GUERRA, FILM DI

Enciclopedia del Cinema (2003)

Guerra, film di

Mino Argentieri

Il f. di g. si configura come la messa in scena di un conflitto drammatico, storicamente identificato nei suoi riferimenti, in cui l'evento bellico non si limita a fare da ambientazione, ma fornisce una dinamica propria allo sviluppo dell'azione e alle caratteristiche dei personaggi. Il nucleo narrativo è spesso rappresentato dal compiersi di una missione di guerra particolarmente avvincente raccontata da un punto di vista unilaterale che avvalora negativamente la parte nemica come fonte di agguati e di pericoli, a volte demonizzandola come agente di crudeltà ed efferatezze. Quando il f. di g. è incentrato sullo svolgersi di una grande battaglia o di eventi storici rilevanti riconducibili a un importante conflitto, lo stile assume un respiro epico e l'azione una maggiore coralità. Pur ripetutamente piegato a intenti di propaganda diretta o indiretta, il f. di g. ha conosciuto un'emancipazione che ha investito forme affabulatorie differenti, arrivando talvolta a veicolare intenti pacifisti o antimilitaristi nel rappresentare gli orrori umani propri di ogni guerra. Rispetto alla certificazione documentaria della 'verità' bellica la finzione amplifica la spettacolarità mediante l'esasperazione degli antagonismi, degli effetti visivi, del ritmo e al contempo cerca di restituire il realismo dell'azione. Pressoché costante risulta inoltre la contaminazione tra il film bellico e gli altri generi, in particolare il film d'azione o il film storico, ma anche la commedia satirica e persino il melodramma.

Dai primi esempi all'evoluzione del genere

Fin dai rudimentali film dei primi anni Dieci si impose uno schema che implicò una precisa dinamica: la presentazione del protagonista, l'incarico assegnatogli, l'assolvimento del compito, il superamento degli ostacoli affiorati, la gratificazione finale, nel caso sia di un protagonista 'collettivo', una pattuglia o un intero esercito, sia di pochi militari, investiti in genere di qualità eroiche. Uno dei film italiani delle origini, La presa di Roma di Filoteo Alberini (1905) adottava già uno schema similare permeato fatalmente di retorica. Il passaggio al lungometraggio, attorno al 1919, determinò l'amplificazione della struttura narrativa e della dimensione spettacolare, la cui complessità e il cui dispendio di mezzi non esclusero la collaborazione delle autorità militari. L'elemento corale e per così dire coreografico-effettistico ebbe sin dagli inizi una predominanza derivatagli, fra l'altro, dalla tradizione pittorica a soggetto bellico e dalle tavole disegnate che ne illustravano gli eventi. Dagli anni Venti l'azione spettacolare si intrecciò con analisi introspettive e, censure permettendo, si aprì a immagini dure e sgradevoli, a problematiche di denuncia morale, cedendo progressivamente il passo a una visione delusa, disincantata, non asservita alle ideologie, franca nell'esaminare il tormento dei corpi e delle coscienze. Il sanguinoso travaglio del conflitto 1914-1918 segnò una svolta e forgiò modelli duraturi. Malgrado quanto sostenuto a lungo e con ostinata convinzione, non furono i regimi dittatoriali a impiegare per primi il cinema a fini propagandistici, predisponendo così alcuni 'codici' del film bellico. Opere come The Prussian cur (1918) di Raoul Walsh, The little American (1917) di Cecil B. DeMille, Hearts of the world (1918; Cuori del mondo) di David W. Griffith, descrivendo l'Europa come terra di conquista per la Germania e demonizzando i tedeschi, suscitarono nell'opinione pubblica americana correnti di simpatia per le decisioni del presidente Th. W. Wilson. Persino Charlie Chaplin, spirito libero e ribelle, nella pungente satira di Shoulder arms (1918; Charlot soldato) immaginò parodisticamente che Charlot catturasse il Kaiser Guglielmo II e il generale P.L. von Hindenburg.

