Scienza, filosofia della

Dizionario di filosofia (2009)

scienza, filosofia della


Espressione con la quale comunemente si indica l’ambito della ricerca filosofica che ha per oggetto la riflessione critica sulla natura, le metodologie e le implicazioni culturali, politiche, morali, religiose, ecc. delle diverse discipline scientifiche. In quanto indagine sulla natura e sui limiti del metodo scientifico, la filosofia della s. trova le sue origini nel pensiero greco: in primo luogo nella determinazione logico-ontologica operata da Platone dei caratteri rispettivi dell’ἐπιστήμη e della τέχνη, contrapposte alla δόξα, e nel confronto da egli istituito tra la dialettica e le procedure epistemiche proprie della matematica e della medicina del suo tempo; in secondo luogo nella sistematica trattazione aristotelica delle forme del sapere dimostrativo, fondata sulla definizione di scienza come conoscenza della causa e della necessità delle conclusioni. Nel suo significato attuale, la filosofia della s. può essere fatta risalire al dibattito sul metodo che ha coinvolto i massimi protagonisti della rivoluzione scientifica, e segnato – in concomitanza con i profondi mutamenti concettuali e sperimentali delle scienze – la riflessione gnoseologica moderna, dalla riforma empiristico-induttiva di F. Bacone ai procedimenti galileiani e newtoniani d’indagine matematica dei fenomeni fisici, dalla riflessione cartesiana sul ruolo euristico e dimostrativo dell’analisi alla dottrina kantiana della struttura categoriale dell’intelletto e dell’idealità trascendentale degli oggetti dell’esperienza. Con il Cours de philosophie positive (1830-42; trad. it. Corso di filosofia positiva) di Comte, il Philosophy of inductive sciences (1840) di Whewell e il System of logic rationative and inductive (1843, trad. it., Sistema di logica deduttiva e induttiva) (➔) di Mill ha inizio il processo di autonomizzazione dello studio delle problematiche generali del metodo scientifico, indotto dal progressivo frammentarsi di molti dei tradizionali ambiti di ricerca di pertinenza filosofica nelle singole scienze – sorte dalla ristrutturazione illuministica e positivistica dell’enciclopedia del sapere – e sollecitato, a cavallo tra Otto e Novecento, dai rivolgimenti teorici irreversibili in vasti settori della ricerca matematica, logica e fisica.

Filosofia della scienza e crisi dei fondamenti: strumentalismo e convenzionalismo

