CORRIDONI, Filippo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 29 (1983)

CORRIDONI, Filippo

Alceo Riosa

Nato il 19 ag. 1887 a Pausula (dal 1931 Corridonia) in provincia di Macerata da Enrico e Enrichetta Paccazocchi, trascorse l'infanzia in condizioni economiche stentate, al punto da dover interrompere gli studi per dedicarsi al mestiere di fornaciaio, come il padre. Successivamente riuscì a beneficiare di una borsa di studio che gli consentì di frequentare le scuole tecniche di Fermo, da cui uscì disegnatore meccanico. Al di là di queste scarne notizie, risulta però ben difficile ricostruire il suo apprendistato culturale e politico, giacché la copiosa letteratura esistente su di lui risulta largamente inattendibile a causa della preoccupazione che l'ispira di mettere in luce la precocità del personaggio.

In realtà nemmeno gli accenni autobiografici, che il C. compose poco prima della propria morte, consentono di far gran luce sul primo periodo della sua vita. Comunque proprio dalle scarsissime notizie che in quello scritto egli dà della propria infanzia, è possibile dedurre che essa sia stata piuttosto comune e in ogni modo priva di segni premonitori della futura vocazione del Corridoni. L'unico elemento utile al riguardo è l'accenno di quest'ultimo alle proprie "idealità repubblicane" nutrite "fin dalla prima infanzia" (La mia vita, in Rivista di cultura, 1936, p. 21). Ma anche su questo punto è lecito nutrire dei dubbi, giacché più che altro dovette trattarsi di un vago sentimento che al giovinetto derivò dalla permanenza nella sua terra d'origine della tradizione garibaldina. Sarebbe comunque arbitrario voler vedere in questo legame ideale con l'esperienza della democrazia risorgimentale il termine a quo di una parabola destinata a concludersi con l'adesione alle ragioni dell'interventismo rivoluzionario, tanto più se si tiene presente che lo stesso C. avrà a precisare nel 1911 di essere "repubblicano più per simpatie intellettuali e ricordi classici che per convinzione" (La Conquista, 15 febbr. 1911).

Il diciottenne, che all'inizio del 1905 decise di recarsi a Milano per impiegarsi alla Miani e Silvestri, era dunque con tutta probabilità a digiuno dei motivi fondamentali del dibattito politico dell'epoca. Da questo punto di vista l'effetto che sul C. ebbe il suo arrivo nel capoluogo lombardo, città di punta dello sviluppo industriale italiano e della lotta all'interno del partito socialista, consistette in una partecipazione più emotiva che ragionata alla causa dei lavoratori. Alla milizia attiva nelle file del partito socialista milanese il C. cominciò a dedicarsi all'inizio del 1906 e solamente qualche mese più tardi diveniva segretario del circolo giovanile socialista e nell'aprile dell'anno successivo vicesegretario della Federazione provinciale socialista. La bestia nera da combattere strenuamente era già allora il socialismo riformista ed in specie i dirigenti della locale Camera del lavoro.

Dopo la parentesi sindacalista rivoluzionaria, nella primavera del 1906 la Camera del lavoro milanese era ritornata in mano ai riformisti con la nomina di Dell'Avalle a segretario. In mano ai sindacalisti nel 1907 rimaneva unicamente l'organizzazione locale del partito, priva però di significativi collegamenti con l'ambiente cittadino. Purtuttavia l'egemonia riformista sul movimento operaio locale appariva tutt'altro che assicurata, come si era potuto constatare l'anno precedente in occasione dello sciopero generale per l'eccidio di Torino, la cui proclamazione era stata imposta ai dirigenti della Camera del lavoro dalla base. Una delle principali ragioni del fenomeno andava ricercata nella filosofia del sindacalismo riformista, caratterizzata dalla gelosa difesa dei soli lavoratori organizzati.

