PARODI, Filippo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PARODI, Filippo

Mariangela Bruno
Daniele Sanguineti

(Giacomo Filippo). – Figlio di Giovanni Battista, nacque a Genova nel 1630.

Questa data si deduce dall’indicazione dell’età iscritta nella lapide sepolcrale veduta dal biografo Carlo Giuseppe Ratti (1769, p. 59) nell’antica chiesa di S. Teodoro ed è confermata dall’atto di morte, che attesta la sepoltura di Filippo, a settantadue anni, il 22 luglio 1702 (Magnani, 1988, p. 205; Belloni, 1988, p. 173).

Il percorso di Parodi, prima di giungere all’innovativo apporto nell’ambito della statuaria in marmo sui grandi esempi barocchi studiati a Roma, prese le mosse da una formazione da intagliatore alla quale fu avviato dal padre. Il biografo ricordava che costui lo pose «per garzone in botega di certo fabro di legnami perché tal arte apparasse» (Ratti, 1762, 1997, p. 58). La sua prima produzione, probabilmente dall’inizio degli anni Cinquanta, fu dunque costituita da «cornici e sedie» (ibid.), a cui si affiancò il progressivo possesso dell’intaglio di figura (Ratti, 1769, p. 53).

Testimonianza di questa fase è la documentazione emersa a proposito di un tabernacolo in legno per la parrocchiale di Bossolasco, in provincia di Cuneo, eseguito nel 1657 in collaborazione con il padre: si apprende inoltre che i due soggiornarono temporaneamente a Bastia di Mondovì e che realizzarono un altro tabernacolo per la chiesa di Marsaglia (Paglieri, 1986). La presenza in Basso Piemonte era connessa, verosimilmente, alla necessità di rifugio e di impiego durante l’imperversare a Genova della peste, che doveva aver decimato la famiglia.

Il pittore Domenico Piola, appurate le notevoli potenzialità del giovane, lo introdusse presso la committenza, gli offrì progetti grafici da tradurre nell’intaglio e lo indirizzò a Roma per studiare la scultura in marmo (Ratti, 1769, p. 53). A tal scopo venne aiutato economicamente da una sorella, che, sempre secondo il biografo, era alle dipendenze di Francesco Maria Sauli, suo futuro committente (Ratti, 1762, 1997, p. 58).

La cronologia più plausibile della permanenza romana di Filippo (Magnani, 1988, pp. 205-207) deve tener conto della periodizzazione offerta da Ratti, il quale, nella versione manoscritta della biografia, ricordava l’età dello scultore allorquando Piola gli consigliò quel percorso – «in età di trenta e più anni» (1762, 1997, p. 58) –, e, nella versione a stampa, segnalava che «sei anni studiò colà il Parodi: indi a Genova ritornò fatto Scultore, e di qualche grido» (Ratti, 1769, p. 54). Quest’ultimo dato andava a emendare l’arco temporale fissato in un primo tempo nel manoscritto: «Fatichò colà per tre anni continui su l’opere de’ buoni maestri» (Ratti, 1762, 1997, p. 58).

La prima esperienza romana dovrebbe arginarsi, secondo le indicazioni disponibili, in un periodo da collocare poco oltre il 1660 – quando aveva da poco superato i trent’anni – ed entro il luglio 1667, quando, in qualità di «intagliatore», sottoscrisse a Genova il contratto con il capitano Domenico Franceschi per decorare la nave Paradiso (Belloni, 1988, p. 166), a cui è connesso un disegno di Domenico Piola per la poppa (Parigi, Musée des arts décoratifs, inv. 10509). Il saldo per questa commissione, ricevuto il 23 aprile 1668, offre un ulteriore elemento per attestare la presenza a Genova di Filippo, oltre a puntualizzare il vero committente e proprietario dell’imbarcazione, Filippo Spinola del ramo di Tassarolo (Sanguineti, 2012, pp. 69-72). La notizia successiva, ancora collegata a lavori di intaglio, permette di ipotizzare che il primo soggiorno romano, condotto in contemporanea con il grande ed eclettico cantiere berniniano della Cattedra di S. Pietro – concluso nel 1666 –, fosse servito per raffinare le doti di intagliatore, soprattutto nell’osservazione delle straordinarie invenzioni di un artista versatile come Johann Paul Schor.

