CARCERARIO, FILM

Enciclopedia del Cinema (2003)

Carcerario, film

Renato Venturelli

Genere comprendente film ambientati per intero o in prevalenza all'interno di prigioni. Nella sua forma più tipica si svolge in epoca contemporanea, riguarda condannati per delitti comuni e viene quindi considerato nell'ambito del macrogenere criminale. Esistono tuttavia molte varianti tipologiche: i film ambientati in carceri tradizionali sono, per es., distinti da quelli che si svolgono in colonie penali, mentre hanno caratteristiche del tutto peculiari quelli incentrati sulle prigioni femminili, sui riformatori giovanili oppure sui penitenziari americani chain gang, dove i detenuti lavoravano in catene all'esterno della prigione. Infine, trattandosi di un tipo di racconto definito essenzialmente da una condizione (la prigionia) e da uno spazio (il carcere), può coesistere con altri generi, dallo storico all'avventuroso, dal western alla fantascienza, a seconda dell'epoca e del contesto narrativo in cui si colloca l'azione.

Nonostante esistano esempi di f. c. fin dal periodo del muto, una significativa codificazione del genere si ebbe all'inizio degli anni Trenta, sulla scia di una serie di episodi di cronaca. A dare un impulso determinante furono alcune produzioni statunitensi realizzate in seguito alle rivolte nelle prigioni di Dannemora e Auburn (1929), al conseguente dibattito sulla riforma carceraria e alle pièces teatrali rappresentate a ridosso degli avvenimenti. Il primo grande successo fu The big house (1930; Carcere) di George W. Hill, dove il penitenziario viene rappresentato come edificio gigantesco, memore di Metropolis (1926) di Fritz Lang, e capace di schiacciare l'individuo con la sua imponenza architettonica. Nel volgere di pochi anni, quasi tutti gli studios si occuparono del nuovo filone, che si sviluppò in modo parallelo al ciclo gangsteristico di cui condivise certe ambiguità etiche (hanno entrambi eroi criminali), ma che manifestò in molti casi una più esplicita polemica sociale, per quanto edulcorata rispetto ai contemporanei testi teatrali. Ogni studio o regista, inoltre, fornì una particolare variazione sul tema. Per es. in The criminal code (1931; Codice penale), Howard Hawks si ispirò a una pièce di M. Flavin imperniata sulla condanna del sistema carcerario, interessandosi però all'universo di rapporti virili e di comportamenti morali più che alla denuncia sociale o al destino che incombeva sul protagonista. Al suo opposto, Michael Curtiz realizzò 20.000 years in Sing Sing (1933; 20.000 anni a Sing Sing), basandosi sul libro di L.E. Lawes, direttore di Sing Sing, che elogiava il penitenziario come luogo di rigenerazione morale dell'individuo. A differenza di Hawks, Curtiz sottolinea proprio l'ossessione visiva di sbarre e ombre, l'intrico di croci e griglie che avvolge ogni personaggio serrandolo in una morsa soffocante. La rapida diffusione di f. c. fece sì che, durante gli anni Trenta, il genere conoscesse negli Stati Uniti uno sviluppo particolarmente intenso, con oltre settanta film prodotti tra il 1930 e il 1939. La major che vi si dedicò in modo più assiduo fu la Warner Bros., che lo declinò all'interno della propria produzione di drammi sociali e criminali: l'esempio più noto è I am a fugitive from a chain gang (1932; Io sono un evaso) di Mervyn LeRoy, in cui le condizioni di vita nei penitenziari del Sud sono denunciate non solo per ragioni umanitarie, ma anche perché la loro arretratezza costituiva un freno alla ripresa economica del Paese. Molti dei successivi sviluppi del prison film vennero inoltre anticipati già in quegli anni. Ladies of the big house (1932; Prigioniere) di Marion Gering affronta la questione delle carceri femminili. The last mile (1932; L'ora tragica) di Samuel Bischoff è invece tutto ambientato nel braccio della morte di un penitenziario, anche se attenua la carica polemica della pièce di J. Wexley da cui è tratto. Hell's highway (1932) di Rowland Brown è un vero e proprio atto d'accusa contro lo sfruttamento dei detenuti nei penitenziari chain gang. E Pardon us (1931; Muraglie) di James Parrott, con Stan Laurel e Oliver Hardy, costituisce già un'articolata parodia del genere nascente. Alla fine del decennio, l'abbondante produzione permise di definire così una serie di personaggi e situazioni canoniche. La scansione degli spazi svolge ovviamente un ruolo fondamentale in un genere caratterizzato innanzitutto dai limiti posti alla libertà di movimento. Da qui l'importanza simbolica delle celle, dei cortili, della mensa, delle docce, dell'ufficio del direttore o della 'buca' d'isolamento, punto massimo di sprofondamento del singolo nel buio di una regressione animale. Alla topologia del carcere si aggiungono poi le diverse tipizzazioni dei personaggi: il giovane onesto destinato a corrompersi, il criminale eroico, l'anziano ormai incapace di concepire una vita libera, la spia, il secondino sadico e quello comprensivo. La chiusura e la ritualità del penitenziario, però, oltre a insinuare una visione cupamente pessimista, provocano anche una sorta di compattamento emotivo: mentre il direttore è per lo più rappresentato come un sincero riformista, la società esterna è quasi sempre intesa come luogo di ingiustizie, ipocrisie e speculazioni affaristiche. Per quanto infine concerne le azioni principali, il ventaglio di possibilità è molto limitato: l'ingresso in carcere e il processo di spersonalizzazione, la rivolta, l'evasione, l'uccisione di un detenuto sono eventi che si ripetono in modo quasi inesorabile. La particolare insistenza con cui questi elementi ricorrono lungo tutto l'arco del genere sembra avere anche una particolare funzionalità, in quanto ribadisce l'idea della prigione come universo chiuso, sempre uguale a sé stesso: ed è da questa ritualità che deriva la frequente natura noir del f. c., visto come discesa agli inferi che in molti casi diventa un percorso senza speranza, dove la critica sociale si mescola a un'oppressione metafisica.

