FERDINANDO I d'Aragona, re di Napoli

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 46 (1996)

FERDINANDO I (Ferrante) d'Aragona, re di Napoli

Alan Ryder

F., così chiamato dal nonno paterno Fernando I d'Aragona, era l'unico figlio maschio, illegittimo, di Alfonso V d'Aragona. Essendo F. nato a Valencia, si era supposto che la madre, Gueraldona Carlino, fosse spagnola, ma il suo nome riconduce piuttosto ad un'origine napoletana, ipotesi confermata anche dalla data di nascita di Ferdinando. Quella più convincente dal punto di vista cronologico - il 2 giugno 1424 - suggerisce infatti che fosse stato concepito a Napoli, ove all'epoca si trovava Alfonso; si deve quindi pensare che Gueraldona nel dicembre del 1423 abbia accompagnato Alfonso al suo ritorno in Spagna, dove poi sposò un tale Gaspar Reverdit di Barcellona.

Poco si sa dei primi anni di F., trascorsi a Valencia, affidato alle cure di due precettori nominati dal re, Eximen Perez de Corella, governatore di quel Regno, responsabile delle questioni temporali, e il vescovo di Valenza, Alonso Borja (il futuro papa Callisto III), incaricato della sua salute spirituale; una notevole influenza sulla sua infanzia fu esercitata anche da un altro personaggio, l'esule napoletano Diomede Carafa, che, nonostante una differenza di età di venti anni, si guadagnò la sua fiducia e il suo affetto per tutta la vita. A parte il Carafa, il suo entourage era formato esclusivamente da spagnoli, il catalano era la sua lingua usuale, e le sue prospettive erano quelle di un principe di secondo rango negli Stati d'Aragona.

Tutto cambiò quando Alfonso il Magnanimo, nel 1436, ritornò in Italia con la ferma intenzione di conquistare il Regno di Napoli, e di farsi raggiungere dalla moglie Maria di Castiglia, che però rimarrà in Spagna, F. e le due figlie illegittime Maria e Leonora. In quell'anno, a settembre, il Corella ricevette l'ordine di preparare il viaggio del giovane principe, che doveva trasferirsi in Italia insieme con un tutore e un acconcio seguito di giovani gentiluomini. Ma fu Solo il 26 luglio 1438 che l'intera compagnia, guidata dal Corella e dal Borja, salpò da Barcellona, sbarcando il 19 agosto a Gaeta, dove F. si ricongiunse con il padre, che conosceva appena.

Fra i due tuttavia si sviluppò rapidamente un forte legame affettivo, poiché Alfonso apprezzava l'acuta intelligenza e il coraggio fisico del giovane, mentre F. dimostrava una riverente venerazione per il suo augusto genitore. Oltre a tutto F. giunse in un momento decisamente opportuno, poiché Alfonso si trovava a dover affrontare il suo rivale al trono napoletano, Renato d'Angiò, che aveva il vantaggio di avere a disposizione un figlio ed erede al quale aveva conferito il titolo di duca di Calabria. Il re d'Aragona si diede immediatamente a preparare il suo unico figlio per lo stesso ruolo: come primo passo lo creò cavaliere sul campo di Maddaloni (9 sett. 1438) quando Renato, dopo averlo sfidato a battaglia, non si presentò; un secondo passo fu la nomina di F., nell'aprile 1439, a luogotenente generale del Regno al posto dello zio Pedro, la cui morte, durante l'assedio di Napoli dell'ottobre 1438, aveva privato Alfonso dell'unico parente stretto in grado di agire come suo rappresentante e di sostenere le pretese aragonesi al trono. Un anno dopo Alfonso ventilava il progetto di nominare F. erede al trono di Napoli e di dargli in moglie la figlia del duca di Milano. Il 17 febbr. 1440 il re, per autorità propria, lo legittimava e lo dichiarava suo erede, misure per le quali si assicurò l'approvazione del Parlamento dei baroni, convocato a Benevento nel gennaio 1441.

Nel frattempo F. si era stabilito a Gaeta, la provvisoria capitale aragonese, con una corte consona alla sua nuova condizione di capo nominale del governo in assenza di Alfonso; tuttavia egli continuava a vivere sotto la tutela del Corella e del Borja. Il tirocinio nell'arte del governo iniziò sotto la guida di consiglieri e ufficiali mentre tramite Antonio Beccadelli, detto il Panormita, venne ad acquisire quella raffinatezza umanistica tenuta in grande considerazione da Alfonso. In tutti i campi dimostrava una obbediente diligenza, ma soltanto gli studi giuridici suscitarono il suo entusiasmo. L'educazione militare cominciò seriamente solo nel 1440, quando Alfonso gli affidò l'incarico, sotto la guida del Corella, di governare e rifortificare la città di Aversa da poco conquistata. Due anni dopo il risolutivo assedio di Napoli gli offrì un'ulteriore opportunità di dimostrare il suo nascente talento militare come comandante del settore di Campovecchio, dove sovrintese, almeno ufficialmente, alla costruzione di un elaborato campo d'assedio. Dopo la vittoria F. fu nominato luogotenente della città sconfitta, mentre suo padre dava gli ultimi tocchi al trionfo aragonese nelle province. Fu allora che F. cominciò a chiamarsi duca di Calabria, titolo che Alfonso gli conferì solennemente nel monastero di S. Liguoro (3 marzo 1443) a seguito di una petizione, da lui manovrata, del Parlamento allora riunito, perché lo proclamasse erede legittimo; il riconoscimento dei suoi diritti da parte del papa, alto signore feudale del Regno, fu suggellata dalle bolle emanate da Eugenio IV nel luglio 1444, confermate in seguito da Niccolò V.

Finita la guerra di successione, F. si calò nel suo ruolo di principe italiano andando a vivere nella reggia-fortezza di Castelcapuano a Napoli, che, fino al completo rifacimento di Castelnuovo, divise con il padre e le due sorelle giunte in Italia nel 1441, e dove viveva anche la madre, provvista dal re di una pensione. Compagni della sua età, scelti fra i rampolli della nobiltà italiana e spagnola - fra gli altri Ercole e Sigismondo d'Este e Restaino Caldora - condividevano l'educazione militare e intellettuale voluta da Alfonso per l'erede; questi probabilmente assisteva anche alle serate letterarie del padre, senza tuttavia distinguersi per un qualche intervento degno di ricordo. Condivideva invece la passione di Alfonso per i cavalli, la caccia e i tornei al punto da attirarsi molti commenti favorevoli. L'ufficio di luogotenente generale, che conservò durante tutto il regno di suo padre, gli pesò poco: fintanto che Alfonso era nel Regno, si trattava di una pura formalità; durante le sue assenze per le campagne nell'Italia centrale il re manteneva uno stretto controllo su tutte le questioni politiche, delegando le faccende di ordinaria amministrazione a un Consiglio competente. Tuttavia faceva in modo che F. si rendesse conto della complessità del governo e del suo modo di gestirlo, facendolo assistere al Consiglio e alle udienze private. Più di un inviato notò la discreta presenza del giovane principe che, pur non osando mai prendere la parola, stava attentissimo a tutto ciò che accadeva. "Abbiamo imparato da un buon maestro" dichiarò egli più tardi, e non è un'esagerazione ascrivere la sua condotta politica, in patria e all'estero, agli insegnamenti patemi.

Nonostante l'evidente piacere e la perizia dimostrati nelle arti marziali, F. venne tenuto lontano dalle guerre che coinvolsero Alfonso nel decennio successivo alla conquista di Napoli, probabilmente perché il possesso del Regno da parte degli Aragonesi, ancora fragile, richiedeva la sua presenza nella capitale, nel caso che fosse accaduta al re qualche disgrazia. La necessità di rafforzare l'autorità della dinastia spagnola su Napoli imponeva anche che il duca, vicino ormai ai vent'anni, contraesse un matrimonio diplomaticamente vantaggioso e generasse un erede. Fallito l'accordo con il duca di Milano, Alfonso si impegnò in negoziati con la Francia, sperando nel contempo di garantirsi da un tentativo di rivincita angioino, senonché una malattia quasi fatale (1444) lo convinse che nella scelta della consorte doveva tenere presenti pericoli ben più vicini e che, se fosse morto, la nobiltà napoletana, ivi compresi molti da lui considerati alleati, avrebbe senza dubbio spazzato via F. rendendosi una volta di più arbitra del destino del Regno. Si decise quindi a legare il figlio con il più forte dei clan baronali, gli Orsini, facendogli sposare Isabella Chiaramonte, nipote prediletta del suo capo, il principe di Taranto, che non aveva figli propri, mentre la sorella di F., Leonora, era già stata data in sposa a Marino Marzano, figlio di un altro importante barone, il duca di Sessa. Splendidi festeggiamenti contrassegnarono il matrimonio, celebrato il 30 maggio 1445.