L'Italia non fu da meno nel voler eccitare gli animi. Tra i titoli pregni di 'retorica bellica': Gloria ai caduti (1916) di Elvira Notari, Il figlio della guerra (1916) di Ugo Falena, Maciste alpino (1916) di Luigi Maggi e Romano Luigi Borgnetto, Il grido dell'aquila (1923) di Mario Volpe, La leggenda del Piave (1924) di Mario Negri.Nell'intervallo successivo allo spegnimento dei fuochi, malgrado l'insistenza sui moduli spettacolari e romantico-sentimentali ‒ The four horsemen of the Apocalypse (1921; I quattro cavalieri dell'Apocalisse) di Rex Ingram; Wings (1927; Ali) di William A. Wellman ‒ si ebbero momenti di maturazione espressiva. Un sottofondo di amarezza lastrica The big parade (1925; La grande parata) di King Vidor; uno sperimentalismo audace e un'accalorata requisitoria contro gli inutili sacrifici dei vivi e dei morti trasudano da J'accuse (1919; Per la patria) di Abel Gance; una pittura acre scaturisce da Westfront 1918 (1930) di George W. Pabst, Niemandsland (1931) di Victor Trivas, A farewell to arms (1932; Addio alle armi) di Frank Borzage, Broken Lullaby (1932; L'uomo che ho ucciso) di Ernst Lubitsch. Dalla Russia si levò la voce delle avanguardie che conciliarono la politicizzazione delle arti e la ricerca formale. Sergej M. Ejzenštejn (Oktjabr′, 1927, Ottobre), Vsevolod I. Pudovkin (Konec Sankt Peterburga, 1927, La fine di San Pietroburgo), Aleksandr P. Dovženko (Arsenal, 1929, Arsenale) offrirono un'interpretazione classista del fenomeno bellico. A metà degli anni Trenta, in coincidenza con le prime avvisaglie di una crisi dei rapporti internazionali, le cinematografie dei Paesi democratici brillarono per latitanza, con qualche eccezione nel campo dell'impegno politico militante, come nel caso di Espoir di André Malraux realizzato nel 1939, ma distribuito soltanto dopo il 1945, o Spanish Earth (1937) di Joris Ivens. Avaro l'apporto americano: The last train from Madrid (1937) diretto da James Hogan, Blockade (1938; Marco il ribelle) di William Dieterle.In Italia all'impresa coloniale furono dedicati Il grande appello (1936) di Mario Camerini, Sentinelle di bronzo (1937) di Romolo Marcellini, Sotto la croce del Sud (1938) di Guido Brignone, Luciano Serra pilota (1938) e Abuna Messias (1939) di Goffredo Alessandrini, avviando un filone che, rapidamente esauritosi, raggiunse in Squadrone bianco (1936) e L'assedio dell'Alcazar (1940) di Augusto Genina, un livello estetico rilevante. Nel cinema statunitense degli anni Quaranta-Cinquanta la raffigurazione in termini propagandistici e in chiave semplicistica del nazismo e dell'imperialismo nipponico replicò i cliché del 1914-1918 con elementi di serpeggiante razzismo nei riguardi degli asiatici. Ma tra il 1941 e il 1945, i f. di g. hollywoodiani produssero esempi notevoli come Destination Tokyo (1944; Destinazione Tokio) di Delmer Daves e Objective, Burma! (1945; Obiettivo, Burma!) di R. Walsh e riservarono spazi narrativi alla lotta dei popoli oppressi dall'invasore con film come The north star (1943; Fuoco a Oriente) di Milestone, The Cross of Lorraine (1943; La Croce di Lorena) di Tay Garnett, The seventh cross (1944; La settima croce) di Fred Zinnemann. Rari furono i film tedeschi sulla guerra guerreggiata: U-Boote westwärts (1941; Arditi dell'oceano) di Günter Rittau, Kampfgeschwader Lützow (1941; La squadriglia Lutzow) di Hans Bertram, Stukas (1941; Aquile d'acciao) e Besatzung Dora (1943; L'equipaggio Dora) di Karl Ritter. Genericamente patriottici i contributi italiani di Alessandrini (Giarabub, 1942), Genina (Bengasi, 1942), Aldo Vergano (Quelli della montagna, 1943), Mario Baffico (I trecento della Settima, 1943). Antiretorici, sobri per eccellenza, i film inglesi coniugarono la vocazione documentarista degli anni Trenta con una moderata affabulazione in opere come In which we serve (1942; Il cacciatorpediniere Torrin ‒ Eroi del mare) di Noël Coward e David Lean, "…One of our aircraft is missing" (1942; Volo senza ritorno) di Michael Powell e Emeric Pressburger, San Demetrio-London (1943; Naufragio) di Charles Frend, The way ahead (1944; Le vie della gloria) di Carol Reed. Questo percorso, che univa il dato documentario alla narrazione, venne seguito in Italia da Francesco De Robertis (Uomini sul fondo, 1941; Alfa Tau!, 1942; Uomini e cieli, 1947) e Roberto Rossellini (La nave bianca, 1941; Un pilota ritorna, 1942; L'uomo dalla croce, 1943) mentre, da parte statunitense, trovò eco nei filmati realizzati a seguito delle truppe alleate da cineasti come John Ford o John Huston. Il crollo del fascismo e la Resistenza portarono nei film del Neorealismo una cognizione del dolore prima sconosciuta, un bisogno di conoscenza e di sincerità, un linguaggio scarno con cui rendere poeticamente la pena degli esseri umani colpiti nella loro dignità. Grazie a una serie di film (Roma città aperta, 1945, e Paisà, 1946, di Rossellini; Il sole sorge ancora, 1946, di Vergano; Un giorno nella vita, 1946, di Alessandro Blasetti; O sole mio, 1946, di Giacomo Gentilomo; Achtung! Banditi!, 1951, di Carlo Lizzani) diseguali nei valori ma palpitanti, fu rivissuta la lotta partigiana. Antieroici furono i film tedeschi del dopoguerra che riesplorarono il crepuscolo hitleriano (Die Letzte Brücke, 1954, L'ultimo ponte, di Helmut Käutner; Es geschah am 20. Juli, 1955, Accadde il 20 luglio di G.W. Pabst; Die Brücke, 1959, Il ponte di Bernhard Wicki), mentre in Italia fu costantemente rinviata la tanto attesa analisi del periodo bellico e del consenso al fascismo (risale al 1964 Italiani, brava gente di Giuseppe De Santis).

