FILM SULL'ARTE

Enciclopedia del Cinema (2003)

Film sull'arte

Paola Scremin

Cade sotto la definizione di f. sull'a. una varietà eterogenea di filmati dedicati alla cultura storico-figurativa: dal profilo biografico di un creatore di varia natura (il pittore, lo scultore, l'architetto, il fotografo, il designer, l'illustratore), alle indagini su opere, città e luoghi d'arte, mostre e installazioni, fino alle attuali storie sociali dell'arte, prodotti televisivi dedicati al costume e ad aneddoti curiosi.

Da sempre ai margini della cinematografia ufficiale, il f. sull'a. sfugge a ogni arbitraria classificazione: dal documentario classico che risponde a semplici schemi narrativi, alle strutture più elaborate che prevedono un racconto per immagini, al più sofisticato cinema di ricerca, questo genere ha promosso ambiti di intervento specializzati come la performance d'artista e, in seguito allo sviluppo delle tecnologie software, anche l'attuale videoarte. Tuttavia, ciò che ha sempre differenziato il f. sull'a. da altri prodotti più specialistici è stata la sua capacità di informare, documentare, narrare o, in casi particolari, tradurre, un momento di vita delle forme attraverso una mirata mise en scène di regia cinematografica.

Nel corso della sua storia, il f. sull'a. ha seguito e interpretato la cultura di un pubblico raffinato e cosmopolita facendosi interprete delle tendenze contemporanee. Questo genere si affermò con una sua autonomia e specificità nell'ambito della cultura formalista europea degli anni Trenta, ponendo il problema del rapporto fra le due discipline in questione, quella delle arti visive e quella del cinema. I pionieri del f. sull'a. infatti, attinsero nuovi linguaggi dalle poetiche del cinema d'avanguardia francese ed espressionista tedesco del secondo decennio del Novecento (cinema astratto o cinema puro, cinema espressionista e cinema surrealista) e, contemporaneamente, coniugarono questa esperienza con le teorie formaliste tedesche della purovisibilità. Fernand Léger dedicò il suo manifesto, Le ballet mécanique (1924), alla realizzazione di un'arte totale e lo fece attraverso il cinema, visto come punto d'incontro di tutte le tradizionali discipline (musica, teatro, arte figurativa, letteratura e poesia), e al tempo stesso mezzo utile a esaltare il mito moderno della velocità e del movimento. L'arte totale, che rappresentava un concetto basilare per la cultura dell'avanguardia anni Trenta, ispirò la realizzazione sia del 'cinema d'arte' dedicato al ritmo delle grandi metropoli, tra le quali si possono ricordare le prime 'sinfonie cittadine' di Dziga Vertov su Mosca (Kinoglaz, 1924, Cineocchio), quelle di Alberto Cavalcanti su Parigi (Rien que les heures, 1926) e di Walter Ruttmann su Berlino (Berlin, die Symphonie der Grossstadt, 1927, Berlino-Sinfonia di una grande città), sia dei primi f. sull'a., poemi sinfonici di musica e immagini.Dalle prime drammaturgie sperimentali, ai documentari d'arte divulgativi o più specialistici detti critofilm, termine coniato da Carlo Ludovico Ragghianti per evidenziare un nuovo approccio scientifico nell'uso della macchina da presa, fino ai reportage degli anni Sessanta, tipici delle poetiche del Cinéma vérité, il f. sull'a. costituisce un'importante memoria e uno strumento di riflessione sulla materia unico nel suo genere.

