Federico I Imperatore

Enciclopedia Dantesca (1970)

Federico I Imperatore

Raoul Manselli

Federico I (detto Barbarossa) Imperatore - Figlio di Federico di Hohenstaufen, duca di Svevia, e di Giuditta di Baviera, nato verso il 1124, si presenta nella luce della storia al momento della sua partecipazione alla seconda crociata al seguito dello zio, l'imperatore Corrado III, negli anni 1146-47.

Alla morte dello zio, nel 1151, venne eletto re dei Romani e designato così all'Impero con un'eccezionale convergenza di voti da parte di quanti speravano di trovare in lui chi, per esser figlio di un ghibellino e di una guelfa, ponesse fine alle lotte intestine che da tempo dividevano la Germania: F. effettivamente riuscì, anche per la sua abile politica, a riportare l'ordine in un paio d'anni, partendo poi per l'Italia a cingervi la corona imperiale.

Giunto in Lombardia, dovette constatare i profondi contrasti esistenti fra i comuni e soprattutto l'ostilità contro Milano, accusata di essere aggressiva e prepotente dalle città sue avversarie come Lodi, Como, Bergamo, Cremona.

Dopo aver cercato d'imporre la sua autorità con un frequente ricorso alla repressione violenta, F. si recò a Roma, ove fu incoronato il 18 giugno 1155. Al ritorno distrusse, dopo breve assedio, Spoleto che aveva resistito alle richieste di Guido Guerra, legato imperiale (27 luglio 1155).

Tornato in Germania, venne ben presto richiamato in Italia, ove scese alla testa di un potente esercito, che sembrò piegare ogni opposizione e che gli consentì di riunire tutti i rappresentanti dei comuni a Roncaglia (1158), per imporre loro dei rappresentanti imperiali in ogni città (i cosiddetti podestà), insieme a gravosi tributi. Milano, dopo una prima sottomissione, si ribellò, ma fu assediata e distrutta (1162).

La durezza dell'amministrazione dei podestà imperiali, l'assenza dell'imperatore rientrato in Germania e, principalmente, lo scisma provocato dai fautori del Barbarossa contro il pontefice Alessandro III, al quale contrapposero ben tre antipapi, determinarono in Italia un malcontento diffuso e profondo che si concretò nella formazione di due leghe cittadine, quella veronese e quella formata da Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova, fusesi poi insieme a formare la lega lombarda.

La lega provvide, subito, alla ricostruzione di Milano (1167) e alla costruzione di una città tra il Tanaro e la Bormida, che fosse baluardo antimperiale per il Piemonte e la Liguria: Alessandria, dal nome del papa, avversario irriducibile del Barbarossa.

Questi, costretto allora a ritornare in Italia, cercò di schiacciare i comuni con la forza, ponendo l'assedio ad Alessandria, ma si trovò di fronte a una resistenza ben maggiore del previsto. Tentò, allora, dei negoziati di pace, profittando della sua effettiva potenza militare per ottenere le migliori condizioni da avversari preoccupati dalle lotte continue e ricorrenti con l'Impero, dannosissime, del resto, per la loro economia. Si giungeva, così, alla tregua o accordo di Montebello, che nel 1175 sembrò, per un momento, concludere le ostilità: due condizioni, però, la distruzione di Alessandria e l'accantonamento dell'alleanza col papa - accordate al Barbarossa dai negoziatori - provocarono l'opposizione concorde delle popolazioni dei vari comuni, causando, così, il rigetto della tregua e la ripresa delle ostilità.

F. però, nella speranza della pace, aveva rinviato in Germania gran parte delle truppe che si vide dunque costretto a richiamare.

Emerse, allora, l'opportunità di ricorrere all'aiuto di suo cugino, Enrico il Leone, duca di Baviera, che però nel convegno di Chiavenna si disse disposto ad accordarlo, ma a condizioni assai gravose, che vennero perciò respinte. Rimasto con truppe relativamente scarse il Barbarossa fu costretto ad attendere rinforzi: mentre s'accingeva a raggiungerli si scontrò con le forze della lega, con cui impegnò battaglia e fu duramente sconfitto, a Legnano (1176).

Ricomparso dopo tre giorni, in cui era stato creduto morto, F. cercò di riprendere i negoziati, che subito si rivelarono più agevoli, anche perché Alessandro III, preoccupato dei progressi dell'eresia, anche nelle città che più gli erano amiche, come la stessa Milano, avvertiva il bisogno, contro gli eretici, di un appoggio da parte del potere politico, che difficilmente gli sarebbe venuto dai gruppi dirigenti dei comuni e, in ogni caso, non in circostanze nelle quali le città avevano bisogno del pieno accordo di tutti contro l'Impero. Si giunse così alla pace di Venezia col papa e, insieme, a una tregua con i comuni e col regno normanno (1177). Pochi anni dopo seguì la pace di Costanza (1183), per cui si raggiunse una pacificazione totale tra l'Impero e le città.

In Germania, intanto, F. aveva ben rafforzata la sua autorità, combattendo e limitando il potere dei principi e, in special modo, di Enrico il Leone che venne costretto a lasciare la Germania per rifugiarsi alla corte di suo cognato, duca di Normandia e re d'Inghilterra.