La desiderata figliolanza, che si sussegui in rapida successione - Alfonso (1448), Eleonora (1450), Federico (1451), Giovanni (1456), Beatrice (1457), Francesco (1461) - offrì da prima ad Alfonso, poi a F. stesso, materiale prezioso per una politica dinastica. Così fu anche della progenie illegittima, ancora più numerosa (almeno otto figli, il primo dei quali, Enrico, era nato prima dei matrimonio), ma nonostante questa costante infedeltà - sappiamo che nel 1462 ebbe tre amanti - sembra che non sia mai mancato l'affiatamento nel suo rapporto con Isabella, donna dotata di attrattive fisiche, buon senso e pietà.

Nel 1452 cominciarono a invertirsi i ruoli fra Alfonso e Ferdinando. Il re, stanco della vita di soldato e innamorato della bella Lucrezia d'Alagno, stabilì di dedicare il resto della sua vita all'organizzazione del suo impero e ai suoi piaceri privati. Così quando, alleato con Venezia, si accinse ad inviare un esercito contro Firenze, il comando della spedizione fu affidato a F., che nel maggio 1452 iniziò la marcia verso la frontiera abruzzese con un esercito di circa 10.000 uomini. Avanzando senza ostacoli attraverso lo Stato della Chiesa, entrò in territorio fiorentino in luglio, solo per trovarsi costretto ad assediare città relativamente poco importanti. Nonostante alcune incursioni fossero giunte fino a 6 miglia da Firenze, i risultati erano assai scarsi quando l'inizio dell'inverno costrinse a una ritirata nelle basi costiere a sud di Livorno. Non era certo stata una campagna spettacolare, ma lo stesso Alfonso non aveva fatto di meglio in simili circostanze, e la responsabilità della sua direzione non doveva ricadere tanto su F. quanto sul suo compagno d'armi, Federico da Montefeltro, sul gruppo di esperti capitani nominati dal re e sul servizio giornaliero di corrieri che collegava il suo quartier generale con Napoli.

La primavera del 1453 vide il duca immobilizzato sulla costa con un esercito assai ridotto e con suo padre più incline a cercare di staccare Firenze dalla Francia mediante una politica di moderazione che a gettare dell'altro denaro in una nuova campagna. Inoltre, la notizia della caduta di Costantinopoli aveva reso ancora meno probabile la disponibilità degli Stati italiani a partecipare seriamente a un'altra serie di guerre intestine F., di conseguenza, si trovò a corto di rinforzi di uomini e mezzi, e riuscì a stento a conservare le sue posizioni, finché la pace di Lodi (9 apr. 1454) aprì al suo sfortunato esercito la via del ritorno, a Napoli, dove, per fare ammenda, Alfonso lo accolse come un eroe. Quei due anni in Toscana fecero uscire F. dall'ombra paterna: benché ancora pieno di rispetto, durante gli ultimi anni di Alfonso dimostrò una nuova indipendenza e maturità di giudizio, ben consapevole che presto l'intero peso del governo sarebbe ricaduto sulle sue spalle e che sulla sua successione incombeva la triplice minaccia dei baroni, degli Angioini e del suo antico precettore Alonso Borja, dal 1455 papa Callisto III.

Quando con la morte di Alfonso (27 giugno 1458) sopraggiunse la crisi gli furono di grande aiuto la sua esperienza e la sua natura flemmatica. Evitò il confronto con il cugino Carlos de Viana, che i nobili ribelli pensavano di elevare al trono come suo rivale; affrontò con fermezza i disordini incipienti; superò i problemi connessi con il disfacimento del sistema imperiale del padre, rassicurando gli Spagnoli che desideravano restare al suo servizio e rimandando gli altri in patria in un'atmosfera di benevolenza che aiutava a stabilire cordiali rapporti con l'Aragona. Nella capitale F. fu salutato con acclamazioni dal popolo, mentre cavalcava in mezzo alla folla il giorno della morte del padre. In un affollato Parlamento, riunito a Capua in luglio, ricevette l'omaggio dei suoi sudditi più importanti, ma sapeva che il tradimento era in agguato fra i nobili, alcuni dei quali erano da sempre sostenitori della causa angioina e altri risentiti per l'atteggiamento autoritario del governo aragonese, che ne limitava gli usuali soprusi. Le loro speranze di tornare a un dorato passato anarchico furono suscitate per un attimo dagli sforzi di Callisto III di negare a F. il trono di Napoli, ma il papa sopravvisse ad Alfonso appena due mesi, e in questo periodo le sue macchinazioni senili furono ostacolate dall'energico sostegno che F. ricevette dagli altri Stati della Lega italica. Il successore di Callisto, Pio II, fervente ammiratore di Alfonso, cambiò immediatamente la politica papale e nel novembre 1458 assicurò a F. l'investitura, pur cogliendo l'opportunità di rientrare in possesso di Benevento e Terracina, enclaves sottratte da Alfonso alla Chiesa. Il 4 febbr. 1459 il legato di Pio II incoronava a Barletta Ferdinando.

Tuttavia la minaccia degli Angiò non fu scongiurata così facilmente, e incombette su F. per tutta la vita. Puntando su questa le loro speranze, gli avversari interni, durante l'estate del 1459, assunsero un atteggiamento di aperta sfida in gran parte dell'Abruzzo, della Puglia e della Calabria, sfida che divenne aperta ribellione quando, in novembre, Giovanni d'Angiò, spalleggiato da una formidabile flotta genovese, sbarcò in Terra di Lavoro. A capo della rivolta F. trovò i due uomini che il padre aveva cercato di unire alla dinastia con legami di parentela: il cognato principe di Rossano e il potente Orsini principe di Taranto. Agitatori di vecchia data - famosi fra gli altri Antonio Centelles, Giosia d'Aquaviva, Antonio Caldora e Iacopo Piccinino - ingrossarono a tal punto le schiere dei ribelli da costringere F. a lottare quattro anni per riconquistare il controllo sul suo Regno, riuscendovi anche grazie agli aiuti esterni. Il duca di Milano Francesco Sforza e Pio II fornirono un buon numero di soldati; il condottiero albanese Giorgio Scanderbeg ricambiò l'aiuto fornitogli da Alfonso contro i Turchi arrivando di persona in Puglia con un drappello piccolo ma formidabile; lo zio Giovanni II d'Aragona mandò aiuti navali, che spazzarono via i Genovesi. Ma F. fu salvato anche dalla sua energia e dalla lealtà di una parte consistente dei suoi sudditi: la città di Napoli e molte altre città demaniali rimasero fedeli per tutta la durata della guerra; fra i nobili, antiche fedeltà e antagonismi fecero si che molti, fra i quali le grandi famiglie dei Caracciolo e dei Sanseverino, e persino la maggioranza degli Orsini, si affiancarono al re; si dimostrarono fedeli anche quelle di origine spagnola, trapiantate da poco nel Regno.

La bilancia complessiva delle forze favoriva talmente F. che la vittoria avrebbe potuto sopraggiungere assai prima se non avesse condotto così male la battaglia di Sarno (7 luglio 1460), da trasformare un potenziale trionfo decisivo in una disfatta quasi disastrosa; nonostante tutto, due anni più tardi, a Troia, riuscì a infliggere una sconfitta definitiva ai suoi avversari (18 ag. 1462). Da allora le schiere dei nemici andarono costantemente disgregandosi: molti furono attirati con promesse di ricompense e perdono, il principe di Rossano fu costretto a capitolare (settembre 1463), quello di Taranto morì il 16 nov. 1463 e Giovanni d'Angiò, persi Genova e il Regno e abbandonato da tutti, dapprima si ritirò a Ischia, e di qui nella primavera del 1464 partì per la Provenza.

Il trionfo fu seguito da vent'anni di pace interna, anni che videro uno sforzo prolungato per consolidare la dinastia, rinforzare lo Stato e accrescere la ricchezza. Per raggiungere il primo scopo F. utilizzò senza riserve la sua numerosa famiglia per una campagna di alleanze matrimoniali durata tutta la vita. Innanzitutto se ne servì per cementare i legami con gli Sforza di Milano forgiati da Alfonso nel 1455, quando si era impegnato per il matrimonio del figlio maggiore di F. Alfonso con Ippolita Maria Sforza, unione che fu puntualmente celebrata nel 1465, appena la coppia raggiunse l'età adatta; la loro figlia Isabella diventò poi nel 1489 la moglie di un altro Sforza, lo sventurato duca Giangaleazzo. Per vincolarli ulteriormente, F. assegnò il ducato di Bari prima a Sforza Maria (1464) e, dopo la sua morte, a Ludovico il Moro; ma, a parte gli ultimi anni del regno di F., la politica napoletana e quella milanese furono sempre legate più da un comune interesse antifrancese che da vincoli familiari. Altri matrimoni - della figlia Eleonora con Ercole d'Este (1473), del figlio Federico con Anna di Savoia (1479), della nipote Vittoria con il signore di Piombino (1485) - puntavano a stringere legami ancora più stretti con gli Stati italiani identificati come amici fin dall'epoca di Alfonso il Magnanimo. La discendenza di F. venne inserita anche nell'ambiente romano: il figlio Giovanni ricevette il cappello cardinalizio da Sisto IV ma morì già nel 1485 all'età di 29 anni; successivamente il suo posto fu preso nel 1495 da un nipote, Luigi, creato cardinale col titolo di S. Maria in Cosmedin; la politica pontificia, del resto, sempre più rivolta a un rafforzamento dinastico, gli permise in seguito di legare la sua famiglia ai successivi clan papali.