Gli anni Trenta: i pionieri

Il sapere praticato dagli artisti dell'avanguardia europea negli anni Trenta informò la cultura dei primi registi di f. sull'a., autori abili nella tecnica, ma soprattutto capaci di guardare l'immagine attraverso i parametri moderni spazio-temporali di una sequenza cinematografica che conferiva ai dipinti e alle architetture un'inedita visibilità fino a quel momento estranea alla statica fotografia. I pionieri del f. sull'a., i registi Charles Dekeukeleire, André Cauvin e Henri Storck in Belgio, Luciano Emmer in Italia, si formarono in stretto contatto con la cultura figurativa contemporanea sia autoctona, sia francese; la scuola belga ebbe rapporti con l'avanguardia espressionista e surrealista europea, mentre Emmer, in giovane età, coltivò il gusto per l'astrattismo presso la galleria Il Milione di Milano approfondendo poi i suoi interessi con frequenti viaggi a Parigi. I loro primi f. sull'a. guardano a pittori, scuole locali, grandi cicli di affreschi e pale d'altare della civiltà figurativa classica e fiamminga. D'altronde, in questi anni, la necessità di rappresentare una forte identità culturale a fini propagandistici induceva le cinematografie nazionali a diffondere la storia e il valore simbolico di monumenti suggestivi, quali cattedrali gotiche, grandi e piccoli musei, palazzi, piazze e fontane, con documentari a soggetto turistico-ambientale che, solo in alcuni casi, si ispiravano alle 'sinfonie cittadine' (Italia: Assisi, 1932, di Alessandro Blasetti; Paestum, 1932, di Ferdinando Maria Poggioli; Fontane di Roma, 1938, di Mario Costa; Francia: Au jardin de la France, 1938, di Maurice Cloche; Belgio: Images d'Ostende, 1930, e Train de plaisir, 1930, di Storck). Tuttavia fu la convergenza di cultura figurativa e capacità narrative di regia, a rendere innovativi i primi f. sull'a.: l'importanza di un dettaglio pittorico (L'Agneau mystique des frères Van Eyck, 1938, e Memling, 1939, di Cauvin; Racconto da un affresco, 1938, e Paradiso terrestre, 1940, di Emmer), la possibilità di sintetizzare attraverso ellissi temporali la parabola stilistica di un Paese (Nos peintres, 1924, di Gaston Schoukens; Regards sur la Belgique ancienne, 1936, di Storck), o di chiarire, attraverso il paragone di realtà e pittura, i significati iconografici e simbolici di ritratti e scene varie (Thèmes d'inspiration, 1938, di Dekeukeleire) furono conquiste proprie di questo nuovo genere che, oltre a divulgare la cultura del momento, iniziava ad agire nell'immaginario popolare.

Non a caso, nel 1938, Emmer scelse come protagonista del suo film Racconto da un affresco proprio la figura di Giotto, artista trecentesco divenuto un caposaldo della cultura figurativa degli anni Trenta anche grazie a un celebre scritto di L. Venturi (Il gusto dei primitivi, 1926). Negli anni successivi l'avventura di Emmer proseguì su scelte di gusto decisamente venturiano: Paolo Uccello (Guerrieri, 1943), Beato Angelico (Fratelli miracolosi Beato Angelico, 1948), Piero della Francesca (L'invenzione della Croce, 1948), Sandro Botticelli (Allegoria della primavera, 1948), Vittore Carpaccio (La leggenda di S. Orsola, 1948), Francisco José Goya (Goya: Festa di S. Isidoro ‒ I disastri della guerra, 1950), fino a Leonardo da Vinci (Leonardo da Vinci, 1952). L'alto grado di sperimentazione rese i f. sull'a. di Emmer, girati su fotografie Alinari in bianco e nero, particolarmente interessanti: oltre al serrato racconto di dettagli e all'utilizzo di espedienti tecnico-formali dell'avanguardia, Emmer rinunciò alla retorica del commento parlato in favore di musiche che sottolineano intensi stati emozionali.

Il forte impatto drammaturgico dei documentari di Emmer, considerato con i registi belgi padre del f. sull'a., ispirò anche l'abile narrazione cinematografica del giovane francese Alain Resnais che, nel secondo dopoguerra, realizzò, in omaggio al regista italiano, Van Gogh (1948), Gauguin (1950) e, insieme a Robert Hessens, Guernica (1951). Già da allora, tuttavia, Resnais sperimentò un testo redatto da letterati e interpretato da attori, prassi delle sue future fiction. Dei film di Emmer e Resnais, il critico francese André Bazin notava che solo grazie alla forza plastica del bianco e nero, capace di rendere più omogenee le scansioni di montaggio, il cinema può agire efficacemente nell'imprimere al racconto un alto grado di verità. Attualizzare l'opera d'arte attraverso la temporalità cinematografica divenne poi una procedura considerata scorretta dalla gran parte degli storici dell'arte come, per es., R. Longhi.