Questo duplice aspetto, di riflessione sulla società e sulla condizione umana, risaltò in modo particolare nella produzione statunitense del dopoguerra, caratterizzata sia dallo sviluppo dei problem films, sia da un processo di tormentata interiorizzazione tipica del noir. È il caso di Brute force (1947; Forza bruta) di Jules Dassin, pesantemente tagliato dalla censura: un film dove la prigione rappresenta l'intera società e la rivolta finale suona come un invito alla ribellione dei popoli contro i loro oppressori, ma dove la condizione di prigionia diventa anche una metafora esistenziale. Tre anni dopo, con il film Caged (Prima colpa) John Cromwell affrontò il tema delle carceri femminili senza lasciare scampo: alla fine, la detenuta onesta sarà costretta ad accettare le regole di una società fondata soltanto sulla corruzione, sul denaro e su una prostituzione intesa in senso letterale oltre che metaforico. Gli anni Cinquanta portarono a un'ulteriore diffusione del genere, anche perché lo spazio ristretto del carcere costituiva un ideale palcoscenico teatrale per star e caratteristi. In Italia, vi furono testimonianze sia sul piano drammatico (Nella città l'inferno, 1959, di Renato Castellani), sia sul terreno della commedia (Accadde al penitenziario, 1955, di Giorgio Bianchi). In Francia, la tradizione di genere sfociò in capolavori come Un condamné à mort s'est échappé (1956; Un condannato a morte è fuggito) di Robert Bresson o Le trou (1960; Il buco) di Jacques Becker. In Inghilterra, il cinema carcerario come denuncia di una più ampia repressione sociale approdò a opere cupe come The criminal (1960; Giungla di cemento) di Joseph Losey, The loneliness of the long distance runner (1962; Gioventù, amore e rabbia) di Tony Richardson e The hill (1965; La collina del disonore) di Sidney Lumet, ambientato in un campo militare. Negli Stati Uniti, il titolo più importante fu Riot in cell block 11 (1954; Rivolta al blocco 11) di Don Siegel, ma risulta testimoniato anche il dibattito sulla pena di morte, sia nel b-movie, tratto dal libro di C. Chessman, Cell 2455, death row (1955; Cella 2455 braccio della morte), di Fred F. Sears, sia nel più famoso I want to live! (1958; Non voglio morire) di Robert Wise. Nel 1962 Birdman of Alcatraz (L'uomo di Alcatraz) di John Frankenheimer fece infine riflettere sul caso autentico di Robert Stroud, condannato all'isolamento totale e diventato in carcere un celebre ornitologo: in questo film, imperniato sulla solitudine e la maturazione interiore dell'individuo, affiora anche una critica risentita contro il riformismo paternalista, che ha abolito molte crudeltà detentive, ma a costo di soffocare l'individualità e la personalità dei singoli prigionieri. Anche i film che hanno cercato di sottrarsi a molte codificazioni del genere hanno finito comunque per ripercorrere almeno una delle due azioni spettacolari predilette dal cinema carcerario: la rivolta e l'evasione. La prima è spesso provocata da un impulso irrazionale e violentemente liberatorio davanti a un'idea di redenzione che passa attraverso la repressione dei corpi. L'evasione, invece, oppone alla costrizione fisica una strategia del buio, una pianificazione fondata sul non visto e sulla dissimulazione, e costituisce un processo attentamente studiato nei dettagli: non a caso si è andata affermando proprio nel periodo (tra gli anni Cinquanta e Settanta) in cui il cinema criminale manifestò una particolare predilezione per il film di rapina. Sia le rapine sia le evasioni sono infatti imprese preparate minuziosamente, spesso fondate su una partecipazione corale, ma per lo più destinate al fallimento a causa di un anello debole, costituito dall'intervento del caso o dal tradimento di un complice.L'importanza dei corpi nel cinema carcerario ha conosciuto una significativa evoluzione attraverso i decenni, per