DE BONI, Filippo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DE BONI, Filippo

Ernesto Sestan

Nacque a Caupo, frazione di Seren del Grappa (presso Belluno), il 7 ag. 1816 da famiglia di modestissime condizioni: il padre Giacomo, oriundo di Villanova di Feltre, era "architetto meccanico e stuccatore" (J. Facén, p. 232), cioè capomastro muratore; la madre era Antonia Saccari. Uno zio materno, don Giovanni Saccari, curato nella vicina frazione di Rasai, visto il promettente ingegno del nipote, pensò di avviarlo al sacerdozio e gli procurò un posto di alunno nel seminario di Feltre, ove rimase fino al 1834 già mostrando insofferenza ed intima ribellione al tipo di insegnamento retorico ecclesiastico che vi si impartiva e tuttavia cedendo ad esso con il comporre una lode sulla morte di s. Luigi Gonzaga. I successi scolastici gli rneritarono un posto di convittore teologo, con sussidio governativo, nel seminario di Padova. Ma volta la mente a più liberi studi, con entusiasmo giovanile per l'Ossian del Cesarotti, già stato allievo e insegnante in quello stesso seminario, per il Iacopo Ortis e anche per l'Hypercalypsis del Foscolo, poco ci rimase: preferì dedicarsi alla vita dell'insegnante privato, allogandosi prima, come prefetto agli studi; nel collegio privato padovano Benetelli, poi presso la famiglia padovana Viviani, indi, passato a Venezia, presso la nobile famiglia Soranzo. La morte dello zio prete, sciogliendolo dall'impegno con lui contratto di seguire la via ecclesiastica, e il passaggio a Venezia, favorirono sempre più la sua inclinazione agli studi letterari, pur non staccandosi ancora, in questi, da motivi di ordine religioso, come mostra una trasposizione in versi del Libro di Giobbe, del 1837, e un volumetto di Fiori biblici, in occasione di nozze (M. Parenti, VIII, p. 13; non di una festa religiosa, come vuole il Facén, p. 233). Ma l'ambiente giornalistico-letterario veneziano. lo attraeva sempre più e sempre più lo allontanava dalla vita ecclesiastica, pur fregiandosi, per poco tempo ancora, del titolo di abate; anzi, è probabile che proprio ora, sull'esperienza della vita seminariale, cominciasse a germogliare in lui quel deciso, tenace, intransigente anticlericalismo che lo accompagnerà per tutta la vita. Nel 1838, alternando ancora il soggiorno veneziano con una stanca frequenza all'università di Padova "dove tutto si insegna fuorché ad essere uomini" (Cosìla penso, I, p. 26), si fece collaboratore letterario di un periodico provinciale di breve vita (1838), l'Eco delle Alpi di Belluno, nel quale pubblicò una traduzione dal Lamartine e una lettera sul giornalismo nell'Italia settentrionale (G. Gambarin, p. 329), poi del veneziano Il Vaglio, diretto da Francesco Gamba (V. Malamani, p. 696; G. Gambarin, p. 306), nel quale scrisse vari articoli auspicando una conciliazione fra classicisti e romantici (G. Gambarin, p. 310), e del Gondoliere diretto da Luigi Correr, che gli procurò una certa rinomanza di buon letterato e critico e, anche, con molta misura, di poeta per le odi intitolate La giovinezza (1839), ferocemente bistrattate invece da Tomaso Locatelli, direttore della Gazzetta privilegiata di Venezia, presso la quale aveva lavorato per un certo tempo, guastandosi poi col direttore (J. Facén, p. 232).

Qui, a Venezia, si vennero via via precisando le sue idee politiche, mutuate dal Mazzini Di una letteratura europea e, attraverso il Mazzini, anche la prima accoghenza di idee sansimoniano-romantiche in letteratura, con già una vena di apertura a idee democratico-sociali, per cui vedeva nella letteratura e specialmente nel giornalismo una missione di santa educazione politica sulla via inarrestabile del progresso civile, con lo sbocco di tutto ciò nella futura alleanza dei popoli. A Venezia strinse anche relazioni col noto letterato e magistrato, suddito austriaco, P. Zaiotti, "al quale dirigeva ossequiosissime lettere, di cui possiedo le copie" (A. Luzio, La massoneria, I, p. 276). Non è accertato che il desiderio di respirare un'aria più libera e la speranza di entrare in rapporti con una più libera editoria lo inducessero (1° ott. 1841) a trasferirsi da Venezia a Firenze, non senza avere avuto parte a Venezia anche nella librettistica melodrammatica con una Ginevra da Monreale, dramma e musica di P. Conti, rappresentata a Venezia al teatro della Fenice nel carnevale del 1841, e nella stampa, per i tipi del Gondoliere, di un romanzo storico in tre volumi su Gli Ezzelini e gli Estensi (1841) tributò obbligato alla moda dei tempo per il romanzo storico, in questo caso di tipo guerrazziano, non manzoniano; e la lunga prefazione alla traduzione italiana di A. F. Rio, De la poésie chrétienne dans son principe, dans sa matière et dans ses formes, Paris 1836 (col titolo Della poesia cristiana nelle sue forme..., con annotazioni di K. F. von Rumohr, Venezia 1841), nella quale, scioltosi dalla ortodossia cattolica, egli eleva un inno a quella religione più naturale che cristiana, alla quale rimarrà legato e alla quale, in questa sede, attribuisce i prodotti più alti dell'arte: "le pagine più sante sono nel medesimo tempo le più poetiche" (p. 14), e nega che ci sia una relazione fra società corrotta e altezza d'arte: "lo splendore delle arti del '500 aiutate dalle circostanze dei tempi e dalla disposizione degli animi, non deriva dai vizi del '500, ma dalle inspirazioni raccolte nell'età precedente" (p. 12). In questo stesso tempo, ancora a Venezia, stava compilando, sul modello, confessato, del Michaud, un'opera, firmata ancora, per l'ultima volta, abate F. De Boni, Emporeo biografico metodico ovvero Biografia universale ordinata per classi. Classe X. Biografie degli artisti, Venezia 1840, di ben mog pagine, in cui, sotto la'specie di artisti, sono considerati anche "i comici, il cantore e il sonatore, il tipografo, il calligrafo e l'ornato legatore di libri" (p. XIII).

