FEDERICO III d'Aragona, re di Sicilia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FEDERICO III (II) d'Aragona, re di Sicilia (Trinacria)

Salvatore Fodale

Nacque il 13 dic. 1273 (o 1274) nelle terre della Corona d'Aragona dall'infante Pietro d'Aragona, il futuro re Pietro III, e da Costanza di Svevia, figlia di Manfredi re di Sicilia. Il nome che gli fu dato ricordava quello del suo grande bisavolo, l'imperatore Federico II. Dopo la rivolta del Vespro e l'assunzione della corona siciliana da parte di Pietro, accompagnò la regina Costanza in Sicilia, insieme con il fratello Giacomo e con la sorella Violante. Sbarcati a Trapani a metà aprile del 1283, si stabilirono a Messina, rimanendovi a governare la Sicilia dopo che il re aveva lasciato l'isola.

Le trattative di pace avviate con gli Angioini prevedevano fin dal novembre 1285 il matrimonio di F. con una figlia di Carlo d'Angiò, principe di Salerno. La dote avrebbe dovuto essere costituita dal principato di Taranto e dall'Onore di Monte Sant'Angelo, terre appartenute all'avo Manfredi. in Puglia. In precedenza (dicembre 1281) Pietro III, il quale per l'impresa siciliana cercava un accordo con la Castiglia, aveva trattato col re Alfonso X e con l'infante Sancio una proposta di matrimonio tra F. e Isabella, figlia di Bianca de Molina. Auspice il fratello primogenito Alfonso III, succeduto nel 1285 a Pietro III sul trono aragonese, le trattative per il matrimonio con una figlia di Carlo II d'Angiò proseguirono con la nomina, nel febbraio 1287, dei procuratori che avrebbero dovuto concludere contemporaneamente anche il matrimonio di Giacomo d'Aragona, ormai re di Sicilia, con una figlia maggiore del re napoletano.

Alla morte di Alfonso 111 (1291), F. sarebbe potuto divenire re di Sicilia. Pietro III aveva infatti separato la corona siciliana da quella aragonese, lasciando al secondogenito Giacomo il Regno di Sicilia. Ci si poteva quindi aspettare che Giacomo, succedendo al fratello sul trono aragonese, rinunciasse in favore di F. a quello siciliano, come aveva già fatto Alfonso in suo favore. Non esisteva tuttavia una disposizione in questo senso nel testamento di Pietro III, anteriore alla conquista della Sicilia. Né è certo se Alfonso (come affermato dallo storiografo cinquecentesco Geronimo Zurita) nel suo testamento, il cui originale è andato perduto, ma del quale resta una copia siciliana del XVIII secolo, avesse veramente stabilito che la successione di Giacomo in Aragona fosse condizionata dalla preventiva rinuncia al Regno di Sicilia.

Alla partenza del fratello, F. rimase a governare per lui la Sicilia, affiancato dalla madre Costanza. Nel Parlamento di Messina (12 luglio 1291) fu infatti nominato luogotenente e vicario generale del Regno. Nel testamento redatto due giorni dopo, prima dell'imbarco per la Catalogna, re Giacomo II, che nel prendere possesso dei domini iberici avrebbe poi fatto richiamo solo ai diritti che gli derivavano dal testamento paterno, ristabiliva, in caso di morte., la separazione dei due Regni. Vi si può vedere l'intenzione di riparare alla violazione, forse anche formale, certo sostanziale, della volontà dei suoi predecessori, alla quale potevano averlo spinto considerazioni politiche e personali. Stabiliva infatti (ma ancora una volta a danno del fratello) che F. dovesse scegliere in quale Regno succedergli, mentre l'altro Regno sarebbe andato a Pietro, il fratello ultimogenito.

Non è possibile tracciare un quadro del ruolo svolto da F. durante la luogotenenza, perché non è conservata la documentazione relativa alla sua attività. Continui interventi di re Giacomo nella amministrazione del Regno limitavano comunque considerevolmente i poteri esercitati dal luogotenente. Nel marzo 1292, ad esempio, il re revocava la nomina di due secreti, imponendo l'unificazione dell'ufficio finanziario e la conferma di Ugo Talac. Analogamente vietava al fratello la sostituzione di Berengario de Vilaragut come maestro portulano. Il re non solo sceglieva il maestro giustiziere, ma dall'Aragona nominava direttamente anche alcuni officiali minori. Con molti (e soprattutto con Giovanni da Procida e con Ruggero di Lauria, rispettivamente cancelliere e ammiraglio di entrambi i Regni) Giacomo II aveva rapporti diretti, scavalcando il vicario, al quale inoltre inviava numerose istruzioni per il governo dell'isola.

Le trattative per porre fine alla guerra angioino-aragonese e risolvere la questione siciliana coinvolgevano il destino di F., del quale si continuava a progettare senza successo il matrimonio con Bianca d'Angiò (Pontoise, aprile 1293). Tali trattative tra Giacomo e Carlo Il d'Angiò, alle quali partecipavano anche la Sede apostolica e i re di Francia e di Castiglia, si svolgevano segretamente, perché il re aragonese si preoccupava delle reazioni siciliane. F. doveva essere tenuto più o meno al corrente del loro andamento dagli emissari di Giacomo che facevano la spola tra la penisola iberica e la Sicilia, ma non è chiaro fino a che punto egli fosse informato. Un memoriale, integrato da informazioni orali, inviato a fine settembre del 1293, probabilmente si riferiva all'incontro di pace avuto in luglio a Logroño. Dopo gli accordi di La junquera, che preludevano al trattato di Anagni, e dopo la conclusione della tregua militare (dicembre 1293), Giacomo II si preoccupava di rispondere alle proteste dei Siciliani e smentire la voce corrente nell'isola che egli si apprestasse a tradirli, abbandonandoli sotto il governo angioino. Aveva luogo contemporaneamente con F. uno scambio di informazioni e di memoriali (luglio 1294), che riguardavano l'applicazione della tregua, ma si collegavano anche alla prosecuzione delle trattative di pace. Giungevano poi dall'Aragona alcuni incaricati di missioni speciali (Raimondo de Vilanova, Raimondo Alamany).

Intanto F. cominciava a prendere delle iniziative personali. Entrato in contatto con i Colonna, tramite due cardinali della famiglia (Giacomo e Pietro), cercò, sussidiandoli adeguatamente, di ricevere informazioni segrete dalla Curia pontificia ed influire sulla conclusione delle trattative. Ad un identico tentativo di conquistare influenza a Roma, contrastandovi Carlo Il d'Angiò, va collegata l'elezione a senatore della città, che ottenne nel 1294 con il sostegno dei populares, ma senza concrete prospettive, mancandogli l'appoggio degli Orsini e venendo meno quello dei Colonna. Informato delle iniziative romane del fratello, Giacomo II le aveva infatti sostanzialmente ostacolate intromettendosi nel rapporto con i Colonna, i quali, vedendo venir meno la necessaria segretezza e timorosi per gli accordi che sapevano conclusi dal re aragonese con Carlo II, prudentemente preferirono restituire le ingenti somme versate da F. e disinteressarsi della sua elezione a senatore.