Il 10 ottobre 1671 il nome di Parodi è registrato nei libri contabili per le nozze tra Anna Pamphilj e Giovanni Andrea III Doria: in occasione del matrimonio, celebrato per procura a Roma in ottobre e poi festeggiato a Genova all’arrivo della sposa, Filippo venne prescelto per l’esecuzione della sontuosa carrozza «a forma di trionfo con intagli, figure sopra dorate, guarnizioni di oro», elaborata sulla base di un suo «disegno» che dava conto di una «foggia non prima usata» (Magnani, 1988, p. 206; Stagno, 2007, pp. 151-153, e 2011; Sanguineti, 2013b, pp. 19 s.; Bruno, in corso di stampa).

Collegabile alla fase progettuale dell’impegnativa commissione è un foglio che raffigura il treno posteriore della carrozza (Genova, Gabinetto disegni e stampe di Palazzo Rosso, inv. D3393), per il quale, nonostante la discordante posizione della critica (cfr. Sanguineti, 2013a, pp. 95, 172, 264 s. n. 326), è possibile ipotizzare un’autografia a favore di Parodi, secondo quanto già sosteneva Gavazza (1981, p. 36; Bruno, in corso di stampa). Una cronaca dell’epoca, riportata da Merli (1871), ricordava il «vaghissimo cocchio» come «opera del famoso scultore Filippo Parodi». Per l’occasione progettò anche la portantina per lo sbarco della principessa: fu responsabile infatti del pagamento del doratore per i «piombi della bussola», per la carrozza stessa, per una serie di nove cornici appaiate ai dipinti ordinati a Domenico Piola e per due statue (Magnani, 1988, p. 206; Stagno, 2012, p. 354). Queste ultime, identificabili con i due Tritoni con aquile conservati nel palazzo del Principe a Genova, vennero scolpite sempre nel 1671, nel contesto di una sorta di ‘fornimento Doria’.

Un ulteriore impegno, che presuppone l’avvenuto soggiorno romano, è quello composto dalla magnifica specchiera con Narciso, lodata da Ratti (1769, p. 59), e da quattro figure cantonali raffiguranti le Stagioni, conservate nella villa Durazzo ad Albissola (Savona).

Collegate dalla critica con le nozze di Giovanni Agostino Durazzo e Maddalena Spinola, celebrate nel 1667 (Magnani, 1988, p. 130), tali opere, certamente provenienti dal palazzo di città (la residenza ponentina acquistò le forme attuali solo nel 1736), potrebbero altresì vedere coinvolti, tra i possibili committenti, Carlo Emanuele Durazzo e la moglie Paola Francesca Balbi (la quale in seguito ordinò altre opere allo scultore); i due coniugi occuparono infatti il piano nobile dell’attuale palazzo Reale almeno dal 1667 e sistemarono la ricca collezione nell’attuale galleria degli Specchi, luogo dove verosimilmente poteva trovar posto la specchiera di Parodi, eseguita dunque tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo (Leoncini, 2012; Sanguineti, 2013a, p. 171; Bruno, in corso di stampa).

Nel 1672 lo scultore era nuovamente a Roma, giacché è certamente da riconoscere in lui quel «Filippo Palodi» residente in strada Fratina presso la parrocchia di S. Andrea delle Fratte (Gavazza, 2009, p. 345). La conferma della sua identità viene anche dalla condivisione di una camera in affitto con l’intagliatore genovese Giovanni Battista Agnesi, fratello di Francesca Maria destinata a diventare moglie dello stesso scultore (Bruno, 2012a; Sanguineti, 2013a, pp. 173, 386). Il secondo soggiorno romano, patrocinato, a detta di Ratti (1769, p. 54), da Francesco Maria Sauli, «non fu men lungo del primo», mentre nella biografia manoscritta, lo stesso biografo indicava una permanenza romana limitata a «quattro o cinque anni» (Id., 1762, 1997, p. 59). In realtà, se lo scultore era a Roma nei primi mesi del 1672, si trovava con altrettanta sicurezza a Genova sia nel dicembre dello stesso anno, quando venne remunerato per un lavoro a intaglio per la famiglia Raggi (Bruno, in corso di stampa), sia alla fine dell’anno successivo, quando si impegnò per l’esecuzione della prima scultura in marmo finora documentata, ossia la Madonna del Rosario. Tale opera, ordinata da Agostino Franzone, fu pagata in quattro rate, con ricevute sottoscritte dallo scultore, dal dicembre 1673 all’agosto dell’anno successivo, quando fu terminata e subito dirottata nella parrocchiale di S. Caterina a Rossiglione Superiore (Franchini Guelfi, 1987, pp. 23 s., 39). In essa emergono, nonostante l’impiego di una tecnica ancora acerba, le suggestioni esercitate dalla visione diretta della S. Susanna di François Duquesnoy, scolpita per la chiesa romana di S. Maria di Loreto, e dal modello della Madonna del Rosario declinato da Alessandro Algardi, artista prediletto da Franzone, in numerose versioni in bronzo.

