo e il suo sacerdote Mardocheo: Aman viene giustiziato e l'editto antiebraico revocato. Come poi la Iudit, l'Esther esige "una lettura capovolta", che assuma come personaggio tragico non la protagonista ma il suo nemico, l'antagonista a suo modo eroico: la tragedia è costretta alla conclusione felice della vendetta realizzata, che rende esemplare il percorso dalla gloria mondana alla caduta (Angelini).

Si deve a Giovanni Getto la definizione più pregnante dell'universo drammatico dellavalliano, scandito da una situazione spaziale costituita da un luogo limitante e limitato, e da una temporale fatta di una alterna attesa di timore e speranza. Ma soltanto nella Iudit questi elementi si propongono in novità di obiettivazione scenica, solo in essa l'impianto figurativo delle immagipi tende alla realizzazione di una progettualità teatrale. È forse anche. a questo suo carattere che risale certa fortuna "moderna" di questa tragedia, edita anche isolatamente e proposta da molti come l'autentica "scoperta" del repertorio dellavalliano.

Il contenuto biblico, la polemica anticortigiana, la tragica fine del tiranno, la fiducia nella giustizia di Dio, i motivi polemici dell'Esther insomma, ricompaiono in Iudit strettamente innervati sull'intreccio biblico e, insieme, decantati dall'urgenza espositiva, liberamente enucleano da quel racconto le coordinate che intessono il tessuto drammatico della tragedia.

Il testo più barocco del D. - soprattutto per i temi della finzione, dell'erotismo e della sensualità della protagonista - non recupera però il principale aspetto barocco - il romanzesco della prima produzione: è l'insorgere del giudizio morale che non lo permette, se pure di una moralità angusta si tratta ormai, ridotta alla drastica condanna di ogni dimensione politica (F. Croce). Sul contenuto dottrinale tende a prevalere la rappresentazione delle passioni in lotta, espressa in forme legate ai più raffinati moduli tasseschi: il lessico del D., inturgidendo la tendenza alla magnificazione e all'iperbole, apre una dimensione prospettica nuova, nella descrizione dei campi della Giudea, della notte degli inganni, dell'immagine pittorica della nudità di Iudit narrata da Vagao, dello splendore di vesti, gioielli e mense del banchetto. Il motivo della decapitazione, dei fasti della corte, soprattutto "la preminenza della funzione del "guardare" nei momenti salienti" (Angelini), richiamano le prime redazioni della Reina e nello stesso tempo ne preparano la versione definitiva, in un itinerario di maturazione stilistica, poetica e morale di cui Iudit segna la tappa fondamentale.

La trama si basa sul libro deuterocanonico di Giuditta, incorporato nella Vulgata da s. Girolamo. Anche Lutero lo aveva accolto in appendice alla sua edizione della Bibbia del 1534: la tempestiva riappropriazione del tema da parte cattolico-controriformistica potrebbe non essere motivazione estranea al D. nella scelta di esso.

Oloferne, capo degli Assiri, occupa le fonti della città di Betulia. Giuditta si offre di liberare gli Ebrei assediati facendo innamorare di sé Oloferne: partecipa al banchetto da questo organizzato e lo seduce; lo decapita e ne espone la testa mozza sulle mura della città, provocando la fuga degli Assiri.

Anche qui si attua il rovesciamento dei ruoli rilevato nell'Esther: nella sua monoliticità sentimentale - nota Franco Croce - Iudit è ridotta a puro deus ex machina, mentre Oloferne viene assunto ad eroe negativo. Ad essi si affiancano, a pari livelli di consistenza drammatica, i nuclei corali degli Ebrei e dei soldati assiri, gli umili coinvolti in eventi per loro imperscrutabili.

Del silenzio di quasi tre secoli il D. è stato risarcito dalla "scoperta" delle sue tragedie che Benedetto Croce compì nel 1885: a non più di una menzione, e spesso erronea, del Crescimbeni, del Quadrio, dell'Allacci e di pochi altri, in epoca moderna hanno fatto seguito le edizioni delle opere e numerosi interventi critici, per lo più concentrati sulla storicizzazione della figura poetica del D., tra suggestioni tardocinquecentescht o invece barocche. Meno indagate sona state le forme originali in cui il D. elabora alcuni temi del clima controriformistico, se non - ed esaurientemente - da Franco Croce, e soltanto in indagini recenti - come quelle di Fabiani, Raffaelli, Durante, Senardi - è stato ripreso il prezioso suggerimento di Carlo Dionisotti (1939) teso ad approfondire lo studio della lingua e dello stile dellavalliani.