Iniziative autonome furono prese da F. anche all'interno del Regno. Si impegnava, tra la fine del 1294 e i primi del 1295, in un'azione di riforma amministrativa che ponesse riparo alle estorsioni e riducesse i gravosi oneri, cui i Siciliani erano stati sottoposti da parte dei giustizieri. Giacomo II prendeva intanto delle contromisure. Allontanava prudentemente alcuni personaggi troppo legati alla tradizione sveva e a quella rivoluzionaria del Vespro. Destituiva Corrado Lancia dall'ufficio di maestro giustiziere. Nonostante la sua resistenza, toglieva a Ruggero Mastrangelo il Castellammare di Palermo. Affidava la tesoreria ad un catalano, precettore dei templari, e annullava il provvedimento col quale F. gli aveva affiancato il messinese Enrico Rosso. Nel maggio del 1295, ormai alla vigilia della conclusione del trattato di Anagni, Giacomo annunciava l'intenzione di tornare in Sicilia per riportarvi l'ordine che il suo senescalco, nominato capitano generale al di là del Salso, non riusciva a ristabilire. Intanto mandava nell'isola Berengario de Vilaragut con una galea armata.

Era evidente ormai che gli accordi sul futuro della Sicilia dovevano tenere conto della posizione di F. e dell'atteggiamento dei Siciliani. Verso la fine d'aprile del 1295 F. era salpato con una flotta, diretto a Roma per incontrarsi con Bonifacio VIII, col quale già aveva stabilito delle relazioni dirette. Sbarcato sulla costa tirrenica all'altezza del Circeo, incontrò il papa a fine maggio nella campagna attorno a Velletri, ma non volle accompagnarlo ad Anagni, dove si trovava Carlo II d'Angiò per la conclusione del trattato. Ripreso il mare, attese le notizie ad Ischia, che era in mano aragonese, fino al ritorno da Anagni di Giovanni da Procida e si incontrò con i messaggeri che gli furono inviati da Giacomo II. Il 20 giugno 1295 era stata decisa ad Anagni la rinuncia di Giacomo d'Aragona al titolo di re di Sicilia. Il trattato prevedeva che l'isola, riconosciuta come terra Ecelesie, fosse restituita a Bonifacio VIII, mentre la Calabria e gli altri territori peninsulari in possesso degli Aragonesi avrebbero dovuto essere restituiti direttamente a Carlo II d'Angiò. La distinzione sembra rivelare soprattutto i persistenti e giustificati timori circa la possibile reazione siciliana. Quanto al destino di F., si ipotizzava per lui un nuovo matrimonio, che tendeva ad allontanarlo dalla Sicilia, avviandolo ad una ambiziosa avventura in Oriente: avrebbe dovuto sposare la pretendente al trono imperiale di Costantinopoli, Caterina di Courtenay, una nipote di Carlo II che tuttavia manifestò contrarietà al matrimonio.

Nonostante le proteste siciliane, il 3 novembre Giacomo II dava attuazione al trattato, disponendo l'abbandono del Regno di Sicilia. A F. fu revocata la luogotenenza. Il Parlamento, riunito l'11 dicembre a Palermo, lo proclamò invece signore di Sicilia. Un nuovo Parlamento nella cattedrale di Catania lo acclamò il 15 genn. 1296 re di Sicilia, richiamandosi alla volontà del popolo e al diritto di successione. A rinnovare la tradizione sveva e per prestare ascolto alle profezie circolanti sul terzo Federico, il nuovo re volle intitolarsi Fredericus tercius, benché fosse soltanto il secondo re di questo nome. L'incoronazione ebbe luogo nella cattedrale di Palermo. Fu scelto un giorno particolarmente solenne, il 25 marzo, nel quale la festa dell'Annunciazione, inizio del nuovo anno secondo lo stile dell'Incarnazione in uso nell'isola, coincideva quell'anno con la domenica di Pasqua. Fu incoronato con lo stesso titolo portato da Giacomo II, come rex Sicilie, Ducatus Apulie ac Principatus Capue, come re cioè dell'antico Regno normanno-svevo, che idealmente si considerava indiviso. Il 3 maggio fu scomunicato da Bonifacio VIII, insieme con i suoi sostenitori. L'incoronazione fu dal papa dichiarata invalida, perché contravveniva al trattato di Anagni e violava le pretese di alta sbvranità della Sede apostolica.

Preoccupato di mantenere il possesso della Calabria aragonese, nella quale il controllo di alcune posizioni era essenziale per la difesa della Sicilia, F. III passò all'attacco. Ai primi di maggio entrò a Reggio con un forte esercito. In Sicilia già aveva vinto ogni parvenza di resistenza dei baroni catalano-aragonesi più fedeli a Giacomo II. Obbedendo agli ordini rivolti ai suoi sudditi dal re d'Aragona, essi (come Raimondo de Alamany e Berengario de Vilaragut) avevano finito per abbandonare l'isola. Altri baroni catalano-aragonesi rimasero però con F. III, mentre nuovi cavalieri giungevano, o tornavano, d'Oltremare (come Blasco d'Alagona), attratti dalle prospettive del rinnovarsi dell'impresa siciliana. Anche tra gli Italiani, del resto, il gioco degli interessi e dei sentimenti determinerà importanti defezioni, quali quelle di Giovanni da Procida, sostituito come cancelliere da Corrado Lancia, e dell'ammiraglio Ruggero di Lauria.

Al comando di Blasco d'Alagona, le truppe siciliane occuparono in Calabria Maida e Squillace. Sul versante ionico giunsero a Nord fino a Rocca Imperiale in Basilicata. Alla testa del grosso dell'esercito, F. III sconfisse Pietro Ruffo e ottenne la resa di Catanzaro. Conquistò inoltre Santa Severina e Rossano. La flotta si spingeva intanto fino a Brindisi. La comandava ancora il Lauria, col quale il re cominciava ad avere i primi screzi. Nell'estate del 1296 tutta la Calabria era sotto il controllo siciliano. Dello stato d'animo entusiasta del giovane re in questo momento, del suo atteggiamento politico, dei suoi sentimenti nei confronti del fratello e della sua cultura è testimonianza in un sirventese in occitanico a lui attribuito e scambiato con Ugo de Empuries, uno dei nobili catalani rimasti al suo servizio.

Di fronte ai successi militari del fratello e al programma da lui enunciato di riunificazione dell'anfico Regno, Giacomo II, che era stato nominato dal papa suo gonfaloniere, ammiraglio e capitano generale, minacciava contro di lui l'intervento armato. F. III fu costretto pertanto a tornare in Sicilia. Venne inoltre abbandonato dal Lauria, che si schierò coi re d'Aragona. Anche la regina Costanza, minacciata dal papa di sanzioni ecclesiastiche, dovette lasciare l'isola. Tuttavia F. III non cedette alle pressioni e rifiutò ripetutamente la proposta di un incontro riappacificatore con Giacomo, che si sarebbe dovuto tenere nell'isola d'Ischia, rimasta in suo dominio, dopo la sconfitta inflitta il 20 ottobre da Pietro Salvacossa alle forze navali angioine, che ne tentavano il recupero. Una ribellione ebbe luogo in Sicilia, guidata da Giovanni di Lauria, nipote dell'ammiraglio. Scoppiò nelle sue terre, a Castiglione nell'entroterra di Taormina, verso la metà del 1297, toccò Francavilla, sfiorò Randazzo, incluse Aci, ma poi fu domata. Ruggero di Lauria, che comandava ormai le forze angioino-aragonesi, riuscì invece a far ribellare Catanzaro, ma la battaglia che ne seguì fu vinta in settembre dai Siculo-Aragonesi, che recuperarono la città. Furono inoltre assaltate dai nemici le isole di Pantelleria, Malta e Gozo.

