FUGA, Ferdinando

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 50 (1998)

FUGA, Ferdinando

Gaetana Cantone

, Ferdinando. Figlio di Giovanni e di Antonia Seravalli, nacque l'11 nov. 1699 a Firenze, dove fu tenuto a battesimo dal principe ereditario di Toscana, presso il quale il padre ricoprì il ruolo di aiutante di Camera.

Dal 1711 al 1717 il F. fu nella bottega di G.B. Foggini, uno dei protagonisti del barocco fiorentino; nel 1718 si spostò a Roma, tappa d'obbligo per la formazione di un giovane artista, dove lavoravano, tra gli altri, A. Specchi, che aveva già realizzato il porto di Ripetta (1702-05), al quale il F. subentrò per il progetto di ampliamento delle scuderie al Quirinale, e N. Salvi, autore della fontana di Trevi (dal 1732). In questo contesto si inseriscono i primi progetti fughiani per la facciata di S. Giovanni in Laterano e per la facciata di S. Maria sopra Minerva, per la fontana di Trevi, per le scuderie e la "manica lunga" del Quirinale.

Il passaggio all'attività professionale fu determinato dall'avvento al soglio pontificio (1721) di Innocenzo XIII, quando il tardo barocco concentrava l'attenzione sulla trasformazione urbana che, innescata dal piano di Sisto V e ribadita nel Seicento dalle nuove piazze, era destinata a riaffermarsi in architetture come la fontana di Trevi, il porto di Ripetta, la scalinata di piazza di Spagna e piazza S. Ignazio (1726-27).

Durante il pontificato di papa Benedetto XIII, mentre l'architetto pontificio era Filippo Raguzzini, il F. cercò occasioni di committenza dapprima attraverso il diplomatico toscano Francesco De Castris, poi con il cardinale Nicola Del Giudice, "maggiordomo" dei Palazzi apostolici, la cui frequentazione facilitò i lavori in palazzo Cellamare, per i quali nel 1726 il F. si spostò a Napoli.

Già confratello di S. Giovanni dei Fiorentini, nel 1727 diventò affiliato della Confraternita di S. Maria dell'Orazione e Morte ed ebbe modo di conoscerne il mecenate, cardinale Alessandro Falconieri, per il quale restaurò le residenze romane e la villa di Frascati. Nello stesso anno prese a frequentare Neri Corsini, nipote di Lorenzo Corsini, il futuro papa Clemente XII.

Nel mese di novembre del 1727 si sposò con Angela Ponetti, legata tramite il padre stampatore alla famiglia degli editori De Rossi, da cui ebbe otto figli, tenuti a battesimo da alti prelati. Tra i testimoni del matrimonio ci fu B. Gabbuggiani, incisore, tra l'altro, di disegni fughiani.

Insieme con la moglie il F. aderì all'Arcadia con il nome di Dedalo Ippodromaico.

I matrimoni delle figlie attivarono nuove frequentazioni: con Ferdinando Hamerani, figlio del medaglista Ottone, marito di Maria Antonia, e con Giacomo Pannini fratello dell'architetto Giuseppe (1738-1800) e figlio di Giovan Paolo, che sposò la figlia Maria Vittoria.

Nominato nel 1729 ingegnere della Deputazione del Regno di Sicilia il F., presumibilmente con l'appoggio del già ricordato Nicola Del Giudice ottenne l'incarico della costruzione del ponte sul fiume della Milicia ad Altavilla presso Palermo.

La vera stagione romana iniziò con l'elezione di papa Clemente XII (1730). Da Palermo il F. ritornò tempestivamente a Roma e nel mese di novembre sostituì Raguzzini nella carica di architetto dei Palazzi apostolici, un ruolo che gli venne confermato nel 1740 da papa Benedetto XIV. Intensificò così i rapporti con i personaggi della corte pontificia, da cui derivò il consolidarsi di un'attività professionale fondata su amicizie prestigiose e su importanti cariche professionali. Dal 1732 poté fregiarsi del titolo di cavaliere dell'Ordine di Cristo; nel 1736 diventò membro onorario dell'Accademia di S. Luca, architetto del capitolo di S. Maria Maggiore, architetto regio a Roma, con nomina di Carlo di Borbone, e responsabile dei Reali Effetti farnesiani e, l'anno seguente, architetto della Congregazione di S. Giacomo degli Spagnoli; molti ruoli che gli impediranno il trasferimento alla corte di Filippo V di Spagna, propiziato dal cardinale Troiano Acquaviva.

Nel 1740 assunse il ruolo di architetto del tribunale delle Strade e nel 1747 di architetto del Popolo romano.

Al 1748 risale la sua grande occasione, l'albergo dei poveri, per il quale venne chiamato a Napoli da re Carlo di Borbone, presumibilmente per intercessione di Bartolomeo Corsini, viceré di Sicilia e cavallerizzo maggiore del re.

Dal 1753 al 1754 fu principe dell'Accademia di S. Luca e si spostò tra Roma e Napoli almeno due volte l'anno per il cantiere dell'albergo dei poveri.

La rivalità, tra il 1753 e il 1760, con Luigi Vanvitelli per la costruzione del sito reale di Portici, fu composta con la nomina del F. nel novembre 1761 a responsabile del complesso.

La nomina di primo architetto di casa reale (1762), a Napoli, lo vide costantemente alla guida delle innovazioni di palazzo reale in una fase di grandi trasformazioni del primitivo impianto (1600-1630) di Domenico Fontana. I restauri da lui diretti risalgono al 1763-64 e al 1768-75. La carica gli consentì, inoltre, di soprintendere ai siti reali di Procida, Portici, Capodimonte e Castellamare.

Quando nel 1767 dovette spostarsi a Palermo per il restauro della cattedrale, ottenne un particolare permesso per conservare "il soldo" e tutti i privilegi del rango. Tornato a Napoli lavorò per più di dieci anni in opere civili e per la committenza reale.

Architetto pontificio a Roma e architetto di corte a Napoli, il F. fu in grado di dare forma alle esigenze di rappresentatività e di controllare sapientemente tecniche e tipi costruttivi, specie nelle grandi opere a destinazione sociale, avvalendosi delle doti di grande organizzatore e di esperto direttore di cantiere, come attestano le sue Istruzioni per la fabbrica, approntate per l'albergo dei poveri nel 1752.

La sua vastissima produzione può suddividersi in quattro grandi fasce. L'architettura religiosa iniziò con la napoletana cappella Cellamare e proseguì con le importanti chiese romane; si arricchì della ricerca sull'impianto radiale con i progetti per la chiesa romana di S. Giacomo degli Spagnoli (dal 1746 circa) e per la chiesa dell'albergo dei poveri, e si concluse con la facciata della chiesa dei Gerolamini, sempre a Napoli, e con il restauro della cattedrale di Palermo. L'architettura civile, con i palazzi romani e napoletani, comprende ammodernamenti e completamenti condotti a Napoli (palazzo reale e reggia di Capodimonte), nella reggia di Portici, nelle ville vesuviane, e nella villa Favorita. Le architetture destinate a usi sociali vanno dal carcere delle donne a Roma all'albergo dei poveri e ai Granili a Napoli. L'architettura effimera e teatrale comprende vari allestimenti di apparati a Roma e a Napoli, il restauro del teatro S. Carlo, il teatrino di corte. Né mancano al suo catalogo altari, arredi e impegni più decisamente tecnici.

