Fenomeno

Dizionario di filosofia (2009)

fenomeno


Dal gr. φαινόμενον, participio sostantivato del verbo φαίνομαι («mostrarsi»). Ciò che appare o si manifesta ai sensi. In questa accezione il termine fu utilizzato da Aristotele, il quale, in analogia con il concetto di f. come «apparizione del cielo», adottato in astronomia da Eudosso di Cnido e Arato di Soli, ne fece il criterio su cui si fondano le scienze naturali. In un altro senso, il f. come apparenza sensibile si contrappone alla realtà e assume, per es. in Platone, un significato piuttosto negativo proprio per il suo opporsi al «vero essere», che si manifesta non ai sensi ma al pensiero. Per lo scetticismo antico il f. è pura affezione, la «rappresentazione soggettiva» di un oggetto e, come tale, variabile da individuo a individuo: se il f. è f. per noi , non vale interrogarsi circa la sua corrispondenza alla realtà e lo scettico può comportarsi coerentemente solo attenendosi al modo in cui le cose gli appaiono. Se la filosofia medievale non si discosta sostanzialmente dalle elaborazioni di Platone e Aristotele, l’analisi dei f. assume un ruolo centrale nella filosofia a partire dall’epoca moderna, registrando un significativo spostamento di accento: la questione non è più tanto se il f. manifesti o no l’essere reale, quanto piuttosto quella delle condizioni in cui appare l’oggetto specifico della conoscenza umana. Per Hobbes la nozione di f., inteso come «apparenza in generale», perde ogni connotazione valutativa circa la sua realtà o illusorietà per diventare piuttosto l’oggetto possibile della conoscenza umana, alla cui base Hobbes pone la sensibilità: il senso è l’origine di tutte le «apparenze», «poiché non vi è concezione dello spirito umano, che non sia dapprima, in tutto o in parte, generata dagli organi di senso. Il resto deriva da quella origine». Lungo questa via si muovono sia Locke, con la sua l’indagine sull’estensione e i limiti della conoscenza, sia Hume, con il suo approccio sperimentale alla natura umana, che risolve l’analisi dei f. mentali nei processi psicologici che danno luogo alla credenza. Sempre lungo la via aperta da Hobbes, Locke e Hume si muovono i teorici del cosiddetto associazionismo psicologico, i quali, rifiutando qualsiasi concezione sostanzialistica della mente, si concentrano sull’analisi dei f. della mente umana (come recita il titolo della principale opera filosofica di James Mill), ricostruendo a partire dai f. semplici della sensibilità la formazione dei f. mentali più complessi, in analogia con i processi della composizione chimica. In una direzione diversa, la collocazione della tematica dei f. nell’ambito dei limiti e delle condizioni della conoscenza assume un ruolo centrale nella filosofia di Kant con la distinzione operata tra le cose considerate come f., cioè conosciute secondo le forme pure spazio-temporali della sensibilità e le categorie dell’intelletto, e le cose in sé o noumeni, puramente intelligibili, cioè pensate secondo i principi della ragione, al di là di ogni esperienza possibile. Nella filosofia contemporanea, l’elaborazione più rilevante della nozione di f. è quella da cui prende nome la fenomenologia di Husserl. In quella che Husserl presenta come l’autentica scienza filosofica, il f. non significa più soltanto, come per Kant, ciò che l’uomo può conoscere sotto determinate condizioni, ma indica l’immediato e diretto manifestarsi della cosa all’intuizione, il «rivelarsi» della sua essenza che consegue al processo di riduzione fenomenologica, l’operazione di messa in parentesi del mondo, la neutralizzazione di tutte le nostre credenze naturali e interessi pratici. Sviluppando l’impostazione husserliana, Heidegger distingue ulteriormente tra f. e apparenza. Se il f. è propriamente il puro «mostrarsi dell’essere come veramente è», il suo autodisvelarsi nella sua oggettività, l’apparire è piuttosto «un non mostrarsi», un annunciarsi di qualcosa che in realtà non viene alla luce e rimane nascosta.