Nella prima metà del 1298 F. III tentò di riprendere l'iniziativa nelle operazioni militari. Salpò dalla Sicilia con la flotta, della quale aveva nominato ammiraglio il genovese Corrado Doria. Entrò minacciosamente nel golfo di Napoli, ma tutto si ridusse ad una azione dimostrativa, con una breve sosta ad Ischia. La risposta venne da una operazione congiunta angioino-aragonese. Era infatti fallito, nel febbraio del 1298, il tentativo esperito da F. III per indurre il fratello a non muovergli guerra. Affiancato dal duca Roberto d'Angiò, Giacomo Il sbarcò il 10 settembre in Sicilia. Fu occupata la città di Patti, cui si aggiunsero Milazzo, sulla costa nordorientale, e all'interno Novara. Uno sbarco successivo sulla costa sudorientale non raggiunse l'obiettivo di conquistare Siracusa, che resistette all'assedio, difesa da Giovanni Chiaramonte. Ad ovest di Patti, per tradimento di Giovanni Barresi, caddero invece Capo d'Orlando e Naso. Gli invasori occuparono all'interno Pietraperzia, ma a Giarratana furono sconfitti da Blasco d'Alagona, che fece gran numero di prigionieri. I Messinesi a loro volta sconfissero sul mare le forze navali avversarie, che avevano portato soccorso al castello di Patti, e catturarono Giovanni di Lauria, il quale venne condannato a morte per il suo tradimento. Nelle Madonie fu invece persa Gangi. Nel marzo del 1299 Giacomo Il tornò a Napoli, dopo avere ritirato la flotta da Siracusa e dopo che uno scontro navale era stato impedito dal maltempo. La ridotta pressione dei nemici consentì a F. III di riprendere Pietraperzia, Gangi e i castelli del Siracusano. Restarono in possesso degli Angioino-aragonesi le città occupate sulla costa tirrenica e nel suo entroterra. Fuori dalla Sicilia rimasero a F. III le isole del golfo di Napoli e molte terre calabresi. Tuttavia egli perse Castellabate in Campania, ad opera di Ruggero Sanseverino, Rocca Imperiale in Basilicata, Otranto in Puglia, e in Calabria Pietra di Roseto, Martirano, Taverna e il castello di San Giorgio. Squillace resistette invece ad ogni attacco.

La battaglia navale di Capo d'Orlando segnò una grave sconfitta per F. III, ma anche il disimpegno di Giacomo dalla guerra in Sicilia. Dopo avere convocato un Parlamento a Messina, F. III era salpato al comando della flotta che il 4 luglio 1299, al largo delle coste tirreniche, si scontrò con la più numerosa flotta angioino-aragonese, sulle cui navi con Giacomo II e con Ruggero di Lauria erano imbarcati anche Roberto d'Angiò duca di Calabria e Filippo d'Angiò principe di Taranto. Nel corso della battaglia F. III fu colpito e, privo di sensi, riuscì a stento ad evitare la cattura con la fuga delle navi. Tra le conseguenze della sconfitta fu la perdita delle isole napoletane, che si dettero agli Angioini. Anche alcune terre calabresi passarono sotto il dominio di Carlo II d'Angiò con transazioni, concessioni, esborsi di denaro, più che manu militari.

Dopo la battaglia Giacomo II tornò definitivamente nella penisola iberica, lamentando che il papa non lo avesse rimborsato di tutte le spese sostenute: forse riteneva di avere ormai sufficientemente adempiuto agli obblighi, cui era tenuto per il trattato di Anagni, e di avere dimostrato la sua buona fede ed estraneità agli sviluppi autonomi della situazione politica siciliana; certo risentiva della generale insoddisfazione, abilmente alimentata da F. III tra i Catalano-aragonesi, per una guerra che era contraria ai sentimenti e agli interessi dei suoi sudditi, per i quali era conveniente che la Sicilia rimanesse nell'orbita catalano-aragonese. Nacque cosi il sospetto che Giacomo avesse preferito evitare la imbarazzante cattura del fratello, consentendone la fuga. Tra i due si aprirono subito delle trattative per lo scambio dei prigionieri. F. III intercedette presso il fratello in favore di quei sudditi catalano-aragonesi che erano stati spogliati dei beni, perché accusati di avere partecipato a suo fianco alla guerra contro il re d'Aragona. Facendo appello ai vincoli naturali esistenti, chiese quindi ai cavalieri delle compagnie aragonesi intenzionati a restare in Sicilia di passare al suo servizio, e non a quello angioino. A fine anno 1299 la ripresa delle relazioni tra i due re era al punto che F. III poteva ormai rivolgersi al "carissimo fratri et domino suo, tamquam patri".

La guerra fu proseguita con successo da Roberto d'Angiò, nominato da Carlo II vicario generale in Sicilia. Caddero nella parte orientale dell'isola Castiglione, Adrano, Paternò, Aidone, Vizzini, Chiaramonte, ma resistettero Randazzo e Piazza. Cadde soprattutto Catania, per tradimento. Ne seguì l'ulteriore espansione angioina a Noto, Palazzolo, Ragusa. A novembre del 1299 fu tentata l'occupazione anche della parte occidentale dell'isola. A Capo Lilibeo ebbe luogo lo sbarco degli uomini comandati da Filippo di Taranto. Da Castrogiovanni (Enna), dove si era asserragliato, al centro della Sicilia, F. III mosse contro i nemici. La battaglia che il 10 dicembre si svolse alla Falconaria (Birgi), tra Trapani e Marsala, fu una importante vittoria, che impedì il congiungimento delle forze angioine e modificò l'andamento della guerra. Nel corso dei combattimenti F. III fu ferito leggermente al volto e alla mano destra. Tra i prigionieri furono catturati anche il principe di Taranto e Ruggero Sanseverino. Una nuova grave sconfitta fu inflitta da Blasco d'Alagona agli Angioini, comandati da Gualtiero di Brienne, ai primi del 1300 presso Gagliano.