Duplice fu l'atteggiamento dei giapponesi: il profondo trauma causato dalla tragedia delle bombe atomiche lanciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki, al termine della Seconda guerra mondiale, ebbe riflessi in Genbaku no ko (1952, I figli della bomba) di Shindō Kaneto, Nagasaki no uta wa wasureji (1952, Non dimentico la canzone di Nagasaki) di Tasaka Tomotaka, Hiroshima di Sekigawa Hideo (1953), Ikimono no kiroku (1955, Testimonianza di un essere umano) di Kurosawa Akira. L'occupazione da parte dei vincitori fu al centro di vicende di ambiente criminale o di intensi melodrammi da Konketsuji (1953, Bambini di sangue misto) e Kyōen (1954; Orgia) di Sekigawa Hideo a Buta to gunkan (1961; Porci, geishe e marinai) di Imamura Shōhei.Mentre i film girati fra il 1941 e il 1943 erano stati rabbiosi, il tributo dato dai registi sovietici nel dopoguerra fu invece magniloquente. Film imponenti come Stalingradskaja Bitva (1949; La battaglia di Stalingrado) di Vladimir M. Petrov misero in luce il sacrificio di milioni di persone. Anche a Hollywood non ci fu oblio. I film più realistici vennero realizzati nel 1945: The story of G.I. Joe (I forzati della gloria) di W.A. Wellman, A walk in the sun (Passeggiata al sole ‒ Salerno ora X) di Milestone, They where expendable (I sacrificati di Bataan) di J. Ford. Tuttavia un timbro aspro affiorò, insieme all'elogio della ferma determinazione e della risolutezza nella risposta all'avversario, in Twelve o'clock High (1949; Cielo di fuoco) di Henry King, Command decision (1948; Suprema decisione), di Sam Wood, Sands of Iwo Jima (1949; Iwo Jima, deserto di fuoco) di Allan Dwan. In clima da guerra fredda Hollywood attivò le sirene d'allarme sull'infiltrazione comunista e sovietica (The iron curtain, 1948, Il sipario di ferro, di Wellman) adottando con i sovietici i toni avuti con i nazisti. La guerra di Corea comportò un salto di qualità consolidando il culto della risolutezza e trasferendo su un piano epico il paesaggio coreano (The Steel helmet, 1951, Corea in fiamme, e Fixed Bayonets, 1951, I figli della gloria di Samuel Fuller; Retreat, hell!, 1951, Valanga gialla, di Joseph H. Lewis; The bridges at Toko-Ri, 1954, I ponti di Toko-Ri, di Mark Robson). Ma un film come Men in war (1957; Uomini in guerra) di Anthony Mann, immune da ipoteche ideologiche, ristabilì una misura umana e sofferta. In URSS riecheggiava una mesta elegia del dolore in Sud′ba čeloveka (1959; Il destino di un uomo) di Sergej F. Bondarčuk o in Ballada o soldate (1959; La ballata di un soldato) di Grigorij N. Čuchraj.Intanto stavano franando i possedimenti coloniali in Indocina e in Algeria e si combatteva sotto differenti paralleli, ma il cinema appariva svogliato. Le scarse riflessioni furono effettuate soltanto in un periodo successivo: Patrouille de choc (1957; Pattuglia d'assalto) di Claude Bernard-Aubert, La 317e section (1965) e il ben più tardo Diên biên phu (1991; Dien Bien Phu) di Pierre Schoendoerffer riassaporarono i succhi aspri della sconfitta. Se l'Algeria si affaccia