La riflessione contemporanea sulla natura, i principi e i contenuti della ricerca scientifica si è sviluppata a partire dalla crisi dell’immagine meccanicistica della natura e dalla rifondazione delle principali discipline scientifiche, segnata dall’emergere di nuovi quadri teorici e di inediti settori di ricerca (logica matematica, geometrie non-euclidee, termodinamica, elettromagnetismo, fisica relativistica, meccanica quantistica, ecc.). Si tratta di radicali trasformazioni che hanno investito l’impalcatura categoriale su cui poggiava la scienza classica, e posto in crisi i principi metodologici affermatisi dai tempi di Galilei e Newton, minando in partic. il rapporto classico tra l’a priori e gli elementi empirici, contingenti, della conoscenza scientifica. Il primo grande tentativo di costituzione di una teoria empiristica aggiornata della conoscenza scientifica fu compiuto da Mach – professore di fisica sperimentale all’univ. di Praga (1867-95) e di storia e teoria delle scienze induttive a Vienna (1895-1901) –, autore di importanti contributi in alcuni dei più avanzati settori della ricerca tardo-ottocentesca (meccanica, acustica, elettrologia, ottica, termodinamica, idrodinamica, psicologia della percezione). Gli studi svolti sulla fisiologia della sensazione e la maturata consapevolezza dei limiti della riduzione della fisiologia a meccanica applicata, teorizzata da Helmholtz, condussero Mach al riesame sistematico dei presupposti gnoseologici del meccanicismo, alla denuncia di ogni dimensione aprioristica e metafisica della conoscenza, alla negazione della possibilità di oltrepassare l’esperienza alla ricerca di realtà inosservabili, al rifiuto epistemico delle assunzioni atomistiche della fisica classica. È in questo orizzonte teorico che Mach sviluppò posizioni affini all’empiriocriticismo di R. Avenarius, che ammetteva l’esistenza di un unico principio regolativo dei fenomeni fisici e psichici, il principio di economia o di «minino sforzo», governante tanto l’adattamento degli organismi all’ambiente, quanto la dinamica dei concetti scientifici, ridotti a meri strumenti di riorganizzazione dell’esperienza, aventi per scopo non la riproduzione della struttura del reale, ma il perfezionamento delle funzioni adattive dell’organismo umano. Un’analoga prospettiva positivistica radicale, fondata sul primato epistemico dell’esperienza sensibile, è all’origine dei lavori dedicati da Mach alla storia della fisica, tra cui il celebre Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt (1883; trad. it. La meccanica nel suo sviluppo storico-critico), che contestava la priorità logica ed epistemologica attribuita dalla scienza classica alla meccanica, sviluppando una critica dei suoi fondamenti metafisici (i concetti newtoniani di spazio, tempo e velocità assoluti), a cui in opere di ampio respiro filosofico – Die Analyse der Empfindungen (1886; trad. it. Analisi delle sensazioni) ed Erkenntniss und Irrtum (1905; trad. it. Conoscenza ed errore) – farà seguito la negazione, sia in fisica sia in psicologia, delle nozioni di sostanza e di causa. All’opera di Mach si può accostare quella di Duhem, fisico teorico e storico della scienza, che ha elaborato un’epistemologia d’impronta strumentalistica e convenzionalistica, in cui è sottolineato il carattere «economico», classificatorio e formale della teoria fisica, costituita da «un sistema di proposizioni matematiche, dedotte da un ristretto numero di principi, che hanno lo scopo di rappresentare nel modo più semplice, più completo e più esatto, un insieme di leggi sperimentali» (La théorie physique, 1904-1906; trad. it. La teoria fisica). All’immagine della teoria fisica come un complesso di ipotesi teoriche che possono essere sempre riformulate con una più sofisticata strumentazione formale, è connessa la tesi duhemiana, destinata ad ampi sviluppi nella filosofia della s. del secondo Novecento, dell’inesistenza di esperimenti cruciali in grado di mettere in discussione una singola ipotesi (olismo metodologico), giacché «la realizzazione e l’interpretazione di qualunque esperienza fisica implicano l’adesione a tutto un insieme di proposizione teoriche. Il solo controllo sperimentale della teoria fisica che non sia illogico consiste nel confrontare l’intero sistema della teoria fisica con tutto l’insieme delle leggi sperimentali e nel valutare se il secondo insieme è rappresentato dal primo in maniera soddisfacente». Inserendosi nel quadro di una ricostruzione storica della scienza sostanzialmente continuista, guidata dall’idea dell’evoluzione graduale del sapere scientifico, l’olismo metodologico di Duhem riflette la tesi del progressivo avvicendamento, in campo teorico, di teorie più semplici ed eleganti a costrutti via via riformulati con complessi formalismi, che hanno perso capacità esplicativa. Negli stessi anni Poincaré – matematico e fisico francese, tra le massime personalità scientifiche dell’età a cavallo tra 19° e 20° sec. – elaborò un vasto progetto epistemologico di matrice convenzionalistica, variamente articolato in relazione alle diverse scienze prese in esame, nel quale si incontrano tesi parzialmente convergenti con quelle di Mach e Duhem. Anche per Poincaré le teorie scientifiche non colgono la struttura ultima del reale, non sono né vere né false, ma si distinguono in virtù della loro maggiore o minore «semplicità» e «comodità» esplicativa. La scienza è definita da Poincaré innanzitutto come «una classificazione, un modo di avvicinare fatti che le apparenze separavano benché fossero legati da qualche parentela naturale e nascosta. La scienza, in altri termini, è un sistema di relazioni. E, come abbiamo appena detto, è soltanto nelle relazioni che deve essere cercata l’oggettività; sarebbe vano cercarla negli enti considerati in maniera isolata gli uni dagli altri» (La science et l’hypothèse, 1902; trad. it. La scienza e l’ipotesi). Nelle opere che dedicò al dibattito sui fondamenti della matematica, allo statuto della geometria euclidea, al significato e al valore delle nuove teorie fisiche, Poincaré giunse ad accentuare la dimensione intuitivo-costruttiva del soggetto conoscitivo, sottolineando l’insostituibile ruolo euristico della componente ipotetica. Avverso al logicismo di Peano, Hilbert e Russell, Poincaré affermò il carattere puramente convenzionale degli assiomi geometrici, ritenendo la geometria euclidea soltanto più «comoda» di quelle non-euclidee, perché più semplice e in accordo con le proprietà percepite dei solidi naturali. Gli studi condotti in nuovi settori di ricerca della fisica teorica (cinetica dei gas, termodinamica, oscillazioni hertziane, elettromagnetismo, dinamica dell’elettrone, teoria dei quanti di Planck), portarono Poincaré a maturare la convinzione della natura irreversibile della crisi dei fondamenti della scienza classica (inesistenza dello spazio e del tempo assoluti, impossibilità dell’intuizione diretta dell’ugualianza di durata e della simultaneità di due eventi che si realizzano in luoghi distanti, ecc.), argomentata in saggi che hanno esercitato una profonda influenza sull’epistemologia novecentesca.