All'estero F. in persona conservò il fondamentale legame con la Spagna, sposando nel 1477, dopo la morte della prima moglie, la cugina Giovanna, sorella di Ferdinando il Cattolico; un altro importante legame di parentela fu stabilito con il matrimonio fra la figlia Beatrice e Mattia Corvino re di Ungheria, un monarca sempre all'erta contro l'espansionismo veneziano. Altrove la sua diplomazia matrimoniale ebbe meno successo: caddero nel nulla gli ostinati e dispendiosi sforzi di fare sposare Federico con l'unica figlia di Carlo il Temerario, duca di Borgogna (1475), e i successivi negoziati per una unione fra il principe e la figlia dell'imperatore Federico III; solo umiliazioni derivarono dalla sua malaccorta offerta di collocare un figlio illegittimo, Alfonso, sul trono di Cipro attraverso il matrimonio con una delle pretendenti, Ciarla, figlia naturale di Giacomo II di Lusignano (1473): lo sfortunato tredicenne passò invece dodici anni in una prigione egiziana.

In patria i membri della famiglia reale fungevano da agenti di F. per un maggiore controllo sul potere baronale. Egli aveva ereditato un Regno in cui dipendeva dalla Corona poco meno di un sesto dei 1.500 centri abitati, mentre in molte province non esistevano terre demaniali: la ribellione del 1459 aveva dimostrato i pericoli di questa situazione ed egli si diede da fare per cambiarla. Gli vennero in aiuto le perdite subite dai baroni e soprattutto la morte del principe di Taranto, opportuna poiché l'incameramento delle sue proprietà, le più vaste di tutti i possedimenti baronali, rese di colpo il re il maggiore proprietario terriero del Regno, consentendogli di attribuire alla sua famiglia terre e titoli ogniqualvolta se ne presentava l'opportunità. Federico figura successivamente come principe di Squillace, principe di Taranto ed infine, nel 1487. come principe di Altamura, dopo il matrimonio con la figlia di quel nobile ribelle che gli portò in dote le sue terre. Francesco, creato duca di Sant'Angelo, sposò più tardi la figlia del duca di Venosa; Ferrante, un figlio illegittimo, diventò conte di Arena; un altro Ferrante e Francesco, due nipoti, furono investiti di titoli e possessi come principe di Capua e duca di Monte Sant'Angelo.

Gli antichi baroni videro diminuire ulteriormente il loro potere a causa delle considerevoli infeudazioni di terre concesse alle famiglie papali, in seguito ai matrimoni con la casa reale: un accordo raggiunto con Pio II nel 1461 dava a suo nipote Antonio Piccolomini la mano di Maria, figlia illegittima di F., insieme con il ducato di Amalfi e la contea di Celano, confiscati ai ribelli, come dote, e la carica di maestro giustiziere. Una nipote, Caterina, andò sposa a Giovanni Della Rovere, nipote di Sisto IV, al quale portò il ducato di Sora e Arce (1475). Un nipote, Luigi, investito del marchesato di Gerace, sposò la nipote di Innocenzo VIII, Teodorina. Si è già ricordata la concessione di Bari agli Sforza. Grazie a questa ampia ridistribuzione di terre F. effettuò un cambiamento radicale nella bilancia di forze fra la Corona e la nobiltà terriera napoletana (cosa di cui quest'ultima era fin troppo consapevole) e nello stesso tempo rese qualsiasi ribellione ancora più rischiosa. Con abile strategia F. remunerò generosamente chi era stato leale - Roberto Sanseverino, per esempio, che gli era stato a fianco nel 1459, ebbe la carica di ammiraglio e il principato di Salerno -e concesse titoli con mano prodiga, accelerando fra l'altro quel processo di svalutazione nobiliare iniziato da suo padre.

Uomini di rango che gli si erano dimostrati implacabilmente ostili furono invece eliminati con una tale deliberazione da attirargli il disprezzo dei secoli successivi e la definizione del Giannone "di poca fede, di animo fiero e crudele" (Istoria civile del Regno di Napoli, III, p. 447) appare mite di fronte alle più gravi accuse di sadica crudeltà e di depravazione scagliate contro di lui. È indubbio che si servi della frode e della dissimulazione per afferrare la preda: il Centelles cadde vittima di un salvacondotto non rispettato nel 1459; il principe di Rossano si arrese, convinto che il suo tradimento sarebbe stato perdonato e che suo figlio avrebbe sposato la figlia del re Beatrice, ma si ritrovò a languire per venticinque anni nella fortezza di Castelnuovo. Un destino ancora più crudele colpì il Piccinino, che, attirato a Napoli con la connivenza di Francesco Sforza e tranquillizzato con manifestazioni di onore e di affetto, fu fatto prigioniero il 24 giugno 1465 e morì il 2 luglio in un "incidente" che non convinse nessuno. Sospetti circondarono inevitabilmente anche la morte opportuna del principe di Taranto, ma non esistono prove che F. abbia fatto ricorso al veleno o all'assassinio in questa o in altre occasioni.

F. stesso giustificò comunque l'astuzia come un'arma legittima. Una lettera scritta al d'Avalos, suo comandante in Calabria, proprio all'inizio della ribellione del 1459, mette le cose in questi termini: "perché intendiamo che li baroni ce hanno tenuto mano, seriti advisato de desfreczare lo joco et mostrare credere, che loro non ce habeano culpa, cuande siano innocenti, per li non disdignare tucti ad hun tracto et impellireli ad fare alcuno grande errore, ma quando vidissero potire alcuno de loro intro la mano et lo suo stato, ne piaceria ne faczate grande castigo" (Codice aragonese, pp. 233 s.). Egli aveva visto comportarsi allo stesso modo suo padre e altri governanti: riservato ed eccessivamente taciturno, incontrò scarsa simpatia fra coloro che narrarono le sue azioni, ma non era un mostro. Era piuttosto un uomo ossessionato, e a ragione, dalla paura del tradimento.

I suoi sforzi per rendere innocuo il baronaggio furono coronati da un successo solo marginale quando, nel 1464, ordinò lo scioglimento di tutte le scorte armate, ma a suo favore lavorava sia il cambiamento della tipologia della nobiltà terriera sia lo sviluppo, a partire dagli ultimi anni Settanta, di quello che assomigliava a un esperto esercito permanente, comandato dal figlio, il duca di Calabria, che si dimostrò il più abile soldato del Regno.

F. non apportò modifiche sostanziali all'apparato statale, contentandosi di seguire la linea di una riforma verso una burocrazia più professionale e procedure amministrative più definite, così come le aveva impostate il padre. Dati questi orientamenti e la sua diffidenza negli affari di Stato, continuò ad aumentare l'importanza della figura del segretario reale quale elemento direttivo nel processo amministrativo. Per circa trent'anni l'ufficio di primo segretario fu tenuto da Antonello Petrucci, uomo di umili natali, che, iniziata la carriera durante il regno di Alfonso, acquistò titoli, ricchezze e un grande potere sotto F., finché il coinvolgimento nella seconda ribellione dei baroni fu causa della sua caduta e della sua morte; l'autorità che era riuscito a guadagnare e testimoniata dalla confusione che regnò negli affari della Cancelleria e della Tesoreria dopo il suo arresto. Il posto del Petrucci fu preso da Giovanni Pontano, con il quale si aggiunse al potere connesso con l'ufficio di segretario quel lustro umanistico che andava diventando dovunque il segno caratteristico di questa carica. Ma l'elemento giuridico tendeva inevitabilmente a prevalere su quello letterario fra il personale dell'amministrazione regia, dove prestavano servizio molti eminenti luminari di legge dell'epoca, come Paride Del Pozzo, tutore del re durante la sua giovinezza, Antonio D'Alessandro, Giovanni Antonio Carafa, Nicolò Antonio dei Monti, Agnello Arcamone. Il grosso della legislazione era infatti volto a regolare la procedura in molti rami dell'ordinamento giudiziario, ivi compresa la Vicaria e il Sacro Consiglio.