Tra le opere della prima formazione rientra il disegno (1722) per la facciata della chiesa di S. Giovanni in Laterano (incompiuta fin dal restauro condotto dal Borromini) che costituisce il prototipo di quella razionalizzazione del linguaggio barocco che caratterizzerà buona parte delle sue architetture.

Di questo suo progetto, dedicato al diplomatico toscano Francesco De Castris, sono già stati evidenziati i riferimenti alla soluzione berniniana per la facciata di S. Pietro e a quella borrominiana per la facciata di S. Agnese a piazza Navona, ma si può anche riallacciare alla cultura architettonica fiorentina attraverso i disegni per la facciata di S. Pietro di L. Cigoli, a causa del doppio registro e dei campanili che non emergono dalla facciata ma ne sono parte integrante.

Il F. articolò il telaio di facciata attraverso rapporti proporzionali che assicurano alla composizione un'aura classicista pur in presenza dell'ornamentazione barocca. I tre moduli avanzati, la parte centrale e le parti laterali, sono impostati su fasci di colonne e paraste. L'intera composizione è organizzata sul modulo del quadrato, più piccolo nel coronamento costituito dalle cuspidi dei campanili e dal timpano centrale, più grande nella suddivisione tra primo e secondo registro. Gli intrecci più interessanti della maglia riguardano l'ideale prosecuzione del timpano che passa sulle due sculture dell'attico e quella che passa per i portali laterali partendo dalle volute della campata centrale del primo registro, le quali rimandano al coronamento dell'altar maggiore di S. Agnese a piazza Navona di G. Valvassori.

Per le altre ripartizioni va segnalato che il primo timpano ideale si incrocia con l'asse mediano del secondo registro e che alla suddivisione di pianta in tre parti corrisponde quella dei tre episodi del coronamento, il timpano centrale e le cuspidi dei campanili, secondo un gioco della contrapposizione, riscontrabile anche nella riduzione degli ordini che differenzia i due registri di facciata, che ritroveremo tra la convessità della parte centrale e le parti rettilinee dell'invaso dell'Orazione e Morte.

La facciata di S. Giovanni in Laterano dichiara più di un'ascendenza, come la facciata di S. Marcello al Corso nella versione di C. Rainaldi, per l'aggregarsi degli ordini, e quella di S. Maria in via Lata, di Pietro da Cortona, per il motivo conclusivo dell'arco inserito nel timpano che, peraltro, si ritrova, con più precisa analogia, nella facciata delle Stimmate di S. Francesco (1717-19) di A. Canevari.

Il Portoghesi (1992), presumibilmente sollecitato dall'analogia delle articolazioni planimetriche, avvicina il disegno di S. Giovanni in Laterano alla pianta di una fontana monumentale, che la Kieven (1988) ha identificato come pianta della fontana di Trevi (1722-23), un impianto fughiano che propone quel tipo di mistilinearità diffuso dagli apparati effimeri, mentre l'alzato è impostato sul tema dell'arco di trionfo.

L'intervento nel complesso di S. Cecilia, del 1725, attribuitogli dal Pane (1956) viene confermato dal disegno pubblicato dalla Kieven (1988). La facciata del convento, su due registri e priva di ordini, è contrassegnata dalle sole cornici orizzontali e dalle paraste di stucco. La macchina del portale, a tre fornici, è impaginata con colonne di ordine dorico e fregio decorato da triglifi, come il portale di ingresso al cortile, inserito nella facciata interna.

L'ordine dorico ricompare nella caffeaus del Quirinale, iniziata nel 1741.

Ancora il tema della facciata compare nel progetto (1725) per la chiesa di S. Maria sopra Minerva, decorata nel coronamento dallo stemma di papa Benedetto XIII, promotore del restauro.

La composizione, che si svolge su due registri, con il secondo di più ridotte dimensioni, ed è caratterizzata dalla sovrapposizione di timpani, rimanda a quella di S. Giovanni in Laterano per l'aggregazione degli ordini. Costituisce una precoce sintesi di motivi fughiani, per gli ovali posti a decoro degli ingressi laterali e i festoni adagiati sulle volute del fastigio. Temi michelangioleschi assai chiari sono rappresentati dalle statue poste sul timpano del secondo registro, ma ancora più convincente, a tal proposito, è il marcato piano attico che taglia la facciata in orizzontale, nella tradizione del concorso per la facciata della basilica di S. Lorenzo a Firenze, e nella vivida memoria del "modello" michelangiolesco. Ed è significativo, a tal proposito, ricordare che, ancora nel 1732, monsignor G. Bottari ne chiedeva a G.I. Rossi il disegno per adattarlo a facciata della chiesa romana di S. Giovanni dei Fiorentini.

I lavori a palazzo Cellamare a Napoli comprendono la cappella, il portale di ingresso alla rampa di accesso, in piperno di Pianura, e il rivestimento con bugnato, in pietra di Sorrento, nella parte basamentale del palazzo. Del ponte sul fiume Milicia, che si colloca nel 1730, resta la documentazione nell'incisione di Baldassare Gabbuggiani, pubblicata dalla Kieven (1988).

Tra agosto e novembre del 1730, di ritorno da Palermo, il F., in quanto architetto dei Palazzi apostolici, subentrò ad Antonio Valeri nel completamento delle scuderie del Quirinale (1730-31), avviate su progetto di Alessandro Specchi nel 1721 e interrotte nel 1724 a seguito della morte di Innocenzo XIII. L'incarico durò solo pochi mesi e il progetto restò sospeso. Più tardi (1736-39) realizzò la rimessa in via S. Vitale, poi distrutta, ma documentata nella pianta di G.B. Nolli e in un'incisione settecentesca che mostra la facciata, priva di ordini, articolata su tre piani.

Sempre per il Quirinale gli fu affidato il completamento dell'ala del palazzo pontificio prospettante su via Pia, la "manica lunga". Pur uniformandosi a quanto già predisposto riuscì a liberare una sintassi più inventiva a conclusione dell'edificio, nel palazzetto del segretario delle Cifre (1730-32) che, nella lunga uniforme teoria di campate della "manica lunga", si distingue per le paraste bugnate e per il portale, simile (a esclusione del coronamento) alla parte mediana del portale di palazzo Cellamare. L'interno è andato perduto e, così pure, la fontana dei delfini, documentata da un disegno, mentre si conserva il portale nel cortile.

L'architettura religiosa si avviò con la singolare cappella napoletana di palazzo Cellamare (1726-29) intitolata alla Vergine del Carmelo, che rimanda a più modelli di riferimento, come la borrominiana S. Maria dei Sette Dolori o la chiesa della Maddalena del De Rossi, per la giustapposizione di cellule che, nel caso della cappella ricavata nel cortile esterno, corrispondono a quattro campate del portico meridionale.

L'apertura del vestibolo ottagono sul fianco della cappella, anche se ricorda episodi romani, fu condizionata dalla disposizione. L'aula è suddivisa in due campate coperte da scodelle a incannucciata, aperte al centro e riassorbite, più in alto, da un'unica volta a botte. La cappella maggiore costituisce la cellula di conclusione e si sviluppa fino alle cornici delle altre tre. La gerarchia di funzioni, ingresso, aula e presbiterio, è risolta con la differenziazione delle coperture, degli altari e dei portali.