in La dénonciation (1962) di Jacques Doniol-Valcroze, in Le petit soldat (1963) diretto da Jean-Luc Godard, in Muriel ou le temps d'un retour (1963; Muriel, il tempo di un ritorno) di Alain Resnais, toccò all'italo-algerino La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo sollecitare nei diretti interessati una testimonianza che talora raggiunse vertici di vera poesia (῾Aṣifat al-Awrās, 1965, Il vento degli Aurès, di Mohamed Lakhdar-Hamina), pur con pieghe commemorative.Negli anni Settanta-Ottanta il cinema statunitense prese a riflettere sulla ferita non rimarginata della guerra del Vietnam. Il volto più ingrato di quel conflitto appare esposto in The deer hunter (1978; Il cacciatore) di Michael Cimino, Gardens of stone (1987; Giardini di pietra) di Francis Ford Coppola, Casualties of war (1989; Vittime di guerra) di Brian De Palma, film che hanno materializzato le domande angosciose dei vinti, ma anche un desiderio di ritorno alla normalità, corretto dagli autori più inquieti come F.F. Coppola di Apocalypse now (1979) o Oliver Stone di Born on the fourth of July (1989; Nato il quattro luglio). Hollywood, negli ultimi decenni del 20° sec., non ha abbandonato il corredo mnemonico trasmesso dalla Seconda guerra mondiale e i film, diversamente impostati, hanno di fatto ribadito la magnificenza e al contempo le miserie della democrazia americana. In questo contesto S. Fuller ha saputo trasformare in narrazione filmica il disincanto di un ex fante in corsa dall'Africa settentrionale all'Europa in The Big red one, (1980; Il Grande uno rosso). Le direzioni imboccate tuttavia erano state molteplici e contraddittorie: l'avventura mirabolante (The guns of Navarone, 1961, I cannoni di Navarone, di J. Lee Thompson; The heroes of Telemark, 1965, Gli eroi di Telemark, di A. Mann; Where eagles dare, 1968, Dove osano le aquile, di Brian G. Hutton), le vaste rappresentazioni di battaglie indimenticabili (The longest day, 1962, Il giorno più lungo, di Ken Annakin, Andrew Marton, Bernhard Wicki, Gerd Oswald; Tora! Tora! Tora!, 1970, di Richard Fleischer, Masuda Toshio e Fukasuku Kinji; Midway, 1976, La battaglia delle Midway, di Jack Smight), i ritratti biografici (Patton, 1970, Patton generale d'acciao, di Franklin J. Schaffner; Mac Arthur, 1977, Mac Arthur il generale ribelle, di Joseph Sargent), la spavalda temerarietà delle canaglie in armi (The dirty dozen, 1967, Quella sporca dozzina, di Robert Aldrich), e la reviviscenza antimilitarista (Paths of Glory, 1957, Orizzonti di gloria, di Stanley Kubrick). Successivamente sia Schindler's list (1993; Schindler's list ‒ La lista di Schindler) sia Saving Private Ryan (1998; Salvate il soldato Ryan), entrambi di Steven Spielberg, hanno riproposto alcuni eventi rimossi della Seconda guerra mondiale, pur oscillando tra l'orgoglio patriottico e la conclamata innocenza Yankee di Pearl Harbor (2001) di Michael Bay, il realismo epico di The thin red line (1998; La sottile linea rossa, di Terrence Malick), e l'irrealismo di Windtalkers (2002) di John Woo.