Una maggiore efficienza burocratica era in effetti vitale, poiché F. doveva sostenere con le sole risorse napoletane la posizione che Alfonso aveva fondato sulla forza di un impero mediterraneo. All'inizio anche questa base fiscale più ristretta fu corrosa, innanzi tutto, dalla necessità di fare alcune concessioni alle proteste suscitate dal regime finanziario di Alfonso nel Parlamento nel 1458; fu così abolito il ducato addizionale, aggiunto all'imposta diretta appena nel 1456, per tornare alla normale tassa del focatico di ducato: causa questa di una notevole perdita di introiti. Nel dicembre 1459 un complotto dei baroni quasi riuscì a estorcere nuove concessioni, ma la loro successiva ribellione ne permise la revoca. In secondo luogo la rivolta stessa aveva privato F. per diversi anni delle tasse dovute da molte regioni, ed è significativo che in quelle circostanze egli desse grande importanza al controllo della Dogana delle pecore di Puglia; dopo di allora non convocò più il Parlamento fino al 1491, evitando così le richieste di ulteriori modifiche al regime fiscale, a costo di rinunciare a eventuali nuove tasse che avrebbe potuto imporre. L'acquisizione da parte della Corona delle grosse proprietà baronali e molti anni di pace in patria e all'estero compensarono in qualche modo la perdita delle entrate, ma nel 1481, quando ricominciarono le crisi interne ed esterne, fu costretto a tentare una riforma radicale, trasferendo il peso della tassazione dalle imposte dirette sui fuochi e sul sale a quelle sul consumo e sulla produzione, posti fuori della giurisdizione del Parlamento. Di sicuro beneficiò solo di un modesto aumento dei contribuenti per tutta la durata del suo regno, e tuttavia venne annoverato fra i capi di governo più ricchi; lo stesso F. si sforzava di impressionare i suoi contemporanei ostentando splendore e munificenza.

L'apparente ricchezza derivò in gran parte da un incessante impegno volto a promuovere il commercio: una politica perseguita già da Alfonso il Magnanimo. Ancora durante gli ultimi anni di vita del padre F. aveva prestato attenzione a questo problema, ma la sua iniziativa personale cominciò soltanto nel 1469 con una misura potenzialmente assai significativa, l'abolizione cioè di 178 "passi", lasciandone ufficialmente in vigore solo 26. Anche se i baroni ne conservarono molti di più, il flusso del traffico all'interno del Regno ne beneficiò indiscutibilmente, agevolato anche da un programma di riparazione delle strade inaugurato l'anno seguente, soprattutto nell'interesse di coloro che viaggiavano "a negotiare". A questo si aggiungevano nuove fiere per le quali F. concesse franchigie, fiere che stimolavano il commercio interno ed esterno e attiravano un gran numero di mercanti stranieri. Fra questi i Veneziani godevano di favori particolari, mentre i mutevoli rapporti politici con Firenze rendevano incerta la vita dei suoi mercanti nel Regno. Ciononostante il banco dei Medici riaprì a Napoli nel 1471 e F. prese in prestito grosse somme da loro e da molti altri banchieri fiorentini, concedendo in cambio licenze per l'esportazione del grano. I Ragusani e i Lombardi aumentarono considerevolmente il volume del loro commercio e i privilegi, e tutti i mercanti stranieri in genere si avvantaggiarono della diminuzione delle imposizioni fiscali sul commercio estero.

L'aumento del volume del commercio, specialmente di prodotti locali - cereali, olio d'oliva, sale, zafferano, lana -, rinforzò anche gli imprenditori locali, che cominciavano a emergere nel XV secolo come agenti o soci di mercanti stranieri. Durante il regno di F. più d'uno si mise in affari per proprio conto e alcuni riuscirono a estendere la loro attività all'estero, come per esempio quei pugliesi che per via mare portarono prodotti locali a Venezia, ritornandone con carichi di manufatti. Anche i nobili erano incoraggiati dall'esempio del re ad avventurarsi in questo settore. Anche se non sembra che F., a differenza di Alfonso, abbia esercitato con regolarità il commercio per proprio conto, tuttavia egli compare come socio attivo in numerose imprese mercantili, in particolare in quelle di Francesco Coppola, che con il suo appoggio divenne di gran lunga il più affermato imprenditore napoletano dell'epoca: onori - compreso il titolo di conte di Sarno - e ricchezze si riversarono su di lui e sulla sua famiglia, finché il coinvolgimento nella ribellione del 1485 gli costò la vita e la fortuna. Un altro dei suoi soci in affari fu addirittura papa Paolo II, che egli persuase a prendere parte a una compagnia per lo sfruttamento dell'allume napoletano e dei depositi di Tolfa, scoperti di recente, sperando, grazie a questo consorzio, di proteggere la produzione napoletana (verso il 1472 l'allume romano, di qualità superiore, avrebbe invece reso antieconomiche le miniere napoletane).

Maggiore successo ebbero i suoi sforzi per stimolare la produzione tessile. Cominciando con seta e broccati, firmò un accordo con Marino di Cataponte, un imprenditore veneziano- che si accingeva a impiantare una manifattura a Napoli in cambio di una sovvenzione in contanti, del permesso di importare tutti i materiali grezzi senza pagare il dazio, della cittadinanza napoletana e di un proprio tribunale per gli operai. Nel corso degli anni Settanta attirò mercanti fiorentini e genovesi con concessioni analoghe. Uguale incoraggiamento venne dato alla produzione di tessuti di lana e anche alla nuova arte della stampa, impiantata a Napoli nel 1471 da Sisto Riessinger con il patrocinio reale.

E mentre il Summonte certamente sbagliava quando asseriva che metà della popolazione della capitale viveva di questa produzione di lusso, era invece probabilmente nel giusto quando affermava che un simile sviluppo attirava un gran numero di immigranti dalla provincia e dall'estero. Una prova tangibile dell'ampliamento della città è data dalle nuove mura orientali - lunghe circa 2 Km - per le quali F. pose la prima pietra il 3 luglio 1484; nel 1490 erano virtualmente completate e si progettava di estendere le mura occidentali. Divenne anche una moda per i grandi nobili farsi costruire sontuosi palazzi nella capitale, inclinazione incoraggiata da Ferdinando. Molte città di provincia partecipavano, almeno in parte, a questa prosperità: Lanciano, come centro per la produzione di ricami, Foggia con la sua grande fiera della lana, L'Aquila con la produzione di prodotti di lana a buon mercato, i possedimenti calabresi del principe di Bisignano con le piantagioni di canna da zucchero, Catanzaro grazie alla produzione della seta promossa dalla sua comunità ebraica, tessuti ad Amalfi, vetri a Salerno, seta a Cava. Venti anni di pace interna a e di governo intelligente determinarono in tal modo una modesta crescita economica e una generale prosperità, spazzata via dalle calamità che colpirono il Regno dopo la morte di Ferdinando.

La spinta a infondere nei suoi sudditi maggiore vigore economico, unita alla diffidenza verso i baroni, indusse F. a un programma di misure destinate a dare alla popolazione in genere una maggior grado di libertà nella vita quotidiana. Una legge del 1466, che mirava a frenare l'abbandono delle terre e di conseguenza una diminuzione delle culture, diede facoltà di disporre liberamente dei propri prodotti invece di doverli vendere, come accadeva spesso, al signore locale al prezzo da lui fissato; nel 1482 fu promulgata una legge che regolava l'esazione dei sussidi feudali, garantiva il diritto di pascolo, annullava tutte le recinzioni recenti e aboliva le pretese baronali di monopolio delle locande e osterie. Infine, nel maggio 1487, dopo la seconda rivolta dei baroni, F. dichiarò: "In questo regno tutti gli abitanti devono essere uguali fra loro ed ognuno deve godere liberamente i diritti garantiti dallo Stato ... Nui non volimo che nostri sudditi siano usurpati, mangiati né indebitamente angariati, ma ben recti, tractati et governati con libertà, et che omne uno possa godere liberamente lo suo, accio decti nostri sudditi non habbiano ad attendere ad altro che ad industriarse senza altro impedimento" (cit. da E. Pontieri, La Corona d'Aragona e il Mediterraneo, in IX Congresso di storia della Corona d'Aragona, Napoli 1973, Napoli 1978, p. 10).

Questo stesso spirito rese il regno di F. un momento importante per le libertà comunali. Il re stesso concesse statuti alle città demaniali e sanzionò con il suo placet quelli concessi dai baroni. In ciò si scorge non solo una tendenza verso una maggiore uniformità nel governo municipale, ma anche la crescita di una aristocrazia urbana favorita dal re come contrappeso alla nobiltà feudale. Lecce offre a questo proposito un esempio molto istruttivo: gli statuti del 1479 stabilivano la parità in Consiglio fra gli artigiani e gli esponenti più alti della società, anche se relegavano i primi nelle cariche municipali minori. La predilezione per la condizione demaniale era talmente consolidata da far affermare all'ambasciatore fiorentino nel novembre 1485 che molte città "desiderano piutosto essere in domanio che sotto Signori per i tristi tractamenti che hanno da loro". All'interno di queste Comunità urbane gli ebrei in particolare avevano motivo di apprezzare la protezione loro accordata sull'esempio di Alfonso, protezione che li metteva in grado di svolgere una notevole attività come artigiani e piccoli commercianti in Puglia e Calabria.