Ora, se bisogna considerare che il F. non poteva illuminare le due cellule con lanterne sovrapposte alle scodelle, è anche vero che tende a ottenere un effetto inusitato, a conchiglia, e accantona la soluzione più semplice di una sola calotta, quella più alta, illuminata di lato e, quindi, direttamente dal cortile.

L'espediente progettuale, già applicato da A. Gherardi nella cappella di S. Cecilia in S. Carlo ai Catinari, permette di indirizzare la luce verso la decorazione delle voltine e costituisce la premessa di quella sua particolare ricerca sugli effetti di luce sperimentata nella loggia di S. Maria Maggiore e nella sistemazione di specchi adottata nel teatro S. Carlo.

La facciata sul cortile, che corrisponde al lato destro della cappella Cellamare, è contrassegnata dai portali, dalle finestre, dalle modanature degli archi e dal decoro dei piedritti con cornici e capitelli pensili. Si ricorderà di questa esperienza nel cortile del collegio di S. Apollinare, iterando modanature e specchiature e accentuando la sporgenza delle paraste al fine di ottenere una rigorosa ornamentazione priva di capitelli.

Per interessamento del cardinale Lorenzo Corsini lavorò al completamento (1732-36) della chiesa del Bambin Gesù della Congregazione delle oblate, iniziata nel 1731 su progetto di Carlo Buratti e lasciata incompiuta alla morte dell'architetto.

L'opera aveva raggiunto una consistente altezza; tuttavia l'impronta del F. è nettamente riconoscibile nell'arrotondamento dei piloni che, insieme con la sagoma convessa dell'ingresso e della balaustra dell'altar maggiore, riesce a caratterizzare l'invaso della croce greca con un movimento ondulato, richiamato dalla breve incassatura nella parete di fondo della cappella d'altare. Gli innesti da lui progettati, come i portali e i coretti nei piloni, l'ornamentazione dei cappelloni trasversali e la modifica degli altari laterali, sono documentati da disegni. Per quanto riguarda la facciata va detto che, se la scala a due rampanti e l'iterazione delle paraste angolari rientrano nel progetto di Buratti, è tipicamente fughiano il timpano spezzato e ricurvo con l'inserimento del motivo decorativo di base raccordata da volute. Gli vanno inoltre ascritti lo stemma di facciata con festoni penduli e la cupola, priva di tamburo, con aperture circolari che avranno grande diffusione in ambito napoletano.

Scelse la soluzione della cupola senza tamburo anche per la chiesa dell'Orazione e Morte (1733-37). Il 7 sett. 1732 effettuò il primo sopralluogo e pochi mesi dopo, il 25 dicembre, iniziarono i lavori, mentre la cerimonia della posa della prima pietra risale al 1° giugno 1733.

Il progetto della chiesa, consacrata il 20 ott. 1737, gli prospettò problemi e soluzioni simili a quelli che si riscontrano per il palazzo della Consulta e proprio il condizionamento del sito lo guiderà nella brillante scelta del tipo architettonico. Lo spazio allungato, che ben si prestava alla pianta ellittica, gli permise di misurarsi con la chiesa di S. Andrea al Quirinale.

Rispetto alla chiesa berniniana l'asse ingresso-altar maggiore è riportato alla direzione longitudinale e l'insieme risente di una particolare forma di compattezza: la riduzione delle cappelle sui fianchi, a due, porta alla contrazione della lunghezza e, quindi, a una pianta più ovata che ellittica, modellata sul ritmo alterno di concavità (cappelle) e convessità (strutture intermedie di pilastri e colonne).

L'alzato presenta un primo registro impaginato da colonne giganti e uno intermedio che funziona anche da ridotto tamburo. Questo, che ingloba l'arco di trionfo e i timpani ricurvi delle cappelle e ripropone il ritmo alterno sostituendo le colonne sottostanti con allungati triglifi, si interrompe in corrispondenza dei timpani e dei finestroni. La particolare soluzione del tamburo, parte assorbita nel piano attico e parte nella cupola, costituisce un importante momento di passaggio dal tipo tradizionale, con lo slanciato tamburo nettamente distinto dall'invaso semisferico, alle cupole del tardo barocco dove il tamburo scompare per lasciare spazio alle nervature.

Il F. ricerca un effetto inusitato, che all'esterno nega l'impianto ellittico, nella facciata che si proietta su un solo piano, cioè priva, come sarebbe stato logico aspettarsi per un impianto del genere, di ingresso convesso e di raccordi mistilinei. La facciata, che rimanda a episodi napoletani della prima metà del Seicento, si svolge su due registri con doppio ordine trabeato: paraste sulle parti piene e coppie di colonne distaccate dalla parete di fondo. La parte centrale è interamente occupata dai portali, dal finestrone e dalla successione dei cinque timpani.

Le coppie di colonne, comprese tra le paraste e incassate, ripropongono il tema michelangiolesco sperimentato dal F. nel primo disegno di facciata per il palazzo della Consulta. Al primo registro le campate accessorie, con portali e finestroni ellittici, sono collegate al piano attico con piccole, discretissime, volute, secondo la trama già usata per la facciata della chiesa di S. Maria sopra Minerva, che va ricordata anche per il ricco fastigio conclusivo.

Nel disegno di facciata, ritrovato da Hager (1964) e ridiscusso dalla Kieven (1988), la campata centrale, convessa, aderisce alla sagoma dell'impianto, ma a causa della più esigua dimensione del secondo registro non lascia trasparire la forza e il rigore sintattico della composizione definitiva.

E se è vero che l'impiego delle colonne incassate proviene dalla Laurenziana di Michelangelo, non è da escludere la facciata della chiesa dei Ss. Vincenzo e Anastasio che rappresenta, a metà Seicento nel pieno svolgimento del barocco dei maestri romani, la prima decisa facciata con colonne libere. Anzi, va ripresentata ricordando, per entrambe le opere, la comune derivazione michelangiolesca.

Il sistema compositivo è lo stesso. Il F. agisce sulla riduzione delle colonne, da tre a due; sull'allargamento del registro superiore, senza impedire tuttavia al campanile di occhieggiare dallo stesso lato; si inserisce con il timpano nel piano attico, ma sostituisce la balaustra al fastigio; classicizza il finestrone e i timpani del registro superiore.

Di tutt'altro genere, e tuttavia innovativa, è l'austera facciata progettata dal F. per il complesso delle chiese di Calvi dell'Umbria, che si colloca nello stesso anno (1739) del romitorio Passionei a Camaldoli di Frascati.

L'intervento a Calvi dell'Umbria, che si suddivide in tre tappe (nel 1739 si avvia l'ampliamento del convento delle orsoline; tra il 1739 e il 1743 si procede alla realizzazione di uno dei quattro corpi; dal 1743 al 1744 viene rinnovata la chiesa) è documentato da disegni quanto mai puntuali che mostrano l'articolazione del complesso, con l'emergenza delle chiese di S. Brigida (ricavata dall'ampliamento della preesistente chiesa di S. Paolo) e di S. Antonio, il convento con il chiostro, le celle e i servizi.