In questa lunga attività politica e militare, se talvolta si ricordano durezze persino crudeli, è doveroso, però, precisare che il Barbarossa fu sempre ispirato da un vivo senso di giustizia, dalla coscienza di un'autorità non arbitraria, ma guidata dalla consapevolezza di una responsabile autorità. Ciò va detto anche perché la storiografia italiana, e in specie quella ispirata dalla tradizione risorgimentale, tende a presentarlo come un oppressore sempre, spesso come un efferato tiranno. Si deve, invece, ricordare che in un primo momento F. intervenne sempre su richiesta e per volontà dei comuni ostili a Milano; e anche più tardi, quando si oppose alla lega lombarda, ebbe, tuttavia, città e grandi signori che gli rimasero fedeli alleati.

I contemporanei, senza eccezione, compresi coloro che lo avevano avversato, ammirarono il suo senso del dovere e la sua fede, per cui quasi settantenne, alla notizia della caduta di Gerusalemme, volle mettersi alla testa della terza crociata, in una spedizione lunga e difficile, seppure vittoriosa, fin quando, attraversando il fiume Salef in Cilicia, morì il 10 giugno 1190.

F. è ricordato da D. con una positività di giudizio che ci sembra estremamente significativa e che lo distanzia dal guelfismo degli anni di Firenze; né solo per la sua resistenza allo strapotere della Chiesa, come pur ha ricordato giustamente B. Nardi, ma anche e più per il programma di giustizia che si era proposto di fronte al disordine causato dai contrasti fra le città.

Così l'abate di S. Zeno, a Verona, precisa di aver avuto il governo sotto lo 'mperio del buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona (Pg XVIII 119), ove la terribile distruzione della città lombarda, ancora motivo di dolorosi discorsi, non impedisce a D. di chiamar ‛ buono ' proprio quel Barbarossa che l'aveva ordinata. È un contrasto voluto e consapevole che si illumina di quanto D. aggiunge in Ep VI 19-20, rivolgendosi agli scelleratissimi Fiorentini: a costoro ricorda di non insuperbire per la fortunata sortita dei Parmensi contro Federico II e ammonisce piuttosto a pensare alla ‛ perversione ' e all'‛ eversione ' di Spoleto e di Milano. Di scorcio si lascia intravvedere in un rapidissimo succedersi di causa e di effetto la ribellione delle due città e la rovina che ne conseguì: ne viene un ammonimento pauroso destinato a stringere il cuore di quanti si son lasciati attrarre contro l'alto potere imperiale da tracotante superbia.

In tal modo, con la forza di sintesi e la potenza di scorcio che gli è consueta, D. rappresenta, esamina e, a un tempo, supera il problema storico di tutto il contrasto fra l'Impero e i comuni. Mentre ghibellini e guelfi restavano legati a un'impostazione parziale, e perciò, agli occhi di D., faziosa delle vicende italiane dei secoli XII e XIII per l'incapacità di giudicare al disopra delle passioni locali o degli odi politici, anch'essi legati al breve ambito di città o di castelli, il poeta, levandosi a un'analisi storica, sia pur fulminea, ma completa, coglie e addita nelle lotte cittadine una mancanza profonda di superiore giustizia, quale può dare certo il solo ‛ monarca ', per le ragioni che ordinatamente enumera - ma di F. non si fa cenno - in Mn I XI-XIII.

Il Barbarossa si sforzò, secondo il giudizio di D., di realizzare la giustizia contro i fomentatori del disordine e della ribellione, e le condanne che egli impose hanno in sé un'esemplarità che deve far riflettere. È, da questo punto di vista, significativo che tacendosi del tutto della lega lombarda e di Legnano, l'imperatore tedesco compaia in una luce di piena vittoria, e come circonfuso di un alone mitico, accentuato dalla lontananza degli anni.

Come la Firenze del buon tempo antico, è l'imperatore di una giustizia ormai scomparsa, ma non perciò meno vera, meno valida e meno rimpianta.

È opportuno anche ricordare che la massima Romanum imperium de Fonte nascitur pietatis, che troviamo in Mn II V 5 (e cfr. Ep V 7), è presente anche in un diploma di F. Barbarossa concesso ai Ravennati il 26 giugno 1162, senza che si possa postulare un'effettiva dipendenza fra i testi (cfr. in proposito D.A., Monarchia, a c. di G. Vinay, Firenze s.a. [ma 1950] 135, n. 8).

Bibl.-Per la personalità storica di F. si vedano due rapide sintesi, entrambe dotate di ricche bibliografie: K. Jordan, Friedrich Barbarossa, Kaiser des christlichen Abundlandes, Gottinga 19672, e R. Manselli, Federico I, Milano 1967. Per i rapporti fra D. e F., oltre ai commenti e alle ‛ lecturae ' del canto XVIII del Purgatorio e alla Ep VI, indichiamo: W. Cohn, Die Hohenstaufen im Urteil Dantes und der neueren Geschichtschreibung, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XV (1933) 146-184; H. Lowe, D. und die Staufer, in " Speculum historiale ", Monaco s.a. [ma 1965] 316-333; e, soprattutto, B. Nardi, D. e il Barbarossa, in " L'Alighieri " VII (1966) 3-27.

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