Gli umanisti delusi tracciarono un profilo negativo di F. patrono delle arti e della cultura: privo dell'entusiasmo del padre per gli studi classici e filosofici, egli spostò il campo del mecenatismo regale verso quelli funzionali, dimostrando interesse piuttosto per gli scritti in volgare e per quelli di indirizzo pratico, come i trattati politici e militari del suo amico Diomede Carafa, e rimanendo comunque sempre uno spettatore, senza mai raggiungere una qualche abilità stilistica né in catalano, né in italiano, né in latino. L'uso sempre più raro a corte del castigliano e del catalano favori quello del dialetto napoletano, e in particolare promosse negli ambienti di corte la moda di una poesia dialettale in cui si fondevano la tradizione colta e quella popolare, in modo non dissimile da quanto avveniva a Firenze con Lorenzo de' Medici. Questa cultura in volgare si dimostrava più accessibile anche al di fuori della corte, diffondendo l'alfabetizzazione fra la nobiltà e incoraggiando la crescita di una letteratura popolare che trova il suo migliore esempio nel Novellino di Masuccio Salernitano.

La biblioteca reale fondata da Alfonso continuo a crescere ad un ritmo imponente, grazie agli acquisti, ai doni, alla confisca delle collezioni dei ribelli, ma F. non condivise il vivo desiderio del padre di attirare a Napoli umanisti di fama internazionale: i più famosi - il Beccadelli e il Pontano - erano già a corte quando F. salì al trono, per il resto si accontentò di talenti provenienti dal Regno. Appoggiò invece l'università di Napoli, riaperta nel 1465 con un corpo docente di ventidue membri, molto più di quanto avesse fatto il padre, e concesse che al corso di studi tradizionale fosse aggiunto lo studio umanistico del greco e del latino, anche se, in realtà, il suo scopo era forse stato quello di ripristinare il monopolio universitario degli studi superiori sotto uno stretto controllo statale, così come lo aveva concepito il suo fondatore Federico II. Nel 1478 aveva una tale fiducia nelle possibilità offerte dall'università di Napoli da proibire ai suoi sudditi di studiare o di ricercare il dottorato fuori dal Regno. Anche gli insegnanti erano reclutati nel Regno e, fra i pochi stranieri incaricati, solo il fiorentino Francesco Pucci trovò l'ambiente napoletano abbastanza allettante da rimanervi per sempre.

Per quanto riguarda le belle arti F. non poté vantare risultati tali da compensare la distruzione degli affreschi di Giotto nel corso dei lavori da lui ordinati in Castelnuovo, palazzo di cui completò la costruzione e la decorazione utilizzando artigiani di provenienza quasi esclusivamente italiana. Pietro da Milano, uno dei meno dotati del gruppo di artisti chiamati da Alfonso, ritornò con Francesco Laurana per completare l'arco di trionfo (1465) e per eseguire alcuni busti della famiglia reale. Le splendide porte di bronzo, con la rappresentazione del trionfo del re nella guerra di successione, furono opera di Guglielmo Dello Monaco, un parigino che aveva servito Alfonso come fabbricante di cannoni, orologi e campane. Verso la fine della sua vita F. progettò anche la costruzione di un grande edificio, un enorme palazzo in stile rinascimentale destinato forse ad accogliere l'amministrazione e la corte di giustizia, ma che non oltrepassò mai il tavolo da disegno.

L'arte per cui dimostrò un vero entusiasmo, e in cui i suoi gusti si avvicinavano di più a quelli di Alfonso, fu la musica: ricercò di continuo cantanti educati alla scuola di Borgogna; esperti costruttori di organi ricevevano un caldo benvenuto e agli inizi degli anni Settanta Iohannes Tinctoris giunse a Napoli per completare la schiera di talenti attivi nella cappella di corte e per sviluppare la tradizione della polifonia secolare, in modo che la città partenopea primeggiò su tutta l'Italia per la maggior parte del secolo. Allo stesso F. si attribuisce una certa abilità di strumentista.

Come suo padre anche F. era attaccato al cerimoniale religioso, professava la stessa devozione per il culto della Vergine, lavava i piedi dei poveri il venerdì santo, assisteva alla messa in ginocchio; ma faceva la stessa distinzione fra la devozione e il corpo politico della Chiesa. Per quel che riguardava quest'ultimo, cercò di sottoporlo al suo controllo, sia insistendo per la nomina di prelati obbedienti sia tramite suo figlio Giovanni, cardinale per pochi anni, cui conferì un gran numero di benefici (gli arcivescovati di Taranto, Salerno e Cosenza, l'abbazia di Montecassino e molti altri). Disponeva a suo piacimento dei benefici minori, spesso a vantaggio del suo Tesoro, assoggettando i privilegi ecclesiastici alla ragion di Stato e tenendo a bada il potere papale col sottoporre i mandati pontifici all'exequatur reale.

Non c'è dunque da meravigliarsi che anche nel ventennio di pace esterna con cui inizio il regno F. si sia spesso trovato in disaccordo con il suo signore feudale. Quando interessi strategici ed economici e obblighi feudali legavano insieme inesorabilmente il Regno e lo Stato della Chiesa, era inevitabile che nascesse il problema del predominio dell'uno o dell'altro.

Dopo una lunga e dura lotta, Alfonso il Magnanimo aveva temporaneamente risolto la questione in proprio favore, ma suo figlio, che disponeva di minore potere, dovette lottare tutta la vita contro l'ambizione papale. La morte lo aveva liberato dall'ostilità implacabile di Callisto III, ma era stato costretto a fare larghe concessioni a Pio II per assicurarsi la successione; il pontificato del papa veneziano Paolo II (1464-71) aveva visto i tentativi di F. di riprendere il sopravvento e di riappropriarsi di ciò che aveva dovuto forzatamente cedere, mentre Paolo puntava a consolidare il vantaggio papale abolendo l'ultimo e più importante privilegio di cui godeva il suo vassallo, vale a dire il diritto di offrire ogni anno una chinea bianca al posto degli 8.000 marchi dovuti a riconoscimento della suprema signoria papale. Motivi di lite derivarono anche da questioni più terrene: il re difendeva i nobili di Tolfa dagli sforzi del papa di ottenere il controllo sulle miniere di allume, mentre questi, dal canto suo, reclamava i suoi diritti sui depositi di allume di Pozzuoli e Agnano. Si arrivò allo scontro aperto nel 1469, quando truppe napoletane comandate dal duca di Calabria contribuirono al fallimento del tentativo di Paolo Il di soggiogare Rimini.

Quando il suo successore, Sisto IV (1471-84), accordò a F. l'esenzione a vita dal censo feudale, l'ago della bilancia sembrò inclinarsi in favore del potere regio. F. inoltre aveva scoperto nell'ambiente dei nipoti di Sisto IV una efficace leva per esercitare la propria influenza sulle faccende romane.

L'appoggio di Napoli, come si era dimostrato, poteva essere decisivo, specie dopo la congiura dei Pazzi (1478-80), quando le truppe del re, guidate una volta di più dal duca di Calabria, avevano conseguito notevoli vittorie nell'Italia centrale. Questo risultato, frutto di lunghi anni di tranquillità interna ed esterna, fu coronato dall'arrivo a Napoli (dicembre 1479) di Lorenzo il Magnifico per chiedere la pace: F. era giunto al culmine della fortuna, in apparenza arbitro dell'Italia.

In realtà si era spinto troppo oltre, profondendo grosse somme per operazioni militari che in cambio non avevano portato né territori né introiti e contribuendo a distruggere la fragile intesa che per un quarto di secolo aveva mantenuto la pace fra gli Stati italiani. Il vero obiettivo, come anche quello delle trattative condotte in quegli anni per i matrimoni spagnoli, ungheresi e borgognoni, non era stato però tanto quello di stabilire l'egemonia sull'Italia, quanto quello di trovare fra le ingannevoli correnti politiche dell'epoca una qualche sicurezza per sé e la sua dinastia. Ciò nonostante le ombre di Ladislao di Durazzo e di Alfonso tormentavano ancora le corti italiane e i nobili del Regno, che vedevano una minaccia nell'avanzata del potere di Ferdinando.