Assai curata appare la rappresentazione degli ambienti al piano terreno e al primo piano, anche con la proiezione delle coperture, che trova precisa corrispondenza nelle sezioni-prospetti. L'innesto del coro tra le due chiese, collegato agli ambienti conventuali, è un chiaro segnale della sua tendenza progettuale orientata dai criteri della "misura" e della "disposizione".

Di particolare interesse è il disegno di facciata, "trovata" unificante dell'insieme, che ripropone il sigillo fughiano del timpano spezzato e ricurvo con fastigio al centro. Singolare composizione, che si riallaccia alle chiese doppie e che, nel contempo, la riconduce al segno di un portale che ingloba gli ingressi alle due strutture, è ottenuta dalla dilatazione, mediante l'inserimento della coppia di paraste al centro, della facciata del Bambin Gesù che, peraltro, ritorna anche nel motivo del fastigio.

A Roma tra il 1740 e il 1741 progettò il portico e la nuova facciata per la chiesa di S. Maria Maggiore; fino al 1750 lavorò al restauro dell'interno e all'altare-baldacchino, studiato in tre soluzioni, come dimostrano i disegni.

L'obiettivo di armonizzare la nuova facciata con le preesistenze della canonica, a est, e dell'edificio a ovest, doveva trovare il suo tema qualificante nel passaggio dall'idea del portico, che (in analogia con quanto realizzato da C. Fontana per S. Maria in Trastevere) appare nei primi disegni, all'aggiunta della soprastante loggia delle Benedizioni, documentata nei disegni definitivi. Questa gli consentì il mascheramento della base del campanile e nuovi spunti per assicurare la visibilità dei mosaici e l'allineamento alle cortine laterali. Qui il F. ritornò su motivi più decisamente barocchi, in aderenza ai gusti di papa Benedetto XIV, leggibili nel contrappunto tra timpani, nell'allusione al movimento ondulato con la convessità del timpano centrale ricurvo e la concavità dei festoni a lato; nei raccordi curvilinei, al secondo registro, desunti dal Pietro da Cortona di S. Maria della Pace. E citò se stesso, per l'illuminazione dei mosaici, rifacendosi alla cappella Cellamare, nonché al piano attico e alle ricorrenze tra timpani e aperture già nel progetto per la facciata di S. Giovanni in Laterano.

Sempre a Roma per la chiesa di S. Apollinare (1741-48) del collegio germanico dei gesuiti il F. studiò due tipi architettonici; quello di navata con cappelle di ridotta profondità e coro curvilineo dietro la cappella maggiore, assai vicino alla soluzione della chiesa prevista nel primo progetto dell'albergo dei poveri; e l'altro costituito da una navata con cappelle passanti, presbiterio allineato e ingresso pseudoellittico. ll riferimento alla chiesa del Gesù, presumibilmente suggerito dalla stessa Compagnia, è più esplicito nei disegni del primo progetto (1741) dove, sul lato sinistro, il F. innesta la piccola croce greca della cappella della Vergine trasportata dal portico all'interno della chiesa.

Il terzo progetto, corrispondente all'esecuzione, è più interessante per il tipo delle cappelle passanti e, soprattutto, per il rispecchiamento spaziale, anche se non formale, tra la cellula di ingresso e la cappella maggiore.

Questa, larga quanto la navata, si propone come spazio a sé stante per effetto della balaustra allineata alla base dei piloni e della stringata disposizione di arconi di scarico, pennacchi e cupola priva di tamburo. Il F. ne riprese l'impaginato del fronte con doppia parasta nella chiesa dell'albergo dei poveri, come ancora oggi si può vedere dal rudere del complesso napoletano. A S. Apollinare la soluzione delle cappelle passanti, a causa dell'esiguo spessore dei pilastri, determina sulla navata un ordine architettonico approssimativo rispetto all'ampia e piatta fascia di trabeazione riproposta, nella volta a botte, mediante l'ordine basamentale delle nervature.

Il progetto appare studiato in funzione di due cellule principali, il vestibolo-cappella e la cappella maggiore, come stanno a dimostrare i disegni delle due sezioni trasversali.

L'attuale facciata, su due registri con ordini di paraste, risente degli esiti della chiesa del Gesù a Roma. È contrassegnata dal piano attico intermedio che accoglie un timpano curvilineo assai distaccato da quello del portale di ingresso, iterazione tematica riproposta nel secondo registro dove, secondo il "modello" delle due chiese di Calvi dell'Umbria, il timpano spezzato e ricurvo accoglie il fastigio centrale. L'impronta del F. è riconoscibile nel collegio germanico, ricostruito su suo progetto del 1745, a seguito di lavori iniziati nel 1748.

Nell'antica chiesa napoletana di S. Chiara il F. chiuse la serie di ammodernamenti, già intrapresi nel 1743 da Domenico Antonio Vaccaro e Gaetano Buonocore e poi da Giovanni Del Gaizo. Gli vanno ascritti il disegno del pavimento della chiesa (1761-63); i lavori di ampliamento nella clausura delle clarisse (1766); il monumento sepolcrale del primogenito di re Carlo III, Filippo, nella cappella di S. Chiara (1777); la cappella dei Regi Depositi (1760-80). Allo stesso periodo risalgono altri due interventi napoletani. Il primo riguarda la facciata della chiesa dei Gerolamini (1766-72), dove completò il secondo registro e i campanili e dove la sua mano è riconoscibile nel finestrone, nei portali laterali e nei raccordi curvilinei con festoni. Il secondo consiste nel consolidamento della cupola del Gesù Nuovo (1769).

Nella cattedrale di Palermo (1767) propose un massiccio rifacimento mediante l'innesto di una nuova struttura, incentrata sulla cupola, realizzata sotto la direzione di G. Venanzio Marvuglia e di Salvatore Attinelli.

Il "restauro", secondo le direttive dell'arcivescovo Serafino Filangieri, prevedeva la completa modifica dell'interno e delle coperture, con la conservazione dell'inviluppo perimetrale e delle facciate e con il reimpiego delle antiche colonne nei pilastri.

La trasformazione progettata dal F. doveva concretizzarsi nella distruzione della tribuna dei Gagini (1510-74) e di preziose stratificazioni; i lavori, iniziati nel 1781, furono completati solo nel 1801. Restò a Palermo solo due mesi (da marzo a maggio del 1767) per preparare i disegni e fornire tutte le indicazioni per il "modello" da costruirsi in sua assenza.

Dopo circa venti anni di attività a Napoli il F. ne lasciò il segno nella cattedrale palermitana, sintesi di episodi significativi della cultura architettonica napoletana, come si manifesta con le colonne che affiancano i pilastri, nell'impaginato interno e nella volta a botte con unghie e, soprattutto, nella cupola che ripropone la sagoma di quella prevista nei suoi primi disegni dell'albergo dei poveri.

Per quanto riguarda l'attribuzione delle due chiese dell'Aquila, S. Agostino e S. Caterina, va detto che la mano fughiana è riconoscibile soprattutto nella seconda, per alcuni particolari dell'ornamentazione e per l'impaginato dell'interno, mentre l'impianto risulta una semplificazione del programma ellittico.

L'architettura civile del F. registra la prima opera veramente importante con il palazzo della Consulta (1732-38), voluto da papa Clemente XII per sostituire la sede del supremo tribunale pontificio.

