Feticcio

Universo del Corpo (1999)

Feticcio

Enrico Comba e Salomon Resnik

Il termine feticcio (dal portoghese feitiço, "artificiale", a sua volta derivato del latino facticius, "fabbricato, costruito", e dunque anche "falso, finto") indica l'oggetto inanimato al quale viene attribuito un potere magico o spirituale, in virtù di uno spostamento semantico che trasfigura la cosa nel suo valore comune per investirla di un significato simbolico, individuale o di gruppo. Il vocabolo, adottato nel 16° secolo dai navigatori portoghesi per designare gli idoli e gli amuleti che comparivano nelle pratiche cultuali di popoli indigeni africani, fu esteso successivamente alle reliquie sacre della devozione popolare e, più in generale, a qualsiasi oggetto ritenuto immagine, ricettacolo di una forza invisibile sovrumana. Nella psicoanalisi è riferito a oggetti che, attraverso meccanismi di simbolizzazione, assumono un significato sessuale, divenendo in tal modo sostituti dell'oggetto d'amore.

La dimensione antropologica

di Enrico Comba


1.

Oggetti magici e mentalità primitiva

La prima trattazione sistematica della nozione di feticcio si deve a Ch. de Brosses (1760), il quale ravvisava nel feticismo il nucleo originario, primordiale, di ogni forma religiosa. Il culto rivolto a oggetti materiali, in legno o in pietra, rappresentava, nella sua prospettiva, il necessario esito di un pensiero primitivo non ancora in grado di procedere per astrazioni e portato quindi a fissarsi su oggetti tangibili, visibili. In essi l'uomo primitivo concentrava i timori verso fenomeni imprevedibili e incontrollabili della natura, e ne faceva il proprio oggetto di culto superstizioso. è nata in tal modo una tradizione di pensiero etnologico che per decenni ha interpretato il feticismo come un'espressione particolare di religiosità primitiva, fondata sulla paura e sull'ignoranza e caratterizzata dall'incapacità di elevarsi a forme più raffinate, spiritualizzate, di riflessione religiosa. Tuttavia, questa concezione si è rivelata ben presto insoddisfacente e pericolosamente generica: a mano a mano che si accumulavano le conoscenze sui sistemi culturali e simbolici da cui erano tratte le esemplificazioni di culto feticistico, se ne riconoscevano la complessità, la diversità, la peculiarità. La parola feticismo (introdotta nel 1887 da A. Binet) finiva per assumere significati disparati, contraddittori, tanto da causare confusione nell'uso del termine da parte di etnologi e studiosi di religioni comparate. Fu M. Mauss a porre fine alla disputa con un articolo del 1908, in cui affermava che l'oggetto impiegato come feticcio non è mai un oggetto qualsiasi: esso non viene scelto arbitrariamente, ma la sua specifica funzione simbolica è definita dal codice magico o religioso di cui fa parte. L'oggetto-feticcio non ha nulla di paradossale e di straordinario in sé, purché lo si riconduca al contesto sociale e simbolico all'interno del quale assume un proprio senso e una propria funzione. Il feticismo, pertanto, non designa più una fase primordiale della religione, né una sua particolare dimensione, piuttosto deve essere considerato un 'immenso malinteso', un 'errore di traduzione' di cui sbarazzarsi (Mauss 1969).

Caduto l'interesse per il feticismo in quanto sistema definito di credenze e atti cultuali, è rimasta l'esigenza per gli etnologi di affrontare analiticamente i vari casi di oggetti sacri, pratiche e comportamenti - riscontrabili in quasi tutte le culture - che hanno a che fare con immagini e simboli materiali, e di confrontarsi quindi con 'feticci senza feticismo' (Pouillon 1975). In numerose culture anche gli spiriti, le forze invisibili, gli dei, sono concepiti come aventi un corpo, un supporto materiale che acquista un valore simbolico specifico e costituisce una presenza enigmatica, ineludibile. Un'analisi in termini meramente simbolici, la ricostruzione della trama di significati all'interno della quale l'oggetto sacro deve essere inserito, rischiano di mettere indebitamente in ombra la dimensione oggettuale, materiale, dell'universo culturale in cui l'immagine, il feticcio, il 'dio-oggetto', possono avere rilevanza (Augé 1988). La materialità del feticcio condiziona inoltre la sua manipolabilità, l'utilizzo secondo finalità particolari, come manifestato dal termine stesso, che reca in sé l'accezione di 'cosa fabbricata'. Il senso di artificialità dell'oggetto sacro non sfuggiva agli autoctoni africani se affermavano di poter creare e distruggere i propri dei ogni giorno, di essere padroni e inventori di ciò cui sacrificavano (Lubbock 1870).

