Araba, filosofia

Dizionario di filosofia (2009)

araba, filosofia


Si può parlare di filosofia araba a proposito di fenomeni storici avvenuti in ambiti culturali e religiosi diversi, che presentarono differenze anche a seconda del periodo storico e dell’area geografica in cui si collocavano, ma che sono fondamentalmente accomunati dall’impiego di una stessa lingua: l’arabo. Il termine include in effetti sia la filosofia definita islamica o a.-islamica, che nacque nel Vicino Oriente medievale di religione musulmana, sia la filosofia definita a.-cristiana, che adottò l’arabo come lingua di espressione in seguito ai suoi stretti contatti con il mondo islamico, insieme alla lingua tradizionale del Vicino Oriente cristiano: il siriaco. A questi due fenomeni si accostò un terzo, rappresentato dalla filosofia definita giudeo-a.; essa, tuttavia, rientra meglio nell’ambito della filosofia giudaica (➔ giudaica, filosofia).

La filosofia arabo-cristiana

Includendo in essa anche la filosofia che più propriamente si dovrebbe definire siriaca, la filosofia a.-cristiana viene a essere collocata in area mesopotamica (Siria, Iraq) nei secc. 6°-13°. Gli autori che ne fecero parte condividevano il fatto di appartenere a due sette cristiane, presenti in quell’area durante il Medioevo, benché su due posizioni teologiche diametralmente opposte: la Chiesa giacobita e quella nestoriana, che facevano prevalere l’una la natura divina e l’altra la natura umana di Gesù Cristo. Alla prima appartennero filosofi che si espressero prevalentemente in lingua siriaca, e che si dedicarono soprattutto a quelle questioni di carattere logico e metafisico-teologico che toccavano i temi fondamentali della loro religione: tra di essi si possono ricordare Sergio di Rēsh ‛ainā (m. 536), i commentatori della logica di Aristotele attivi intorno al 700 (Atanasio di Balad, Giorgio vescovo degli Arabi), e i teologi Giacomo di Edessa (m. 708), Mosè bar Kēfā (m. 903) e Giovanni di Dara (9° sec.); nel 13° sec. scrissero enciclopedie filosofico-scientifiche i due autori monofisiti Severo bar Shakkō (m. 1241) e soprattutto Gregorio Bar Hebraeus (1225-1286), massimo rappresentante di questa filosofia. Nei secc. 9°-10° alcuni di questi filosofi, che lavoravano a Baghdad, continuarono l’opera dei loro predecessori, esprimendosi però in lingua araba: è il caso di Yahyā Ibn ‛Adī (m. 974) e Abū ‛Ālī Ibn Zur‛a (943-1008). Alla chiesa nestoriana appartennero invece autori che, a partire dal 9° sec., svolsero soprattutto opera di traduzione dei testi filosofici e scientifici dal greco al siriaco e dal siriaco all’arabo, per conto dei lettori musulmani: tra di essi vanno segnalati innanzitutto Hunain Ibn Ishāq e i suoi discepoli, attivi a Baghdad tra l’850 e il 910 circa.