Un afflato critico nei confronti dell'orrore della guerra ha caratterizzato negli anni film appartenenti a cinematografie diverse, da Paths of Glory di Kubrick e King & country (1964; Per il re e per la patria) di Joseph Losey a Uomini contro (1970) di Francesco Rosi, da Gallipoli (1981; Gli anni spezzati) di Peter Weir a Capitaine Conan (1996; Capitan Conan) di Bertrand Tavernier.

Anche il conflitto arabo-palestinese è stato oggetto di letture diverse nel corso del tempo: dall'esaltazione della difesa territoriale di Giv'a 24 eyna 'ona, noto anche come Hill 24 doesn't answer (1955; Collina 24 non risponde) di Thorold Dickinson alla guerra sfibrata e inutile di Kippur (2000) di Amos Gitai. Mentre l'estremismo islamico sostituiva i fantasmi del pericolo comunista e giapponense, Top gun (1986) di Tony Scott e Iron eagle (1986; L'aquila d'acciaio) di Sidney J. Furie sono incentrati sulla violenta rappresaglia contro i nemici dell'Occidente. Se la guerra del Golfo è stata censurata e di essa il cinema non si è quasi accorto, essendo Three kings (1999) di David O. Russell solo un avvincente action movie, la guerra di Somalia costituisce invece la densa materia drammatica di Black hawk down (2001) di Ridley Scott.

Motivi, figure, tipologie

Era già evidente nel modello griffithiano (The birth of a nation, 1915, Nascita di una nazione) l'equilibrio conseguito, poi costantemente perseguito nel genere, tra colpo d'occhio paesaggistico, azione di massa e racconto dell'avventura umana drammaticamente segnata dall'impatto con la macchina bellica. Queste caratteristiche rappresentano le costanti di un genere tra i più prolifici e longevi, dotato di tratti, meccanismi, figurazioni e motivi ricorrenti tutt'altro che statici. Se ne ricordano i principali. Se l'addestramento delle reclute è spunto anche per situazioni esilaranti (The flying deuces, 1939, I diavoli volanti, di Edward Sutherland), costituisce però la tappa obbligata sia del processo di educazione alle armi sia della brutale pratica di spersonalizzazione e sottomissione degli individui (All quiet on the western front, 1930, All'Ovest niente di nuovo, di L. Milestone; Full metal jacket, 1987, di S. Kubrick). In tale contesto l'esercito si configura come l'istituzione in cui si misura il senso di appartenenza dei singoli. Una maschera ambivalente è la figura del 'sergente di ferro', ora ammaestratore esperto che insegna a sopravvivere, ora soggetto con propensioni sadiche (From here to eternity, 1953, Da qui all'eternità, di F. Zinnemann; Platoon, 1986, di O. Stone).