A Firenze prosegue a guadagnare il suo pane presso editori e stampatori; si offre (15 maggio 1842: Carte di C. Cattanco, p. 103) per collaborazione al Politecnico con uno studio sulle province italiane; collabora, su indicazione del Vieusseux, al giornale l'Espafiol, diretto dall'uomo politico spagnolo Andrea Borrego (R. Ciampini, Gian Pietro Vieusseux, Torino 1953, p. 386); collabora al Mondo contemporaneo (per es. con una lunga relazione sulla Piena d'Arno del 3 nov. 1844, ricca di riferimenti a precedenti storici); prende parte alla annosa querelle, A proposito della nuova facciata di S. Maria del Fiore a Firenze, Firenze 1842 (M. Parenti, VIII, pp. 28 s.) e scrive garbate, cortesi presentazioni di voci altrui: Prose e poesie di Isabella Rossi fiorentina, che era andata sposa ad un Gabardi bolognese (estratto dal Giornale del commercio di Firenze del 2 febbr. 1842), la quale prescelse "a perenne, argomento due sante cose, la donna e la patria" (p. 4); inoltre, a sfondo autobiografico, in due volumi, Scipione. Memorie, Firenze 1843, lodato da Cesare Balbo (F. Bosio, p. 61).

Ma nella molteplice attività editoriale ciò che lo mise più in luce a Firenze fu la pubplicazione, a dispense bimestrali, col titolo Quel che vedo e quel che sento. Cronaca, eraccolta in tre volumi (Firenze 1842-43) del "giornale dei miei pensieri e di tutti que' grilli che mi passan per la testa", che sono soprattutto questi: fede religiosa al di fuori di ogni religione positiva, avversione al municipalismo che risente dell'unitarismo mazziniano; fede nella scienza conciliabile con, la religione; una specie di nazionalismo letterario avverso al francesismo di moda (ma il Quel che vedo e quel che sento era una imitazione briosa delle Guépes del francese A. Karr, 1839-1848). Le amicizie fiorentine del D. sono significative: non sono quelle dei liberali moderati attorno al Capponi e al Vieusseux, ma quelle dei democratici, che poi sono anche la generazione più giovane, quella di Atto Vannucci, di G. P. Cioni Fortuna, di F. C. Marmocchi, di Piero Cironi, di Enrico Valtancoli Montazio, di Luigi Andrea Mazzini, di Giovanni La Cecilia e specialmente, almeno secondo il D. stesso, del Duprè (Lettere inedite di F. D., in Rivista europea, VI [1875], 2, p. 26, verisimilmente lo scultore coetaneo Giovanni Duprè, ma questi non lo menziona nei suoi Pensieri sull'arte e ricordi autobiografici). Nell'ondata neoguelfa che percorre l'Italia, essi sono antiguelfi, contro papa Gregorio, contro il Papato che per sua natura non può essere né liberale né nazionale. Dal 1842 il D. scrisse nel loro periodico La Rivista musicale di Firenze, poi semplicemente La Rivista (G. Sforza, Igiornali fiorentini..., 1898-1900, p. 254), tollerata, ma egli non disdegna nemmeno la stampa clandestina, per la quale dà fuori alcuni componimenti poetici dai titoli significativi: Il Papato al cospetto di Dio. Papa Gregorio e Nicola Imperatore, che richiamano su di lui l'attenzione del Buon Governo, il quale ai primi di marzo 1846 fa fare una perquisizione in varie tipografie fiorentine, conclusasi con l'invito al D. di lasciare la Toscana e, per suggerimento di Massimo D'Azeglio, di passare in Piemonte (A. Neri, Lettere inedite..., 1898-1900, p. 651). A Firenze lasciava un ricordo di sé anche nel teatro: vi era stato rappresentato il 14 febbr. 1844 nel teatro degli Intrepidi, poi nel teatro dei Cocomero. ora Niccolini, il suo dramma in cinque atti in prosa Domenico Veneziano e Andrea del Castagno, nella cui introduzione (p. 15) esalta, fra l'altro, il sublime ingegno di G. B. Niccolini "novello Sofocle".