Il dopoguerra: critici e storici dell'arte

Dopo la stagione sperimentale, il f. sull'a. del secondo dopoguerra rivestì un ruolo etico nell'istruire le platee attraverso l'arte contemporanea, emblema di libertà, contro le atrocità e le barbarie del passato: P. Picasso e la sua opera furono i soggetti prediletti per molti film sull'arte. In Italia e in Europa, nuove leggi favorirono la produzione e la diffusione di questi film presso le sale cinematografiche, ma uno dei prodotti più significativi dell'interesse suscitato dal f. sull'a. in questo periodo fu il Répertoire des films sur les arts (1953), un catalogo di ben 1109 titoli, raccolti in una mappa di quasi trenta Paesi tra i quali l'Italia risultava il più produttivo (seguito dalla Francia e dalla Germania), ma la cattiva gestione delle risorse a fini speculativi non ne garantì a lungo la qualità. Tuttavia, il dopoguerra convogliò molti intellettuali in un largo progetto internazionale per la realizzazione di quella che si può definire, forse, l'epoca d'oro del film sull'arte. Alla promozione del Répertoire parteciparono istituzioni come l'UNESCO e la Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, nonché personalità della cultura quali Ragghianti, M. Verdone e Venturi, dal 1949 membri del comitato scientifico e organizzativo della FIFA (Fédération Internationale du Film sur l'Art), un istituto parigino con presidente onorario F. Léger, che l'anno successivo trovò sede a Firenze. Nel 1950 la Mostra di Venezia, che già fin dal 1938 aveva ospitato alcuni f. sull'a (Thèmes d'inspiration, diretto da C. Dekeukeleire), organizzò la prima sezione tematica promossa da L. Chiarini, G. Aristarco e Ragghianti, alla quale seguì la pubblicazione di una filmografia internazionale di documentari. In questi anni, in Italia e all'estero, lavoravano al f. sull'a. documentaristi di professione (Antonio Marchi con Nasce il romanico, 1948, prodotto da Attilio Bertolucci; Francesco Pasinetti con Piazza S. Marco, 1947, Il palazzo dei Dogi, 1948, Pittori impressionisti, 1948, Il giorno della Salute 1948; Robert Flaherty con The Titan: story of Michelangelo, 1950, per il quale utilizzò il materiale che era stato girato da Curt Oertel nel 1937, ampliandolo e rimontandolo), registi molto noti insieme ad altri meno affermati (Carl Theodor Dreyer con Thorvaldsen, 1949; Dino Risi con Segantini, il pittore della montagna, 1949; Valerio Zurlini con Miniature, 1951; Riccardo Freda con Mosaici di Ravenna, 1954), direttori di fotografia (Mario Bava, Guido Caracciolo, Carlo Ventimiglia, Henri Alekan), musicisti (Roman Vlad che compose le musiche per Emmer) e infine molti critici e molti storici dell'arte.

Già negli anni Quaranta, gli specialisti della materia si erano dedicati al f. sull'a., ma, usando il cinema come strumento di riproduzione, si facevano garanti dei soli contenuti: in documentari didascalici e retorici, confezionati come cataloghi di forme estranei alla regia, dominava l'enfasi poetica tipica di parametri critici idealisti e crociani, secondo i quali la storia dell'arte era una disciplina per pochi ispirati (Botticelli, 1943, di M. Marangoni, regia di Antonio Pozzetti; Sinfonie piranesiane e Michelangelo da Caravaggio, 1943, scritto da V. Mariani, regia di Edmondo Cancellieri ed Edoardo Saitto; Tintoretto, 1943, scritto da R. Pallucchini, regia di Cancellieri; Andrea Mantegna, 1943, scritto da A. Savinio, regia di Carlo Malatesta). Tale impasse comunicativa ritornò nelle rubriche culturali televisive degli anni Sessanta, come Arti e scienze (1959-1963) e L'approdo (1963-1972).