Il C. fece proprie le aspirazioni confuse e lo spirito di rivolta delle masse disorganizzate, credendo di trovare nell'uso dello sciopero generale la panacea contro la crisi del movimento operaio e lo strumento atto a collegare gli elementi separati del mondo del lavoro. In occasione di una serrata di alcune industrie metallurgiche nell'aprile 1907, egli riuscì, contro il parere dei riformisti, a far proclamare da un'assemblea, in prevalenza composta da disorganizzati, uno sciopero generale di categoria, che però miseramente fallì. Qualche settimana più tardi il C. venne arrestato perché sorpreso a distribuire il Rompete le file, un giornaletto antimilitarista da lui redatto assieme a Maria Rygier, e condannato (durante la sua vita avrebbe subito una trentina di condanne) a cinque anni di detenzione. La sentenza non mancò di suscitare a suo favore un vasto moto di simpatia e solidarietà da parte della stampa progressista, anche per le cattive condizioni di salute del condannato che facevano temere una sua morte precoce in carcere (Il Tempo, 30 ott. 1907). Uscito di prigione qualche mese più tardi per un'amnistia, nel suo caso però applicata per errore, il C. fu costretto ad espatriare a Nizza, fino a quando, qualche mese più tardi, l'eco degli avvenimenti dello sciopero agrario di Parma non lo indusse a recarsi colà sotto il falso nome di Leo Celvisio (destinato in futuro a divenire uno dei suoi pseudonimi preferiti). Questa esperienza, peraltro interrotta qualche settimana più tardi dalla sua fuga in Svizzera perché riconosciuto dalla polizia, fu per il C. decisiva, giacché gli permise di legarsi di profonda amicizia con Alceste De Ambris, una delle figure più prestigiose del sindacalismo rivoluzionario, e con il fratello di lui, Amilcare, che sposerà la sorella del C., Maria. Il C. si recherà nuovamente a Parma nel 1913 per sostenere la candidatura parlamentare di Alceste.

Una nuova amnistia consentì al giovane sindacalista di far nuovamente ritorno in Italia e di assumere nella primavera del 1909 la carica di segretario della Camera del lavoro di San Felice sul Panaro nel Mirandolese, le cui organizzazioni sindacali e politiche socialiste faticosamente cercavano di riprendersi dopo i drammatici contrasti di tendenza. Le immediate linee di azione del C. consistettero da un lato nel ricercare le vie di una soluzione unitaria tra riformisti e rivoluzionari in funzione degli obiettivi della tariffa unica, del controllo del collocamento e delle migrazioni interne; dall'altro neldare nuovo slancio alle lotte. Fu così che il C. fece approvare nel congresso camerale di San Felice dell'agosto una proposta di fusione delle esistenti Camere del lavoro della zona; mentre in assenza dì condizioni propizie per la ripresa delle lotte rivendicative, non trovava di meglio che accentuare l'agitazione anticlericale, destinata a culminare nell'ottobre, in occasione dell'uccisione in Spagna di Francisco Ferrer, in un tentativo di sciopero generale nonché nell'episodio sconcertante dell'invasione del duomo da parte di un gruppo di dimostranti. Un arresto per apologia di reato, subito di lì a qualche giorno e una successiva condanna a quattro mesi, impedirono al C. di essere presente al congresso di unificazione delle Camere del lavoro locali, tenuto nel novembre e conclusosi con una soluzione di compromesso che avrebbe dovuto accontentare parimenti rivoluzionari e riformisti. Non era certo la soluzione voluta dal C., per il quale ogni tentativo di unificazione avrebbe comunque dovuto garantire l'egemonia dell'ala rivoluzionaria. Così, quando il C. tornò in libertà, venne a trovarsi in una posizione dì profondo isolamento, da cui cercò di uscire dando alla luce un nuovo giornale, Bandiera rossa, vissuto però solo per poche settimane. Nonostante il magro bilancio dell'esperienza del C. in qualità di organizzatore del Mirandolese, qualche interesse presenta invece la sua contemporanea attività pubblicistica, caratterizzata, oltre che da alcuni brevi racconti e novelle apparsi su Bandiera proletaria e Bandiera del popolo, da numerosi scritti sulla dottrina sindacalista, non privi di felici intuizioni, specialmente sulla necessità di estendere la propaganda nelle file stesse dell'esercito per averlo alleato nel futuro sciopero generale rivoluzionario.