La filosofia arabo-islamica

Questo fenomeno delle traduzioni rappresentò un importante punto di partenza per lo sviluppo della filosofia a.-islamica: proprio su testi della filosofia e della scienza greca (soprattutto le opere di Aristotele e dei suoi commentatori, ma anche scritti di Ippocrate e Galeno, Tolomeo ed Euclide, e almeno alcune opere di Platone e dei principali autori della scuola neoplatonica: Plotino, Porfirio e Proclo), tradotti in arabo da autori cristiani tra l’800 e il 1000 circa, i filosofi musulmani del Medioevo posero le basi di un loro pensiero autonomo. La filosofia a.-islamica ebbe inizio in Iraq, e in particolare a Baghdad, nella prima metà del 9° sec., e da lì si estese nei tre secoli successivi – che rappresentarono il suo momento di massimo sviluppo – innanzitutto in Iran, e in seguito in altri paesi vicini, spingendosi fino all’Africa settentrionale; a caratterizzarla fu soprattutto la necessità di accordare la filosofia in quanto studio razionale del reale con i contenuti della tradizione religiosa islamica. La prima manifestazione di una filosofia a.-islamica si ebbe nell’iracheno al-Kindī, noto come il «filosofo degli Arabi» per eccellenza. Egli si dedicò all’organizzazione di una serie di traduzioni parafrastico-interpretative in arabo e produsse, tra l’altro, fonti fondamentali della filosofia neoplatonica medievale come la Ūtūlūğīyā (Teologia) dello pseudo-Aristotele e il Kalām fī mahd al-khā’ir («Discorso sul bene puro», più noto come Liber de causis), nonché le versioni arabe di una serie di scritti greci di Alessandro di Afrodisia o a lui attribuiti. Lui stesso, fondamentalmente un neoplatonico, si interessò anche ad aspetti della metafisica aristotelica: un interesse che egli rivelò nella sua opera filosofica principale, al-Falsafa al-ūlā («La filosofia prima»). Nei suoi numerosi scritti filosofici egli toccò temi di carattere metafisico, fisico, psicologico (fu il primo a introdurre nella filosofia a. la questione della natura dell’intelletto umano nella sua Risāla fī l-’aql, «Epistola sull’intelletto») ed etico (ispirandosi all’ideale stoico dell’apatia); suo fu anche un dizionario terminologico, che pose le basi per il pensiero dei suoi successori. Si può parlare di neoplatonismo anche nel caso di altri due importanti autori della filosofia a.-islamica medievale della prima metà del 10° sec. Abū Bakr al-Rāzī fu soprattutto un medico, ma si dedicò anche alla filosofia, sviluppando tematiche e dottrine ispirate al platonismo e al pitagorismo, con posizioni fondamentalmente antiaristoteliche (fu tra i primi, nella filosofia medievale, a negare i concetti aristotelici di spazio e tempo finiti); il suo fu nel complesso un razionalismo non privo di elementi tratti da religioni non islamiche (mazdeismo, manicheismo, buddismo e induismo), che lo portò in contrasto con alcuni aspetti del- l’Islam e comportò la distruzione di molte sue opere. Le Rasā’il Ikhwān al-safā’ («Epistole dei Fratelli della purità»), un’enciclopedia filosofico-scientifica in 52 trattati, fu senz’altro orientata al neoplatonismo, probabilmente assunto attraverso l’interpretazione datane dalla setta islamica degli ismailiti; si pensa che l’anonimo autore possa essere identificato con il musulmano spagnolo Abū l-Qāsim Maslama al-Maǵrīṭī, redattore di uno scritto esoterico, Ġāyat al-ḥakīm («Il fine del sapiente»). Contemporaneamente al neoplatonismo, si sviluppò nel mondo islamico un aristotelismo fondato sul commento agli scritti dello Stagirita: commento che, presso i numerosi esponenti di questo aristotelismo, assunse il carattere di un riassunto interpretativo, o di una parafrasi adattata alle esigenze del lettore, o di un commento puntuale alla lettera del testo (riportato interamente in traduzione araba), o anche di un’enciclopedia filosofica. Il primo commentatore, detto il «secondo maestro» dopo Aristotele, fu al-Fārā’bī . Le sue epitomi della logica di Aristotele ebbero una notevole influenza sulla filosofia a.