Solo gli storici dell'arte che guardarono al cinema come forma di pensiero furono in grado di conferire al f. sull'a. degli anni Cinquanta nuove potenzialità comunicative, oltre a quelle espressive fino ad allora sperimentate dai registi. Questa nuova consapevolezza toccò problematiche inerenti la riproduzione dell'opera d'arte avviata con la fotografia nell'Ottocento e trovò importanti spunti nell'opera dei conoscitori, pratici del confronto ragionato tra diverse fotografie in bianco e nero. R. Longhi, ma soprattutto Ragghianti, regista di critofilm per molti anni (dal 1947 al 1964), sperimentarono il f. sull'a. sollevando due problemi importanti per la comunicazione corretta della disciplina; da una parte, il commento dello speaker, spesso banalmente letterario e incentrato su riproduzioni di dettagli inutili, e dall'altra la giusta metodologia di ripresa dell'opera. I problemi dell'esatto posizionamento delle luci e del punto di vista avevano trovato alcune prime risposte grazie agli scritti di H. Wölfflin, promotore della teoria purovisibilista e autore di Wie man Skulpturen aufnehmen soll? (1896), opuscolo tradotto nel 1942 da Umberto Barbaro, che nel 1954 si sarebbe occupato anche della traduzione di Der Geist des Films (1930) di Béla Balász. Anche il tedesco Paul Heilbronner, allievo di Wölfflin e futuro regista (Sculpture in Minnesota, realizzato nel 1951 negli Stati Uniti con il nome di Paul M. Laporte), nel 1935 teorizzò una sorta di proto-critofilm. Nel 1948 Ragghianti girò La deposizione borghesiana di Raffaello per la quale si avvalse di carrelli particolari. Nello stesso periodo Longhi, con Barbaro nella veste di regista, realizzò Carpaccio (1947) e Caravaggio (1948) evocando, da un punto di vista stilistico, la struttura di lezioni universitarie con diapositive: quadri quasi fissi e un testo emblematico di stringatezza letteraria scritto e interpretato in prima persona. La precisione della sua parola, infatti, "aderendo come un guanto all'immagine" (R. Longhi, in "Paragone", 1950, 3, p. 4), rivela una miriade di particolari pittorici inediti all'epoca. Longhi e Barbaro, con i loro due documentari, affermarono una linea purista per il f. sull'a. secondo cui ci si doveva limitare a riprodurre con estrema precisione l'oggetto artistico, mentre solo il testo critico inquadrava e chiariva il dettaglio scelto. La "smania del particolare" (R. Longhi, Un critico accanto al fotografo, al fotocolorista e al documentarista, in "Paragone", 1964, 169), ritagliato e decontestualizzato senza nessun nesso critico, frutto di un formalismo alquanto banalizzato, nel dopoguerra si riscontrò nella proliferazione di documentari basati su facili paragoni formali e iconografici come per es.: Risveglio di primavera (1948) di Giorgio Graziosi; Parliamo del naso (1949) di Glauco Pellegrini; Il demoniaco nell'arte (1949) di Carlo Castelli Gattinara, prodotti che non eguagliano né l'abile drammaturgia dei documentari di Emmer, né l'impostazione purista di Longhi, né tanto meno la scientificità del critofilm di Ragghianti.Contemporaneamente alle sperimentazioni di Ragghianti, Storck diresse Rubens (1948), Leone d'oro a Venezia come documentario, capolavoro di questi anni per la sapiente congiunzione di competenze registiche e critiche per le quali si era valso della consulenza scientifica di Paul Haesaerts, uno studioso d'arte fiamminga formatosi con H. Wölfflin, che esordì con quest'opera come regista di film sull'arte. Haesaerts analizza rigorosamente il processo creativo dei quadri di Rubens mettendo a punto una grammatica cinematografica che poi promosse anche Ragghianti nei critofilm prodotti da A. Olivetti: direttrici luminose, divisioni dello schermo, panoramiche verticali-orizzontali, luci radenti e altro. Questo formalismo della visione ha trovato anni dopo nuovo terreno fertile in alcuni classici del f. sull'a., come negli oltre cinquanta episodi della serie televisiva Palettes, trasmessa in Francia su La Sept Arte dal 1989 al 2001 e realizzata da Alain Jaubert, che ha proposto, di volta in volta, la lettura stilistica di una singola opera d'arte attraverso l'uso repentino delle moderne tecnologie di edizione in videografica, facilitando così la chiarezza espositiva di problemi inerenti la visione.Altro capitolo interessante del f. sull'a. del dopoguerra riguarda il cinema a colori che permise la revisione dei vecchi canoni di montaggio a favore di una narrazione più sciolta. La nuova pellicola Ferraniacolor-monopack, sperimentata dall'ingegnere C. Portalupi, venne utilizzata da registi e operatori proprio sui quadri, soggetti privilegiati su cui tarare la tavolozza meccanica in vista dell'ottenimento di cromie più na-turali. Il primo f. sull'a. a colori, Ceramiche umbre, è del 1949 e fu girato da Glauco Pellegrini, autore di documentari accattivanti e popolari concepiti per un pubblico medio (L'esperienza del cubismo, 1949). La stagione produttiva del colore si avviò nel 1952 con documentari come De Chirico di Raffaele Andreassi, Pittori a Venezia di Rodolfo Pallucchini, Leonardo da Vinci di Emmer e Carlo Carrà di Longhi e Piero Portalupi.