2.

L'aspetto 'selvaggio' della modernità

Nell'Ottocento, mentre si stava sviluppando nell'etnologia la tradizione di studi sul feticismo come forma di religione primitiva - aspetto, questo, del pensiero europeo che tendeva ad allontanare il fenomeno feticistico riconoscendolo soltanto presso i popoli più 'ingenui' e lontani -, altri autori cominciavano a elaborare un diverso modo di intendere il concetto, secondo prospettive che lo avvicinavano al cuore stesso del mondo moderno. In base ai nuovi orientamenti teorici, il feticismo si rivolgeva all'uomo europeo-occidentale mettendone pericolosamente in luce alcune contraddizioni e ambiguità. K. Marx (1867) introduce la nozione di 'feticismo delle merci', come caso particolare di un più generale feticismo della proprietà, che si manifesta quando i rapporti sociali di produzione assumono la forma fantastica e illusoria di rapporti tra cose. Così il valore delle merci, che ha la sua origine in un rapporto sociale ed è il risultato di un'attività economica (il lavoro), viene attribuito agli oggetti materiali, i quali possono essere scambiati fra di loro come se il valore fosse una proprietà intrinseca agli oggetti stessi. Se si prescinde dal valore d'uso delle merci - afferma Marx -, si prescinde anche dalle loro forme corporee; la merce perde le qualità sensibili a favore del valore di scambio, l'equivalente del mana che i primitivi attribuivano agli oggetti e agli animali cancellando la loro natura. Questa sorta di 'maschera', attraverso la quale il prodotto del lavoro assume in sé il valore che gli viene attribuito dal rapporto sociale di cui esso è oggetto, è per Marx la forma specifica di feticismo del capitalismo moderno, un sistema che tende a occultare la realtà dei processi sociali che stanno alla sua base. In tal senso egli mostra l'aspetto 'selvaggio' della modernità (Assoun 1994), utilizzando la nozione di feticismo come strumento di critica della società capitalistica e di svelamento della vera natura dei meccanismi che la sostengono.

Un attacco altrettanto profondo alla società moderna veniva portato alcuni anni dopo da F. Nietzsche (1889), il quale indirizzava la sua critica alle illusioni della ragione e dei suoi principali presupposti, quali il concetto di Io. Quella che i filosofi chiamano ragione per Nietzsche è un insieme di pregiudizi ed errori: se si prende coscienza dei presupposti fondamentali del linguaggio della filosofia, e quindi della ragione, si penetra in un 'rozzo feticismo'. Implacabilmente, Nietzsche mostra all'uomo moderno come la sua stessa ragione non sia altro che un feticcio, qualcosa di artificiale, di costruito, e quindi di transitorio, di 'impermanente'. Infine la psicoanalisi: se il feticismo comincia a comparire come particolare perversione nella sessuologia dell'Ottocento, dove indica l'uso di un oggetto sostitutivo dell'organo genitale come mezzo di raggiungimento della gratificazione sessuale, è nell'opera di S. Freud che esso assume la sua definitiva collocazione, in connessione con la paura di castrazione e il simbolismo fallico. Freud (1927) descrive il fenomeno come il risultato di impressioni sessuali vissute durante la prima infanzia, in cui l'oggetto-feticcio assume il significato simbolico di sostituzione del fallo mancante nella donna. In tal modo, il feticismo fornisce un mezzo di spostamento e, indirettamente, di convalida della fantasia infantile, che viene fissata su un oggetto strettamente legato al corpo femminile: indumenti intimi ecc. (v. oltre). In tutte queste interpretazioni, per quanto differenti, traspare il comune intento di collocare il feticcio al centro dell'esistenza dell'uomo moderno. Non si tratta più tanto di guardare con sufficienza a credenze esotiche e lontane, che possono solamente confermare la superiorità e la sicurezza dell'uomo occidentale. Marx, Nietzsche e Freud mostrano invece come il feticcio si annidi nel cuore stesso della modernità, mettendone in pericolo le fondamenta e rivelandone le debolezze e difficoltà. Questo è anche il senso dell'inquadramento antropologico-psicopatologico di V.E. von Gebsattel (1954), che verte sul processo di antropologizzazione posto alla base di ogni formazione feticistica.