E poco plausibile che il sultano Maometto II, nell'agosto del 1480, si sia impegnato nella spedizione contro Otranto su richiesta dei nemici italiani di F., anche se, in effetti, dovette sentirsi incoraggiato dall'evidente disordine che regnava nella penisola. L'invasione turca cambiò drammaticamente il corso della fortuna del re, poiché il duca di Calabria, abbandonata la campagna in Toscana, dovette scendere velocemente verso il Meridione per affrontare gli invasori, mentre F., atteggiandosi a campione della Cristianità, lanciava fervidi appelli di aiuto a tutti gli Stati europei. Esitò a lungo prima di abbandonare completamente le conquiste fatte nell'Italia centrale in cambio dell'aiuto di Firenze e Milano, ma non trovò altre potenze pronte a soccorrerlo, e nonostante l'arrivo, sia pure tardivo, delle galee papali e delle truppe ungheresi, il carico maggiore della resistenza ai Turchi ricadde sulle sue disastrate risorse. Il plauso rivolto a lui e al figlio quando il nemico fu costretto ad evacuare Otranto, il 10 sett. 1481, costituì un ben magro risarcimento.

Considerando la potenza napoletana indebolita al punto di non poter reagire, Venezia colse l'opportunità per eliminare un rivale cui aveva guardato con timore fin da quando gli Aragonesi si erano stabiliti sulle sponde dell'Adriatico. Nel 1482 le forze della Repubblica, con il beneplacito di Sisto IV, piombarono sugli alleati di F., gli Estensi di Ferrara, e contemporaneamente si spinsero contro le coste della Puglia e degli Abruzzi: Gallipoli si arrese alla flotta veneziana. I baroni scontenti cominciarono ad agitarsi. Mentre uno dei figli, Federico, si batteva per contenere la minaccia da quel lato, suo fratello Alfonso, duca di Calabria, portava un esercito contro Roma nel tentativo di costringere Sisto IV alla neutralità. Ma subì una pesante sconfitta, e solo le tempestive minacce spagnole riuscirono a staccare il papa da Venezia. La lotta per la liberazione di Ferrara assunse di conseguenza per F. il carattere di una crociata. Si gettò entusiasticamente nella guerra al fianco di Milano, governata ora dal suo protetto di un tempo, Ludovico Sforza, e ne fu ricompensato da alcuni notevoli successi campali e dalla vittoria della flotta di Federico nell'Adriatico; ma verso la fine del 1483, dato che le sue risorse finanziarie cominciavano ad assottigliarsi sotto il logorio delle continue guerre, si trovò nell'impossibilità di pagare le truppe, con conseguente capovolgimento della situazione. Contemporaneamente Ludovico Sforza, temendo che il re, in caso di vittoria, potesse esautorarlo in favore del legittimo duca Giangaleazzo (fidanzato con Isabella, nipote di F.), intavolò trattative separate con Venezia. La pace di Bagnolo del 7 ag. 1484 costrinse si i Veneziani a restituire tutte le loro conquiste, ma lasciò Napoli esausta militarmente e finanziariamente.

Per far fronte alla situazione e pagare i debiti contratti con le banche F. dovette imporre un aumento del 50% delle tasse sui fuochi e sul sale, offrendo così un'utile arma di propaganda ai suoi nemici interni. Alcuni di questi, fra cui i principi di Bisignano e di Rossano e il marchese di Bitonto, si erano compromessi con Venezia durante la guerra e temevano la vendetta del re, una volta tornati tempi migliori. Raccolsero intorno a loro anche altri, amici e parenti, persuadendoli che le circostanze si dimostravano favorevoli a un nuovo sforzo per rovesciare la dinastia aragonese prima che l'incessante accaparramento di territori da parte della famiglia reale e dei suoi alleati facesse irrevocabilmente cambiare la situazione a loro danno. Giustificavano la rivolta con l'aggressività del regime, attribuendo al duca di Calabria, così temibile dal punto di vista militare, il ruolo di genio del male di un monarca ormai vecchio. Il duca era tornato dalla guerra - sostenevano - intenzionato a punire coloro che lo avevano abbandonato a Otranto e in Toscana, e perfino chi era stato leale aveva ragione di temere se egli fosse riuscito a portare a termine i suoi progetti, come l'eliminazione di tutti i possessi baronali nel raggio di 30 miglia da Napoli. La loro causa fu inaspettatamente favorita dall'elezione di un nuovo papa, Innocenzo VIII (29 ag. 1484), che ben presto si rivelò ostile a F. e, spinto dal miraggio di ampliare il proprio potere temporale, respinse la richiesta del re di mantenere la remissione del censo in considerazione delle spese affrontate nella guerra contro i Turchi. Una volta di più i baroni potevano contare sull'alleanza papale.

F. aveva avuto sentore di quello che si andava preparando, poiché fra i baroni aveva anche degli amici oltre che dei nemici, e prese misure nei confronti di alcuni dei cospiratori meno importanti con la speranza di dissuadere i maggiori. Nel maggio 1485 il duca di Calabria si recò negli Abruzzi, apparentemente per ispezionare le truppe stanziate in quella zona da sempre ostile, e trovò L'Aquila nettamente contraria a nuove gabelle; poco dopo, alla fiera di Lanciano, vennero sequestrati i beni dei mercanti aquilani e il signore del luogo, il conte di Montorio, venne messo agli arresti domiciliari a Napoli. Furono catturati anche due figli e una sorella di Orso Orsini, duca di Ascoli e conte di Nola, ma i nobili, senza scoraggiarsi, continuarono a complottare accusando il re, più o meno giustificatamente, di una serie di abusi, frutto, secondo loro, del suo dispotismo. Innocenzo VIII, nell'ottobre 1485, riprese queste accuse rimproverando a F. la trasformazione di terre fertili in riserve di caccia, le richieste di denaro per dare il proprio consenso ai matrimoni dei nobili, la revoca arbitraria di vendite di terre, la mutilazione dei bracconieri, le tasse gravose, le ingerenze nelle vicende ecclesiastiche ed altro ancora. Dietro le denunce papali stava il maggiore avversario di F., il cardinale Giuliano Della Rovere che, quando il rappresentante dei re offerse al pontefice la bianca chinea al posto del censo feudale (29 giugno 1485), convinse Innocenzo VIII a rifiutarla, rimettendo così in discussione sia il possesso del trono da parte del re sia il diritto alla successione del figlio. In seguito il cardinale si adoperò con tutte le sue forze per organizzare una grande coalizione di baroni. Papato, Francesi e Veneziani con lo scopo di spodestarlo.

Ossessionato dal ricordo del 1459, F. cadde in preda alla melanconia mista a panico. Non era in grado di dire fino a che punto si era allargata l'ostilità, quali nobili, alla fine, avrebbero sguainato la spada contro di lui, né aveva fiducia in un eventuale appoggio della Lega italica, dilaniata dalle discordie; di conseguenza cercò di prendere tempo. Mandò a Roma il figlio Giovanni, il cardinale di Aragona, per abboccarsi con Innocenzo VIII e per cercare appoggi nel Collegio cardinalizio, giorno dopo giorno arringò gli ambasciatori di Firenze e di Milano sulla necessità di una inequivocabile dimostrazione di aiuto da parte dei loro Stati; in patria tentò di calmare gli avversari più pericolosi ponendo riparo alle loro rimostranze. Dal canto loro costoro fingevano di aderire alle sue proposte di accordo, ma intanto aspettavano un cenno da Roma per completare i preparativi e dare il segnale della rivolta. Questa scoppiò il 26 sett. 1485 all'Aquila con una sommossa organizzata dal cardinale Giuliano Della Rovere per mezzo di suo fratello Giovanni, duca di Sora e Arce. I ribelli innalzarono il vessillo papale sulla città e Innocenzo VIII appoggiò con una bolla la causa dei baroni (14 ottobre).

I dispacci degli ambasciatori milanesi e fiorentini a Napoli durante l'inverno 148586 ritraggono F. in uno stato d'animo scoraggiato, talvolta disperato, e tuttavia, quando sopraggiunse la crisi, egli reagì con energia. Riprendendo la tattica seguita durante la prima ribellione, si stabilì a Foggia per tenere d'occhio le province orientali, mentre il duca di Calabria, coadiuvato da Virginio Orsini al soldo di Firenze e Milano, si affrettava a risalire verso Nord per affrontare le forze papali. In realtà non era il re a esitare, bensì gli oppositori, che non gettarono la maschera fino al 19 novembre, quando furono sicuri dell'arrivo a Roma del condottiero Roberto Sanseverino, che doveva assumere il comando delle forze papali; subito dopo innalzarono le insegne del papa su Salerno (quartier generale di Antonello Sanseverino principe di Salerno) e presero prigioniero il principe Federico d'Aragona, recatovisi per negoziare, al suo rifiuto di accettare il ruolo di pretendente al trono contro il fratello Alfonso.