Al 1675 è documentato un progetto grafico di Parodi per la mostra lignea dell’organo della chiesa dell’Albergo dei poveri a Genova commissionata da Emanuele Brignole e affidata all’intagliatore francese Giovanni Lavernet.

Risale al 28 dicembre di quell’anno la promissio tra il committente e Lavernet, nel contesto della quale sono citati due disegni, sottoscritti e conservati dal «nobile Filippo Parodi scultore» (Alfonso, 1985, p. 112). In seguito il lavoro subì una battuta d’arresto per via di una perizia, dovuta ai pittori Giovanni Battista e Giovanni Andrea Carlone, che, chiamati in causa da Brignole per un consulto il 25 agosto 1677, fecero accantonare il progetto di Parodi, ossia il bozzetto «più piccolo colorito di verde con ornamenti di intaglio dorati», per promuoverne un secondo, di cui non è specificato l’autore, più semplificato (ibid., pp. 111 s.; Franchini Guelfi, 1991, pp. 434 s., 439 n. 27).

Grazie ai contatti romani e ai rapporti intrecciati con lo scultore marsigliese Pierre Puget, a Genova nel corso degli anni Sessanta e saltuariamente in seguito, Parodi ebbe dunque modo di affiancarsi al marmo, iniziando a darne prova nei primi anni Settanta, quando mise in atto «un passaggio dal bancalaro allo statuario» (Franchini Guelfi, 1991, p. 434). Tale ampliamento di produzione è da intendersi come compresenza di un doppio ruolo non contemplato dalle regole delle corporazioni, ma sicuramente esemplato sull’esperienza, anche imprenditoriale, appresa e direttamente sperimentata a Roma, dove aveva potuto osservare le strutture di grandi botteghe polifunzionali. Non è escluso che si trovasse ancora a Roma, per acquisire un franco metodo di statuario, dalla seconda metà del 1674 fino a poco prima dell’agosto 1675, quando, insieme a Giovanni Battista Casella, stimò a Genova alcune statue che decoravano il ninfeo del giardino di palazzo Grimaldi (Leonardi - Magnani, 2010, p. 142). Nel marzo 1676 Filippo fu pagato per il colossale Ercole in marmo commissionatogli in occasione delle nozze di Lorenzo Sauli con Maria Aurelia Sauli e in fase di completamento per il cortile di palazzo Sauli a Campetto, nel cuore della città (Rossi, 1997-1999, pp. 343-349). Nel frattempo, per Francesco Maria Sauli, esponente del ramo principale della stessa famiglia, lo scultore stava eseguendo, con pagamenti finali erogati nel 1677, il monumentale S. Giovanni Battista da porre nella basilica gentilizia di Nostra Signora Assunta di Carignano (Varni, 1877) in dialogo con il S. Sebastiano e il Beato Alessandro Sauli ultimati, un decennio prima, da Pierre Puget per la stessa committenza. Sempre nel 1677 Parodi compì la grande Madonna del Carmine per la cappella di Paola Francesca Balbi, vedova dal 1674 di Carlo Emanuele Durazzo, nella chiesa dei Ss. Vittore e Carlo, come testimoniano i pagamenti a lui intestati, dove è indicato come «statuario» (Gavazza, 1981, p. 31). La stessa committente, nel 1680, ordinò a Parodi, per il fastigio della stessa cappella, quattro statue (p. 37) raffiguranti due Angeli, S. Teresa d’Avila e S. Giovanni della Croce, queste ultime due condotte da Giacomo Antonio Ponzanelli (Franchini Guelfi, 2011, p. 377), il collaboratore prediletto che proprio in quell’anno ne divenne genero.