La rivincita angioina avvenne il 14 giugno 1300 con la battaglia navale nelle acque di Ponza. La flotta siciliana, che, rafforzata da navi genovesi, si era spinta a nord del golfo di Napoli, fu sconfitta dalla più numerosa flotta napoletana, comandata dal Lauria. Anche l'ammiraglio Corrado Doria fu catturato. All'interno della Sicilia l'occupazione angioina si estese di poco, limitatamente soprattutto a Francavilla e Assoro. Fallirono gli assalti navali condotti dal Lauria contro Termini e Taormina. Né ebbero fortuna nell'estate del 1301 quelli contro Siracusa e Scicli. Mentre le navi nemiche navigavano lungo le coste, assaltando le marine, F. III scoprì a Palermo, e represse, una congiura contro la sua persona, diretta da Pietro da Caltagirone. Messina fu sottoposta ad un duro assedio, ma Roberto d'Angiò fu costretto, dall'intervento di Blasco d'Alagona, a ripiegare in Calabria, dove la guerra si era trasformata in guerriglia, senza fatti d'arme notevoli. Progressivamente la Calabria ridiventava angioina. Caddero Cetraro, Squillace, Sinopoli e Catanzaro, ma Reggio resisteva energicamente all'assedio del duca Roberto, il quale aveva il controllo dello stretto. Il blocco di Messina fu nuovamente allentato, prima ad opera di Ruggero de Flor, poi dello stesso F. III che, dopo la morte di Blasco d'Alagona, amaramente pianta dal re, riuscì ad entrare nella città, difesa da Nicolò Palizzi, per portare soccorso alla popolazione. Sulla via del ritorno, diretto a Randazzo, tolse ai nemici Castiglione.

L'intervento della sorella Violante, la quale aveva sposato Roberto d'Angiò, favorì l'incontro a Siracusa con il duca, il quale era accompagnato dalla moglie e dal Lauria, e consentì la conclusione di una breve tregua, primo passo verso la pace. All'inizio del 1302 ripresero le ostilità. F. III riconquistò Aidone, mentre Manfredi Chiaramonte recuperava Ragusa. A fine maggio gli Angioini ritentavano l'occupazione di posizioni anche nella Sicilia nordoccidentale, con uno sbarco a Termini, non lontano da Palermo, che ebbe successo. Comandava la nuova spedizione Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo il Bello. Aveva ricevuto da Bonifacio VIII le indulgenze della crociata e da Carlo II d'Angiò la nomina a capitano generale di Sicilia, ma anche i poteri per condurre trattative. La resistenza che F. III organizzò a Polizzi, nel cuore delle Madonie, impedì l'espansione delle forze nemiche. Falliti i tentativi di conquista di Caccamo e di Corleone, Carlo di Valois proseguì ancora più a sud e a metà luglio pose l'assedio a Sciacca, sulla costa sudoccidentale, nelle cui acque, dopo avere conquistato Castellammare, giungeva anche la flotta napoletana. F. III accorreva a Caltabellotta e a Castronovo. Ripresero allora le trattative di pace, che portarono il 19 ag. 1302 alla approvazione dei preliminari di Castronovo. Per la prima volta si accettava la separazione della Sicilia e si stabiliva la sua autonomia. F. III ottenne di essere riconosciuto re, solo a vita, ma in piena indipendenza. Gli sarebbero stati restituiti i territori che i nemici avevano occupato in Sicilia. A sua volta avrebbe dovuto cedere a Carlo II d'Angiò tutte le terre calabresi. A consolidare la pace, fu previsto il suo matrimonio con Eleonora d'Angiò, figlia del re napoletano.

Seguì il 29 agosto, tra Sciacca e Caltabellotta, la firma del trattato di pace, che prese nome da quest'ultima località. Intervennero con Carlo di Valois anche Roberto d'Angiò, oltre a Ruggero di Lauria, e con F. III il cancelliere Vinciguerra Palizzi. Fu convenuto che F. III lasciasse il titolo di re di Sicilia per quello nuovo di re di Trinacria o di re dell'isola di Sicilia, a scelta di Carlo II, il quale, per intervento della Sede apostolica, preferì il primo, con una dichiarazione del maggio 1303. Fu genericamente prevista la concessione di un nuovo regno agli eventuali eredi di F. III e di Eleonora d'Angiò (di un altro regno insulare mediterraneo in particolare: quello di Sardegna o di Cipro), o almeno un indennizzo di 100.000 onze d'oro, una grossissima somma, senza di che anche gli eredi avrebbero potuto mantenere il possesso della Sicilia. Oltre al reciproco impegno per la liberazione dei prigionieri e per la concessione del perdono ai ribelli, F. III il 26 settembre promise a Carlo di Valois, che aveva sposato Caterina de Courtenay, degli aiuti militari per la conquista dell'Impero di Costantinopoli. Bonifacio VIII, al quale F. III aveva subito inviato degli ambasciatori, provvide il 23 settembre a togliere la scomunica e l'interdetto e a mandare in Sicilia in dicembre dei legati apostolici per riammettere il re e i suoi sudditi nella pienezza della comunione con Roma. Gli concesse inoltre la dispensa matrimoniale. Le nozze con Eleonora d'Angiò furono celebrate nella cattedrale di Messina a metà maggio del 1303. Per la ratifica del trattato di Caltabellotta, necessaria perché il papa vantava il dominium eminens come signore feudale, Bonifacio VIII, con la bolla Rex pacificus del 21 maggio 1303, impose a F. III di tenere in feudo la Sicilia come vassallo della Sede apostolica, con l'obbligo del pagamento di un censo annuo di 3.000 onze d'oro, la prestazione del servitium militare e altri obblighi minori.

Le truppe degli invasori abbandonarono completamente la Sicilia. Attorno a Reggio, nella importante posizione sullo stretto di fronte a Messina, F. III mantenne in Calabria soltanto tre castelli (Calanna, Motta della Fiumara di Muro e Catona, in sostituzione quest'ultimo di Mesa, al quale si era pensato inizialmente), castelli che Carlo II si era impegnato a dare in feudo ad un barone siciliano, il cancelliere Vinciguerra Palizzi. La pace di Caltabellotta consentì a F. III di concludere nell'agosto del 1304 un trattato di alleanza con il fratello Giacomo. I due re (e i due Regni, con l'intervento di sei baroni e di quattro città per parte: Saragozza, Valenza, Barcellona e Lerida; Palermo, Messina, Trapani e Siracusa) si giurarono reciproco sostegno. Fu riconosciuta soprattutto la possibilità che ciascuno dei due reclutasse e armasse uomini nel Regno dell'altro. Dall'alleanza difensiva non vennero esclusi gli Angioini di Napoli, se avessero aggredito il Regno siciliano, ma il re d'Aragona, per gli obblighi che aveva dopo il trattato di Anagni, in ogni altro caso non era tenuto ad aiutare F. III contro di essi e in nessun caso contro la Sede apostolica. Fu inoltre riconosciuto il diritto di ciascuno dei due re a succedere al fratello, in mancanza di discendenti legittimi di sesso maschile. Contemporaneamente essi si garantivano reciprocamente il diritto alla successione dei figli legittimi, soprattutto se minori d'età. Per la Sicilia una simile disposizione significava l'intenzione di non accettare il carattere vitalizio del Regno. Del resto F. III, che aveva sperato di potersi intitolare almeno rex insule Sicilie, non aveva accettato nemmeno il titolo di re di Trinacria, cercando, tramite anche il fratello, di ottenerne il mutamento e comunque intitolandosi dopo il maggio 1303 soltanto e ambiguamente Fredericus tercius Dei gracia rex. Nei confronti della Sede apostolica adempiva poi solo parzialmente all'obbligo di pagamento del censo, versando nel giugno 1304 2.000 onze sulle 6.000 dovute per un biennio. Di fronte alle reazioni pontificie e napoletane, nell'aprile del 1305 Giacomo II lo costringeva a dichiarare che il patto di successione reciproca, per il rispetto dovuto al trattato di Caltabellotta, non poteva riguardare la Sicilia.