Altro fondamentale snodo narrativo del racconto di guerra è il battesimo del fuoco in cui la prova del coraggio, la crudezza della battaglia, il confronto con l'istinto di sopravvivenza costituiscono le tappe obbligate del percorso intrapreso dai personaggi (tra gli esempi, The red badge of courage, 1951, La prova del fuoco, di J. Huston).Ai vari corpi militari, con le loro peculiari caratteristiche (esercito di terra, marina, aviazione) corrispondono altrettanti filoni marcatamente codificati. Le stesse macchine belliche ‒ aerei, navi, sommergibili, carri armati ecc. ‒ nella drammaturgia svolgono funzioni primarie e hanno una valenza simbolica (Air Force, 1943, Arcipelago in fiamme o Forze aeree, di Howard Hawks; Sahara, 1943, di Zoltan Korda). I singoli individui emergono nella coralità dell'azione di gruppi rappresentati da pattuglie, reparti, contingenti, equipaggi (The big parade, di K. Vidor; The story of G.I. Joe, di W.A. Wellman) che formano un microcosmo e sono l'emblema del superamento delle diversità culturali, sociali, etniche, caratteriali nel raggiungimento di una finalità e nel compi-mento di una missione. In The young lions (1958; I giovani leoni) di Edward Dmytryk, vengono affrontati sia il tema del clima razzista nella Germania hitleriana sia l'antisemitismo serpeggiante delle file americane, con un raffronto effettuato all'insegna della spregiudicatezza. È in ambito bellico che si creano le amicizie virili, si amplificano i valori del cameratismo o l'umile e antiretorica epica del sacrificio, il culto fanatico o sommesso del dovere, le deviazioni trasgressive, nichiliste o ciniche. Ed è in questo alveo che si redimono anche figure canagliesche, che pur nella loro negatività si accattivano le simpatie del pubblico. Se gli atti di eroismo passano dal gesto essenziale e asciutto alla prodezza sanguigna, affluiscono nella galleria tipizzante dei personaggi del f. di g. gli psicopatici, le psicologie percorse da turbamenti e interrogativi angosciosi (Home of the brave, 1949, Odio, di Mark Robson; The Caine mutiny, 1954, L'ammutinamento del Caine, di E. Dmytryk). Così i generali e gli ufficiali superiori di Attack! (1956; Prima linea) di R. Aldrich vengono rappresentati sotto una luce fortemente critica. Spesso le intelaiature drammaturgiche sono costruite attorno alle responsabilità del comando e ai dilemmi connessi alle decisioni gravi (Velikij perelom, 1946, La grande svolta, di Friedrich M. Ermler; The gallant hours, 1960, Guadalcanal ora zero, di Robert Montgomery). Il nemico è presentato diversamente, a seconda dei periodi storici e delle congiunture politiche. In particolare, quando l'intento propagandistico è palese e un conflitto è in atto, è una figura in cui si concentrano caratteri molto negativi. Il nemico così è autore di nefandezze e carneficine, e i film indugiano a mostrarne la crudeltà e la violenza. È caratterizzato come subdolo, insinuante e minaccioso allorché si mimetizza, sabota (Saboteur, 1942, Sabotatori, di Alfred Hitchcock) o carpisce importanti segreti (Five fingers, 1952, Operazione Cicero, di Joseph L. Mankiewicz), ma a volte è anche rivalutato per ragioni di opportunità (The desert Fox, 1951, Rommel ‒ La volpe del deserto, di Henry Hathaway).