Dopo un breve soggiorno a Pisa e a Genova (qui clandestino, aiutato da amici: Lettere, p. 22) prende dimora a Torino, che durerà però qualche mese appena. Avvezzo a o vivere lauto", "nel vestire elegantissimo che a Torino aveva fatto più di un geloso" (F. Bosio, pp. 72, 81), comincia a sentire i morsi delle strettezze. Tuttavia a Torino gli si presentano rosee prospettive: amico del Brofferio e del Menabrea, Giuseppe Pomba ed altri editori torinesi gli fanno balenare la speranza di fondare e dirigere un giornale con generoso stipendio e più immediatamente una cronaca mensile (A. Neri, p. 651) Così la penso, che poi attuerà a Losanna. Compose poesie a sfondo politico anticiericale come la truculenta Notte del Sabato Santo. I due papi (Bosio, pp. 67, 70), ma si sente a disagio nei "quadrati di questa città quadrata, dove tutti parlano sommesso, tutti camminano pian pianino" (Lettere, p. 23), disprezza "codesto prudente liberarismo che digiuna ad imitazione della corte, che sente predica alla domenica e ogni venerdì recita il rosario del programma cattolico del conte Balbo" (Lettere, p. 24),dove "si vuole accomodare col carnevale la quaresima". Il 4 giugno 1846 gli viene imposto di lasciare entro quindici giorni gli Stati sardi, probabilmente per pressione austriaca: "è l'aria lombarda che soffia" (Lettere, p. 28). Ottiene una proroga di pochi giorni, e dopo avere pensato a Marsiglia (ibid., p. 28),sceglie la Svizzera come luogo d'esilio col proposito "di essere a tutti cotesti principotti, io, in luogo di coscienza e di memoria; ho giurato che la mia voce debba intronar loro all'orecchio di ogni momento, rammentando la verità e la giustizia" (ibid., p. 26); e perciò rifiuta la possibilità che gli era offerta di tornare nel patrio Veneto ma a patto di una umiliazione (ibid., p. 30).

Dopo un breve soggiorno a Ginevra si stabilisce a Losanna, e qui entra in relazione con l'editore Stanislao Bonamici, con la convinzione che la propaganda attraverso la stampa sia efficacissima: "una stamperia vale come un esercito" (Lettere, p. 37). Presso la tipografia Bonamici comincia, nell'agosto 1846 - e durerà fino al luglio 1847 - apubblicare la sua "cronaca" mensile coi titolo Cosìla penso, un "libro-giornale di letteratura politica", come egli stesso lo definisce (I, p. 12).

Il titolo potrebbe far pensare alla fiorentina Quel che vedo e quel che penso, ma è, specialmente dalsecondo fascicolo in poi, lasciato il tono facete dialogante, cosa tutta diversa, illustrazione e commento ai fatti politici del giorno, rimpastando ciò che gli veniva fatto conoscere da anonimi corrispondenti, fra i quali il Mazzini stesso (Ed. naz. degli scritti di G. Mazzini, Scritti editi e inediti, XXXVII, p. 81), Luigi Torelli, Savino Savini ed altri. Ebbe un grande successo: se ne vendevano 3.000 copie (Lettere, p. 37).La nota saliente, in questi anni di largamente diffuso neoguelfismo, è, al contrario un aperto anticlericalismo e una conseguente sfiducia che il nuovo papa possa dare un volto nuovo, moderno, e fino a un certo segno, liberale, allo Stato della Chiesa e, direttamente, agli Stati italiani, meno di tutti in quelli di diretto o indiretto dominio austriaco. Per il D. i vecchi strumenti politici ed amministrativi erano inadatti a conformarsi ai tempi nuovi, anzi, specialmente nello Stato della Chiesa, i vecchi poteri costituiti sabotavano apertamente la buona volontà del nuovo papa. Era compito delle forze democratiche di prendere esse in mano gli strumenti promettenti un vero capovolgimento della situazione; nessuna fiducia, invece, nelle riforme dei principi, speranza, al contrario, nelle forze popolari. Questo suo anticlericalismo essenzialmente politico si sposava con l'apprezzamento positivo, per lui indispensabile. della religiosità cristiana evangelica da sottrarre alle spire soffocanti delle istituzioni ecclesiastiche temporalesche, specialmente gesuitiche, ma presenti in tutto il sistema di Stato teocratico. Impressionanti le pagine (Così la penso, I, pp. 293-306) nelle quali descrive lo stato caotico del regime ecclesiastico.