In una localizzazione di grande effetto e con la prestigiosa destinazione di due ministeri, con gli uffici e la residenza dei cardinali, l'opera era di quelle destinate a enfatizzare la sua predilezione per la "disposizione". Si trova, infatti, a dover sistemare ufficio e abitazioni dei segretari della Consulta e dei Brevi, due piccoli corpi militari (cavalleggeri e corazze) con stalle, sale comuni, dormitori, cucine e abitazioni degli ufficiali, in uno stesso blocco e in un lotto trapezoidale, non dei più facili da utilizzare. Distribuisce le destinazioni d'uso per piani e per parti di piani (cioè in pianta e in alzato). Con il cortile quadrangolare dai lati lievemente convergenti, vero centro dell'intera composizione, rende l'immagine di una tradizionale disposizione simmetrica, calibrando adeguatamente l'ingresso rispetto alla facciata e sistemando le residenze in spazi triangolari con ambienti di varia dimensione.

Il primo progetto di facciata, respinto nell'agosto del 1732 perché giudicato troppo complicato, prevedeva un'accentuazione del corpo centrale e del bugnato che rivestiva interamente il primo registro, un piano attico arretrato e la sovrapposizione degli ordini (dorico, ionico) al piano terreno e al primo piano.

Per la rielaborazione di temi michelangioleschi va ricordata (come già fatto da Portoghesi, 1992, che la interpreta come ordine "in negativo") l'incassatura, al piano nobile, della parete rivestita di bugnato, compresa tra le finestre che appaiono impaginate tra riquadri di stucco.

Nel secondo progetto di facciata, che corrisponde all'esecuzione, l'avanzamento della campata centrale è commisurato allo spessore di un solo pilastro; cade il frontone del secondo piano con timpano ricurvo e spezzato, mentre il coronamento della balaustra viene decorato con il solo fastigio; al piano terreno, il bugnato viene ridotto a fasce che inquadrano le aperture.

Resta, in definitiva, un compatto impaginato di due registri con paraste, conclusi da balaustra, dove il risalto centrale della facciata è affidato alle sole paraste bugnate che racchiudono le tre campate. Ritornando al cortile vanno messe in rapporto le differenti composizioni dei lati corti: da una parte la serliana a conclusione delle pareti convergenti; dall'altra due blocchi di scale a rampe dapprima convergenti e poi divergenti, dove il gioco della salita viene denunciato da cornici e ordini inclinati. Particolari non secondari sono costituiti dalle aperture ad arco, più grandi al centro, dove convergono le due scale, e più piccole ai lati in corrispondenza dei ripiani, e dalla sovrapposizione assiale di archi, riassunti nel timpano ideale che si chiude nel fastigio.

Gli angoli della scala, su campate quadrate, presentano portali con timpani assai articolati, volute e triglifi a mensola, un decoro di derivazione barocca che viaggia sulla stessa lunghezza d'onda della scala che è sí "aperta", alla maniera delle scale napoletane di Ferdinando Sanfelice, ma senza ordini architettonici e senza ornamentazione, quasi a rinnegare, o mascherare, il modello di riferimento che il F. doveva ben conoscere fin dagli interventi realizzati a palazzo Cellamare.

Da un'importante fondazione ex novo passa con palazzo Corsini alla Lungara (1736-55) alla ristrutturazione del cinquecentesco palazzo di Cristoforo Riario affidatagli dal cardinale Neri Corsini, il quale aveva comprato l'edificio per sistemarvi la collezione di dipinti e la biblioteca. Visto che doveva mantenere in sito la preesistenza, che replica sul lato opposto, il F. iniziò la progettazione dalle facciate, con disegni elaborati tra il 1736 e il 1737, che mostrano su via della Lungara una consistente compatta cortina, mentre quelli di pianta si collocano circa dieci anni dopo (1746-48).

Rispetto all'impianto preesistente il progetto si concentra sui portici d'ingresso, sulla scala, sul fronte verso il giardino e sulle due terrazze. I disegni di pianta chiariscono il tipo di aggiunzione: al piano terreno, con il palazzo Riario, a L, sulla sinistra; il blocco del porticato al centro con l'inserimento della scala di rappresentanza; la nuova ala, sempre a L, sulla destra, progettata tra il 1744 e il 1747, in modo da avere un'ala per Neri e una per Bartolomeo Corsini. Il tutto viene ricompattato sul fronte principale e nella facciata posteriore dalla lunga teoria di portici intervallata dai corpi sporgenti. Mancando la consueta differente caratterizzazione dei tre piani, per aderire alla facciata dell'antico palazzo, sistema le paraste bugnate nella parte mediana e nelle due laterali. Ai due cortili (1755-58), compresi tra i portici e le facciate posteriori del palazzo, è affidato il ruolo di mediazione tra residenze, terrazze, spazi aperti, giardino e veduta verso il Gianicolo. Ed è qui che il F. anima il tratto di facciata del blocco centrale (1751-53), corrispondente alla scala, con ampie aperture ad arco. Al piano nobile (1746-48) furono sistemati l'appartamento del principe con la raccolta di quadri nell'ala preesistente, il salone di rappresentanza al centro e, nella nuova ala, sale di rappresentanza e biblioteca. Alla simmetria così ottenuta corrisponde su via della Lungara una ripartizione di facciata che denuncia chiaramente l'articolazione dei tre blocchi mediante i tre risalti angolari e centrale, che si distinguono nettamente nel terzo progetto (1736-37), dove il ruolo delle paraste bugnate viene enfatizzato dalla balaustra conclusiva che si interrompe nelle parti intermedie. Ma già nel primo disegno sono chiari gli elementi caratterizzanti: il profondo cornicione su mensole, l'interruzione della balaustra e l'aumento dell'altezza al piano nobile che lascia spazio all'inserimento del piano ammezzato. Aiutano a comprendere la complessa progettazione, condotta a tappe, i disegni del salone al piano nobile (1749-50), dei portali e dei cancelli.

Agli anni 1740-58 risale il progetto del palazzo Corsini ad Albano, di cui si conserva il disegno di facciata, poi eseguito da un aiuto del F.; mentre al 1739 vanno datati i disegni (pianta e prospetto) per il romitorio del cardinale Domenico Passionei a Camaldoli di Frascati.

Dal 1758 al 1761, a Napoli, si occupò della ristrutturazione di palazzo Giordano, a via delle Corregge (l'attuale via Medina), che viene condotta con l'utilizzo delle strutture preesistenti e la direzione di Giuseppe Alviani.

La facciata è caratterizzata dal sistema di portale e balcone principale che presenta una lunga mensola mistilinea a sagoma convessa. Questa è sorretta da due volute allungate, con cornici, che costituiscono anche i capitelli dei piedritti; dalla chiave d'arco del portale si sviluppa l'insegna con festoni penduli che in ambito napoletano doveva avere una grande diffusione. Il portale del contiguo palazzo d'Aquino di Caramanico, costruito dal 1770 al 1779, con timpano curvilineo e specchiatura, è autonomo dal piano nobile. Le due facciate sono trattate dal F. in modo da uniformare il brano della cortina edilizia.