Ma ancor più significativa fu la partecipazione del C. al dibattito sulla costituzione di un partito insurrezionista, promosso da Dinale sulla Demolizione. Il C. non esitò a definire l'idea "solo una trovata romantica", una fuga in avanti che non teneva conto della necessità di adeguarsi alle condizioni reali ed al "metodo intransigente di lotta e di azione", che solo nel sindacato avrebbe avuto un'applicazione rigorosa. Al tempo stesso però egli contraddittoriamente attribuiva il riflusso delle lotte operaie e contadine al fatto che "il proletariato ... è cera molle che tutti possono modellare a loro piacimento" e che ad esso mancava un capo (Crisi morale, in Bandiera rossa, 19 marzo 1910), capace di plasmare i lavoratori "con una propaganda energicamente fattiva a base di sacrifici".

Con il suo ritorno a Milano, nel gennaio 1911, inizia per il C. la fase culminante della propria milizia sindacale, data la convinzione, maturata dal giovane leader anche alla luce delle deludenti esperienze fatte tra i lavoratori dei campi, che i veri protagonisti della lotta rivoluzionaria sono rintracciabili solamente nelle zone industriali sviluppate.

Dalle colonne del periodico milanese La Conquista il C.indicherà la necessità di trasformare i sindacati di mestiere, legati alla qualifica, in sindacati di industria, organizzati invece sulla base dell'appartenenza all'utilità produttiva. L'indicazione di nuove formule organizzative non era però affatto nuova da parte del C., giacché egli aveva già previsto la costituzione di sindacati per branche di attività produttiva all'epoca della sua permanenza nel Mirandolese. Ma a Milano il C. cercò di tradurre la proposta in realtà. Tuttavia anche nel capoluogo lombardo i tentativi pratici compiuti dal C. in questa direzione non ottennero il successo sperato, e non solo per la diffidenza nutrita nei confronti dei sindacati di industria da molti correligionari del C.; ma anche perché la nuova formula nasceva in lui sulla base di un'esigenza di natura astrattamente ideologica prima che su di una lettura delle modificazioni apportate nel processo produttivo dalle innovazioni tecnologiche. Comunque la nuova articolazione organizzativa proposta dal C. rischiava di restringere la rappresentanza sindacale ai soli occupati, proprio quando nella stessa Milano la crisi economica ed il sensibile aumento della disoccupazione ponevano in primo piano il problema del controllo del mercato del lavoro. In questo contesto non c'è da meravigliarsi se il C. avrebbe finito con il restringere la stessa prospettiva rivoluzionaria ad un continuum di scioperi per il salario, fin oltre ogni capacità da parte padronale di assorbire gli aumenti salariali attraverso i perfezionamenti tecnologici, come egli stesso avrebbe cercato di teorizzare l'anno successivo (Le forme di lotta e di solidarietà).