lo più articolata sulle opposizioni liberazione/repressione, luce/buio e sulla più sottile connessione bellezza/sadismo. Già attori come James Cagney (Each dawn I die, 1939, Morire all'alba, di William Keighley) o John Garfield (Castle on the Hudson, 1940, Il castello sull'Hudson, di Anatole Litvak) avevano vissuto l'esperienza del carcere come crudele negazione del loro vitalismo fisico, mentre Burt Lancaster in Brute force accentua l'idea dell'eroe come corpo atletico su cui infierire fino alla brutalità. Il personaggio interpretato da Paul Newman in Cool hand Luke (1967; Nick mano fredda) di Stuart Rosenberg costituirà l'approdo di questo ciclo, passato attraverso un altro esempio di erotismo maschile anni Cinquanta, quello di Elvis Presley in Jailhouse rock (1957; Il delinquente del rock'n'roll) di Richard Thorpe, e destinato a sfociare nella 'cartoonizzazione' pop di Burt Reynolds in The longest yard (1974; Quella sporca ultima meta) di Robert Aldrich. Il protagonista di Cool hand Luke rappresenta infatti il destino del ribelle senza causa, di un corpo sempre più vessato proprio a causa della sua insopprimibile esuberanza vitalistica. L'erotismo è del resto una componente fondamentale di tutto il cinema carcerario, presente in modo esplicito sia sul versante omosessuale (Un chant d'amour, 1950, di Jean Genet; Fortune and men's eyes, 1971, In disgrazia alla fortuna e agli occhi degli uomini, di Harvey Hart; Kiss of the spider woman, 1985, Il bacio della donna ragno, di Héctor Babenco), sia nel fenomeno del women's prison film esploso negli anni Settanta e fondato su nudità, sadismo e lesbismo. Tra gli esempi più significativi vi sono alcuni film della New World Pictures di Roger Corman, compreso Caged heat (1974; Femmine in gabbia) di Jonathan Demme, ma il filone si era diffuso rapidamente in tutto il mondo: da ricordare in Italia Diario segreto di un carcere femminile (1973) di Rino Di Silvestro e Prigione di donne (1974) di Brunello Rondi, mentre tra i registi più assidui spicca Jesus Franco, autore di Pénitencier pour femmes, conosciuto anche come Frauengetänghis (1975; Penitenziario femminile per reati sessuali) e di molti altri titoli sado-voyeuristici.La produzione sensazionalista restò comunque marginale, all'interno di un genere che negli anni Sessanta e Settanta veicolò un più ampio atteggiamento di ribellione contro ogni società repressiva. Una delle tendenze più diffuse rimase la denuncia sociale, indirizzata sia contro l'istituzione carceraria in sé, sia nei confronti di ingiustizie e conflitti che trovano in carcere un luogo di forte concentrazione drammatica. Negli Stati Uniti, un film come Brubaker (1980), diretto da Rosenberg, denuncia lo sfruttamento dei detenuti, mentre altri film, da Short eyes (1977; Esecuzione al braccio 3) di Robert M. Young ad American me (1992) di Edward James Olmos o The hurricane (1999) di Norman Jewison, affrontano da diverse prospettive la questione razziale, e altri ancora si schierano nella battaglia contro la pena di morte (Dead man walking, 1995, Dead man walking ‒ Condannato a morte, di Tim Robbins). In Italia, il carcere viene spesso trattato all'interno di commedie, e film come Detenuto in attesa di giudizio (1971, di Nanni Loy) o Basta che non si sappia in giro!