Edizioni: La Reina di Scotia vanta un'ediz. curata da B. Croce, Bologna 1930. Le tre tragedie si leggono nell'edizione a cura di C. Filosa, Bari 1939, tutte le opere, tranne le Orationi, sono state pubblicate a cura di P. Cazzani, Milano 1955; la Reina, la Iudit e l'Adelonda compaiono nella raccolta curata da L. Fassò, Milano-Napoli 1956, e la Reina in quella curata da G. Gasparini, Torino 1963. Le Prose (il Ragionamento e le due Orationi)sono state ed. da L. Firpo, Bologna 1964, con un denso saggio introduttivo che sistema definitivamente - almeno alla luce dell'attuale documentazione - la biografia del D. e ne precisa le concezione politica. Gli Intermezzi dell'Adelonda sonostati riediti, dopo il Cazzani, da L. Fassò in Dall'Alighieri al Manzoni, Firenze 1955, pp. 161-89. La Iudit è stata edita a cura di G. Livio, Torino 1963, e a cura di A. Gareffi, Roma 1978.

Bibl.: Benedetto Croce cominciò ad occuparsi del D. nel settembre 1885 in un intervento ne La Rass. pugliese firmato con lo pseudonimo di Gustave Colline (poi in I teatri di Napoli..., Napoli 1891); se ne occupò ancora in La Critica, XXVII(1929), pp. 377-97, e XXXIV (1936), pp. 389-93, e poi in Storia dell'età barocca, Bari 1929, pp. 360-63, in Nuovi saggi sulla letter. ital. del Seicento, Bari 1931, pp. 46-74, e in Problemi di estetica, 5 ediz., Bari 1954, pp. 84-90. Il primo a riprendere l'indicazione crociana fu A. Momigliano, Storia della letter. ital., Messina 1933, II, pp.63-69. Non vanno trascurati i contributi in cui in diverse sedi Filosa e Cazzani hanno illustrato i risultati delle ricerche svolte in relazione all'edizione delle opere del Della Valle. In una bibliografia critica che negli ultimi cinquanta anni ha raggiunto una mole notevole, ci limitiamo a segnalare: C. Dionisotti, recensione all'edizione citata a cura di C. Filosa, in Giorn. stor. d. letter. ital., CXIV (11939), pp. 230-33;M. Apollonio, Storia del teatro italiano, III, Firenze 1946, pp. 275 ss.; G. Trombatore, Le tragedie di F. D., in Saggi critici, Firenze 1950, pp. 167-92;B. Baldis, Di una nuova redazione ms. della tragedia "La Reina ...", in Aevum, XXVI (1952), pp. 349-64;G. L. Moncallero, L'Adelonda..., in Rinascimento, giugno 1956, pp. 159-167;M. Fabiani, Sullo stile e il linguaggio poetico di F. D., in Convivium, n. s., XXVI (1958), pp. 148-153;M. Gorra, Lineamenti e sviluppi della critica dellavalliana, in La critica stilistica e il barocco letterario, Firenze s.d. [1958], pp. 204-13;G. Pullini, Consistenza drammatica nella tragedia del Seicento, ibid., pp. 302-15;M. Fabiani, Elegia e dramma in F. D., in Studi secenteschi, I (1960), pp. 89- 104;P.Renucci, Une tragédie de la raison de Dieu": la Iudit...,in Le théatre tragique, Paris 1962, pp. 145-61;M. Fabiani, Note sull'Adelonda, in Studi secenteschi, IV (1963), pp. 31-42;F. Croce, F. D., Firenze 1965;G. Getto, Barocco in prosa e poesia, Milano 1969, pp. 217-86; S. Raffaelli, Semantica tragica di F. D., Padova 1973 (con presentazione di G. Falena, a pp. VII-XI); Id., Aspetti della lingua e dello stile di F. D., Roma 1974;M. Ariani, Tra classicismo e manierismo. Il teatro tragico del Cinquecento, Firenze 1974, pp. 234-37;F. Angelini, Il teatro barocco, Roma-Bari 1975, pp. 137-97;P.de Tommaso, L'"ascosa mano". Saggio sull'ideologia religiosa di F. D., Lanciano 1979;R. Senardi, Studi sul teatro classico italiano tra manierismo ed età dell'Arcadia, Roma 1982, pp. 5-38; M. Durante, Restauri dellavalliani, Catania 1983.

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