Il peso ed il ruolo che il C. ebbe in questa fase nelle vicende milanesi furono soprattutto legati alle sue doti e al suo fascino personali, alle sue capacità di trascinatore, dovuti tra l'altro alla "sua oratoria irruente che affascina le masse" (Arch. di Stato di Milano, Prefettura di Milano, Gabin. (1901-39), b. 1043, doc. della Questura. "Copia fiduciaria relazione", s. d.), alla sua impulsività accompagnata ad una straordinaria generosità e ad una rara intransigenza morale. Caratteristiche che se da un lato favorivano una sorta di identificazione emotiva con il capo, surrogatoria della crisi di rappresentanza delle tradizionali formule organizzative, dall'altro rischiavano di risolversi in un boomerang, giacché potevano indurre ad iniziative precipitate e senza via d'uscita. Fu quanto accadde puntualmente in occasione dello sciopero dei gasisti milanesi dell'Union de Gaz proclamato nel giugno dal C. in qualità di segretario della relativa lega. Per l'agitatore sindacalista si trattava in quella circostanza di mostrare, a dispetto della crisi che investiva invece la locale Camera del lavoro riformista, il potenziale di lotta che egli era riuscito a sviluppare in pochi mesi tra i lavoratori gasisti, riorganizzandone la grande maggioranza (il 90%), nonostante la clamorosa sconfitta da essi subita due anni prima. Lo sciopero fu provocato dal licenziamento di alcune decine di operai gasisti e dal rifiuto da parte del C. di esperire soluzioni intermedie, come la sottoposizione della vertenza ad un collegio arbitrale, consigliata invece dai riformisti. La poca meditazione sui rapporti di forza in campo fu alla base delle incertezze e delle oscillazioni che contraddistinsero la conduzione della lotta, del continuo mutamento delle parole d'ordine, al punto da disorientare gravemente gli scioperanti da un lato, da spingere la controparte ad una condotta intransigente e tracotante dall'altro. Così dopo tre settimane lo sciopero si concluse con una secca sconfitta.

Alle manifestazioni antilibiche di qualche mese più tardi partecipò attivamente, anche se più tardi egli medesimo avrebbe fatto una sincera autocritica per essersi fatto cogliere di sorpresa dagli avvenimenti (Le rovine ..., cit. oltre, Parma 1912).

Al giovane leader sindacalista non sfuggiva che la scelta aggressiva in politica estera era destinata ad accentuare la crisi economica e la già grave disoccupazione nel paese, l'una e l'altra suscettibili di generare sommosse piuttosto che iniziative autenticamente rivoluzionarie (ibid., p. 19).

Ciononostante negli anni successivi il C. si impegnava in una serie di iniziative e di lotte che, se rispondevano al profondo malessere dei lavoratori, rivelavano al tempo stesso nel leader sindacalista gravi difetti di approssimazione e dilettantismo. Fu così durante la sua permanenza, in qualità di segretario del sindacato provinciale edile, a Bologna nella seconda metà del 1912.

La Camera del lavoro locale aveva nei primi mesi dell'anno, dopo una parentesi di qualche anno durante la quale avevano prevalso i riformisti, fatto nuovamente adesione alle direttive sindacaliste, sulla spinta della disoccupazione ma anche dell'intransigenza dei padroni, i quali "adottano pure (per vero dire) - secondo quanto sosteneva lo stesso prefetto - in qualche caso, metodi di lotta improntati ad eccessiva intransigenza, che furono giudicati incivili quando erano seguiti soltanto dalla parte operaia" (Archivio centrale dello Stato, Ministero degli Interni, Direz. generale di Pubblica Sicurezza, Affari generali e riservati, serie G1, b. 45, 13 genn. 1913). Fuin questo contesto che il C., assieme a Zocchi e a Rossoni, intraprese una serie di lotte culminate ad agosto nello sciopero dei facchini, votato, però, sin dall'inizio, a sicura sconfitta.

Dopo aver partecipato al congresso di Modena del novembre 1912, costitutivo dell'Unione sindacale italiana, diede vita nei primi mesi dell'anno successivo all'Unione sindacale milanese (U. S. M.) alla quale aderirono subito il sindacato gasista, metallurgico, del vestiario, dei tappezzieri in carta e degli indoratori. Un accentuato spirito di concorrenza nei confronti della Camera del lavoro milanese, ma anche lo stato di grave crisi economica che in tutto il paese provocò nel 1913 lotte sociali acute, indussero il C. in quello stesso anno ad esasperare lo scontro di classe: a metà aprile iniziava lo sciopero degli "automobilisti" e successivamente dei "ciclisti", che il C. incoraggiò e diresse unicamente confidando nella solidarietà delle altre categorie di lavoratori, ma senza tener conto adeguatamente della complessità dei fattori in campo.