-islamica ed ebraica medievale; il suo celebre trattato epistemologico, Ihsā’ al-’ulūm («La classificazione delle scienze»), seguì uno schema originale, che accostò Aristotele alle scienze religiose islamiche; il suo trattato sull’intelletto riprese e sviluppò l’analoga opera di al-Kindī. Egli fu comunque noto anche per le sue opere di carattere etico-politico, tra le quali spiccò al-Madīna al-fādila («La città virtuosa»): in quest’ultima partì da una sintetica esposizione della teologia, della metafisica, della fisica e della psicologia umana, per arrivare a esporre la propria idea dello Stato ideale, governato da un imā’m con l’assistenza di un senato di filosofi. Filosofo razionalista anche nel suo approccio alla religione islamica, al-Fārā’bī creò a Baghdad una scuola che continuò ad approfondire e perfezionare il suo pensiero fino alla metà del sec. 11°. «Nuovo Aristotele» fu invece definito il filosofo medievale che ebbe più successo nel mondo arabo-islamico: Avicenna. Originario come al-Fārā’bī dell’Asia centrale e autore fecondissimo (fu celebre nel mondo islamico come mistico, e anche in quello latino come medico), nelle sue numerose opere filosofiche trattò i contenuti degli scritti logici, fisici e metafisici dello Stagirita in forma sistematica, costruendo delle enciclopedie nelle quali adattò il pensiero del filosofo greco alle esigenze proprie e della propria religione, nel tentativo di conciliare la tradizione aristotelica e le dottrine dell’Islam: un tentativo che non escluse nuove proposte su questioni come la natura dell’anima umana, o quella del tempo e dello spazio. Le sue due enciclopedie filosofiche più note e diffuse nel Medioevo, al-Šifā’ («La cura», in 10 voll.) e al-Nağāt («La salvezza», in tre parti), rientravano in questa finalità, da lui seguita anche in altri scritti; tra di essi va ricordato al-Falsafa al-mašrīqīya («La filosofia orientale» o illuminativa), dove la filosofia venne posta su basi non tanto razionali e sillogistiche (secondo lo schema aristotelico), quanto di carattere intuitivo. Avicenna lasciò dopo di sé non una semplice scuola, ma un vero e proprio orientamento di pensiero, che ebbe nei secoli successivi numerosi sostenitori, ma anche diversi oppositori. Questo ‘avicennismo’ si fondò su una interpretazione di Avicenna come creatore di un aristotelismo innovativo (rientrò in questa categoria l’ebreo convertito all’Islam Abū l-Barakāt al-Baghdādī, m. 1164), o assunse i caratteri dell’ «illuminazionismo», ossia di una teosofia neoplatonizzante dove il pensiero di Avicenna venne alterato e adattato (è il caso di autori come Sihāb al-dīn al-Suhrawardī, m. 1191). L’avicennismo, che apparve sotto molti aspetti in contrasto con la dottrina teologica dell’Islam sunnita, all’interno di quest’ultimo provocò come reazione la difesa della teologia ufficiale asharita, rappresentata nel sec. 11° dal suo massimo esponente, il persiano al-Ġāzālī. Egli, dopo aver studiato a lungo il pensiero di Avicenna, lo espose e lo confutò in una sorta di trilogia di carattere filosofico e teologico. Nella prima delle tre opere, Mi’yār al-’ilm («La bilancia della conoscenza»), espose la logica di Aristotele adattandone i contenuti alle esigenze della teologia islamica; nella seconda, Maqāsid al-falāsifa («Le intenzioni dei filosofi»), riassunse i contenuti della logica, fisica e metafisica del Daneš nameh («Il libro della scienza») di Avicenna, per criticarli; questa critica, che mirò a rilevare l’irrazionalità di venti punti della fisica e metafisica avicenniana, venne svolta nella terza opera, Tahāfut al-falāsifa («La confutazione dei filosofi»). Sul solco di al-Ġāzālī si collocò poi un teologo e filosofo persiano, Fakhr al-dīn al-Rāzī. Nel 12° sec., la filosofia a.