Filosofia della scienza e neopositivismo logico

Il programma di una filosofia scientifica capace di rielaborare in un nuovo rigoroso quadro epistemico le ripercussioni concettuali delle rivoluzionarie scoperte della fisica quantistica e relativistica, del procedere dell’indagine sui fondamenti della matematica e sull’assiomatizzazione della logica formale, fu formulato dal gruppo assai composito di filosofi e scienziati che si raccolsero, nel primo dopoguerra, attorno ai Circoli di Vienna e di Berlino, riconoscendosi nella duplice eredità del fenomenismo di Mach e Avenarius e del logicismo di Frege, Russell e Wittgenstein. Nell’opera-manifesto Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis (1929; trad. it. La concezione scientifica del mondo. Il circolo di Vienna), H. Hahn, Neurath e Carnap riassumono il senso complessivo della nuova filosofia scientifca in due tesi di fondo: «Primo, essa è empiristica e neopositivistica: si dà solo conoscenza empirica, basata sui dati immediati. In ciò si ravvisa il limite dei contenuti della scienza genuina. Secondo, la concezione scientifica del mondo è contraddistinta dall’applicazione di un preciso metodo, quello, cioè, dell’analisi logica». I punti programmatici del neopositivismo, al di là delle specifiche posizioni teoriche assunte dagli esponenti del movimento e dalle personali evoluzioni teoriche, si possono ridurre schematicamente nell’identificazione del significato di una proposizione con il metodo della sua verifica empirica; nel superamento di ogni metafisica, in quanto costituita di concetti inverificabili empiricamente, e perciò puramente illusori, privi di senso; nella definizione della filosofia come «attività chiarificatrice», la cui funzione consiste nello stabilire i criteri di significanza e nel discriminare gli enunciati cognitivamente significanti; nella classificazione degli enunciati significanti secondo la dicotomia analitico/sintetico, veri i primi in funzione della loro forma logica, i secondi del significato dei termini; nella netta separazione tra osservazione e teoria; nella natura logico-formale e deduttiva delle teorie scientifiche, che hanno il compito di tradurre i protocolli di ricerca in un linguaggio predittivo e normativo; nella distinzione tra «contesto della scoperta» (le circostanze psicologiche o sociali in cui una scoperta scientifica si realizza) e «contesto della giustificazione» (la base logica per giustificare la credenza nei fatti che sono stati scoperti); nella visione unitaria del sapere, che comprende sia le scienze naturali sia quelle sociali in un unico modello epistemico, fondato sull’assunzione monistica dell’omogeneità ontologica di tutte le realtà esperibili. Alla tesi fondamentale dell’unità della scienza e del suo metodo si riallaccia il programma fisicalista, affermatosi soprattutto ad opera di Neurath e Carnap, di riduzione di tutte le proposizioni scientifiche a enunciati formulabili nel linguaggio della fisica, ovvero a designazioni spazio-temporali e a predicati osservativi, programma che escludeva dal discorso scientifico tutte le istanze non riconducibili ai dati immediati dell’esperienza. Dal programma di unificazione fisicalista delle scienze, che trovò negli Stati Uniti nuovo terreno di sviluppo dopo la diaspora dall’Europa (a causa dell’avvento del nazismo) del movimento neopositivista, prese corpo l’ambizioso progetto, mai completato, dell’International encyclopedia of unified science, il cui primo fascicolo fu pubblicato nel 1938 a Chicago da Neurath, Carnap e Morris. Oltreoceano il neopositivismo trovò ampia diffusione, improntando profondamente la filosofia accademico-scientifica americana, grazie soprattutto all’insegnamento di Carnap e Reichenbach, e stabilendo un proficuo rapporto di scambio teorico con la tradizione pragmatistica e con quella analitica. Fu soprattutto Quine a compiere, negli anni Cinquanta, il processo di integrazione tra le metodologie di analisi e le problematiche del Circolo di Vienna, e gli assunti epistemologici del pragmatismo, sottoponendo a critica i «dogmi» neopositivistici del riduzionismo («l’idea che ciascuna proposizione, presa di per sé e isolata dalle altre, si possa confermare o infirmare», Two dogmas of empiricism, 1951; trad. it. Due dogmi dell’empirismo) e della distinzione tra enunciati analitici ed enunciati sintetici, nella difesa di un empirismo attenuato, che recupera elementi dell’olismo metodologico di Duhem.