Lo scetticismo del D. sulle possibilità reali delle riforme principesche, e in parte avverso al moderatismo politico, comportava di conseguenza, anche se non espresso apertamente nelle paginette di Cosìla penso, un ideale programma di democrazia repubblicana, da attuare per virtù di popolo, quindi rivoluzionariamente. Non erano idee originali, certo; tutte orbitavano nel clima del mazzinianesimo. E infatti, nel settembre 1846, il D. comincia a mettersi in relazione epistolare diretta con Mazzini a Londra, che lo giudicava "giovane di ingegno, veneto e nostro" (Ed. nazionale degli scritti di G. Mazzini..., XXX, pp. 185,235) e che, ai primi di gennaio del 1848avrebbe voluto incontrare (ibid., XXXIII, p. 220). Per ragioni tattiche, scostandosi un poco dalla linea mazziniana, il D. smorzava appena appena il contrasto fra moderati ed "esaltati", attirandosi da questi ultimi perfino il sospetto assurdo di essere una spia dell'Austria, egli che invece nel suo periodico aveva smascherato una spia autentica (M. Battistini, Esuliitaliani in Belgio, 1815-1861, Firenze 1968, p. 408). Ma la linea di fondo rimane, sostanzialmente, quella mazziniana repubblicana, protestando contro chi volesse spingerla sul terreno di rivendicazioni sociali radicali; ciò che non gli impedisce di scrivere: "Non lungi dal trono pullula e s'educa nel silenzio e nell'ombra un popolo non più visto. Percosso, comperato e venduto finora siccome cosa, incomincia a comprendere la sua meta; maturandosi nella fabbrica e nelle campagne, girando una ruota o maneggiando una zappa, piangendo e cantando nella miseria, ora fieramente solleva di quando in quando dal suo lavoro la testa, segnata d'infamia dalla nobile e ricca ingiustizia e pensa" (gennaio 1847, in A. Galante Garrone-F. Della Peruta, La stampa..., 1979, p. 253). Intanto pubblica, con un lungo discorso preliminare, la Raccolta degli atti officiali e d'altri scritti riguardanti la distruzione della repubblica di Cracovia (Losanna 1847) e, poco avanti le Cinque giornate, lo scritto Lo straniero in Lombardia, con incitamento ai moderati a uscire dalla troppa prudenza e troppa fiducia nella autentica volontà, troppo timida e oscillante, dei principi riformatori e, data la miseranda condizione delle masse agricole nel Lombardo-Veneto, l'incitamento alle classi aristocratiche e borghesi ad associare, con riforme radicali, alla rivendicazione nazionale anche queste classi reiette. In una lettera alla Belgioioso dell'ottobre 1846, ammonisce "che gli è tempo di unire in un medesimo amore, nell'amore che tutti sentiamo del nostro paese". Con l'opuscolo Per la legge marziale (10 marzo 1848) esorta a dare di piglio alle armi e ad unirsi alla rivoluzione europea, cui la Francia aveva dato l'abbrivio.

Le Cinque giornate lo richiamano a Milano, dove giunge da Losanna, il 29 marzo. Scrive al conte Casati: "Io la prego di offrire il mio ingegno, qualunque si sia, e la mia vita al primo governo creato dal popolo" (C. Cattaneo, Scritti storici e geografici, II, p. 320; v. anche R. Corrado, p. 49). Presto si affianca a Mazzini nella lotta contro i moderati, prevalenti nel governo provvisorio, opponendosi alla fusione degli Stati sardi nella Commissione del governo provvisorio per studiare la legge elettorale (C. Cattaneo, Epistolario, I, pp. 241, 330), scrivendo nella Italia del popolo e sottoscrivendo la protesta contro la fusione con gli Stati sardi.

Il 5 ag. 1848, cinque giorni avanti il ritorno degli Austriaci, dopo avere tentato invano di raggiungere Venezia (R. Corrado, p. 50), ripara a Genova, dove, d'incarico di Mazzini, tiene accesa la fiamma dell'insurrezione nazionale, ancora viva in tanta parte d'Europa. L'agitazione da lui ispirata, attraverso i circoli democratici, contro la fiacchezza del governo regio, provoca (30 agosto) il suo arresto, ordinato dal ministro degli Interni, P. D. Pinelli, e l'ordine di espulsione; ma il provvedimento, osteggiato da violente manifestazioni popolari, viene revocato e il D. continua l'agitazione appoggiandosi al Circolo italiano, in opposizione al più moderato Circolo nazionale. Sono mesi, per il D., di febbrile attività agitatoria contro il governo piemontese, accusato di inerzia, di avere accettato l'armistizio Salasco, di avere abbandonata a se stessa la rivoluzione nazionale italiana. Dall'ottobre 1848 accende gli spiriti con l'idea montanelliana della Costituente nazionale, nella quale vedeva la possibilità di una realizzazione repubblicana del problema italiano. Il centro del movimento è, in quei giorni, Firenze; ed egli vi si reca già il 14 novembre, in contatto col Comitato per la costituente democratica; ma spostandosi quel centro a Roma, egli vi si porta (10 dic. 1848), dopo un rapido giro di contatti e di propaganda a Bologna, in Romagna, nelle Marche (su ciò, resoconto dei D. in lettera del 23 nov. 1851, in R. Corrado, p. 61: "un quaresimale vagabondo per la santa costituente", così egli diceva: G. Monsagrati, Nuove ricerche su G. B. Castellani, 1976, p. 208). Pio IX era fuggito da Roma da una settimana. Il D. vi veniva come rappresentante del Circolo del popolo di Firenze presso l'analogo circolo romano per promuovere una Repubblica Romana vista come primo nucleo di una repubblica unitaria italiana, non una federazione di Stati monarchici, come proponeva la Costituente giobertiana. È opera del D. la formazione (9 genn. 1849) di un Comitato dei circoli italiani. Portavoce di questo comitato, da lui promosso e da lui largamente compilato, col contributo finanziario di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino (R. Corrado, p. 60), fu il giornale Il Tribuno, che cominciò a uscire l'11 gennaio (O. Majolo Molinari, La stampa... romana, II, p. 948) dopo che il D. aveva collaborato a La Voce di un popolano di cui uscirono pochi numeri (ibid., p. 983). Si proponeva di stringere in un solo fascio tutte le Sinistre, preparandovi la piattaforma per una presidenza Mazzini; ma il programma trovò obiezioni non solo nell'ala federalistica del Cernuschi, ma anche in mazziniani di stretta osservanza, sospettosi del posto centrale che il D. sembrava volesse assicurarsi. Proclamata, principalmente per le sue insistenze, la Repubblica Romana, sostenne fortemente la istituzione di una Costituente nazionale italiana preparatrice dell'unità nazionale in veste repubblicana. La proclamazione della Repubblica Romana diede al D. ragione su di un punto a lui particolarmente caro: implicava cioè la fine del potere temporale del Papato e l'apertura, sempre secondo il D., verso una riviviscenza dell'autentico cristianesimo evangelico e di un programma di larghe riforme nel campo sociale, specialmente necessarie per sollevare le condizioni della plebe romana e italiana in genere, pur serbandosi riservato circa la possibilità di attuare radicali riforme di stampo socialistico.