Tra le figure 'eroiche', al personaggio-soldato tipizzato come il solitario protagonista di imprese disperate, il liberatore di prigionieri dimenticati nel Vietnam, il soldataccio, medaglia al valore, allenato a resistere e a battersi nelle condizioni ambientali più disagiate, l'intrepido, atletico e grintoso guerriero canonicamente raffigurato in First blood (1982; Rambo) di Ted Kotcheff, è stato affiancato negli anni Novanta da un corrispettivo femminile caratterizzato da muscoli d'acciaio, eloquio da caserma, capelli rasati a zero e piglio felino, in G.I. Jane (1997; Soldato Jane) di R. Scott.Tradizionalmente, a parte i casi in cui è del tutto esclusa, la figura femminile è stata rappresentata in vesti molteplici: spia fatale (Mata Hari, 1931, di George Fitzmaurice), sposa adamantina (Mrs. Miniver, 1942, La signora Miniver, di William Wyler), infermiera o ausiliaria (So proudly we rail, 1943, Sorelle in armi, di Mark Sandrich), compagna in attesa fiduciosa (Ždi Menja, 1943, Aspettami!, di Aleksandr Stolpazer e Boris Ivanov), combattente temeraria e vendicativa (Ona žaščiščiaet rodinu, 1943, Compagno P., di F.M. Ermler), al centro di brevi e intensi incontri sentimentali (A farewell to arms di F. Borzage). In particolare, tramite i soggetti femminili il f. di g. ha descritto il cosiddetto 'fronte interno' (Since you went away, 1944, Da quando te ne andasti, di John Cromwell; Yanks, 1979, Yankees, di John Schlesinger; Hope and glory, 1987, Anni '40, di John Boorman).I bambini al contrario rivestono preferibilmente un ruolo sacrificale, incarnando l'innocenza oltraggiata dalla ferocia dello straniero (Bengasi di A. Genina) oppure gareggiando con gli adulti in film che mostrano il tragico traviamento cui conduce l'abitudine alla violenza e alla morte (Jeux interdits, 1952, Giochi proibiti, di René Clément; Ivanovo detstvo, 1962, L'infanzia di Ivan, di Andrej Tarkovskij). Un leitmotiv ineludibile è quello della caccia e della sfida tra unità avversarie (The enemy below, 1957, Duello nell'Atlantico, di Dick Powell) e cocciuti contendenti, irriducibilmente ostili (Shout at the devil, 1976, Ci rivedremo all'inferno, di Peter Hunt; Enemy at the gates, 2001, Il nemi-co alle porte, di Jean-Jacques Annaud). Nella varietà delle situazioni, la prigionia di guerra (La grande illusion, 1937, La grande illusione, di Jean Renoir; The bridge on the River Kwai, 1957, Il ponte sul fiume Kwai, di D. Lean) o la fuga dal lager (The great escape, 1963, La grande fuga, di John Sturges; Von Ryan's Express, 1965, Il colonello von Ryan, di Mark Robson) sono tappe ineliminabili, capitoli di una eterna odissea che culmina, terminate le ostilità, nelle problematiche del disadattamento dei reduci (The best years of our lives, 1946, I migliori anni della nostra vita di W. Wyler; Coming home, 1978, Tornando a casa, di Hal Ashby). Generalmente radicato nei moduli dell'action movie, il f. di g. si è talvolta inoltrato nella metafora, nell'astrazione o nell'apologo (Skammen, 1968, La vergogna, di Ingmar Bergman; Johnny got his gun, 1971, E Johnny prese il fucile, di Dalton Trumbo). Le sue ramificazioni si sono estese alle rivisitazioni attualizzate del film storico in costume (Henry V, 1944, Enrico V, di Laurence Olivier; Kolberg, 1945, di Veit Harlan), alle biografie di celebri eroi di guerra o di figure militari leggendarie (Lawrence of Arabia, 1962, Lawrence d'Arabia, di D. Lean; Von Richthofen and Brown, 1970, Il Barone rosso, di Roger Corman), al dramma sentimentale (Waterloo bridge, 1940, Il ponte di Waterloo, di Mervyn LeRoy; Force of arms, 1951, Stringimi forte tra le tue braccia, di Michael Curtiz), alle rievocazioni delle grandi battaglie (Guadalcanal diary, 1943, Guadal-canal, di Lewis Seiler; Battleground, 1949, Bastogne, di W.A. Wellman), alla fantasy (Star Wars, 1977, Guerre stellari, di George Lucas), alla sfera del comico e della commedia (The general, 1927, Come vinsi la guerra, di Buster Keaton e Clyde Bruckman; Up front, 1951, Marmittoni al fronte, di Alexander Hall; How I won the war, 1967, Come ho vinto la guerra, di Richard Lester), al registro grottesco-satirico (Catch-22, 1970, Comma 22, di Mike Nichols; M*A*S*H*, 1970, M. A. S. H., di Robert Altman). Un film come La grande guerra (1959) di Mario Monicelli ha tratto materia di satira da una costitutiva diffidenza nei confronti dell'ambigua e pericolosa 'seduzione della gloria'. Infine i toni di commedia hanno condotto il f. di g. anche in direzione del film musicale (The story of Vernon and Irene Castle, 1939, La vita di Vernon e Irene Castle, di Henry C. Potter; This is the army, 1943, di M. Curtiz; Oh! What a lovely war, 1969, Oh! Che bella guerra, di Richard Attenborough).

Bibliografia

N. Kagan, The war film, New York 1974 (trad. it. Milano 1978).

T. Perlmutter, War movies, London 1974 (trad. it. Milano 1975).

L'ultimo schermo: cinema di guerra, cinema di pace, a cura di C. Bertieri, A. Giannarelli, U. Rossi, Bari 1984.

P. Virilio, Guerre et cinéma, Paris 1991 (trad. it. Torino 1996).

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