… (1976, episodio Il superiore, di Luigi Magni) si rifanno a una tradizione satirica nel rielaborare spunti d'attualità; negli ultimi anni, tuttavia, è prevalso un tono drammatico, spesso legato ad avvenimenti di cronaca ed esperienze reali (Mery per sempre, 1989, di Marco Risi; Ormai è fatta!, 1999, di Enzo Monteleone). Quasi in ogni nazione, comunque, si ritrovano f. c. come luogo di dibattito sociale: il Brasile dei ragazzi abbandonati in Pixote, a lei do mas fraco (1980; Pixote, la legge del più debole, di Babenco), la Turchia della repressione politica ed etnica nei film di Yılmaz Güney (Le mur, 1983, La rivolta), l'Israele della questione palestinese in Me 'achorei hasoragim (1984; Oltre le sbarre) di Uri Barbash, l'Iran dell'integralismo religioso in Bāykot (1985, Il boicottaggio) di Mohsen Makhmalbaf, oltre alle dittature sudamericane, ai gulag sovietici e soprattutto ai lager nazisti, che costituiscono un settore a sé. Ma è significativo per l'immaginario anche un successo come Midnight express (1977; Fuga di mezzanotte) di Alan Parker, che propone uno spunto ricorrente: il terrore che colpisce l'occidentale dal momento in cui viene chiuso in un carcere straniero o del Terzo Mondo.Accanto a queste tendenze, vanno ricordati quei film che si pongono nel solco di una tradizione classica, dal notevole Escape from Alcatraz (1979; Fuga da Alcatraz) di D. Siegel a The Jericho mile (1979; Jericho mile) di Michael Mann, da certi esempi di Hong Kong come Jian yu feng yun (1988, conosciuto anche come Prison on fire) di Ringo Lam ad Animal factory (2000) di Steve Buscemi, tratto da un libro di E. Bunker. Sono tutti film che lavorano dall'interno sui meccanismi narrativi e sull'immaginario del genere, ed è proprio in quest'ambito che si collocano due film, diretti da Frank Darabont, tratti da romanzi di S. King, The shawshank redemption (1994; Le ali della libertà) e The green mile (1999; Il miglio verde) con le insolite prospettive fantastiche offerte dalla riflessione dello scrittore sul mito; ma è significativo anche l'action movie The rock (1996) di Michael Bay, che recupera in chiave postmoderna le grandiose architetture di Alcatraz, penitenziario chiuso nel 1963 e rimasto come leggendaria fortezza vuota e minacciosa, già sfruttato in modo analogo in Point blank (1967; Senza un attimo di tregua) di John Boorman.In questi ultimi casi siamo però davanti a un ulteriore aspetto del cinema carcerario, quello che lo vede mescolarsi ad altri generi. Un film come Papillon (1973) di Franklin J. Schaffner rimanda, per es., alla tradizione avventurosa, mentre There was a crooked man (1970; Uomini e cobra) di Joseph L. Mankiewicz costituisce un ottimo western carcerario, e la prigionia bellica annovera titoli famosi che vanno da La grande illusion (1937; La grande illusione) di Jean Renoir a Stalag 17 (1953; Stalag 17 ‒ L'inferno dei vivi) di Billy Wilder, da The bridge on the river Kwai (1957; Il ponte sul fiume Kwai) di David Lean a The great escape (1963; La grande fuga) di John Sturges o al particolare Come see the Paradise (1990; Benvenuti in Paradiso) di A. Parker, sui campi di concentramento americani per compatrioti di origine giapponese. Negli ultimi anni, poi, la fantascienza ha utilizzato la prigione come centro simbolico di future società concentrazionarie: da qui i particolari sistemi coercitivi di Fortress (1993; 2013 ‒ La fortezza) di Stuart Gordon, gli scenari horror di Alien³ (1992) di David Fincher o addirittura le metropoli odierne trasformate in carceri infernali, come preconizza John Carpenter in Escape from New York (1981; 1997 ‒ Fuga da New York) e in Escape from L.A. (1996; Fuga da Los Angeles). L'ibridazione è del resto una delle caratteristiche fondamentali del cinema di genere odierno, ed è quindi lecito attendersi sempre nuove contaminazioni, senza però trascurare gli sviluppi delle due grandi linee ispiratrici del cinema carcerario: che da una parte continua a riflettere sull'immaginario e sui meccanismi narrativi del genere, e dall'altra guarda al microcosmo delle prigioni come specchio delle più diverse urgenze sociali.

Bibliografia

R.B. Querry, Prison movies: an annotated filmography 1921-present, in "The journal of popular film", 1973, 2, pp. 181-97.

B. Crowther, Captured on film: the prison movie, London 1989.

J.R. Parish, Prison pictures from Hollywood, Jefferson (NC)1991.

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