La battaglia giornalistica nel Tribuno aveva reso difficile la posizione del D. a Roma; per cui, pro bono pacis, egli accettò di andare come rappresentante della Repubblica Romana presso la Confederazione elvetica. Partì da Roma il 19 febbraio; il 23 e il 24 si incontrava con Mazzini, che si avviava a Roma; il 10 marzo giungeva a Genova, insieme con Goffredo Mameli (Mazzini, XXXVII, p. 370), l'11 marzo era a Berna, col suo nuovo incarico: "Mi avevano esiliato da Roma per liberarsi di me; io m'ho sopportato l'esilio per non eccitare dissidi alla vigilia della battaglia": lettera del 23 marzo 1852 a Giuseppe Gabussi (in R. Corrado, p. 106). Il D. si diede molto da fare durante questa sua missione svizzera, durata tre mesi e mezzo fino alla caduta della Repubblica Romana, ma con scarsi risultati, anche perché poco e male assecondata dalle autorità romane e perché lasciato senza mezzi. "De Boni mi scrisse che non aveva di che comprarsi del pane" (lettere di L. Frapolli del 29 aprile del 1849, in M. Menghini, Frapolli..., p. III; v. anche C. Cattaneo, Epistolario, I, p. 331). Tentò di raccogliere volontari svizzeri, tedeschi, francesi da mandare a Roma, promosse manifestazioni popolari di simpatia per la causa italiana a Ginevra e a Berna e perfino nel gesuitico cantone di Friburgo; cercò di appoggiarsi al protestantesimo elvetico, ma con poco profitto, perché il protestantesimo zurighese era conservatore e poco benevolo verso i mazziniani (G. Spini, 1956, p. 268); tentò di far pervenire medicinali a Roma, ma furono intercettati dal governo piemontese (P. Cironi, Diario, Mss. II, VII, cc. 104v); progettò una colonia agricola di svizzeri da collocare nell'Agro romano; cercò di far disertare da Napoli gli svizzeri che vi militavano come mercenari: quasi tutto invano; solo, "ed è questo il vero unico frutto della sua legazione" (R. Corrado, p. 106), ottenne per la sua azione di propaganda che il governo federale, il 13 giugno 1849. votasse l'abolizione e la proibizione delle "capitolazioni", cioè le facoltà a Stati stranieri di reclutare come mercenari cittadini svizzeri, ora specialmente nel Regno delle Due Sicilie. Il D. stesso riconosceva che "quanto alla mia legazione fu la sola veramente utile all'Italia, poiché essa servì a togliere dal codice elvetico il principio delle capitolazioni militari" (G. Monsagrati, p. 221). Ancora alla fine di agosto 1849 si illudeva, come non pochi, sulla rivoluzione in Ungheria (C. Cattaneo, Epistolario, I, pp. 491 s.). Caduta la Repubblica Romana (30 giugno 1849), cadde automaticamente anche la missione diplomatica del D., che si trovò di nuovo a cercare in Svizzera i mezzi per vivere; e li trovò, dopo avere superato una grave malattia (lettera del Dall'Ongaro al Tommaseo del 15 novembre del 1849, in A. De Gubernatis, Dall'Ongaro..., p. 165), impiegandosi nella Tipografia elvetica di Capolago, presso la quale pubblicò, col Dall'Ongaro, un solo numero di una rivista Nuova Italia (M. Parenti, VIII, p. 48), e impiantò subito un Archivio storico nazionale delle cose d'Italia, contribuendovi con materiale in suo possesso (R. Caddeo, Le edizioni di Capolago..., p. 70) e collaborando alla Italia del popolo di Losanna (ibid., pp. 101, 109). Nelle stesse edizioni di Capolago pubblicò Ilpapa Pio IX, 1849 (sulla copertina 1850: ibid., p. 109) e Del Papato. Studi, 1850, due volumi, gli unici dei quattro previsti (ibid., p. 109), e una edizione di Jacopo Ortis con una prefazione che suscitò lo sdegno del censore toscano (A. De Rubertis, 1936, pp. 294 s.).