Anche se la situazione di quell'inverno dovette sembrare a F. tristemente simile a quella della prima crisi del suo regno, in realtà era molto meno pericolosa. Gli anni trascorsi erano stati testimoni di uno stabile spostamento del potere, per quel che riguardava le città e terre, a favore della Corona; anche se molti personaggi di primo piano si erano ribellati, la maggioranza restava però fedele; inoltre il re, con l'aiuto dei figli, era veramente riuscito, anche a costo di grosse spese, a monopolizzare quasi integralmente il potere militare all'interno del Regno. Quando si giunse allo scontro i ribelli non poterono radunare neanche 300 uomini d'arme e con simili forze, disseminate qua e là per il Regno, non restava loro altro da fare che presidiare le loro roccaforti e confidare negli alleati esterni. A F. invece bastavano solo piccoli contingenti per tenerli d'occhio e catturarli uno per uno, mentre il grosso dell'esercito appoggiava l'attacco contro Roma del duca di Calabria.

Anche all'estero la situazione si era volta in suo favore: la Firenze di Lorenzo de' Medici, ostile ad ogni aggrandimento del potere papale, stava fedelmente dalla sua parte; sulla sua scia si poneva la Milano di Ludovico Sforza; Venezia, contraria ad alleanze non predisposte dalla propria diplomazia, respingendo gli approcci dei ribelli adottava un atteggiamento di rigida neutralità. Renato di Lorena, erede delle pretese angioine, si era trovato troppo coinvolto nei problemi relativi alla Bretagna per preoccuparsi dell'Italia, mentre Ferdinando il Cattolico arruolò a sue spese in Sicilia un migliaio di uomini per aiutare il cugino e mandò le galee spagnole a bloccare i porti ribelli. F. poté così concentrare le sue forze su Roma, con il risultato che nei primi mesi del 1486 Innocenzo VIII si trovò minacciato da tutte le parti e in disperate ristrettezze economiche. Le due armate principali si affrontarono a Montorio il 7 maggio 1486 e lo scontro terminò con una clamorosa vittoria del duca di Calabria. Minacciato dall'appello a un concilio e temendo quindi di essere deposto, Innocenzo VIII non aveva altra scelta che accettare il negoziato, e l'n agosto il Pontano poteva firmare un trattato in nome del suo signore.

Visto l'esito favorevole della guerra, il re aveva acconsentito a stipulare accordi decisamente generosi per i suoi avversari, promettendo il perdono a tutti i ribelli e per di più il pagamento del censo alla S. Sede, ma l'inchiostro si era appena asciugato sul trattato che egli sferrò un colpo clamoroso contro un gruppo di traditori che si annidava nel cuore stesso del governo. Accadde il 13 ag. 1486: mentre una gran folla si era radunata nel grande salone di Castelnuovo per celebrare il matrimonio della nipote del re, Maria, con il figlio del conte di Sarno, a un segno di F. le guardie si impadronirono di Francesco Coppola, dei suoi figli e del regio segretario Antonello Petrucci, mentre fuori del palazzo i suoi agenti rastrellavano i figli del Petrucci, il fratello del Coppola, Anello Arcamone, già inviato della corte aragonese a Roma, Joan Pou, intermediario nelle trattative con i ribelli, e le loro mogli. Nei processi vennero messi in evidenza documenti sequestrati, che li dimostravano tutti implicati e che successivamente furono stampati a spese del re e diffusi in tutta Europa a giustificazione del suo agire. Si dice che il Petrucci e il conte di Sarno abbiano confessato, rinunziando a difendersi; nessuno fu protetto dal trattato dell'11 agosto, che si riferiva solo ai ribelli confessi. Nonostante il sospetto che F. fosse stato influenzato dall'inimicizia del figlio Alfonso e della famiglia Carafa nei riguardi dei colpevoli e spinto dal desiderio di incamerare le loro proprietà del valore di 300.000 ducati secondo le stime, i contemporanei non condannarono il modo in cui furono arrestati né la loro successiva condanna; al contrario: "Stringere, sbattere et expugnare gagliardamente et omnino eradicarlo" era, secondo Ludovico Sforza, il modo adeguato di trattare un traditore.

Per quanto F. avesse agito il più possibile secondo il dettato della legge, il suo comportamento non rassicurò affatto i ribelli, che in ogni caso, non potendo sperare nell'aiuto di Roma o di altri, non avevano altra scelta che accettare il trattato e deporre le armi prima di venire completamente schiacciati dal peso del potere reale. Per prima cosa si riunirono a Lacedonia l'11 settembre, giurarono di restare uniti e ottennero da un legato papale dispensa da ogni futura rottura della fedeltà al re, poi mandarono il conte di Mileto a Napoli a rendere omaggio a nome di tutti. Il conte non ci mise molto a scoprire da che parte soffiava il vento, poiché F. respinse bruscamente gli accordi presentati a nome dei baroni come "sinistri et di mala natura", e il loro avvenire apparve ancora più tetro quando il duca di Calabria rientrò nel Regno con l'esercito alla fine di ottobre costringendo a una resa incondizionata i baroni di Puglia (Altamura, Melfi, Bisignano) ed in fine il principe di Salerno. Alla maggior parte venne chiesto di restare nella capitale sotto sorveglianza, condizione che il principe di Salerno trovò così sgradevole da fuggire a Roma nel gennaio 1487, e di lì in Francia, seguito in giugno dal conte di Popoli; gli altri rimasero alla mercé del re. Ogni speranza di salvezza dall'esterno era scomparsa, nonostante tutti gli sforzi del cardinale Della Rovere per alimentare l'indignazione di Innocenzo VIII a causa della condotta del re e per riattizzare le braci della guerra: il Papato si trovava in pessime condizioni e nell'impossibilità di agire.

Ma se i nobili avevano riserve mentali per quanto concerneva la loro sottomissione, lo stesso avveniva per Ferdinando. Già nel maggio 1486 aveva rivelato al duca di Calabria il suo disegno di agire contro di loro e aveva ordinato a Federico di preparare la "disfattione" del Bisignano "con tale forma che mai più non haverà modo malignare contra nui"; una parte del piano consisteva nell'inipadronirsi delle loro roccaforti e nel tenerli sotto controllo a Napoli. Quando il conte di Mileto tentò di fuggire con il figlio minore dei principe di Salerno (giugno 1487), le confessioni estorte al fuggitivo persuasero il re ad andare oltre, e ne seguì una serie spettacolare di arresti: i principi di Altamura e Bisignano, i duchi di Nardò e Melfi, il conte di Lauria, la contessa madre di Sanseverino e molti altri vennero gettati in prigione con le loro famiglie. I processi misero in luce il complotto che aveva seguito la pace del 1486, tradimento che F. ebbe cura di divulgare insieme con i misfatti del Petrucci e del Coppola, come la cosiddetta congiura dei bargni. Ma mentre il Petrucci e il Coppola vennero decapitati alla porta di Castelnuovo (11 maggio 1487), egli decise di non fare dei grandi nobili un pubblico esempio e di non sottoporli a processo formale. Scomparvero, invece, nelle prigioni di Castelnuovo, diventando l'oggetto di sinistre leggende: una delle meno impressionanti narra che quattro anni più tardi furono rinchiusi in alcuni sacchi alla vigilia di Natale e gettati in mare. In ogni caso, qualunque sia stato il loro destino, non furono mai più visti vivi. Così, alla vigilia della propria morte, F. eliminò tutti coloro che considerava un pericolo mortale per la sopravvivenza dello Stato. Una parte delle loro ricchezze andò a impinguare i suoi vuoti forzieri; tutto il resto - la maggior parte - e soprattutto le terre fu in qualche modo restituito alle famiglie delle vittime o assegnato ai nobili che si erano dimostrati fedeli.

Finalmente il baronaggio napoletano non costituiva più una minaccia mortale per la pace interna o un utile alleato per un eventuale invasore; anche il Papato era domato, e anche se Innocenzo VIII denunciò il trattamento riservato dal re ai baroni come una flagrante violazione del trattato, F. non solo negava il diritto del papa a intervenire, ma si sentiva sufficientemente sicuro da rifiutare il censo, sostenendo di avere speso un 1.000.000 di ducati per aiutare Sisto IV nelle sue guerre. Negli anni seguenti offrì regolarmente la chinea bianca al papa e ogni anno Innocenzo VIII la rifiutò, minacciando sanzioni che nel settembre 1489 sfociarono in una condanna alla scomunica e alla deposizione, ricambiate da F. con richieste di appoggio ai suoi alleati, appelli a un concilio e minacce di guerra. Ansiosamente le potenze italiane, e la Spagna, per timore che Innocenzo VIII mettesse in atto la sua minaccia di gettarsi in braccio alla Francia, esortarono i contendenti a cessare le ostilità e, grazie in gran parte agli sforzi di Lorenzo de' Medici, nell'estate del 1491 iniziarono seri negoziati che il 27 genn. 1492 condussero ad un trattato, con il quale F. ottenne ciò che voleva: il riconoscimento del diritto alla successione di suo figlio e la remissione del censo vita natural durante. Ma ben presto la validità di questo accordo fu messa in discussione, quando Innocenzo morì il 25 luglio 1492 e l'11 agosto gli successe Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, nipote del vecchio avversario del re, Callisto III.