3.

Il paradosso del feticcio

È possibile ritrovare in una molteplicità di culture di interesse etnografico alcuni meccanismi contraddittori, analoghi a quelli messi in luce dagli autori sopra considerati. Anche i feticci primitivi sono spesso oggetti esplicitamente 'fatti' dall'uomo, quali una rozza immagine, una figura, un utensile d'uso comune; in altri casi può trattarsi di un elemento naturale, una pietra, un pezzo di legno, parti di animali, ma sempre qualcosa di 'isolato', posto fuori dal suo contesto. Un esempio significativo proviene dalla tradizione cristiana medievale delle reliquie: divenivano oggetti di devozione sezioni del corpo di santi, cose inerenti al loro abbigliamento o in qualche modo connesse con la loro vita; persino le tombe, il terreno che le circondava, nonché le offerte che erano lasciate presso il sepolcro, assumevano un valore sacrale (Ellen 1988). L'oggetto cultuale rappresenta in forma concreta, visibile, palpabile, qualcosa di immateriale e inattingibile: in ciò sta probabilmente l'enigma, il paradosso del feticcio. Oggetto fabbricato, costruito o per lo meno scelto, separato a opera dell'uomo, esso diviene qualcosa di indipendente dalla volontà del suo produttore: dispone di un potere, di una forza, di una vitalità specifici. È al tempo stesso un oggetto dalle proprietà particolari e qualcosa di indecifrabile e di potente che va oltre l'oggetto; dimostra la capacità umana di produrre il proprio mondo culturale, le proprie immagini di culto, i propri dei, ma insieme ne rivela anche i limiti, perché ciò che è fatto dall'uomo può assumere un'autonomia propria; gli oggetti possono acquisire qualità analoghe a quelle degli esseri viventi e rimandare, per ciò stesso, a una dimensione che si pone al di là delle possibilità umane di controllo e di manipolabilità.

La spiegazione psicoanalitica

di Salomon Resnik


Il feticcio, oggetto inanimato, naturale o artificiale, è nelle culture primitive il 'luogo' di una proiezione religiosa: luogo che viene 'ri-fatto, ri-creato', talvolta esteticamente, in modo da riprodurre l'immagine o il ricordo di una 'assenza primordiale', fondamento del processo di simbolizzazione. Il feticcio diventa allora simbolo di un'assenza, di un'evocazione, memoria di un fatto o di un'esperienza da ricordare e venerare; in tal senso appare legato al lutto e alla commemorazione.

Freud (1927) collegò il fenomeno a un'esperienza arcaica o infantile. Il bambino, per la sua vulnerabilità psichica, ha bisogno di trasferire a un oggetto inanimato un significato animato e angoscioso che egli non può contenere psichicamente e che il suo Io non può elaborare. In generale, il feticcio si collega all'incapacità naturale dell'essere-bambino di accettare la separazione, l'assenza della madre. Un fazzoletto, la coperta della culla, la bambola, acquistano il significato simbolico di una rappresentazione concreta che occupa significativamente il posto di un oggetto assente. Ciò si collega al concetto di 'oggetto transizionale' di D.W. Winnicott (1945). L'oggetto transizionale personifica l'elemento mancante, essenziale per la vita del bambino, che in tal modo ha la possibilità di renderlo concretamente vivo e presente. Il feticcio acquista un significato connesso al lutto; esso può essere sensualizzato, erotizzato e divenire fonte di piacere.