Popper e il falsificazionismo

Formatosi a stretto contatto con il Circolo di Vienna, Popper sviluppò sin dagli anni Trenta una critica sistematica dell’identificazione neopositivista del significato di una proposizione con il metodo della sua verifica empirica, muovendo dalla critica humiana del procedimento induttivo, secondo la quale è logicamente impossibile far scaturire da una somma di casi particolari una legge universale. Se non si possono inferire asserzioni universali da asserzioni singolari, se cioè il principio d’induzione neopositivistico è inattuabile, allora nessuna teoria scientifica può essere messa alla prova della verifica empirica («per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione ‘tutti i cigni sono bianchi», Logica della scoperta scientifica, 1934), ma è sufficiente un unico esperimento contrario per falsificarla. Popper dichiara quindi che è la falsificabilità, e non la verificabilità, il criterio di scientificità di una teoria, e di demarcazione tra scienza e non scienza, invertendo l’immagine neopositivistica delle procedure di ricerca: la scienza non muove dalle osservazioni alla costruzione delle teorie, ma dalla formulazione di congetture che vengono sottoposte al controllo dei fatti mediante tentativi di confutazione. La base del processo di falsificazione è affidata da Popper a enunciati elementari («asserzioni-base»), aventi la forma di asserzioni singolari di esistenza, intersoggettivamente controllabili e accettate dalla comunità dei ricercatori. Ciò significa secondo Popper che, a differenza dei protocolli osservativi neopositivistici, «la base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di ‘assoluto», e che l’impresa scientifica è sempre caratterizzata dall’essere un edificio precario, «costruito su palafitte» poggianti non su una base naturale data una volta per tutte, a cui fa riscontro il carattere provvisorio e congetturale delle ipotesi scientifiche. Tale riconoscimento non implica per Popper il relativismo o lo scetticismo, perché l’obiettivo della scienza resta la verità, secondo una concezione del mondo articolata in un modello triadico: il ‘mondo 1 dei fatti materiali; il ‘mondo 2 degli stati di coscienza soggettivi; il ‘mondo 3 dei pensieri e delle teorie, costruzioni oggettive che possono essere vere o false a seconda della corrispondenza o meno con la realtà fattuale. Come chiarito da Popper sotto la spinta delle critiche rivoltegli da Kuhn e da altri esponenti della filosofia della post-empiristica, una teoria scientifica non entra in crisi e viene soppiantata in virtù di esperimenti cruciali che la falsificano: il principio di falsificazione non è un indice assoluto di verità, ma un semplice strumento per stabilire un criterio temporaneo di scelta tra ipotesi rivali, oltre che un criterio di demarcazione tra teorie scientifiche e teorie non-scientifiche, come la metafisica, la quale, pur non essendo scienza, non è affatto positivisticamente ridotta a non senso. Le teorie metafisiche, non empiricamente corroborabili ma razionalmente «criticabili», hanno esercitato ed esercitano secondo Popper una funzione regolativa e propulsiva nei confronti della ricerca empirica, impensabile senza quadri metafisici generali, «che determinano non solo quali problemi esplicativi sceglieremo di affrontare, ma anche quali tipi di risposte considereremo idonee, soddisfacenti o accettabili» (Poscritto alla Logica della scoperta scientifica, vol. 3°).