-islamica fondata, come quella di al-Fārā’bī e di Avicenna, sull’interpretazione del pensiero di Aristotele, ebbe un sorprendente, sebbene effimero sviluppo nella Spagna musulmana (l’odierna Andalusia) e nel vicino Maghreb; grazie a tale sviluppo essa esercitò una notevole influenza non tanto sul pensiero islamico in generale, quanto sulla filosofia ebraica medievale e sulla scolastica latina. A rappresentarla furono tre autori. Ibn Bā’ggia (m. 1138-1139) fu innanzitutto commentatore (restano i suoi commenti alla logica, alla fisica e alla psicologia di Aristotele, sistematici e razionalmente ordinati), ma anche autore di scritti filosofici originali: il più noto fu Tadbīr al-mutawahhid («Il regime del solitario»), che sviluppò un tema già presente in al-Fārā’bī descrivendo i caratteri etici e intellettuali del filosofo ideale. Ibn Ṭufàil (1110 - 1185), forse allievo di Ibn Bā’ggia, approfondì sostanzialmente l’idea di quest’ultimo, presentando nella sua opera filosofica, Hayy ibn Yaqzān («Il vivente figlio del vigilante»), un tema parzialmente accennato in alcuni scritti di Avicenna, ma da lui diversamente affrontato. L’immagine ideale che Ibn Ṭufàil qui presentava era quella di un uomo che, lasciato solo con sé stesso fin dalla nascita, è in grado di sviluppare da solo una propria filosofia, di stampo fondamentalmente aristotelico, la quale poi, quando egli si confronta con altri uomini, dimostra di essere arrivata sostanzialmente alle stesse conclusioni della religione rivelata. Averroè, filosofo e medico oltre che giudice, rappresentò il pensatore arabo-islamico più noto nell’Occidente ebraico e cristiano, grazie alle traduzioni medievali e rinascimentali, in ebraico e in latino, di molte delle sue opere, all’origine dello sviluppo dell’‘averroismo’. Egli divenne celebre soprattutto come commentatore di quasi tutta l’opera di Aristotele, alla quale dedicò tra il 1160 e il 1195 ca. commenti di carattere ora riassuntivo (le Epitomi), ora parafrastico (i Commenti medi), ora letterale (i Commenti grandi). Su molti punti egli fu in contrasto con le interpretazioni di queste opere date dagli autori arabi a lui precedenti: sua volontà fu quella di tornare, nella logica come nella fisica e nella metafisica, al vero Aristotele, intendendo liberarlo dalle forzature medievali e accettando invece volentieri alcune delle interpretazioni date dai commentatori greci (da Alessandro di Afrodisia in poi). Peraltro, Averroè non evitò di affrontare, specie nel suo Fasl al-maqāl («Il trattato decisivo»), la difficile questione del rapporto tra filosofia aristotelica e religione islamica, formulando una dottrina che, spesso erroneamente definita «della doppia verità», fu invece fondata sull’idea che filosofia e religione, se correttamente interpretate, giungano sostanzialmente alle stesse conclusioni. La f.-islamica non si chiuse con Averroè, anche se i suoi sviluppi rimasero relativamente poco noti. Tra il 1200 e il 1800 ca., vi furono parecchi autori che, in diverso modo, vanno ascritti a essa. Tra di loro, si possono ricordare: lo spagnolo Ibn Sab ̔ī ΄n (1217-1270), che approfondì temi del pensiero di Averroè in chiave razionalistica; ‛Abd al-Latīf al-Baghdādī (m. 1231), che ritornò al neoplatonismo di al-Kindī; il persiano Nāṣir al-dīn al-Ṭūsī (1201-1274), che fu tra l’altro commentatore di Avicenna; il tunisino Ibn Khaldū΄n (1332-1406), primo filosofo della storia del mondo arabo; il persiano Mūllā Sadrā Širazī (1571/1572-1640), che fu protagonista di una rinascita di interesse per la filosofia a.-islamica medievale nella Persia dei Safàvidi. Sembra più difficile parlare di una filosofia a.-islamica vera e propria nell’età contemporanea, dall’inizio del 19° sec. in poi. Venuti meno i punti di riferimento rappresentati dagli autori tradizionali, sono sorte nel mondo arabo, durante il 20° sec., tendenze di pensiero che si sono fondamentalmente interessate ai problemi puramente politici delle nazioni islamiche: il nazionalismo arabo, il socialismo arabo. L’Islam ha continuato a rappresentare nei paesi arabi un fatto imprescindibile; ma esso è stato tendenzialmente in opposizione all’idea moderna di una filosofia come disciplina laica, affrancata dai rapporti con la religione: un’idea che nel mondo arabo non si è molto affermata.