Sulla riscrittura degli ordini architettonici mette conto ricordare il palazzo Cenci Bolognetti a Roma (1745 circa), dove il F. applicò citazioni manieriste (lesene delle finestre del primo piano rastremate verso il basso) e allusive citazioni michelangiolesche (nelle finestre del piano terreno, nell'aggetto dei timpani delle finestre e nelle modanature in funzione di mensole sotto le finestre del secondo piano) assenti in palazzo Caramanico. Tuttavia tra i due edifici esiste una puntuale analogia nella disposizione degli ordini architettonici, perché al primo e al secondo registro, nell'angolo, il F. sovrappone la parasta liscia alla parasta bugnata, anche se nel palazzo napoletano compare l'iterazione delle tre mensole al di sotto del cornicione.

Interventi di ammodernamento assai simili tra loro vennero condotti dal F., in qualità di primo architetto della Casa reale, nel palazzo degli Studi (1777-78) e nel palazzo reale di Napoli (1763-64). In quest'ultimo coordinò artisti e artigiani impegnati nella nuova ornamentazione, una macchina da festa permanente allestita per celebrare la maggiore età di Ferdinando IV e l'avvicinarsi del suo matrimonio. Sempre al F. può ricondursi il progetto del pavimento marmoreo della cappella reale eseguito da Atticciati nel 1772.

Tra il 1761 e il 1768 lavorò alla villa Favorita a Ercolano, tra le più famose delle ville vesuviane, documentata dalle vedute (1777) di Francesco Securo.

Nata dalla ristrutturazione del complesso preesistente (casino, giardino e masseria) nello spirito della riconversione del territorio attraversato dal Miglio d'oro a luogo di residenza estiva dei nobili che gravitavano intorno alla reggia di Portici, la villa ha una posizione, tra campagna e mare, che offre la possibilità delle facciate diversificate: compatta sulla strada e a cannocchiale verso il giardino, con una sequenza che ricorda gli spazi verso il Gianicolo di palazzo Corsini. Il fronte più corto si prolunga nella scalea curvilinea che scendeva verso il mare; al centro dell'impianto è la sala ellittica con due rampe simmetriche sul lato corto, in asse con la parte mediana della composizione.

L'aspetto più interessante della progettazione si fonda sulla coerenza tra disposizione planimetrica e alzato e, quindi, disposizione dell'ordine di paraste che contrassegnano le facciate; vale a dire che a ogni risalto dei moduli di pianta corrisponde un risalto dell'ordine costituito da una parasta centrale e da due semiparaste laterali. La scansione degli ordini di stucco, su due registri, i portali mistilinei con piedritti bugnati, il sistema portale-balcone della campata mediana; l'ariosa scala a tre rampanti e le torrette ammorbidite dalla sagoma poligonale ripropongono temi e modi di D. Antonio Vaccaro e di Ferdinando Sanfelice ai quali si devono più interventi in ville vesuviane. In altre parole, il F. adeguò le scelte compositive al tardo barocco che conforma buona parte delle grandi residenze vesuviane dove, peraltro, fu impegnato in più di una villa, come nel completamento della villa Pignatelli di Monteleone a Barra e, soprattutto, nella reggia di Portici di cui assunse la direzione nel 1761.

Le grandi opere del F. comprendono insediamenti destinati a usi sociali. Iniziano a Roma con il carcere delle donne a S. Michele a Ripa (1734-35), ideato come prolungamento della casa di correzione (1704) di C. Fontana e poi ricondotto a struttura autonoma dal suo progetto (1734). Vi si leggono una razionalizzazione delle connessioni tra spazi collettivi e celle e la ripartizione seriale delle facciate. Quella verso porta Portese, in direzione del Tevere verso via di S. Cecilia, si specifica con il risalto angolare di tre campate.

Nel progetto di ampliamento, redatto (1742-44) per l'ospedale di S. Spirito in Sassia, a Roma, risultano di particolare interesse, per le connessioni sintattiche, i disegni del nuovo vestibolo posto a collegamento tra il vecchio braccio e il nuovo, tra l'ingresso trapezoidale e la retrostante sala quadrilobata, con esiti prospettici che mascherano le difficoltà logistiche dell'innesto. L'idea di facciata, con l'ingresso al termine di due rampanti convergenti, sarà ripresa nell'albergo dei poveri.

Per il cimitero dello stesso ospedale (1745), sistemato in una vigna sul Gianicolo e demolito nel 1908, il F. studiò attentamente l'inserimento nel contesto. Altro suo cimitero è quello napoletano del Tredici (1762-64), situato al trivio di Poggioreale, destinato alla sepoltura degli infermi morti nell'ospedale degli Incurabili. Prevedeva un portico di recinzione, articolato con paraste e nicchie e un'edicola per lato, e ben 366 sepolture, in modo da disporre quotidianamente di una fossa, che non doveva riscavarsi prima di un anno.

L'albergo dei poveri a Napoli (1748-59), l'opera più impegnativa del F., destinata ad assegnare a ben ottomila poveri una sede dove svolgere anche attività di formazione (con officine e laboratori di arti), era destinata a non giungere mai alla completa definizione. Solo nel 1764 se ne poterono attivare alcune parti mentre la facciata venne completata nel 1816, in coincidenza con il nuovo tracciato di via Foria. E, comunque, il progetto fughiano venne radicalmente ridimensionato da cinque a tre blocchi.

Ideato (1748) per il borgo Loreto, e poi ripensato per il borgo S. Antonio Abate all'incrocio con via del Campo (via Foria) fu impostato su due modelli di riferimento, l'ospizio di S. Michele a Ripa e, soprattutto, l'albergo dei poveri di Genova che egli aveva avuto modo di conoscere attraverso i disegni. L'organizzazione del reclusorio napoletano, puntualmente descritta dal Milizia (1785), doveva corrispondere al decreto reale di fondazione (25 febbr. 1751) che assegnava ai governatori il compito di predisporre una precisa regolamentazione del sistema assistenziale.

Le modalità della sistemazione dei poveri, che dovevano essere distribuiti per sesso e per fasce di età, costituirono la chiave progettuale per un blocco quadrangolare (di 276 metri di lunghezza per 268 di profondità) definito da edifici dello stesso spessore e intervallato da quattro cortili, collegati da bracci disposti secondo gli assi ortogonali; al centro del braccio principale, sul fronte dell'edificio, era inserita la chiesa, la cui dettagliata progettazione è visibile nei disegni di prospetto e di sezione del complesso. L'impianto, con navata e cappelle passanti, crociera con cupola, rimanda, come già detto, all'impianto di S. Apollinare. Sulle tre navate si aprivano più ordini di ballatoi per permettere ai ricoverati di assistere alle funzioni religiose senza derogare dalla loro suddivisione per sesso e per età.

Questo primo progetto, che ritrova analogie con i grandi insediamenti previsti da Gioffredo e da Vanvitelli per la reggia di Caserta, doveva essere oggetto di modifiche per migliorare, come dimostrano gli accurati disegni delle varianti, la distribuzione interna (specie per le cucine) e l'illuminazione dei bracci interni, secondo le prescrizioni igienico-sanitarie stabilite.

Il secondo progetto, con disegni datati tra il 1751 e il 1753, trae spunto dalla ridotta profondità del suolo e dalla localizzazione che doveva permettere, a chi entrava in città dall'ingresso principale, di vedere subito l'opera simbolo della magnificenza del re; e proprio l'albergo dei poveri in virtù della sua posizione solleciterà, in età di Ferdinando IV, l'allargamento e la pavimentazione di via Foria.