L’epistemologia post-positivistica: filosofia e storia delle scienze

L’idea popperiana della fallibilità e congetturalità della conoscenza scientifica ha dato luogo, nel secondo Novecento, a un vasto dibattito epistemologico, a partire dal riconoscimento dell’impossibilità non solo di ricondurre storicamente il metodo scientifico all’osservanza di regole univoche, ma anche di una giustificazione puramente razionale delle teorie scientifiche e della loro incommensurabilità, sottolineate in partic. da Kuhn e Feyerabend. Formatosi in origine come fisico, Kuhn ben presto rivolse i propri interessi alla storia della scienza, occupandosi in partic. di due dei maggiori spartiacque teorici delle moderne scienze fisiche, la rivoluzione copernicana e la meccanica quantistica. Nella fortunatissima The structure of scientific revolutions (1962; trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche) Kuhn ha presentato un’immagine della scienza alternativa a quella neopositivistica e popperiana. L’immagine kuhniana della scienza sviluppava in maniera originale tematiche proprie della tradizione francese di studi storico-epistemologici (Koyré) e dell’olismo metodologico di Quine, richiamandosi al principio gestaltico della non distinzione osservazione-teoria, e alla funzione determinante del linguaggio sulla categorizzazione del mondo, teorizzata dal secondo Wittgenstein e dalla linguistica di B.L. Whorf. Le teorie scientifiche, sostiene Kuhn, sono formulate all’interno di «paradigmi», quei complessi di teorie, modelli di ricerca e pratiche sperimentali «ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore». La scienza per Kuhn si evolve passando da fasi in cui un certo paradigma è generalmente accettato (fasi di «scienza normale») a periodi di crisi, in cui il paradigma dominante mostra l’assommarsi di anomalie irriducibili e sorgono paradigmi rivali capaci di sostituirlo, determinando l’apertura di una fase «rivoluzionaria», che si conclude con l’affermazione di un nuovo paradigma, e la ripresa di una fase di scienza normale. Considerati alla stregua di quadri di riferimento per la definizione dei fenomeni, i diversi paradigmi kuhniani in conflitto non possono confrontarsi sulla base di un linguaggio neutrale comune, risultando reciprocamente incommensurabili («paradigmi successivi ci dicono cose differenti sugli oggetti che popolano l’Universo e sul comportamento di tali oggetti»). Tale incommensurabilità impedisce il confronto critico in senso popperiano fra i diversi paradigmi in conflitto, abolendo ogni criterio di scelta normativo o super-paradigmatico, compresa l’esistenza di esperimenti cruciali capaci di falsificazione o corroborazione. La decisione di accogliere un paradigma sfugge al calcolo o alla ricostruzione razionale, si presenta come un «salto gestaltico», una «conversione»: come scrive efficacemente Kuhn, «i singoli scienziati abbracciano un nuovo paradigma per ogni genere di ragioni, e di solito per parecchie ragioni allo stesso tempo. Alcune di queste ragioni – per es., il culto del Sole che contribuì a convertire Keplero al copernicanesimo – si trovano completamente al di fuori della sfera della scienza. Altre ragioni possono dipendere da idiosincrasie autobiografiche e personali. Persino la nazionalità o la precedente reputazione dell’innovatore e dei suoi maestri può talvolta svolgere una funzione importante». La radicale presa di distanza dell’epistemologia kuhniana dalla filosofia della s. neopositivistica e popperiana ha rilanciato nel panorama filosofico contemporaneo posizioni antiempiristiche (i ‘fatti’ sono sempre theory laden, «carichi di teoria»), riconoscendo all’accurata ricostruzione della storia delle scienze e delle diverse forme di razionalità scientifica (con la messa in luce dei suoi condizionamenti extrascientifici) che si sono succedute nel corso della storia della civiltà un cruciale ruolo epistemico, connesso al rigetto della tradizionale idea del progresso scientifico, sia nella forma positivistica dell’accumulo progressivo di certezze fattuali che in quella popperiana dell’approssimazione asintotica alla verità. Particolare attenzione al problema del ruolo epistemico della storia delle scienze è stata prestata da Lakatos nel suo sistematico confronto con le tesi di Popper e quelle di Kuhn. Dell’epistemologia popperiana Lakatos contesta l’incapacità di spiegare la sopravvivenza, ben nota agli storici della scienza, di teorie sottoposte a confutazione. Spesso, osserva Lakatos, le teorie nascono già confutate sul piano empirico da ‘fatti che con esse non si accordano. Piuttosto che singole congetture sottoposte a confutazioni, nella storia della scienza