La notevole raffinatezza esecutiva che si sviluppò progressivamente nelle opere in marmo scolpite in seguito alla più debole scultura mariana di Rossiglione, consente di ipotizzare un contatto diretto, durante i soggiorni romani, con l’ambiente di Bernini e dei berniniani, soprattutto in merito all’ideazione dell’impegnativo S. Giovanni Battista, di cui Ratti ricordava l’esecuzione di svariati bozzetti (1762, 1997, p. 59).

Nel corso dell’ottavo decennio del Seicento sono da collocare opere che riverberano le suggestioni della statuaria romana e al contempo indicano la poetica adottata dall’artista, indirizzata verso una riproposizione delle idee berniniane ingentilite da un modellato morbido, secondo soluzioni in voga tra gli scultori attivi nella Roma del secondo Seicento; tale linguaggio appare evidente nella S. Agata all’interno della chiesa genovese intitolata alla martire, per la quale paiono stringenti il confronto con la S. Bibiana di Gian Lorenzo Bernini e la sintonia espressiva con l’operato di Ercole Ferrata (Bruno, 2012b).

In questi anni Filippo non accantonò le committenze connesse alla lavorazione del legno: eseguì per Ridolfo I Brignole-Sale un «ornamento d’intaglio ordinatogli per sopra Cornici alli due specchi grandi» e un «modello intagliato per una lampada», ricevendo, tra dicembre 1679 e novembre 1680, svariati pagamenti (Gavazza, 1981, p. 34; González-Palacios, 1996, p. 80), mentre nel 1680 fu ricompensato dagli Spinola con 600 lire per l’esecuzione del Cristo deposto, dipinto da Domenico Piola e destinato al sepolcro nella chiesa gentilizia di S. Luca, dove tuttora si trova. Nel novembre dell’anno successivo affiancò alla precedente scultura un Angelo ligneo, ora disperso, che gli fu saldato nel gennaio 1684 (Rotondi Briasco, 1962, pp. 43, 81). In anni non distanti si deve datare un secondo Cristo deposto, sempre in legno, ora di pertinenza delle monache Teresiane di Savona (Magnani, 1992, pp. 320-322), e la statua marmorea del Cristo alla colonna, firmata dall’artista, conservata, insieme alle quattro sculture raffiguranti Venere, Adone, Giacinto e Clizia, presso il Museo di Palazzo Reale di Genova, già di proprietà Durazzo (Magnani, 1988, pp. 152-154; Leoncini, 2007, pp. 66-69). Nella stessa dimora, entro la prima metà dell’Ottocento, si conservavano il virtuosistico busto di Gio Luca Durazzo, databile tra il 1679 e il 1683 (Magnani, 2006, p. 74; Bruno, 2011, p. 160), e il Gesù Bambino dormiente, firmato sul bordo inferiore e accostabile ai Deposti degli anni Ottanta (Milano, 2004): entrambe le opere sono ora in collezione privata.

A questo periodo devono essere datate le due sculture in legno, non più rintracciabili, realizzate per la cappella domestica di Cristoforo Battista Centurione e raffiguranti S. Giuseppe e S. Giovanni Battista (Bruno, in corso di stampa). Nella galleria di palazzo Doria a Fassolo, il 4 marzo 1682, venne messo in scena l’oratorio S. Agnese, composto da Benedetto Pamphilj (fratello di Anna Doria), e musicato da Bernardo Pasquini per il quale Filippo realizzò per 232 lire gli apparati (Stagno, 2012, p. 358). Tra il 1683 e l’anno successivo scolpì il ritratto di Vincenzo Giustiniani per la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Genova, andata poi distrutta (Leonardi, 2013, p. 123). Inoltre, tra il 1679 e il 1684 elaborò, insieme al collaboratore Ponzanelli, dodici statue di Apostoli per la chiesa di Nostra Signora di Loreto a Lisbona, perdute durante il terremoto del 1755 (Franchini Guelfi, 2011, p. 402).