Il dopoguerra fu anche l'epoca del f. sull'a. che venne successivamente chiamato processuale sulla base dell'espressione film processuel utilizzata dallo studioso Ph. A. Michaud (1997) in quanto dedicato al work in progress dell'opera: postura, gestualità, nonché tempi di realizzazione di uno schizzo, sono stati oggetto di interesse per artisti che hanno inteso il cinema come momento di autoriflessione (Picasso), ma anche per registi, capaci di sfruttare questo momento in maniera spettacolare, e per critici d'arte interessati al processo temporale della creazione. Il primo esempio di film processuale, tuttavia, risale al 1913 a opera di Sacha Guitry, autore delle uniche immagini in cui si può seguire il lavoro di P.A. Renoir, E. Degas, C. Monet e F.A.R. Rodin. Un decennio più tardi, in Germania, Hans Cürlis realizzò la serie Deutsches kunsthandwerk, entrando nelle botteghe di artigiani (ebanisti, mobilieri, restauratori, ceramisti, orefici) e filmando artisti come G. Grosz, O. Dix, W. Kandinsky, M. Pechstein e A. Calder in fase di realizzazione. La funzione del film processuale, che nella sua forma vicina al reportage anticipò le moderne performances d'artista, appartiene alla cultura degli anni Cinquanta e, in particolare, nacque sulla base delle nuove teorie storico-critiche inerenti la temporalità interna alla pittura. Un film programmatico da questo punto di vista venne realizzato in Francia da André Campaux che, per cogliere il gesto sicuro dell'artista sulla tela, utilizzò il ralenti (Matisse, 1946). La stessa attenzione al dispositivo cinematografico si ritrova in Visite à Picasso (1950) di Haesaerts che scelse di far dipingere Picasso di fronte alla macchina da presa, su una lastra di vetro, evitando così la ripresa di spalle. In Inghilterra, negli stessi anni, un allievo di John Grierson e R. Flaherty, il regista John Read, più tardi autore di reportage per la BBC, iniziava a riprendere il lavoro dello scultore H. Moore (Henry Moore, 1951). Sono emblemi del film processuale i due cortometraggi intitolati Jackson Pollock e girati rispettivamente nel 1950 e nel 1951 dal fotografo tedesco-americano H. Namuth sull'artista, padre dell'action painting. Namuth vi esalta il 'gesto', esplicativo di poetica da un punto di vista esegetico, come opera e sottile metafora dell'esistere. Mentre la critica d'arte considerava Pollock un epigono del tardo Surrealismo europeo, Namuth fu il primo a rendere noto il dripping (tecnica privilegiata da Pollock, che consiste nel far scendere il colore dall'alto direttamente sulla tela distesa a terra). Nel primo film, un unico piano-sequenza di nove minuti, riprese l'artista dall'alto mentre sale sulla tela; nel secondo, Namuth utilizzò lo stesso dispositivo del vetro impiegato da Haesaerts, ma questa volta la lastra è posta perpendicolarmente al terreno e Pollock ci dipinge sopra. Anche Emmer, con Leonardo da Vinci, documentario vincitore del Leone d'oro a Venezia nel 1952, denunciò la medesima volontà di attualizzare il momento della realizzazione dell'opera attraverso l'animazione dei disegni del grande artista, accompagnati da pensieri e riflessioni tratti dai suoi stessi scritti. Due anni dopo, con Picasso (1954), il regista mise in scena la genialità manuale dell'artista che, in pantaloncini corti e dorso nudo, trasforma un vaso in colomba, o esegue uno schizzo su muro in tempo reale. Con il film processuale, arrivò sullo schermo la figura dell'artista in veste di genio creatore, secondo una concezione romantica dell'arte che percorre i film di fiction del dopoguerra dedicati ad artisti bohémiens quali H. de Toulouse-Lautrec (Moulin Rouge, 1952, di John Huston), V. Van Gogh (Lust for Life, 1956, Brama di vivere, di Vincente Minnelli) e A. Modigliani (Montparnasse 19, 1958, Gli amori di Montparnasse, di Jacques Becker). Una summa spettacolare del film processuale è Le mystère Picasso (1956) di Henri-Georges Clouzot dove, per la prima volta, la figura carismatica dell'artista scompare dietro una tela-schermo per dare forma e lasciare spazio al work in progress della figurazione grazie a speciali colori che agiscono sulla trasparenza. Le mystère Picasso, infatti, è un film cubista sul concetto temporale di 'quadro nel quadro': il fare, il fluire delle forme e dei colori è accompagnato da musiche originali di Georges Auric.I film processuali sull'arte trovarono terreno fertile negli anni Sessanta con le poetiche del Cinéma vérité e con l'inchiesta filmata televisiva. In Italia, dal 1959, fu importante il lavoro di Raffaele Andreassi sul pittore naif Antonio Ligabue: i riti propiziatori alla creazione dell'artista di Guastalla, i lunghi silenzi, il rumore degli strumenti che scandisce il tempo ed evoca la fatica fisica e mentale sono momenti originali di una nouvelle vague dell'arte che trovò in Andreassi forse l'unico promotore italiano. In ambito internazionale, particolare attenzione meritano i documentari dei fratelli americani Albert e David Maysles girati, a partire dal 1974, sugli impacchettamenti di ambienti e monumenti a opera dell'artista bulgaro Christo. Il film processuale ebbe anche una notevole diffusione grazie a trasmissioni televisive che ne adottarono il linguaggio (da Dieci minuti con…, 1956, a Come nasce l'opera d'arte, 1975, entrambe rubriche di Franco Simongini) e, successivamente, la produzione audiovisiva ne ereditò i modelli stilistici.