La battaglia infatti fu ingaggiata proprio quando la sospensione del lavoro poteva convenire alla controparte; mentre non fu tenuto nel debito conto il ruolo del prefetto locale, il Panizzardi, attento a sfruttare l'occasione propizia per cacciare definitivamente in un cul de sac il "sindacalismo rivoluzionario contrario - come egli medesimo ebbe a scrivere a Giolitti - agli stessi ideali del socialismo ..., un sindacalismo che andava qui prendendo il carattere più pericoloso" (Arch. di Stato di Milano, Prefettura di Milano. Gabin. (1901-39), b. 301, lett. 29 ag. 1913, n. 939). Obiettivo che il Prefetto perseguì da un lato rifiutando qualsiasi ruolo di mediazione tra le parti, dall'altro evitando però gesti inutilmente gladiatori, suscettibili di aumentare la tensione tra gli scioperanti. In questa luce decise l'arresto del C. solo quando alla fine di maggio, estesosi nel frattempo lo sciopero anche ad altre categorie, ritenne che "è fuor di dubbio che il movimento va prendendo carattere rivoluzionario" (ibid, lettera del 27 maggio 1913, n. 917). Lo sciopero si "concluse con concessioni solo assai parziali a favore delle richieste operaie; purtuttavia la combattività operaia e il prestigio del C. non ne uscirono diminuiti. Ne fu una conferma lo sciopero generale inscenato a metà giugno in segno di protesta per la condanna subita da alcuni dirigenti sindacalisti e per il rinvio a giudizio del Corridoni.

Ritornato in libertà a metà settembre, il leader sindacalista si trovò a riprendere le redini di un'organizzazione fortemente indebolita dalla sconfitta dello sciopero generale di solidarietà con i lavoratori del materiale mobile ferroviario, proclamato agli inizi d'agosto dai dirigenti dell'Unione sindacale milanese rimasti in libertà.

Una conferma dello stato di grave crisi dell'organizzazione milanese erano le difficoltà finanziarie dell'Unione dovute all'allontanamento di molti iscritti e le numerose contestazioni con cui l'assemblea dell'U.S.M. accolse il 23 marzo 194 la relazione del C. sugli scioperi da lui diretti nell'anno precedente (Archivio di Stato di Milano, Prefettura di Milano. Gabin. (1901-39), b. 1043, 25 maggio 1914, n. 2436).

Gli avvenimenti del '13 e la stessa esperienza della "settimana rossa", di cui comunque a Milano l'anima fu il C., lo indussero ad un profondo pessimismo sulle prospettive del sindacalismo rivoluzionario e ad un processo di revisione teorica destinato a culminare nello scritto Sindacalismo e repubblica, che il C. redasse in carcere nell'aprile 1915 (ma che fu dato alle stampe per iniziativa di Alceste De Ambris, solo nel 1921).

Il testo costituisce una sorta di nuova carta programmatica del sindacalismo, le cui premesse vanno fatte risalire all'assenza nel proletariato di spirito eroico, del "senso religioso del proprio sforzo, [del] la voluttà del sacrificio e [di] una completa e chiara nozione della propria missione storica" (ibid., p. 39).