I quattro cortili del primo progetto vengono allineati, e un quinto, posto al centro, ospita la chiesa; ne risulta un fronte compatto di circa 600 metri per 140. I due blocchi di sinistra vengono assegnati alle donne e i due blocchi di destra agli uomini. L'esecuzione dell'opera si giovò del "modello" preparato da Giuseppe Alviani e della direzione di tecnici militari. Il F. si riservò il compito di controllare la qualità dei lavori e il rispetto del suo progetto definitivo, il terzo (1759).

La chiesa del secondo progetto, vero diagramma dei percorsi visivi e memoria di soluzioni pozziane, costituisce il significativo approdo, per cronologia di maturazione e perché influenzato dai locali momenti di revival barocco della ricerca fughiana sull'architettura religiosa. Presenta un impianto radiale con quattro navate diagonali che partono dalla rotonda centrale e attraverso i ballatoi sono in comunicazione diretta con i quattro principali collegamenti verticali dei dormitori; una quinta navata in diretta prosecuzione dell'ingresso principale è destinata al pubblico.

Dal 1762 al 1773 progettò l'ampliamento, non eseguito, della fabbrica d'armi di Torre Annunziata, con l'aggiunta di un blocco e una cappella absidata con facciata a timpano e ordine di paraste. Nel 1767, nella reggia di Portici, si occupò del Real Museo Borbonico destinato ad accogliere le collezioni archeologiche provenienti dagli scavi di Pompei ed Ercolano, un lavoro di grande risonanza che doveva attirare i viaggiatori del grand tour, attestato sul criterio della contaminazione tra antico e moderno. Tra il 1771 e il 1772 si collocano i lavori per la fabbrica di porcellana nella reggia di Portici e nel palazzo reale di Napoli e, tra il 1777 e il 1778, la ristrutturazione del palazzo dei Regi Studi per la sistemazione del museo, che doveva spostarsi da Portici, e della biblioteca pubblica e delle accademie di pittura, scultura e architettura, per i quali redasse, insieme con Pompeo Schiantarelli, i disegni (1780-82) parzialmente realizzati solo dopo la sua morte.

I Granili, al ponte della Maddalena, un gigantesco deposito del grano (lungo ben 550 metri per quattro piani), nella zona orientale della città, in prossimità del porto, erano collegati al mare da uno sbarcatoio. Parte era destinata all'approvvigionamento e allo smistamento del grano e parte veniva data in fitto, per depositi, ai privati che ne facevano richiesta.

Il complesso (1778-91) fu progettato dal F. come sequenza di ambienti serviti da un corridoio, aggregati modularmente, con scale che lo suddividevano in quattro parti. Era costituito dal piano terreno più tre piani. Fu alterato intorno alla metà dell'Ottocento, quando vennero aggiunti i cinque corpi avanzati, per essere trasformato in quartiere militare. Demolito a seguito dei danni subiti nell'ultima guerra, resta documentato in un disegno di Achille Gigante e se ne può leggere la distribuzione nella pianta di Napoli dello Schiavoni.

L'architettura effimera, che occupa un consistente spazio del catalogo fughiano, si può analizzare attraverso disegni di complesse macchine da festa e delle loro varianti, tra cui gli archi trionfali di Benedetto XIV e di Clemente XIII allestiti a Roma.

La macchina da festa, in piazza di Spagna, per il matrimonio di Carlo di Borbone con Maria Amalia di Sassonia (1738) era composta da una base e da una piattaforma con tempietto. Al 1739 risale l'apparato da festa per le nozze dell'infante Filippo di Spagna, allestito a Napoli nel largo di Palazzo, e al 1740 quello dei funerali di Clemente XII nella chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini a Roma, con un catafalco che si attestava su "modelli" sanfeliciani. Sempre a Roma, fece preparare nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli l'apparato per i funerali di Filippo V (1746), con coppie di colonne tortili e sistema tettonico trabeato. Questo tipo di attività, che si prolungò fino agli ultimi anni della sua vita con l'allestimento delle feste di carnevale (1777-78), è direttamente connesso per rappresentatività, committenza e linguaggio architettonico, a quello teatrale.

Dagli allestimenti per le feste di corte nel salone di palazzo reale e nel teatro S. Carlo di Napoli sortirono due interventi, il restauro del teatro e il teatrino di corte (1763) che ottenne trasformando il salone dell'appartamento reale con un ordine di paraste e nicchie decorate dalle statue di cartapesta di Angelo Viva. Frattanto curò gli allestimenti teatrali nella reggia di Portici, che sarà fornita di una sala teatrale stabile solo nel 1769. Nel 1767 diresse l'apparato per le nozze di Ferdinando IV nella gran sala di palazzo reale e l'anno seguente rinnovò l'arredo e l'illuminazione del teatro S. Carlo, inserendo specchi in tutte le file di palchi per moltiplicare l'effetto delle candele.

Un suo importante restauro (1777-78), condotto nel teatro del Re, dettagliatamente documentato, modificava completamente l'impianto del boccascena, nel punto di attacco tra sala e palcoscenico, innestando cinque ordini di palchetti di proscenio compresi tra due pilastri.

L'ammodernamento trasformò radicalmente l'impianto di G. Antonio Medrano (1737) che presentava una netta suddivisione tra sala e palcoscenico. La "bocca d'opera" fu sagomata ad arco e al di sopra venne realizzato un doppio "tompagno" verso la sala e verso il palcoscenico, per alleggerire il peso della struttura muraria. Il F. curò minutamente il progetto esecutivo e i computi per tutti i lavori murari e di artigianato e guidò la preparazione dei "modelli" di gesso per le sculture destinate alla decorazione del boccascena.

L'opera restò in sito fino all'incendio del 1816; fu poi Antonio Niccolini, con il suo restauro, a riprendere la soluzione del proscenio fughiano al quale addossò le colonne di ordine corinzio.

Il F. morì a Napoli il 7 febbr. 1782.

L'opera fughiana, che si attesta sulla scelta di modelli di riferimento classicisti e barocchi e sulla capacità di riscriverne gli ordini architettonici e l'ornamentazione, trae elementi di chiarezza dal raffronto tra l'attività romana, che rientra nella prima formazione e nel momento di maggiore affermazione, e quella napoletana della maturità.

Sulla questione della tradizione fiorentina, comprovata da molte sue opere, va precisato che l'apprendistato presso il Foggini durò troppo poco perché se ne risenta l'influenza in tutte le future tappe del suo codice espressivo, mentre vanno ricordati l'Accademia Medicea (1673-86) a Roma e il segno che lasciò nell'architettura della prima metà del Settecento.

La magnificenza di Roma moderna assurge a tema centrale di una sorta di trattatistica, che gravitava intorno alla famiglia De Rossi (Gian Battista, Gian Domenico e Gian Giacomo) e a quella schiera di "critici disegnatori" o di "teorici empirici" in grado di trasmettere, anche solo attraverso i disegni di architettura, gli indirizzi di una teoria architettonica destinata a prolungare gli esiti della linea formativa tracciata dall'Accademia Medicea.