Sviluppi del film sull'arte

Dagli anni Settanta, il f. sull'a. è stato oggetto di politica produttiva per grandi network mondiali attenti per lo più a documentare eventi accattivanti (restauri, inaugurazioni, performances, mostre) e a intervistare artisti affermati. Ciò non ha impedito che registi e produttori indipendenti, sia in Italia sia all'estero, investissero risorse economiche ma soprattutto capacità creative personali proprio in questo settore. Nel corso della sua storia, infatti, il f. sull'a. si è conquistato un terreno non identificabile con la fiction o con il documentario tradizionale e questo perché la natura sperimentale del f. sull'a. lo ha fatto crescere e progredire in un territorio di ricerca dove il cineasta incontra il cinema quale luogo di sperimentazione. Il f. sull'a. della fine del 20° sec. e degli inizi del 21° sec. è ancora privilegio di autori, per la maggior parte francesi, tedeschi, belgi, inglesi e statunitensi, in stretto contatto con il complesso mondo dell'arte. Negli esiti migliori ha costituito il pretesto per il cineasta di aprire un dialogo intimo con l'immagine in uno spazio di ricerca che offre tutti gli elementi necessari alla riflessione: il montaggio e la temporalità nelle sue diverse forme, il rapporto con il testo, la musica, la fotografia, l'inquadratura, fino al problema dell'informazione veicolata attraverso l'empatia e l'emozione sono tutti elementi che permettono al regista un rapporto più intimo con il suo lavoro e, nello stesso tempo, modificano le distanze fra il mondo dell'arte e il suo pubblico. Molti registi di f. sull'a., provenienti da studi umanistici, sono cresciuti lavorando in televisione fin dagli anni Sessanta: cospicua la filmografia del francese Jean-Marie Drot, poeta, scrittore, autore di serie e di biografie d'artista, simile, dal punto di vista della divulgazione, al lavoro svolto dall'italiano Simongini. Gli anni Settanta e Ottanta, in Italia, hanno lasciato il posto alle creazioni più attente di specialisti della materia come Mario Carbone (autore di serie e performances), Anna Zanoli (autrice di ritratti d'artista e conoscitrice di problematiche stilistiche) e Nino Crescenti (autore di reportage). Sono di quegli anni gli interessanti ritratti su artisti di fama realizzati in Francia da Adrian Maben e André S. Labarthe. Sul versante inglese, per la BBC, oltre al lavoro che dagli anni Ottanta è stato svolto da produttori e registi come Don Featherstone, Teresa Griffiths, Chris Granlund, Julian Birkett, Julia Cave ed Edmund Coulthard, autori di vividi reportage sull'arte dedicati all'opera di artisti della scena internazionale, vanno ricordate le serie dedicate a lunghi periodi storici, e condotte da testimoni autorevoli quali Kenneth Clark con Civilization (1968; Civiltà) e Robert Hughes con The shock of the new (1989) e American visions (1997), trasmissioni riproposte alla fine degli anni Novanta da RaiSat Art. In Italia, la televisione degli anni Ottanta e Novanta ha dato voce all'autorevole personalità dello storico e critico d'arte Federico Zeri. Vanno ricordati, inoltre, i lavori della coppia di registi indipendenti Gianfranco Barberi e Marco di Castri che, negli