Questo limite era la diretta conseguenza dello stentato sviluppo capitalistico italiano e della esistenza di una borghesia scarsamente vitale, la quale - di fronte al rischio della concorrenza ed alla minaccia di una lotta di classe energica - preferiva evitare l'uno e l'altra riparandosi sotto l'ombrello protettore dello Stato e della monarchia. Sicché lotta repubblicana e antistatale in nome di principi come la nazione armata e il libero scambio, il decentramento, la democrazia diretta, divenivano la premessa indispensabile per il rilancio futuro del sindacalismo rivoluzionario. Era un appassionato e sincero richiamo all'autonomia della società civile, un atto di fede nelle sue capacità di superamento dei limiti storici che sinora ne avevano impedito in Italia la piena espansione. Restavano però del tutto indefinite le forze sociali capaci di una così profonda trasformazione del paese, se erano vere le premesse dell'autore. Se questo iato tra la pessimistica analisi del presente e la fiducia nel futuro costituisce il segno della debolezza e della ingenuità dello sforzo teorico del C., esso, però, al tempo stesso offre la chiave fondamentale di interpretazione del passaggio del C. alle ragioni dell'interventismo più acceso. Nonostante le concessioni rituali alle motivazioni nazionali e dell'interventismo democratico che il C. non mancherà di fare durante la campagna interventista, egli continuerà a pensare che lo scontro in atto dipenda unicamente da rivalità imperialistiche presenti in ambedue i blocchi contendenti. In questo contesto parteggerà a favore dell'Intesa per spirito di solidarietà verso la Repubblica francese e nella convinzione che l'eventuale sconfitta degli imperi centrali avrebbe significato una sconfitta mortale dei Savoia. Inoltre confidava che l'intervento in favore della Francia "culla di cento rivoluzioni" potesse sostituire il mito per il momento prematuro dello sciopero generale, avendone però la stessa capacità di suscitare tra le masse quella volontà eroica necessaria al raggiungimento degli obiettivi intermedi rispetto al fine ultimo del sindacalismo rivoluzionario.

Secondo la testimonianza di Alceste De Ambris (I volontari. F. C., p. 16) il C. maturò la sua decisione in senso favorevole all'intervento già nell'agosto '14, in carcere. Uscitone, egli manifestò pubblicamente la sua decisione il 6 settembre, mentre nelle settimane successive si impegnò nell'organizzazione delle forze della Sinistra interventista milanese, privalegiando oltre che naturalmente i sindacalisti i repubblicani. Così nell'ottobre poté costituirsi il Fascio rivoluzionario d'azione internazionalista (Archivio centrale dello Stato, Direzione gen. di Pubblica Sicurezza, Aff. gen. e ris., cat. A5G, b.107, Milano 29 ott. 1914, n. 2415). Meno confortanti furono i risultati della campagna interventista del C. all'interno dell'U. S. M., anche se egli continuò a prodigarsi a favore delle lotte sindacali: capeggiò infatti l'agitazione degli operai gasisti, culminata a gennaio nella proclamazione dello sciopero generale.

L'eccezionalità del momento, il fatto che la controversia di lavoro coinvolgesse la francese Union de Gaz, fecero sì che nell'andamento della lotta intervenissero, in misura determinante, elementi estranei alla normale prassi di contrattazione sindacale, al punto che in appoggio alle richieste degli scioperanti si schierò lo stesso ministro del Lavoro francese Sembat, al quale non sfuggiva di certo che una vittoria del C. su questo fronte avrebbe potuto favorire la causa dell'intervento dell'Italia.

Ma successivamente alla vittoria ottenuta sul fronte sindacale, il C. andò concentrando la gran parte delle sue energie nella campagna interventista, rischiando però di rimanere prigioniero delle iniziative repubblicane, come in occasione del complotto rivolto a creare il casus belli con l'Austria, ma più probabilmente a suscitare un moto repubblicano all'interno. Il viaggio che il 12 febbraio il C. intraprese per recarsi a Treviso, avrebbe dovuto consentirgli di preparare le condizioni necessarie all'impresa. Ma a Verona la polizia, al corrente del complotto, lo arrestò con l'imputazione di aver divulgato scritti inneggianti all'odio di classe (al processo tenutosi alla fine d'aprile fu però assolto). A maggio via via che si profilava sempre più chiaramente la dichiarazione di guerra dell'Italia ufficiale, il C., in armonia peraltro con i suggerimenti di Mussolini, attenuò i motivi repubblicani della sua campagna interventista, per instaurare con le istituzioni esistenti una tregua sino a guerra finita (Ibid., b. 105, telegr. del 16 maggio 1915, ore 22.30, n. 16.102). Arruolatosi come volontario, nel luglio 1915 fu trasferito al fronte. Il 23 ott. 1915 fu colpito a morte presso la "trincea delle Frasche" sul Carso. In memoria ebbe la medaglia d'argento al valor militare, commutata nel 1925 in medaglia d'oro.