La simultanea esecuzione nell’ambito della stessa bottega – situata in zona Fassolo ai piedi della «salita di Giesù e Maria» –, di scultura in marmo e intaglio ligneo documenta quel ruolo di artista imprenditore, a capo di una équipe di collaboratori – in primis il genero Ponzanelli –, impostata da Filippo sugli esempi romani e presto destinata alla trasferta. La consacrazione a definitiva fama dello scultore è infatti attestata dalle commissioni ricevute al di fuori del contesto locale. Il Sepolcro del patriarca Giovanni Francesco Morosini, nel presbiterio della chiesa di S. Nicolò da Tolentino a Venezia, non solo segnò l’avvio della feconda attività in Veneto, ma importò in Laguna uno scenografico allestimento di stampo berniniano: l’esecuzione, secondo alcuni critici (Spiriti, 1997, pp. 133, 137), potrebbe già essere stata avviata tra il 1675 e il 1678, con il protagonista ancora in vita. Sembrerebbe più ragionevole pensare, tuttavia, a una realizzazione successiva al 1678 e conclusa forse nel corso del 1683, quando Parodi è documentato a Venezia, come attesta la lettera, datata al 5 febbraio, scritta dal pittore genovese Giovanni Battista Merano all’abate del convento di S. Giovanni a Parma per segnalare il transito dell’artista nella città emiliana (Campori, 1855). In ogni caso il 7 giugno 1682 Parodi era ancora a Genova, in qualità di testimone all’atto di battesimo del nipote Gio Filippo, di cui fu padrino (Belloni, 1988, p. 211).

Per la complessa macchina barocca veneziana, incentrata sul grande drappo in stucco che riveste l’intera parete alle spalle del sepolcro, sono noti alcuni disegni progettuali assegnabili a Gregorio De Ferrari (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, invv. 3172A-3173A; coll. priv.; Franchini Guelfi, 1991, p. 435; Boccardo, 1993, p. 40).

Nel corso degli anni Ottanta, Filippo è documentato in Veneto, impiegato in prestigiose commissioni, tra le quali la complessa Deposizione di Cristo, avviata nel 1686 per l’altare di S. Giustina a Padova (il 3 febbraio Parodi firmò l’ordinazione di blocchi di marmo a Carrara) e proseguita per alcuni anni con l’aiuto di una corposa équipe, e il Monumento a Orazio Secco, nella basilica del Santo (1686). Un legame Morosini-Sauli potrebbe essere alla base delle prestigiose commissioni venete, come sembrerebbe suggerire il fatto che al battesimo di un’altra nipote dello scultore, svoltosi Genova (in assenza del nonno) il 21 agosto 1683, Giovanni Francesco Morosini era rappresentato per procura da Lorenzo Sauli (Belloni, 1988, p. 198).

Altri tre disegni di De Ferrari (collezione privata; Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. 3171A; Genova, Gabinetto disegni e stampe di Palazzo Rosso, inv. 3408D; Boccardo, 1993, pp. 40 s.) alludono alla commissione, ricevuta probabilmente al principio degli anni Novanta (1690-93) e poi non espletata, di un Monumento al doge Francesco Morosini, omonimo del patriarca, nella chiesa veneziana di S. Stefano (Ratti, 1769, p. 56). In ogni caso nel 1687, su commissione del Senato veneziano, Parodi eseguì in bronzo il Ritratto a mezza figura del doge Morosini, di cui esiste una versione in marmo al Museo Correr (Lorenzetti, 1926). Nello stesso anno scolpì, per la chiesa di S. Giorgio Maggiore a Venezia, le statue dei Ss. Pietro e Paolo (Bresciani Alvarez, 1964, p. 159). Nuovamente a Padova, nel febbraio 1689 eseguì il piedistallo marmoreo per il candelabro della cappella dell’Arca, mentre nell’aprile dello stesso anno stipulò il contratto con i francescani della basilica del Santo per lo spettacolare altare delle Reliquie, i cui lavori sono documentati fino a giugno del 1694 (Bresciani Alvarez, 1962; Rotondi Briasco, 1962, pp. 82 s., doc. 10; Bresciani Alvarez, 1964, pp. 162 s., 170-172).