Fra gli esuli non trovò sempre un'accoglienza lieta per il suo carattere un po' spinoso, poco sofferente di critiche, a volte altero, altre bisognoso di essere commiserato. Il Cattaneo ne prese le difese: "posso assicurare che chi non è contento del D. e simili presto o tardi dovrà desiderarli, perché uomini così umani, disinteressati, non si troveranno sempre" (C. Cattaneo, Epistolario, II, p. 29: lettera del 4 luglio 1850). Il D. - implicato anche nell'affare Dottesio per la diffusione di stampa clandestina in Lombardia e nel Veneto, attraverso un giovane amico trevisano Paolo Flora, che arrestato dagli Austriaci parlò troppo (R. Caddeo, La Tipogr. elvetica..., pp. 177, 446 ss.) - sollevò i sospetti del governo federale svizzero, pungolato dall'Austria; e già ai primi del 1851 la posizione del D. si era fatta difficile entro la Tipografia elvetica, dopo che il gruppo federalista Cattaneo-Ferrari ebbe a prevalere nell'azienda (R. Caddeo, Edizioni, pp. 122, 429). Il governo federale, il 22 marzo 1851, gli vietò il soggiorno nel Canton Ticino e l'obbligò (16 apr. 1851: R. Caddeo, Tipografia, p.253) a trovar rifugio al di là del Gottardo, a Zurigo. Qui trovò da sistemarsi a buone condizioni quale istitutore presso la famiglia della esule comasca Luisa Casati. Si aggregò agli altri esuli, divenendo, per un certo tempo, anche commissario dell'Emigrazione italiana a Zurigo (P. Cironi, Diario, Mss. II, VII, 101, c. 44); partecipò ai loro convegni in casa del ricco lombardo naturalizzato zurighese, Filippo Caronti (A. Monti, La vita e le memorie del patriota comasco Filippo Caronti, Milano-Lugano 1918, p. 25) e non meno spesso in casa di Giorgio Herwegh e di sua moglie Emma, dove fra altri incontrò Richard Wagner e probabilmente Jakob Burckhardt (P. Cironi, Diario, Mss. II, VII, c. 119 r; e D. Cantimori, Studi di storia, Torino 1959, p. 310). Ma il clamoroso fallimento del Caronti (aprile 1855), che era stato largo di sussidi agli esuli, e la successiva morte della Casati, aprono grosse difficoltà nella vita quotidiana del D.; egli si arrangia alla meglio con corrispondenze a giornali, specialmente sudamericani, quale La Tribuna di Buenos Aires (A. Galante Garrone-F. Della Peruta, La stampa italiana, p. 542) e di nuovo con lezioni private a stranieri e in particolare a quella famiglia tedesca innamorata dell'Italia degli Schwarzenberg (Filippo e jacopina) che gli furono larghi di aiuto ora e in seguito (F. Bosio, Ricordi, p. 80). Aveva tentato, nel 1854, di concorrere alla cattedra di letteratura italiana al Politecnico federale di Zurigo, ma gli fu preferito il De Sanctis (C. Cattaneo, Epistolario, II, p. 325).

Portato, come tanti, a meditare sulle ragioni del fallimento del '48-49, anche il D. vedeva in quel fallimento solo una tappa, dopo di che il movimento nazionale avrebbe ripreso anima, inarrestabile, ma purché si fosse prodotta una mutazione profonda nelle coscienze, una mutazione appassionatamente religiosa, anche se non richiamabile a nessuna religione positiva se non a un generico evangelismo. Per il D. l'abbattimento del Papato era la ragione prima, il presupposto necessario di questo risveglio religioso-politico. Divergendo dal Mazzini, egli metteva in prima linea l'ideale della libertà, dalla quale sarebbe scaturita anche l'indipendenza politica, in ciò avvicinandosi un poco alle idee di Cattaneo e di Ferrari, ma non accettando il postulato federalistico, anzi, sottolineando che l'ostacolo vero non era solo l'Austria, ma anche i vari Stati italiani, nei quali sospettava la tendenza a negare o limitare lo spirito di libertà. Tutto preso dal ricordo dell'eroismo popolare nelle Cinque giornate e nell'assedio di Roma, vedeva nel prossimo avvenire la necessità di appoggiarsi su quelle libere forze popolari per ritrovare le vie di una realistica rivoluzione nazionale. In sostanza ciò che il D. auspicava, differenziandosi da Mazzini, col quale era tuttavia in frequente cordiale corrispondenza epistolare (Ediz. naz. ..., XLVIII, p. 388; L, pp. 137, 291; LII, pp. 75, 166, 331; LIV, pp. 244, 277) era la costituzione di un partito di democrazia sociale. Non approvò il fallito tentativo mazziniano del 6 febbr. 1853; ma, in linea col Mazzini, rimase sfiducioso circa la possibilità di risolvere per le vie diplomatiche del bonapartismo la questione italiana, che era e restava per lui problema essenzialmente di popolo. Tutte queste idee egli veniva agitando soprattutto nella genovese Italia del popolo.