A questi aspetti si legano la storia del Bellori, con la dedica a Colbert, e le sue tesi sull'architettura "Idea del pittore, dello scultore e dell'architetto, scelta delle bellezze naturali superiori alla natura"; discorso recitato all'Accademia di San Luca nel 1664 e inserito ne Le vite…, da cui il F. sembra aver tesaurizzato quella "nobile idea" di architettura guidata da "una mente che gli serve di legge e di ragione, consistendo le sue invenzioni nell'ordine, nella disposizione e nella misura ed euritmia del tutto e delle parti" (p. 23).

La Kieven (1988), ribadendo una tesi già appoggiata dal Pane (1956) nel riportare il pensiero di Matthiae (1952), interpreta il F. come "un razionalista" che si attiene ai criteri della triade vitruviana e supera, così, la riduzione del Milizia che riconosce nell'opera fughiana i soli esiti della firmitas e dell'utilitas, nel senso di solidità e distribuzione, un orientamento destinato a diventare senso comune visto che è ripreso perfino da uno studioso di cose napoletane come C.N. Sasso. Che il F. si sia adeguato in tutto o in parte al dettato di Vitruvio deve dedursi dalla storicizzazione delle opere e dall'individuazione delle categorie interpretative che sono quelle della "misura" e "disposizione", suggerite da G.P. Bellori ma non per questo meno vitruviane.

In questo quadro va letta anche la sua apparente mancanza di inventiva già interpretata come tendenza al "compromesso" con le richieste della committenza. Questo atteggiamento va riabilitato come una sorta di "protorazionalismo" che culmina nella complessa progettazione dei Granili attraversando il carcere delle donne, l'ospedale di S. Spirito in Sassia e lo stesso albergo dei poveri, con una punta misconosciuta nel piccolo, delizioso, padiglione del pallone della reggia di Portici, che per la sua essenziale configurazione può interpretarsi come anticipazione del tipo della villa europea che si afferma al sorgere dell'architettura contemporanea.

Accanto alla definizione concettuale dell'architettura suggerita dal Bellori vanno tenute nel debito conto la spinta classicista dell'Arcadia e l'impegno dell'Accademia di S. Luca nella formazione e nella definizione degli indirizzi architettonici. Non vi sono dati circa la partecipazione del F. ai concorsi dell'Accademia ma è innegabile il rinvenimento di citazioni, desunte da essi, in suoi svariati progetti, come nella villa Favorita a Ercolano, nel blocco trasversale inserito tra i cortili del Museo Borbonico e nell'ampliamento ideato per la fabbrica d'armi, o dalle opere di C. Fontana. Vanno inoltre considerate almeno due citazioni dall'opera iuvarriana rielaborate per l'albergo dei poveri, dove il blocco quadrangolare ricorda l'articolazione planimetrica e la caratterizzazione dei bracci trasversali del palazzo del conclave (1725), e dove la chiesa del primo progetto ritrova ascendenze nella rotonda della basilica di Superga per la capacità di definire gli invasi sagomando variamente le strutture portanti, mentre assai più esplicito si fa il rimando a F. Iuvarra nelle grandi mensole aggettanti e nell'andamento ondulato della cantoria di S. Apollinare.

La prima produzione fughiana appare caratterizzata da una molteplicità di citazioni ricche di temi michelangioleschi e buontalentiani, o tratte dalla scuola romana, G.L. Bernini e F. Borromini, senza dimenticare il Pietro da Cortona di S. Maria della Pace e di S. Maria in via Lata.

Il camaleontico virtuosismo, che piega il linguaggio espressivo al tema e alle scelte funzionali, va interpretato come esito di un fare architettura per "modelli" codificati. E qui diventa assai significativa l'affermazione del F.: "si perfezziona poi con li buoni studj, che dalli Professori sopra tali materie si fanno; che però in questa parte è necessario, che l'Architetto si regoli in miglior forma dell'altre Fabriche gia stabilite" (Azzaro, 1996, p. 56), che si collega all'uso di "modelli" guida nella didattica dell'Accademia di S. Luca.

Una continuità di ricerca linguistica si manifesta attraverso gli studi sulla funzionalità degli edifici che, ove connessa ai collegamenti orizzontali e verticali, trova rigorosa corrispondenza tra pianta e alzato, ovvero in quella doppia maglia che doveva caratterizzare le grandi opere, l'albergo dei poveri e i Granili, ma anche l'articolatissimo complesso di villa Favorita.

Aspetti qualificanti della sua ricerca progettuale, su cui conviene insistere per la piena comprensione del linguaggio espressivo, sono rappresentati dalla "disposizione", applicata in funzione dell'isolamento nella distribuzione di celle, servizi, e spazi collettivi nel carcere delle donne ed esaltata nei collegamenti dell'albergo dei poveri, e dalla "misura" degli elementi sintattici, che fa di molti suoi disegni veri e propri esecutivi.

Persino il portale con insegna e festoni, uno dei suoi sigilli, risponde al criterio della "misura": applicazione classicista degli ordini nelle parti più strutturali e decorazioni tardo-barocche nelle parti laterali e nel piano attico con l'insegna. E così nella cappella Cellamare, dove l'ornamentazione si infittisce nelle scodelle secondarie e negli arredi liturgici ma è del tutto assente nella facciata sul cortile; nei due rampanti del palazzo della Consulta che, pur provvisti di finestre, sono senza ordini, ad eccezione dell'arco del secondo registro con l'insegna.

A un'analisi puntuale delle sue opere, il rigore sintattico appare caratterizzato dal dimensionamento degli spazi sulla base degli ordini architettonici e degli elementi tettonici, fuori di ogni più piccola deroga. Si guardi ai ripiani della scala, nel palazzo della Consulta, e all'armonica disposizione di portali, timpani, archi di scarico e voltina di copertura.

In questo discorso si inseriscono: il lotto trapezoidale del palazzo della Consulta e il cortile obliquo come una quinta prospettica, le connessioni nell'ospedale di S. Spirito in Sassia, il rapido stravolgimento del blocco quadrangolare dell'albergo dei poveri che si allunga a seguito del cambiamento di sito.

Molto convincente risulta la riduzione del repertorio ornamentale nel dimesso decoro della facciata dell'Orazione e Morte, pur senza rinunciare però al gioco della sostituzione e dell'allegoria, quali le mensole del finestrone e le teste con festoni del portale, in funzione di capitelli, gli ovali delle campate laterali compresi tra i festoni e le leggere volute che riprendono quelle del piano attico. In pari misura il F. non esclude dalla sua poetica progettuale lo spazio delle invenzioni, e ritrova esaltanti momenti di sperimentazione nell'effimero, nella cappella Cellamare, nell'altare-baldacchino della chiesa di S. Maria Maggiore e nel teatro S. Carlo e, soprattutto, nell'albergo dei poveri, dove alla sistematica distribuzione di persone e spazi oppone l'originale spazialità della chiesa radiale; né quello dell'inquadramento ambientale, come nei disegni per l'ospedale di S. Spirito in Sassia, nel rapporto con il fronte mare del primo progetto per l'albergo dei poveri e per i Granili, nel giardino di palazzo Corsini e nell'organizzazione di villa Favorita a Ercolano. Né può sfuggire, del salone di questa villa, la doppia centralità di impianto e di posizione rispetto al costruito e agli spazi liberi influenzata dalle macroarchitetture dei concorsi clementini e del barocco europeo. Per tale via l'opera costituisce un momento conclusivo della ricerca fughiana sulla residenza, che chiude in maniera assai convincente le esplorazioni avviate con i palazzi romani.

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