La complessa struttura connota uno spazio architettonico abitato da sculture in stucco e in marmo, che segnano, dalla volta alla balaustra, il momento della gloria del santo e quello della venerazione delle reliquie. La Presidenza dell’Arca interpellò nuovamente lo scultore nel 1697, per esortarlo a tornare al fine di perfezionare il complesso.

A Padova si occupò anche della progettazione del pulpito e del coro del duomo, entrambi da tradurre in legno, per i quali aveva approntato modelli e disegni nel 1692-93 (Bresciani Alvarez, 1964, pp. 172-175) e che furono messi in opera da maestranze locali (Rotondi Briasco, 1962, pp. 97 s.).

Nell’ultimo decennio del secolo Filippo condusse a Genova svariate commissioni, tra cui, insieme al fedele Ponzanelli, la Gloria di s. Marta, un nuovo spazio barocco nel presbiterio dell’omonima chiesa monastica databile in contemporanea al cantiere padovano (Magnani, 1988, p. 206); il S. Pancrazio, eseguito insieme al paliotto dell’altare della chiesa dedicata al santo entro la primavera del 1699 (Franchini Guelfi, 1990, p. 84); il Monumento sepolcrale di Vincenzo Gentile in S. Maria di Castello (1694). Per l’impegnativo gruppo marmoreo della coeva Madonna Immacolata sull’altare maggiore della chiesa di S. Luca, il cui contratto, stipulato nel dicembre 1698, descrive dettagliatamente l’opera sulla base del «modello di creta già fatto» (Alfonso, 1985, p. 161), sono noti anche alcuni pagamenti, che danno conto di un completamento successivo al gennaio 1699 (Rotondi Briasco, 1962, p. 86).

La documentazione relativa ad alcuni lavori a intaglio realizzati in questi anni per Giovanni Andrea III Doria e ricordati genericamente da Ratti (1769, p. 59), da un lato fornisce chiari elementi di continuità per un solido rapporto di committenza, avviato dal 1671, dall’altro conferma la costante attenzione riservata dall’artista all’intaglio, destinato molto probabilmente a maestranze specializzate in bottega: per la galleria del Palazzo del Principe, tra il 1696 e il 1698, lo scultore realizzò una serie di ‘lumiere’, per le quali ricevette acconti a più riprese fino al consistente pagamento di 2560 lire segnato al 30 settembre 1698 (Stagno, 2012). Nella stessa occasione fu remunerato per «sua mercede della fattura e scoltura fatta à due piedi di buffetto», riconoscibili in due tavolini la cui base è scolpita con aquile araldiche (ibid.). Pur ipotizzando l’intervento della bottega, questi lavori dimostrano una continuità della produzione in legno nel corso di tutta la sua carriera e non solo in una fase antecedente al 1680 (Franchini Guelfi, 1991, p. 434).

L’attribuzione proposta da Ratti (1762, 1997, p. 63; Id., 1769, p. 59) a Parodi del magnifico letto trionfale – «un miracolo dell’ingegno e dell’arte» – per i Brignole-Sale, di cui esiste un disegno progettuale assegnato a De Ferrari (Boccardo, 1996, p. 369), è contraddetta da alcuni documenti, secondo i quali il «Romano intagliatore» remunerato per l’arredo nel 1697 deve identificarsi con Giovanni Palmieri. Contestualmente lo studioso ha dimostrato che la celebre Specchiera Brignole, attribuita a Filippo Parodi da Federigo Alizeri, è il frutto di un assemblaggio di svariati pezzi, ove confluirono anche brani del citato letto (Boccardo, 1996).

Il 5 giugno 1696 Parodi, a Genova, fece testamento (Rotondi Briasco, 1962, p. 85). Il 16 maggio 1701 accolse in bottega come apprendista Francesco Maria Sivori (Belloni, 1988, p. 173). Come detto, morì a Genova e fu sepolto il 22 luglio 1702 nella chiesa di S. Teodoro.

L’inventario dei suoi beni, redatto post mortem il 6 giugno 1703, è un documento prezioso per comprendere la gestione e l’organizzazione della bottega nella quale risultavano presenti molti modelli, alcuni dei quali connessi a celebri gruppi scultorei berniniani (Rotondi Briasco, 1962, pp. 87-91; Magnani, 2006).

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