Scoppiata però la guerra del '59, dopo un attimo di incertezza (cfr. lettera del 14 apr. 1859 al Cattaneo, Epistolario, III, p. 93, n. 4), l'accettò per quanto guerra di principi, cercando di allargarla a guerra generale italiana di popolo, favorendo la forniazione di corpi di volontari, vera espressione di una guerra di popolo. Ai primi di agosto 1859 lasciò Zurigo, forse insieme con Mazzini (Ediz. naz...., LXIII, p. 303), e venne in Italia, prima a Milano, poi a Bologna e a Firenze, e qua e là sospettato ed osteggiato ed espulso sia dal governo provvisorio dell'Emilia del Farini sia da quello toscano dei Ricasoli; poté soggiornare a Parma sotto la protezione di Garibaldi, ma sfiduciato circa la possibilità che il movimento di indipendenza nazionale potesse estendersi al Mezzogiorno, e specialmente, sua idea fissa, nello Stato della Chiesa. Ritorna perciò a Zurigo, angosciato anche per non poter aiutare la vecchia madre lontana, rimasta nel Veneto a languire nella miseria (Facén, p. 238). Non cessa di battagliare per le sue idee con opuscoli e con la collaborazione ai giornali di sinistra, e in essi protesta per la cessione di Nizza (C. Cattaneo, Epistolario, 111, pp. 324 n. 1, 337, 340). Ma la spedizione dei Mille, con le nuove prospettive che essa offriva al suo programma, lo riportò in Italia (metà giugno 1860), a Genova di dove, soprattutto col Bertani, si diede molto da fare per organizzare una spedizione di volontari che, sbarcando sulle coste maremmane, desse il colpo di grazia allo Stato pontificio, congiungendosi con le forze garibaldine nella conquista del Mezzogiorno. Nel settembre 1860 si ritrova anche lui a Napoli con i massimi esponenti della Sinistra, Mazzini, Cattaneo, Ferrari, Saffi ecc., per agire su Garibaldi e impedire che la conquista garibaldina si trasformasse in una conquista regia. Fu tutto inutile, e il D. ne attribuì la responsabilità a Garibaldi "quanto splendido nel campo di battaglia, altrettanto inetto a organizzare e a governare". Tuttavia, non tornò ancora una volta, sdegnoso, in Svizzera. Si stabilì a Napoli, dove, con altri, fu fondatore e poi, con Aurelio Saffi, anche direttore del Popolod'Italia, organo autorevole del Partito d'azione, "il miglior giornale del Sud" secondo Mazzini (Ediz. naz. ..., LXXI, p. 13). E nel Mezzogiorno, che fino allora gli era rimasto del tutto sconosciuto, trovò anche i suo seggio di deputato: fu eletto nel collegio lucano di Tricarico, che gli rimase poi sempre fedele, anche contro Pasquale Villari (T. Pedio, Vita politica, p. 200), nelle elezioni del gennaio-febbraio 1861; annullata per irregolarità l'elezione dalla Giunta elettorale, fu ripetuta e il D. venne confermato nel marzo 1862.

Nel dicembre 1864 fu eletto a Torino quale presidente del nuovo Comitato politico centrale veneto (E Seneca, in Carteggio Cavalletto-Meneghini, p. VIII), non ben visto da molti per essere all'opposizione al governo e per aver favorito quale "mente fantastica", insieme con Cairoli, il moto insurrezionale nel Friuli (ibid., p. 230; L. Briguglio, 1965, pp. 132, 196). Nell'opuscolo Aglielettori di Tricarico. Ricordi (Firenze 1865), rendeva conto della sua attività parlamentare (M. Parenti, VIII, p. 52). La soluzione, non ancora definitiva, del problema italiano lo lasciava insoddisfatto; aveva momenti di abbattimento; nel luglio 1862 pensava di uscire di nuovo dall'Italia e chiedeva al Cattaneo (Epistolario, IV, p. 62) un posto di maestro elementare "per il pane quotidiano". Collaborava al Diritto, e Mazzini se ne doleva (Ediz. naz. ..., LXXVI, p. 100), al Dovere, ecc. (cfr. elenco di articoli, ibid., LXXIX, p. 80). Trasferita la capitale a Firenze, vi si stabilì, ospite di quella famiglia degli Schwarzenberg, che ora, malandato in salute, la personcina sparuta e sofferente. gli continuava l'assistenza che già gli aveva data a Zurigo. Iscritto, non si sa da quale data, alla massoneria (B. Odicini, Ricordo, 1870, pp. 3 s., 7, 12), la sua attività parlamentare, aduggiata anche da un processo per diffamazione al ministro delle Finanze, dal quale uscì invitto (Facén, p. 237), fu vivace e costante, anche se non sempre apprezzata per un certo tono predicatorio della sua eloquenza (F. Bosio, Ricordi, p. 83).

Si adoperò molto per sostenere gli emigrati veneti e romani, fu contrario alla proposta di legge contro il brigantaggio, "legge di sospetti" (Storiadel Parlamento..., V, p. 293); fu contrario, perché troppo blando, all'indirizzo al re sul diritto dell'Italia a Roma capitale (V. P. Gastaldi, I democratici, 1976, p. 336). Fu promotore della legge sulla soppressione delle corporazioni religiose e sulla conversione dell'asse ecclesiastico (Storia del Parlamento..., V, p. 356),parlò contro la convenzione di settembre (ibid., VI, p. 19), e l'11 febbraio del 1867 si batté irruentemente contro il Ricasoli minacciante lo stato d'assedio, immemore "delle virtù del nostro popolo", delle "opere grandi concordi generose che questo popolo ha prodotto" (ibid., VI, p. 144) e, pochi mesi avanti Porta Pia, il 28 marzo 1870, sollevò il grave problema dell'atteggiamento dello Stato italiano di fronte al concilio ecumenico, nel quale "non si trattava di un fatto solo religioso, ma di un avvenimento politico rispetto al quale il governo non poteva assistere inerte" (ibid., VI, p. 316).