anni Ottanta, hanno realizzato e prodotto un vero e proprio museo virtuale nell'ambito delle esposizioni internazionali organizzate da Rudi Fuchs al Museo d'Arte contemporanea di Rivoli.I registi indipendenti francesi del f. sull'a. degli anni Novanta hanno portato alle estreme conseguenze il linguaggio del video, esaltandone la pulizia e la chiarezza minimale, tipica di operatori formatisi in stretto contatto con il mondo del digitale e dell'arte contemporanea: Hein-Peter Schwerfel, Christophe Loizillon, Richard Copans, Stan Nauman, Jean-Paul Fargier sono alcuni dei nomi più importanti. In Italia si è distinta la breve ma fruttuosa stagione del regista Sandro Franchina, che ha realizzato, per Prada, reportage cinematografici su esposizioni dedicate alla scultura. Per questi autori, il rapporto con l'oggetto-soggetto non è più dato in uno spazio esterno, scenario e supporto di informazioni, bensì interno e riconoscibile come autobiografico: l'universo dell'artista diventa l'autoritratto del cineasta. Lo stesso vale per certi prodotti della cinematografia indipendente internazionale (Les muses sataniques. Félicien Rops, 1983, di Therry Zéno; Morandi, 1992, di Frédéric Rossif; Panamarenko. Portrait en son absence, 1997, di Claudio Pazienza). Il messaggio di un f. sull'a. scaturisce da una doppia messa in scena, da un faccia a faccia, da un confronto diretto fra regista e soggetto, e questo sia nel caso si trattino opere antiche dove non è presente l'artista (Le martyre de Saint Sébastien. Voyage iconographique, 1989, di Eric Pauwels; Caspar David Friedrich, 1989, di Peter Shamoni), sia nel caso contrario (Portrait du peintre dans son atelier, 1985, di Boris Lehman). Per tale ragione i pittori non sono più artisti ma attori, e ciò succedeva a Picasso già nei molti film degli anni Cinquanta, come a qualsiasi artista che si è poi prestato a girare f. sull'a., specie se performer, come Marina Abramović (Balkan Baroque, 2000, di Pierre Coulibeuf). In Germania la cultura di matrice purovisibilista ha lasciato un segno nell'opera di uno dei registi e produttori più prolifici in Europa, Reiner Moritz, che dalla fine degli anni Settanta ha girato numerosi f. sull'a. con destrezza tecnica e mirabile capacità di indagine critica. Lo stesso lavoro capillare e costante lo ha svolto in America il regista e produttore Michael Blackwood che ha fatto del work in progress la sua cifra stilistica: dalla Scuola di New York, alla Pop Art, fino al minimalismo e all'arte concettuale, la poesia dei suoi ritratti d'artista è tutta incentrata sul gusto per il classico ed efficace reportage. I ritmi narrativi, le riprese calibrate, l'assenza di musiche a favore della presa diretta, fanno del suo documentario un oggetto creativo autonomo e, nello stesso tempo, lo elevano a testimonianza originale.

Bibliografia

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P. Scremin, Viatico nel mondo dei documentari sull'arte. Il critofilm e la cinematografia sull'arte fra gli anni Quaranta e Sessanta, in Carlo Ludovico Ragghianti e il carattere cinematografico della visione, a cura di M. Scotini, Milano 2000, pp. 150-55.

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