Ricorse al re d'Aragona nel 1308, quando, tramite Bernardo de Sarria, ammiraglio di quel Regno, gli affidò la custodia dei castelli calabresi. Con l'uscita di scena come feudatario di Vinciguerra Palizzi, che i documenti non nominano più, era sorta una controversia tra la corte siciliana e quella napoletana per la devoluzione di quei feudi. Carlo II d'Angiò aveva chiesto la restituzione dei castelli. La controversia era complicata dal fatto che l'accordo sui tre castelli calabresi non era stato inserito tra le clausole del trattato di Caltabellotta. Inoltre la sua contropartita, con funzione di reciproca garanzia tra i due Regni, costituita dall'infeudazione a Ruggero di Lauria del castello di Aci presso Catania, era stata formalmente concessa da Bonifacio VIII, perché Aci apparteneva alla Chiesa catanese, sicché l'eventuale perdita dei castelli in Calabria non poteva essere facilmente riequilibrata. Il contrasto con Napoli si aggravò quando F. III chiese a sua volta, per ritorsione, la restituzione di due altri castelli calabresi (Pentedattilo e Scilla), perché appartenenti all'archimandritato basiliano del S. Salvatore di Messina. La questione si risolse nel maggio del 1309 con l'arbitrato di Giacomo d'Aragona, il quale stabilì la reciproca restituzione sia di Aci, sia di Calanna, Catona e Motta della Fiumara di Muro.

Restava invece aperta la questione dell'intitolazione. Invano F. III chiedeva di potersi chiamare almeno rex Siculorum. Nel trattato concluso con il sultano di Tunisi, nell'agosto del 1308, si era comunque intitolato rex Sicilie. Come tale il sultano lo aveva riconosciuto, per il tramite dell'ammiraglio d'Aragona, dichiarandosi pertanto suo tributario. La spettanza del tributo tunisino era tuttavia motivo di ulteriore contrasto con la corte napoletana. Del resto era di nuovo in discussione il futuro stesso di F. III e della Sicilia. La proposta che gli fosse ceduto in cambio il titolo di Sardegna e Corsica, che apparteneva al re d'Aragona, fu ripresa nel 1309 da Roberto d'Angiò, succeduto a Carlo II sul trono napoletano. Si aprirono anche delle trattative per la cessione da parte angioina del titolo di re di Gerusalemme. Nel 1311 si ventilò perfino la possibilità di nominarlo re d'Albania e principe di Morea, consegnandogli la città di Durazzo. L'andamento di tali trattative, alle quali partecipavano il re d'Aragona e la Sede apostolica, rivelava ormai chiaramente la debolezza degli accordi di Caltabellotta, la minaccia che fossero denunciati da parte angioina, il limitato sostegno aragonese, l'isolamento della Sicilia e in definitiva il pericolo per F. III di perdere il possesso del Regno. Del resto, nel 1310 era stato scoperto a Messina un nuovo piano per attentare contro la sua vita, organizzato da un aragonese, Pietro Fernandez de Vergua. A partire dal settembre 1311 accettò quindi il titolo di rex Trinacrie. Era un estremo e tardivo tentativo di salvataggio della pace.

Quanto agli allettamenti di una espansione ad Oriente, già patrocinava le imprese della Compagnia catalana, i cui uomini aveva saputo allontanare dalla Sicilia dopo la fine della guerra. Gli valse nel 1312 la titolarità del Ducato di Atene e Neopatria, del quale investì il secondogenito Manfredi, in concorrenza con i Franco-angioini (ultimo duca d'Atene era stato infatti Gualtiero di Brienne). Aveva rifiutato invece ai primi del 1311 un'alleanza matrimoniale con la Castiglia per la primogenita Costanza.

La discesa in Italia dell'imperatore Enrico VII di Lussemburgo offrì la possibilità di un'alleanza contro Roberto d'Angiò. Già nella seconda metà del 1311 avviò delle trattative, che prendevano in considerazione la conclusione di un matrimonio tra Beatrice, figlia dell'imperatore, e Pietro d'Aragona, primogenito del re siciliano. L'8 giugno 1312 fece approvare dal Parlamento, riunito a Messina, una alleanza militare con Enrico VII. Essa era destinata a rompere la pace con Napoli, a contrastare la tutela aragonese, a sfidare nuovamente le sanzioni ecclesiastiche. Il 29 giugno Manfredi Chiaramonte assisteva a Roma all'incoronazione imperiale, in rappresentanza del re siciliano. Il 4 luglio fu firmata l'alleanza. Obiettivo principale era l'invasione del Regno di Napoli. Compiuta la conquista ne sarebbe toccato a F. III soltanto un terzo, verosimilmente la parte meridionale con la Calabria. Enrico VII con la sua autorità imperiale pose termine al carattere temporaneo del Regno siciliano, ammettendo i figli di F. III alla successione. Fu inoltre convenuto il matrimonio tra Pietro e Beatrice. L'imperatore nominò F. III ammiraglio dell'Impero, ordinando a Venezia, Genova e Pisa e alle loro flotte di prestargli obbedienza. Il re si impegno a versare ad Enrico la somma di 100.000 fiorini d'oro. L'alleanza non si estendeva né alla Germania, né contro l'Aragona, la Francia o la Sede apostolica.

Dopo la deposizione imperiale di Roberto d'Angiò (provvedimento al quale F. III dette pubblicità in Sicilia), la flotta siciliana salpò da Messina il 1º ag. 1313. Al di là dello stretto, fu subito occupata la parte più meridionale della Calabria, che più a lungo, e fino a non molti anni prima, era stata siciliana, con Reggio, Catona, Calanna, Scilla e Bagnara. Secondo i piani dell'alleanza, F. III progettava probabilmente di proseguire nella conquista della Calabria, mentre l'imperatore doveva invadere il Regno angioino dal Nord. L'avanzata in Calabria si arrestò invece nel corso di pochi giorni, perché la flotta siciliana dovette accorrere a rafforzare la coalizione ghibellina, per la morte improvvisa di Enrico. 1 territori calabresi riconquistati restarono comunque in mano siciliana. Vi venne inviato come capitano uno dei tanti catalano-aragonesi giunti in aiuto, con nuovi contingenti di armati, dalla penisola iberica.

Raggiunta con la flotta Pisa, per unirsi alle forze imperiali, F. III si rese conto del disfacimento della spedizione, in ritirata verso Settentrione. Per non porsi contro gli interessi aragonesi in Sardegna, respinse l'alleanza con i Pisani, che gli offrivano la signoria della città. Il 26 settembre riprese la via della Sicilia, le cui coste erano devastate da Roberto d'Angiò. Dopo avere trovato riparo dal maltempo nel porto aragonese di Cagliari, l'11 novembre rimise piede in Sicilia, sbarcando a Trapani.