II problema religioso dunque non ristava nell'affaticare l'animo del D., che era ben disposto a riconoscere al moderno positivismo i diritti della ragione e della scienza, ma rivendicando le sue convinzioni giovanili sul valore ineliminabile della religiosità quale premessa alla moralità e alla fratellanza universale. Sono sentimenti, idee, discusse e ribadite negli scritti dei suoi ultimi anni: La Chiesa romana e l'Italia (Milano 1863), dedicato ad E. Quinet, col quale il D. fu in vivace corrispondenza (I. Angrisani Guerrini, Quinet e l'Italia, Genève-Paris 1981, p. 154); il proemio alla. traduzione della Vita di Gesù del Renan, ibid. 1863; L'Inquisizione e i Calabro-Valdesi (ibid. 1859), storia ignota agli Italiani (G. Spini, Risorg. e protestanti, p. 284); Ilbattesimo, Bologna 1865, che doveva essere il primo di una serie sui sacramentii ma che ebbe poca fortuna: "Crederesti? se ne sono venduti 50 esemplari non uno di più non uno di meno" si lamentava con l'amico Bosio (p. 87); Ragione e dogma, Siena 1866. Stava compilando, con l'aiuto di C. Correnti, un volume di varie monografie dedicate ad illustri antichi pittori italiani (Bosio, p. 65) quando fu colpito da una grave malattia.

La morte lo colse, a Firenze il 7 nov. 1870, un mese e mezzo dopo Porta Pia e Roma capitale, il sogno della sua vita.

Altri scritti del D., oltre quelli menzionati nel testo: Esmeralda, Melodramma in tre atti, Milano 1838; La giovinezza. Odi, Venezia 1839; Morezella. Leggenda portoghese, Firenze 1842; Emporeo biografico. Classe moderna. Biografia delle donne, Venezia 1845; La congiura di Roma e Pio IX. Ricordi, Losanna 1847; IlPapato e le riforme. Aggiuntovi un proclama di Mazzini ai Romani, Genova 1850, in Biblioteca democratica settimanale, I,disp. 11; Il Sant'Uffitio, ibid., disp. 18; IlPiemonte e la Lega lombarda, ibid., disp. 21-22; Del Papato. Studi storici, I (solo pubblicato), Capolago 1851; Introduzione a M. G. Bruto, Delle Istorie fiorentine volgarizzate da S. Gatteschi..., ibid. 1851; All'emigrazione delle provincie italiane occvpate dall'Austria, Torino 1865.

Fonti e Bibl.: Si rinvia alla ricchissima bibl. di F. Della Peruta in Scrittori politici dell'Ottocento, I, G. Mazzini e i democratici (La letter. italiana. Storia e testi,' LXIX), Milano-Napoli 1969, pp. 991-95. Per la collaborazione a giornali e periodici e così per le lettere dei D., cfr. ibid., pp. 993 s.; in aggiunta una importante lettera di Mazzini del 28 maggio 1857 in B. Montale, Le carte Borzone all'Istituto mazziniano di Genova, in Boll. d. Domus mazziniana, IV (1958), p. 5 n. 1. Per la biografia dei D., specialmente per losviluppo dei suo; pensiero politico, lo studio di gran lunga migliore è la nota introduttiva dei Della Peruta, cit., pp. 961-991; vedi anche dello stesso Della Peruta, Democratici ital. e democratici tedeschi difronte all'Unità d'Italia, 1859-1860, in Annali deil'Ist. G. G. Feltrinelli, III (1960), pp. 11-121; Id., Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma1973, pp. 34, 69, 76, 175, e in particolare 341-77 con le importanti lettere a Georg ed Emina Herwegh (1859-1864); Id., I democratici e la rivoluzione italiana (Dibattiti ideali e contrasti politici all'indomani del 1848), Milano 1974; Democratici premazziniani, mazziniani e dissidenti, a c. di F. Della Peruta, Torino 1979- Cfr. inoltre: Firenze. Biblioteca nazionale, Mss. II, VII, 100-03: P. Cironil Diario, passim; G. Gabussi, Memorie per servire alla storia della rivoluz. degli Stati romani dall'elevazione di Pio IX alla caduta della Repubblica, Genova 1850, II, pp. 143 s., 271-75, 322-34; Archivio triennak delle cose d'Italia dall'avvenintinto di Pio IX all'abbattimento di Venezia, Capolago, poi Chieri, 1850-55, I. pp. 26, 54; 111, pp. 413 s.; G. Ricciardi, L'anticoncilio di Napoli del 1869, Napoli 1870; B. Odicini, Ricordo di F. D. ai Massoni italiani, Firenze 1870; J. Facén, F. D. Cenni, in Riv. europea, II (1870), pp. 235-40; A. De Gubernatis, F. Dall'Ongaro e il suo epistolario scelto, Firenze 1875, pp. 157, 165, 291, 295; Lettere ined. di F. D. (a E. Celesia), in Riv. europea, v, marzo 1875, pp. 21-41; F. Bosio, Ricordi personali, Milano 1878, pp. 59-107; Lettere ined. di patrioti italiani, in Rivista di storia del Risorgimento ital., III (1898-1900), pp. 650-59; D. Ricciotti Bratti, 1 moti romani del 1848-49 dal carteggio di un diplomatico del tempo (G. B. Castellani), Venezia 1903; Protocollo della Giovine Italia..., Imola 1921-22, passim, A. Monti, La guerra santa d'Italia in un epistolario inedito di Luigi Torelli, Milano 1934, ad Indicem; G.Mazzini, Note autobiografiche, a cura di M. Meneghini, Firenze 1943, ad Ind.; Domanda di soggiorno temporaneo di F. D., in Bollettino stor. della Svizzera ital., s. 4, XXIII (1943), pp. 195 s.; Le carte di C. Cattanco. Catalogo, Milano 1951; L. A. Pagano, Ilcarteggio ufficiale di F. 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