Con la morte sul campo, si iniziava un capitolo legato al nome del C. non meno significativo e nel quale la memoria del defunto organizzatore si trasfigurò in una sorta dì mito. La vicenda umana del C., la sua avversione ad ogni compromesso, il suo entusiasmo e disinteresse, quest'ultimo destinato a volte a lasciarlo in un profondo isolamento, la sua eroica morte, se da un lato spiegano l'indifferenza, se non la soddisfazione, con cui da parte di molti fu accolta la notizia della sua fine, dall'altro costituirono le condizioni propizie perché alla sua figura, quasi fonte di legittimazione, si rifacessero in seguito gli altri suoi correligionari, sia quelli che abbracciarono l'antifascismo (De Ambris) sia coloro che approdarono al fascismo per collocarsi alla sua ala sinistra (Rossoni, Ugo Barni ecc.). Se tra i primi il mito del C. era destinato ad esaurirsi per il prevalere all'interno del campo antifascista dell'equivalenza interventismo e fascismo, per lo stesso motivo esso naturalmente era destinato ad avere ben più larga fortuna all'interno dell'Italia fascista. In questo contesto il mito del C., se da un lato fu adoperato in sede ufficiale come strumento di consenso, dall'altro fu agitato dal fascismo di sinistra come arma di lotta all'interno del regime per assicurarsi un minimo di autonomia e per riportare il fascismo al suo originario carattere popolare. Del C. ricordiamo: Per una nobile vittima politica: M. Rygier, in Università popolare, 15febbr. 1908, pp. 113-17; Le rovine del neo-imperialismo italico. Libia e antimilitarismo, Parma 1912; Le forme di lotta e di solidarietà. Relazione al congresso nazionale dell'azione diretta in Modena, ibid. 1912; Sindacalismo e repubblica, Parma 1921.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Mostra della rivoluz. fascista, parte I, b. 65; Ibid. Ministero degli Interni, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Affari gener. e riservati, cat. A5G, bb. 103, 105, 107, 111; Ibid., serie G1 (Associazioni), bb. 45, 50, 110, 111; Ibid., 1912, b. 22; Ibid., 1913, b. 44; Arch. di Stato di Bologna, Gabinetto di Prefettura, 1912, cat. 6, Agitaz. operaie, scioperi, manif.;Arch. di Stato di Milano, Prefettura di Milano. Gabin. (1901-39), bb. 286, 307, 331, 564, 933, 1017, 1043, 1394; Arch. di Stato di Modena, Prefettura. Gabinetto (1826-1933), b. 60; Carte F. Corridoni (conservate dal dott. F. De Ambris Corridoni a Roma). Gran parte degli scritti sul C. conservano un carattere agiogr.: C. Rossi, I nuovi aspetti di una vecchia battaglia, in Il Rinnovam., 30 nov. 1918, pp. 398-401; F. C. l'uomo e l'idea immortale. in Italia nostra, 26 ott. 1918; A. O. Olivetti, Ricordiamo l'eroe rivoluz. F. C., in Patria del Popolo, 2 nov. 1922; G. Bitelli, F. C. e il sindacalismo operaio antebellico, Milano 1925; T. Masotti, F. C. l'uomo e la vita. Milano 1926; Comm. di F. C. e N. Buonservizi, a cura del Circ. marchigiano di Roma, Roma s. d. [1927]; A. De Ambris, I volontari. F. C., Piacenza 1928; U. Barni, I prefascisti. C., Roma-Milano 1929; L. Razza, L'eroe della trincea delle Frasche, Macerata 1931; V. Branchi, F. C. (discorso commem. tenuto a Padova il 23 ott. 1932), Roma 1932; E. Rossoni, F. C.: Un esempio, un'idea!, Parma. 