Preoccupato di giustificare, per la fedeltà dovuta all'imperatore, la propria condotta politica dall'accusa di aver violato gli accordi di Caltabellotta, riunì il Parlamento a Terranova (Gela) il 6 genn. 1314. Per timore dei preparativi di guerra angioini, inviò ambasciatori sia a Giacomo II sia al papa Clemente V. Roberto d'Angiò, che il papa aveva nominato vicario imperiale, rivendicava ormai il diritto al possesso della Sicilia. manifestando l'intenzione di riconquistarla. Il 12 giugno F. III fece riconoscere dal Parlamento di Messina l'ereditarietà del trono siciliano, in favore del figlio Pietro.

A fine luglio la flotta napoletana, comandata dal re, sbarcava sulle coste nord-occidentali della Sicilia, dove conquistò Castellammare. F. III, il quale fino allora aveva continuato ad intitolarsi re di Trinacria, riassunse dal 9 agosto il titolo di rex Sicilie, ma senza più l'aggiunta del riferimento ai territori continentali. Il 16 agosto Roberto d'Angiò pose l'assedio al porto di Trapani. Quattro mesi dopo, una tregua, che doveva durare fino al marzo del 1316, conclusa con la mediazione e la garanzia dei re d'Aragona e di Maiorca, poneva termine all'assedio, con la ritirata angioina e il reciproco mantenimento dei territori occupati (Reggio e Castellammare). Allo spirare della tregua F. III riuscì a riprendere Castellammare (aprile 1316). Tra agosto e settembre la flotta angioina compì alcuni attacchi contro Marsala, Castellammare, Sciacca e Palermo, con scorrerie all'interno (verso Salemi, Castelvetrano e Mazara).

Ai primi di dicembre F. III accrebbe il ruolo dell'infante Pietro, attribuendogli le funzioni di vicario generale, accanto alla qualifica ufficiale di primogenito. Intanto Giacomo II si faceva ancora intermediario di pace. Furono rinnovate e rielaborate vecchie proposte o ne furono avanzate di nuove, che assegnavano a F. III il Despotato d'Epiro col titolo di re d'Albania o il Principato d'Acaia (o di Morea) o Durazzo o il Regno di Tunisi o di Sardegna e Corsica, o progettavano la creazione di rapporti di dipendenza feudale della Sicilia dal Regno napoletano o la rinuncia ad una parte dell'isola, ma senza incontrare mai il favore del nuovo pontefice Giovanni XXII, al quale le proposte furono presentate. Intanto nell'ottobre 1317 le posizioni di F. III in Oriente si rafforzavano attraverso il matrimonio della figlia Costanza con Enrico II di Lusignano, re di Cipro e di Gerusalemme, la cui sorella Maria due anni prima aveva sposato Giacomo d'Aragona. Pochi giorni dopo, il 9 novembre, gli moriva a Trapani, per una caduta da cavallo, l'altro figlio Manfredi, duca d'Atene e di Neopatria. Investì allora del Ducato il terzogenito Guglielmo, mentre vi inviava come vicario un figlio illegittimo, che era stato educato in Catalogna: Alfonso Federico conte di Malta.

Una nuova incursione angioina avvenne nel maggio 1317 lungo le coste settentrionali della Sicilia. Danneggiò soprattutto le tonnare (a Termini, Palermo, Castellammare, Trapani, Oliveri). Sorgeva di nuovo, intanto, e tornava ad essere dibattuto per via diplomatica, e preliminarmente ad ogni trattativa di pace, il problema della restituzione delle terre calabresi. La richiesta fu fatta propria da Giovanni XXII. Per ottenere la conclusione di una nuova tregua militare, indetta dai nunzi apostolici nel luglio 1317, e che doveva durare fino al Natale del 1320, F. III accondiscese praticamente a rinunziare ad ogni possesso in Calabria, nonostante l'opposizione di Damiano Palizzi. Consegnò infatti al papa Reggio, San Niceto, Calanna, Motta di Muro, Mesa, Catona, Scilla e Bagnara, perché ne disponesse a suo piacimento e secondo giustizia. Solo formalmente furono sottoposte all'autorità pontificia sequestri nomine, perché in realtà il capitano di Reggio e gli altri officiali di nuova nomina obbedivano alle autorità angioine.

Nella primavera del 1317 cercò di appianare anche un altro grave motivo di contrasto con il pontefice. Essendo stato in rapporti con Arnaldo da Villanova, del quale conosceva e seguiva il pensiero e l'insegnamento, aveva dato rifugio ai francescani spirituali, per le cui dottrine simpatizzava. Nel 1312 una quarantina di fraticelli, in buona parte toscani, avevano chiesto e ottenuto la sua protezione, riparando in Sicilia. In seguito il ministro generale dei frati minori aveva chiesto la consegna dei rifugiati, facendo anche intervenire Giacomo Il F. III li aveva invece fatti esaminare a Palermo da una commissione composta da prelati siciliani e presieduta dall'arcivescovo di Monreale, che ne dichiarò la perfetta ortodossia. Tuttavia, di fronte alle proteste di Giovanni XXII, ma anche alle pressioni che venivano soprattutto da Messina per l'espulsione dei fraticelli, nel 1317 concepì il piano di un accordo col re di Tunisi per farli emigrare nell'isola di Gerba. Con lo stesso intento di riappacificazione abbandonò temporaneamente (tra la fine del 1318 e l'inizio del 1319) il titolo di re di Sicilia, il cui uso gli era stato rimproverato da Giovanni XXII, e riprese ad intitolarsi re di Trinacria, ma non oltre l'inizio del 1320. Adempì inoltre per l'anno 1318 all'obbligo di pagamento alla Sede apostolica del censo, per il quale da due anni era insolvente, ottenendo dal papa una proroga per gli arretrati e lo scioglimento dell'interdetto che aveva colpito il Regno per quella inadempienza.

Per rompere l'isolamento in cui nuovamente si era trovato dopo la morte di Enrico VII, sia per la prudenza di Giacomo II, sia per la sostanziale ostilità, sotto apparente neutralità, di Giovanni XXII, che aveva pericolosamente preso in mano i fili di ogni trattativa, fin dal 1318 F. III aveva allacciato alleanza con i ghibellini dell'Italia settentrionale: Matteo Visconti a Milano, Cangrande Della Scala a Verona, Passerino Bonacolsi a Mantova. All'inizio del 1320 si alleò anche con i ghibellini fuorusciti da Genova e con Castruccio Castracani, signore di Lucca. Nell'inverno del 1319 si ha inoltre notizia di trame tessute con la popolazione della costa ionica, tramite un agente che compiva frequenti viaggi in Calabria. Prendendo pretesto dagli attacchi di Roberto d'Angiò contro l'ammiraglio Corrado Doria e contro gli Spinola, il 5 luglio 1320 ruppe unilateralmente la tregua che, secondo quanto concordato e sanzionato dai legati pontifici, avrebbe dovuto durare ancora alcuni mesi, e che anzi Giovanni XXII aveva appena prolungato per altri tre anni. Si giustificò anche con l'ozioso andamento delle trattative di pace e con i preparativi di guerra che faceva il nemico. Chiese inoltre la restituzione di Reggio e dei castelli calabresi, consegnati al papa sub specie pacis.