Nonostante le diplomatiche dichiarazioni iniziali di simpatia reciproca, il re e il papa si tenevano d'occhio con vivo sospetto. Da parte di Alessandro VI si giunse rapidamente alla convinzione che F. stesse tramando di mettere un cappio al collo dei Romani attraverso gli Orsini, fornendo a Virginio i fondi per consistenti acquisti di terre. Cesare Borgia e il cardinale Ascanio Sforza., fratello di Ludovico il Moro, si impegnavano a fondo per allargare la spaccatura, il primo mosso da ambizione personale, il secondo influenzato dalla diffidenza sempre crescente fra Napoli e Milano. Un primo affronto era stata la nomina, nel 1487, di Ludovico Sforza a principe di Rossano e non, come sperava, a principe di Salerno; ancora peggio, nel dicembre 1488 era stato celebrato il matrimonio, da lungo tempo progettato, fra Isabella d'Aragona e Gian Galeazzo Sforza, il duca di Milano, che Ludovico aveva tenuto sotto tutela ben oltre il raggiungimento della maggiore età. Anche se il giovane duca accettava remissivamente la superiorità dello zio, Isabella era di ben altra stoffa, e le sue proteste per l'impotenza politica e sessuale del marito cominciarono ben presto a preoccupare Napoli. Pur essendo meno incline del padre di Isabella, il duca di Calabria, a mettere le carte in tavola, F. ritenne necessario spedire a Milano due delegazioni nel dicembre 1489, una per sottoporre ad un esame medico la coppia ducale, l'altra per convincere il Moro dell'inconvenienza di un'usurpazione del trono ducale. Anche se il re aveva espresso la sua esortazione nei termini più delicati., il Moro la interpretò come un segnale che Napoli avrebbe favorito un eventuale cambiamento dell'assetto di governo a Milano, e i suoi timori aumentarono quando Gian Galeazzo, nel 1491, vinse la sua impotenza e generò un erede.

Ludovico, per ovviare a questa situazione, sposò Beatrice d'Este (gennaio 1491), che ben presto gli diede un figlio, e si premunì dal lato diplomatico concentrando la sua attenzione sui potenziali nemici di F., papa Alessandro VI e Carlo VIII, l'infaticabile giovane re di Francia ora erede delle rivendicazioni angioine. Gli esuli napoletani presso la corte francese operavano nello stesso senso, con il risultato che Carlo VIII decise di guadagnarsi gli allori in Italia, e verso la fine del 1492 iniziò a concludere con i suoi maggiori avversari i negoziati che gli avrebbero permesso di avere le mani libere per questa impresa. Nel giugno 1493 Ludovico ricevette la notizia che "l'impresa del Reame de Napoli" era imminente.

F. riceveva più di un segnale della tempesta che si andava addensando, ma non si dimostrava eccessivamente preoccupato: Venezia non aveva incoraggiato in alcun modo i Francesi; la Firenze di Piero de' Medici, l'erede di Lorenzo unitosi in matrimonio nel 1487 con una Orsini in Castelnuovo a Napoli, avrebbe dovuto rimanere fedele all'alleanza con Napoli; per quanto riguardava Alessandro VI, un viaggio a Roma di Federico d'Aragona (giugno 1493) definì il problema delle proprietà degli Orsini e offrì a uno dei figli del papa, Goffredo, il matrimonio con una fanciulla della casa reale e il principato di Squillace. "Ad noi pare che le cose nostre, liavendo sua Sanctità, siano totalmente assecurate" confidava F. a Federico, anche se la sua sicurezza non era basata esclusivamente sul sostegno delle potenze italiane. Nell'autunno del 1492 cominciò a mettere in stato di allerta armata il Regno. Alfonso di Calabria si incaricò delle truppe di terra che avrebbero dovuto raggiungere i 3.000 uomini d'arme; Federico fu incaricato della flotta, per la quale si prefisse un obiettivo di cinquanta galee; banchieri, soprattutto catalani, fornirono il denaro. Se si fosse giunti alla guerra, F. era fiducioso nella possibilità di battere i Francesi, considerati nettamente inferiori agli Italiani come combattenti. Una settimana prima di morire scriveva "noi et nostri figlioli et nepoti ne adiutarimo con le mano, con li pedi et con omne membro": non si sarebbero arresi, ne era sicuro, senza avere lottato con tutte le loro forze.

Morì il 25 genn. 1494 a Napoli.

Quest'uomo tenace conservò la salute fisica e la lucidità mentale fino alla fine della sua vita; il suo corpo robusto e muscoloso rinsecchì nella vecchiaia e i folti capelli scuri, tagliati corti nel fiore degli anni, divennero bianchi e lunghi, ma si ricordano di lui solo poche malattie serie. Modesto nel mangiare e nel modo di presentarsi, anche se elegante nei modi e nel vestire, ereditò l'amore del padre per il cerimoniale e la magnificenza, come dimostrano le accoglienze fatte ad una ambasciata borgognona nel 1472 - una delle più grandiose manifestazioni di splendore principesco dell'epoca, secondo il Pontano - e i festeggiamenti in occasione del matrimonio del duca di Calabria. Era affascinato, come altri principi, dalle fastose cerimonie degli Ordini cavallereschi, e avendo perso il controllo dell'Ordine aragonese della giarra e del giglio a favore di Giovanni II fondò l'Ordine dell'ermellino con il motto "Malo mori quam foedari", che conferiva con liberalità ricevendone in cambio Ordini come il toson d'oro e la giarrettiera. La passione giovanile per gli aspetti più mondani della cavalleria - i tornei, la caccia, le cavalcate - durò ben oltre la maturità, aiutandolo a conservare la forza fisica.

Gli anni di pace che seguirono la prima ribellione, gli impedirono ulteriori imprese militari, e quando ricominciò la guerra nel 1478 F. preferì affidare l'esercito al bellicoso primogenito Alfonso. L'influenza esercitata dal principe sul padre nelle questioni civili è argomento di discussione: certamente sostenne un ruolo molto più importante e decisivo di quanto avesse fatto a suo tempo F. come duca di Calabria, e la sua reputazione di uomo autoritario e inflessibile fece si che molti nobili vedessero in prospettiva con apprensione la sua ascesa al trono. In modo analogo, il re confessava francamente al corpo diplomatico riunito nel settembre 1485: "de' baroni haveva sentito che diffidavano della maestà del Re, et molto più del Duca dapoi la morte del Re", come riferito da un ambasciatore fiorentino (E. Pontieri, La "guerra dei baroni", [1970], p. 242). Non avendo mai superato la diffidenza della giovinezza, trovò conveniente ripararsi dietro la brusca sicurezza di sé del duca, proprio come spesso aveva l'abitudine di servirsi di altre persone per trasmettere notizie sgradevoli. D'altra parte non c'è nessuna prova che egli abbia mai rinunciato a un controllo coscienzioso e metodico sullo Stato; anzi, a molti sembrò che, lungi dal perdere con l'età la padronanza di sé, egli avesse acquistato sicurezza. L'ambasciatore fiorentino Bernardo Rucellai, per esempio, scriveva nel 1487: "la maestà del Re si governa più saviamente l'uno di che l'altro come quello che è ogni di più vecchio, et per consequente intende meglio le cose sue" (E. Pontieri, La "guerra dei baroni", [1973], pp. 221 s.).

Una delle sciagure che si riversarono sul suo regno e sulla sua famiglia dopo la morte di F. fu la sistematica campagna di denigrazione orchestrata dai propagandisti francesi, in primo luogo dal cronista Philippe de Commynes. Ma anche i suoi difensori, non trovando nulla di carismatico nel suo carattere, o pochi aneddoti che dessero colore alla sua vita, lo rappresentano come un Machiavelli ante litteram, con un senso nuovo dell'arte dei governo e mancanza di scrupoli; tuttavia, il poco che conosciamo delle sue idee e delle sue parole non ci offre alcun motivo per attribuirgli una simile originalità. Quasi tutta la sua politica, interna ed estera, e i mezzi usati per attuarla, seguivano le linee che egli aveva visto impostate durante il regno del Magnanimo, ed egli spiegò chiaramente all'ambasciatore milanese nel luglio 1465 lo scopo che lo guidava: "Antonio, tu sai in che extremità me hay veduto doppo che mori la bona memoria del S. Re mio patre; io non ho voluntà de tornargli un'altra volta et però penso, cerco et spero assecurarme per talle modo de questo mio regno che né mi né mei figlioli né li figlioli de' mei figlioli habiano ad trovarse in quello che me so trovato io". Sul letto di morte si accommiatò da quegli stessi figli con le parole: "Figlioli, siate benedetti". Poco più di un anno dopo essi erano in fuga e Carlo VIII regnava a Napoli.

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