sono entrati in competizione e si sono avvicendati complessi di teorie, di «programmi di ricerca» articolati in un nucleo di assunzioni di fondo, per convenzione considerate immuni da falsificazioni, e da una ‘cintura protettiva’ di ipotesi ausiliarie, che definiscono le linee della ricerca e consentono al programma di salvaguardare il nucleo di ipotesi fondamentali dalle smentite fattuali fin quando esso è in grado di produrre «slittamenti di problema progressivi», dando luogo a teorie che prevedono fatti nuovi, alcuni dei quali constatati. All’immagine kuhniana di una storia della s. che procede per improvvise rivoluzioni e ‘conversioni’, Lakatos oppone l’esistenza di un criterio razionale di valutazione dei programmi di ricerca, fondato sul confronto tra complessi di teorie che si dimostrano nel corso del tempo progressivi e quelli che a lungo andare degenerano, cessando di produrre nuove previsioni. In ogni caso, per Lakatos il progesso di un programma di ricerca non è indice di un progresso conoscitivo, data l’impossibilità di stabilire il fondamento oggettivo ultimo dello sviluppo empirico delle teorie. Le posizioni kuhniane hanno trovato in Feyerabend una rielaborazione emblematica e provocatoria. A partire dall’analisi dello statuto del linguaggio osservativo in microfisica, oggetto della sua tesi di dottorato, Feyerabend ha sviluppato una critica sistematica dei principi dell’empirismo logico e del razionalismo critico di Popper, maturata nel confronto con l’epistemologia dei programmi di ricerca di Lakatos. Questi, secondo Feyerabend, è costretto dai suoi stessi assunti epistemici a riconoscere che non si può criticare razionalmente il perdurare dell’adesione di uno scienziato a un programma in degenerazione, nella speranza che si riveli in seguito progressivo. Ciò implica per Feyerabend il fallimento di ogni tentativo di salvaguardia della metodologia di impostazione normativa, e il rifiuto di tutti i principi procedurali prescrittivi, approdante a una concezione ‘anarchica’ della conoscenza, fondata sul principio dell’anything goes, «qualsiasi cosa può andar bene» (Contro il metodo: abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, 1975), che reclama l’inesistenza di canoni assoluti di razionalità e del primato della scienza sulle altre forme del sapere e delle attività umane (arte, religione, ecc). Le tesi di Kuhn, Lakatos e Feyerabend hanno aperto un dibattito epistemologico particolarmente vivace tra gli anni Sessanta e Ottanta, dall’ampia risonanza filosofico-scientifica, determinando la proliferazione in filosofia della s. di posizioni teoriche irriducibili a un denominatore comune. Un’impostazione eminentemente storica all’analisi dei programmi di ricerca scientifici è ravvisibile in molti sociologi della scienza di lingua anglosassone (Barry Barnes, Harry Collins, David Bloor, ecc.) influenzati dall’immagine kuhniana dell’alternarsi di paradigmi scientifici. Dall’olismo metodologico e semantico di Quine, e dal suo programma di risoluzione dei tradizionali problemi gnoseologici con gli strumenti concettuali delle scienze empiriche (psicologia cognitiva, neurofisiologia, ecc.), si è sviluppato un orientamento alla naturalizzazione dell’epistemologia, che si è innestato nell’epistemologia evoluzionistica di Lorenz, D.T. Campbell, Popper, Toulmin, ecc. e in vari indirizzi del «costruttivismo radicale» dell’oggetto cognitivo (Goodman, von Foerster, ecc.). A partire dagli anni Ottanta si è affermato, in chiave antirelativisitica, un movimento di rivalutazione della componente empirica e operativa della scienza – già rivendicata nella prima metà del Novecento da Bachelard, che aveva posto in primo piano il nesso indissolubile di scienza e tecnica (Le rationalisme appliqué, 1949; trad. it. Il razionalismo applicato) – volto a difendere l’autonomia delle pratiche sperimentali da quelle linguistico-teoriche (Ian Hacking, Cartwright, Peter L. Galison, David Gooding, ecc.), che recupera idee di tradizione pragmatista (in partic. Dewey) e operazionista (Bridgman), riconnettendosi per alcuni aspetti all’«epistemologia genetica» di Jean Piaget, in cui aveva acquistato ruolo centrale nella formazione dei concetti scientifici fondamentali l’azione del soggetto cognitivo sul mondo esterno. In vari settori della ricerca scientifica si è infine venuta configurando una vasta tendenza antiriduzionistica, culminata in una «epistemologia della complessità», che sottolinea gli elementi di circolarità, discontinuità, non-linearità, aleatorietà dei processi naturali, biologici, psicologici e sociali (Morin, Ilya Prigogine, Henri Atlan, ecc.).

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