Radunato il 17 luglio a Messina il Parlamento, che fece gravare sulle Chiese locali le spese di guerra, ordinò qualche giorno dopo che la flotta salpasse al comando del Doria. Le navi entrarono nel golfo di Policastro, espugnando e incendiando quella terra. Proseguirono poi contro l'isola d'Ischia e sconfissero la flotta napoletana al largo di Ponza. Raggiunta Genova, i Siciliani unirono le loro forze con quelle dei ghibellini di Toscana e di Lombardia. Furono però sconfitti dai guelfi genovesi. Il 9 novembre la flotta si ritirò a Messina, dove venne disarmata.

L'infruttuosa impresa navale ebbe gravi conseguenze. Per la violazione della tregua F. III fu scomunicato da Giovanni XXII. Il 10 genn. 1321 il papa impose su tutto il Regno l'interdetto, che il re poi dispose fosse osservato. Quanto alla richiesta di restituzione di Reggio e dei castelli calabresi, F. III non poteva ragionevolmente aspettarsi che fosse accolta, tanto più dopo la rottura della tregua. Si produsse anzi l'effetto opposto. La città fu ormai considerata ufficialmente da re Roberto come sua peculiaris hereditas, parte integrante del Regno con i castelli già siciliani, non più, almeno formalmente, come una amministrazione conservativa in nome e per conto della Sede apostolica. Inizialmente pare che il gran siniscalco angioino, che era andato ad assumervi il potere, fosse ancora considerato come vicario pontificio, ma nel dicembre del 1321 egli accusò F. III di avere organizzato una congiura per recuperare Reggio e i castelli e, col tacito consenso del legato del papa, fece innalzare sulle torri i vessilli angioini e acclamare Roberto come re.

Da parte sua F. III rafforzò il principio dell'ereditarietà della corona siciliana, associando al trono PietroII con titolo di re (18 apr. 1321). Qualche anno prima (8 maggio 1318) da Eleonora d'Angiò gli era nato un altro figlio, al quale aveva dato significativamente ancora un grande nome della tradizione familiare siciliana, quello di Ruggero. Malgrado l'opposizione di Giovanni XXII, nel dicembre 1321 fece deliberare dal Parlamento, riunito a Siracusa, l'incoronazione di Pietro, che avvenne, nonostante l'interdetto, il 19 aprile, giorno di Pasqua.

La ripresa delle ostilità militari si risolse in un breve episodio. Reggio infatti resistette all'assedio siciliano (giugno 1322), che terminò dopo pochi giorni, con qualche devastazione nelle campagne anche attorno a Nicotera. La diplomazia aragonese aveva intanto riallacciato le trattative col papa intorno all'ipotesi di mantenimento perpetuo di un Regno di Trinacria in posizione di dipendenza feudale da quello di Sicilia. La celebrazione a Messina, nell'aprile del 1323, del matrimonio di Pietro II con Elisabetta, figlia di Enrico II duca di Carinzia, non rafforzava in maniera significativa la posizione internazionale di F. III, giacché il duca vantava solo nominalmente il titolo di re di Boemia e di Polonia, né accentuava i legami con i ghibellini, essendo il duca un avversario di Ludovico il Bavaro.

Una nuova spedizione angioina contro la Sicilia avvenne nel 1325. Il 26 maggio fu inutilmente assediata Palermo. Corse anche voce che F. III fosse stato l'ispiratore di una congiura per uccidere re Roberto, scoperta a Napoli qualche mese prima. Guidati dal duca di Calabria Carlo d'Angiò, i nemici si ritirarono dopo avere devastato le campagne attorno a Marsala, Castelvetrano, Menfi e Sciacca, e avere assaltato in agosto Messina, dove si trovava lo stesso re. Ad opera di Giacomo II proseguivano ormai senza speranza di riuscita le trattative di pace, nelle quali si continuava a considerare l'ipotesi di uno scambio della Sicilia con un altro Regno. Il 4 giugno 1326 la flotta angioina sbarcava nuovamente sulle coste palermitane, devastandole fino a Termini e proseguendo poi per Messina, Catania, Lentini ed Aci, tornando a Palermo l'8 luglio, internandosi fino a Ciminna e ritirandosi subito dopo. L'anno successivo con una nuova scorreria venne attaccata Augusta, ad opera di guelfi genovesi, alleati dei Napoletani.

Attraverso gli uffici di Giovanni Chiaramonte F. III strinse intanto alleanza con l'imperatore Ludovico IV il Bavaro, i cui ambasciatori giunsero da Pisa a Palerbio alla fine di novembre del 1327. All'inizio del mese era morto a Barcellona Giacomo II, privando F. III di un importante punto di riferimento e di sostegno politico. Si avvertivano ormai in Sicilia i segni di difficoltà economiche, cui certo contribuivano le continue spese di guerra, i danni delle incursioni nemiche, i costi della dipendenza feudale, la scarsità di alcuni raccolti; e si manifestava col banditismo, l'incipiente rivalità tra il baronaggio, l'indebolimento dell'autonomia cittadina. La perdita di ruolo dei ceti "borghesi" emersi col Vespro, un disagio sociale che era già l'avvio di un processo di trasformazione e decadenza. A dissuadere F. III dall'alleanza con l'imperatore contro Roberto d'Angiò non valsero i consigli del nipote Alfonso IV re d'Aragona, che temeva per la Sardegna. Resistendo alle sollecitazioni imperiali, nonostante le simpatie per i movimenti pauperistici, F. III non riconobbe però l'antipapa Niccolò V, il francescano Pietro da Corbara, che era stato fatto eleggere dal Bavaro e che in Sardegna trovava seguaci tra gli avversari degli Aragonesi.

Al comando di Pietro II, giacché F. III dovette rinunciare a partire, il 6 ag. 1328 la flotta salpò da Milazzo per unirsi alle forze ghibelline. Dopo essersi limitati a saccheggiare durante la navigazione le coste calabresi, l'isola d'Ischia e la marina di Gaeta, i Siciliani presero Torre Astura e Nettuno e, informati che l'imperatore aveva lasciato Roma ed era risalito in Toscana, raggiunsero l'Argentario e sottomisero Orbetello e l'isola del Giglio, incendiando Talamone. Dopo l'incontro con l'imperatore a Corneto (Tarquinia), parteciparono all'assedio di Grosseto. Non essendo riusciti a convincere gli alleati ad invadere il Regno napoletano, dopo essere entrati a Pisa, di fronte anche al disfacimento della coalizione per l'abbandono dei ghibellini genovesi, a fine settembre salparono per la Sicilia, incorrendo lungo il viaggio di ritorno in una tempesta che decimò la flotta. Il completo insuccesso della spedizione fu aggravato al ritorno da una malattia che colpì sia F. III sia re Pietro, dalla quale essi guarirono solo verso la fine dell'anno. E il nuovo anno fu funestato da un'eruzione dell'Etna.