Ancora Freud (1927) osserva come certe parti del corpo (naso, piede) assumano un significato feticistico. Egli lega il feticismo all'angoscia di castrazione che si manifesta quando il bambino, alla vista dell'organo sessuale femminile, scopre che la donna non possiede il pene: parti del corpo oppure certi oggetti-feticci vengono allora ad assolvere la funzione di sostituzione del fallo o di compensazione dell'oggetto mancante. L'oggetto mancante, o anche la realtà della sua scomparsa o morte, viene sostituito dall'oggetto-feticcio che può essere ritualizzato ed erotizzato: è un modo di negare la perdita e trasformare, così, il lutto in 'piacere erotomaniaco'.

Secondo M. Klein (1940), lo svelamento della funzione feticistica potrebbe anche scatenare a un livello paranoide panico o paura, in quanto apparizione perturbante del fantasma o 'anima smarrita' che perde il suo 'corpo-sarcofago'; a un livello depressivo può risvegliare il dolore del lutto che era condensato nell'oggetto-feticcio. Questo potrebbe allora essere concepito come luogo concreto di 'proiezione' in cui seppellire o rimuovere (Verdrängung) un sentimento di colpa, un'esperienza persecutoria, un ricordo intollerabile. Freud (1896) definisce il termine proiezione in relazione a un caso di paranoia cronica: in tale disturbo l'autoaccusa (le voci persecutorie) viene rimossa non dentro l'apparato psichico, ma fuori, nell'altro, e si mostra come accusa esterna (alloaccusa). Si potrebbe quindi affermare che nel feticcio si proietta, si condensa e si congela un vissuto minaccioso o eccessivamente idealizzato e temuto. Un fatto, un oggetto possono trasformarsi in feticcio, in quanto luogo di proiezione di una rimozione, sia in un elemento esterno sia nel proprio corpo. Nel caso di proiezione interna (feticismo corporeo), il soggetto dissocia la mente dal corpo per evitare un sentimento doloroso, depressivo o persecutorio. Il distacco della mente nel feticismo corporeo segnala un processo dissociativo dell'Io e diventa un meccanismo di difesa di tipo ipocondriaco. Si tratta di spostare a una parte del corpo, anche a un organo sessuale, un ricordo dolente che verrà feticizzato, dunque immobilizzato, concretizzato, condensato e idealizzato. Visto l'aspetto dissociativo dell'Io, Freud collega il feticismo patologico alla psicosi e alla perversione. È opportuno distinguere il feticismo patologico da quello normale, che si ritrova in qualche modo nella pratica del collezionismo: il meccanismo che muove il collezionista si collega infatti alla nevrosi ossessiva, che tende a preservare e categorizzare 'concretamente' e freddamente una realtà affettivamente investita. Nell'ambito degli studi sulla perversione sessuale, il feticismo è stato oggetto di analisi e descrizioni puntuali. H. Ellis (1897), Freud, A. Hesnard (1951) e altri autori interpretano il lutto patologico come esperienza sadomasochistica dominata da una fantasia perversa. Hesnard, in particolare, definisce il feticismo patologico espressione di un impulso o istinto sessuale che esce dal suo itinerario abituale e devia dalla sua meta per avere un nuovo significato e una nuova finalità. Dal punto di vista della fantasia magico-perversa inconscia, si tratta di trasformare, attraverso un erotismo del corpo, una realtà minacciosa e temuta in idealizzata fonte di desiderio sessuale. La venerazione feticistica appare come speranza delirante di risvegliare l'oggetto morto, come accade nella necrofilia, dove il rapporto sessuale con un soggetto inanimato costituisce un modo di resuscitarlo eccitandolo, ma è anche fonte di paura, di ritorsione arcana, di vendetta. Si può dire che il feticcio e il feticismo acquistano un significato complesso e determinante nello sviluppo della cultura umana. I rispettivi significati dipendono dai sistemi di valori e dal modo di risolvere il lutto, la persecuzione e la violenza, in ogni cultura. Essi hanno una funzione difensiva e comunicativa; si tratta, per J. Lacan (1966), di rappresentare o simbolizzare un significante primordiale, il Nome-del-Padre, escluso dalla sfera immaginaria simbolica e proiettato, eiettato (verwerft), nella realtà del mondo culturale.

Bibliografia

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D.W. Winnicott, Primitive emotional development, "International Journal of Psychoanalysis", 1945, 26, capp. 3, 4.

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