1933; Apoteosi (numero unico in occas. dell'inaug. dei monumento a F. C.), Corridonia 1936; V. D'Orio, F. C., Trieste 1935; E. Malusardi, F. C.,Savona 1935; F. C., in Rivista di cultura, 1936 (numero unico in onore di F. C.); V. Rastelli, Interpretaz. di F. C., Roma 1938; Il Tribuno, Parma 1940; F. Lantini, F. C. apostolo della rivol. sociale, Roma 1941; A. Gabrielli, A Piedi nudi. Vita eroica di F. C., Roma 1941; G. Borellì, Medaglioni. In append.: C., Modena 1942; I. De Begnac, L'arcangelo sindacalista, Milano 1943. Dopo una lunga pausa, tuttavia, la storiografia ha nuovamente rivolto la propria attenzione alla figura del C. con risultati che, seppur parziali e circoscritti a momenti ed aspetti delle vicende del leader sindacalista, costituiscono dal punto di vista scientìflco un vero e proprio salto di qualità rispetto alla produzione precedente. Rientrano a pieno titolo in questo ambito i contributi raccolti in Ricerche storiche, 1975, 1, e in partic. lo studio di M. Antonioli, Sindacalismo rivoluzionario ital. e modelli organizzativi: dal Progetto industrialista di F. C. ai sindacati nazionali di industria;v. inoltre: L. Gestri, Agosto 1913: L'Unione sindacale ital. e lo sciopero gener., ibid., genn-giugno 1976, pp. 3-80; A. Riosa, Ilsindacalismo rivoluzionario in Italia dal 1907 alla "settimana rossa", in Movim, operaio e socialista, I (1979), pp. 51-87. Notizie utili sul C. si trovano anche in A. Rosmer, Ilmovimento operaio alle Porte della Prima guerra mondiale, Milano 1977, pp. 335 ss., 338 s., 34041; B. Mussolini, Opera omnìa, Firenze 1951-63, ad Indicem;A. Borghi, Mezzo secolo di anarchia (1898-1945), Napoli 1954, passim;L. Lotti, La settimana rossa, Firenze 1965, passim;R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino 1965, ad Indicem;Id., Sindacal. rivoluz. e fiumanesim nel carteggio De Ambris-D'Annunzio, Brescia 1966, ad Indicem;G. Arfè, Ilmovim. giovanile socialista. Appunti sul primo periodo 1903-1912, Milano 1966, passim;B. Vigezzi, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale. L'Italia neutrale, Milano-Napoli, 1966, ad Indicem;O. Lupo, I sindacalisti nel 1914, in Riv. stor. del socialìsmo, X (1967), pp. 43-82; A. J. De Grand, C. Malaparte, The Illusion of the Fascist Revolution, in Journal of contemporany history, genn-aprile 1972; M. Degl'Innocenti, I socialisti e la guerra dì Libia, Roma 1976, ad Indicem;Id., Storia del socialismo italiano II, L'età giolittiana (1900-1914), Roma 1980, ad Indicem;B. Furiozzi, Ilsindacalismo rivoluzionario italiano, Milano 1977, ad Indicem; G. Paletta, Modificazioni della struttura sociale del proletario milanese sul finire dell'età del riformismo, in Anna Kuliscioff e l'età del riformismo, a cura della Fondazione G. Brodolini, Roma 1978, pp. 464 ss.; A. Pepe, Lotta di classe e crisi industriale in Italìa. La svolta del 1913, Milano 1978, passim;D. D. Roberts, The syndacalyst tradition and Italian Fascism, Manchester 1979, ad Indicem.

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