Gli ultimi anni di vita e di regno di F. III furono meno ricchi di avvenimenti, forse anche perché se ne è conservata una minore documentazione. La conclusione nel 1331 del secondo matrimonio della figlia Costanza con il re d'Armenia, dopo il fallimento di altri progetti matrimoniali per il diniego della dispensa pontificia, più che un successo politico rappresentò un vantaggio per l'espansione commerciale siciliana. Quanto agli episodi bellici, furono circoscritti all'occupazione angioina del Castellammare di Palermo, tra il marzo e l'aprile del 1333, e al successivo saccheggio di Butera.

La morte di Giovanni XXII fu all'origine della disposizione che sospendeva l'osservanza dell'interdetto, giacché F. III dichiarò il 13 genn. 1335 che con la scomparsa del pontefice non solo esso non sussisteva più giuridicamente, ma erano anche venute meno le ragioni di contrasto con la Sede apostolica, che sarebbero state di natura personale. Fu smentito da Benedetto XII che, dopo avere rinnovato in blocco le condanne del predecessore, ricapitolò tutti i comportamenti di F. III contrari alla volontà e ai diritti della Chiesa e al suo insegnamento, ultimi dei quali erano stati l'insolvenza del censo feudale dopo l'interdetto e l'avere continuato a consentire la predicazione di dottrine eterodosse. Il nuovo papa tuttavia, con la nomina di un legato apostolico, apriva la via il 4 maggio ad una trattativa riappacificatrice.

Una nuova spedizione navale angioina assaltò le coste siciliane nell'estate del 1335. Ad essa partecipò, e ne ebbe il comando insieme col conte di Corigliano, un barone siciliano, Giovanni Chiaramonte il Giovane. Mandato in esilio da F. 111 per la rivalità con Francesco Ventimiglia, dopo essersi rifugiato presso Ludovico il Bavaro, fu nominato da Roberto d'Angiò suo vicario per la Sicilia, con la promessa che gli sarebbero stati conferiti in feudo i territori occupati. L'esercito nemico, giunto alla Roccella, vicino CefaIù, da dove potevano essere minacciati i vicini possedimenti madoniti dei Ventimiglia, dopo avere inutilmente assediato Brucato, se ne allontanò discendendo a Meridione attraverso una zona costellata di feudi chiaramontani, fino a riunirsi alla flotta nell'assedio di Licata. I nemici risalirono poi verso Occidente attraverso i territori di Agrigento, Sciacca, Mazara, Marsala e Trapani, ma si ritirarono rinunciando a raggiungere Palermo, nel cui porto si trovava la flotta catalana al comando dell'ammiraglio Raimondo Peralta. Alcune di queste navi furono incendiate a novembre dai Genovesi, alleati del re napoletano, i quali, al comando di Odoardo Doria, entrarono nel porto di Palermo e fecero una rapida scorrerla a terra. Genovesi e Napoletani batterono le navi del Peralta anche a Gerba, dove l'ammiraglio aragonese intervenne in difesa degli interessi di F. III, e la sconfitta agevolò la perdita da parte siciliana delle isole del golfo di Gabes, che furono rioccupate dai Tunisini.

A maggio del 1337 F. III si trovava a Palermo. Il 19 lasciò la città, diretto con la corte a Castrogiovanni. Era l'ennesimo, ed ultimo, trasferimento. Aveva continuamente percorso il Regno per le incessanti e impellenti esigenze difensive che richiedevano la sua presenza, forse anche per conformarsi al modello politico, disegnatogli da Arnaldo da Villanova, del principe che, per essere informato e bene amministrare, percorre incessantemente il Regno a cavallo, e inoltre per infondere coesione e ottenere solidarietà, col conforto delle Assemblee parlamentari, nel momento delle grandi decisioni e per dare vigore e legittimazione, col fasto delle cerimonie, all'immagine e al ruolo di re nazionale. Lungo il viaggio, a Resuttano, si ammalò gravemente. Da tempo soffriva di gotta. Decise di mutare la destinazione, per farsi trasportare in lettiga alla più lontana Catania, forse anche per ottenervi l'intercessione di s. Agata. Morì lungo il tragitto, passata Paternò, non lontano da Catania, il 25 giugno 1337, in un ospedale dei cavalieri di S. Giovanni Gerosolimitano.

I funerali si svolsero nella cattedrale di Catania, dove fu sepolto. Nel testamento, redatto il 29 marzo 1334, aveva invece chiesto di essere seppellito accanto alla madre nella chiesa di S. Francesco a Barcellona, dove era pure la tomba del fratello Alfonso. In attesa della traslazione in Catalogna, voleva essere tumulato nella cattedrale di Siracusa, dedicata a S. Lucia, nella cui festività era nato. Pietro II avrebbe voluto invece trasferirne il corpo nella cattedrale di Palermo, perché trovasse idonea e significativa collocazione accanto al primo re normanno e agli imperatori svevi. I suoi resti rimasero tuttavia a Catania, dove, per effetto delle vicende sismiche sofferte dalla città e dei rimaneggiamenti della cattedrale, finirono confusi con quelli di altri personaggi della famiglia reale, suoi discendenti.

Nel testamento era tornato a rivendicare i diritti sull'intero Regno normanno-svevo, intitolandosi nuovamente rex Sicilie Ducatus Apulie et Principatus Capue. Stabilì che gli succedessero sul trono i soli discendenti di sesso maschile o, in loro mancanza, il nipote re d'Aragona e i suoi fratelli e discendenti. Essendogli premorti Manfredi e Ruggero, lasciava, oltre a Pietro e Guglielino, un ultimo figlio legittimo, Giovanni, per il quale aveva creato il titolo di marchese di Randazzo. Escluse dal trono le figlie: oltre a Costanza, Margherita, Elisabetta (o Isabella: portava il nome di una sorella di F. III sposata al re dei Portogallo, e divenuta santa), la quale si unì in matrimonio con Stefano, secondogenito di Ludovico il Bavaro, Caterina, monaca clarissa a Messina. Tra i figli illegittimi, oltre ad Alfonso Federico, si ricordano Orlando, che ebbe parte negli avvenimenti successivi, e una figlia natagli da Sibilla de Solmella, forse quella stessa Eleonora andata sposa a Giovanni Chiaramonte il Giovane. Pesa sulla sua memoria il giudizio negativo espresso da Dante, che ne condannò probabilmente le incertezze e i riperisamenti nella politica ghibeffina. Con azione oscillante tra temerarietà e cautela, riuscì a impedire che si vanificassero gli effetti dei Vespro, consentendo il mantenimento in vita dei Regno isolano, assicurandone il possesso alla casa d'Aragona e ottenendone la continuità dinastica, ma al prezzo dell'isolamento, di uno stato di guerra continuo e della rinuncia finale, di fatto, a recuperare l'unità con i territori del Mezzogiorno continentale, sicché alla sua morte lasciava il Regno in numerose difficoltà politiche ed economiche che ne preparavano la decadenza. Svolse, con il concorso del Parlamento, una importante attività legislativa, i cui "capitoli", innestandosi sul tronco delle assise normanne e delle costituzioni sveve, in larga parte rimasero in vigore nei secoli successivi e concorsero a sviluppare il corpus della legislazione siciliana.

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