FILOSOFIA E TEORIE DEL CINEMA

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

FILOSOFIA E TEORIE DEL CINEMA.

Daniela Angelucci

– I film come illustrazioni di concetti. Ontologia del cinema. Cinema e filosofia come pratiche creative. Immagini ed esperienza. Bibliografia

Se il 21° sec. si è aperto con il riconoscimento, emerso da più lati, dell’impossibilità di una teoria unica e onnicomprensiva sul mezzo cinematografico e con il relativo moltiplicarsi dei differenti approcci al fenomeno (cfr. Dottorini 2009), un elemento ricorrente ed effettivamente nuovo degli ultimi anni si può individuare nella sempre maggiore diffusione di prospettive che intrecciano il cinema e la filosofia. Nell’ultimo decennio la locuzione filosofia del cinema, già molto diffusa negli anni Novanta nei Paesi di lingua inglese (la rivista «Film-Philosophy», che promuove ogni anno un importante congresso in una città europea, nasce in Gran Bretagna nel 1997), si è andata progressivamente affermando anche in Italia. Questa espressione, che unisce due pratiche differenti, l’una di immagini, l’altra di pensiero, non ha una definizione univoca e può essere intesa in modi molto diversi, che tenteremo di precisare.

I film come illustrazioni di concetti. – Il modo più comune di intendere questo rapporto è quello che propone una lettura filosofica dei film, utilizzando la visione e il commento di singoli prodotti cinematografici per illustrare un concetto. Il cinema diviene in quest’ottica un serbatoio pressoché inesauribile di esempi tesi a illuminare particolari questioni filosofiche. Il testo che possiamo considerare capostipite di questa modalità di approccio è il volume Pursuits of happiness (1981; trad. it. Alla ricerca della felicità, 1999) di Stanley Cavell, filosofo statunitense di formazione analitica, ma studioso di Ralph Waldo Emerson e di Henry David Thoreau, di Friedrich Nietzsche e di Ludwig Wittgenstein. Il volume, utilizzando il pensiero di Immanuel Kant, William Shakespeare e Sigmund Freud, oltre che dei filosofi già citati, propone una lettura filosofica di sette commedie hollywoodiane realizzate dalla metà degli anni Trenta alla fine degli anni Quaranta, individuando alcune analogie narrative volte alla descrizione di una ‘nuova tipologia’ di essere umano. Cavell insiste molto sull’importanza del cinema in quanto eredità culturale degli americani, lascito più comune e diffuso di qualsiasi opera filosofica, e ha il merito di presentarlo al fianco della filosofia in un momento in cui questa operazione era ancora considerata ‘scandalosa’.

Tale prospettiva, che nella nostra contemporaneità ha molta fortuna in contesti divulgativi, forte della popolarità dei prodotti cinematografici, può sicuramente condurre ad alcuni esiti molto interessanti: può servire a diffondere l’abitudine di una considerazione dei film più acuta e profonda, come può rivelarsi utile da un punto di vista didattico, chiarendo temi o dinamiche altrimenti difficilmente comprensibili (in questa prospettiva in Italia si muove, per es., il lavoro di Umberto Curi, Un filosofo al cinema, 2006; ma cfr. anche il volume di Julio Cabrera, Cine: 100 años de filosofia, 1999, trad. it. Da Aristotele a Spielberg.Capire la filosofia attraverso i film, 2000). Tuttavia, a volte questo orientamento corre il rischio di divenire riduttivo, focalizzandosi su un unico elemento dell’intero meccanismo cinematografico, il singolo prodotto filmico, e di frequente, sebbene non sempre, considerandolo principalmente dal punto di vista contenutistico. Viene trascurato in questo modo il fatto che il cinema è un dispositivo composito al cui funzionamento concorrono, oltre ai contenuti narrativi, l’aspetto estetico, visivo e stilistico, e l’esperienza dello spettatore. La conseguenza di questo ridimensionamento del cinema alla sua capacità illustrativa, non inevitabile ma di certo frequente, è l’instaurarsi di un confronto in cui la filosofia mantiene una sorta di primato, mentre il cinema viene inteso come una forma di illustrazione e dunque come strumento di ‘servizio’.

Ontologia del cinema. – Un altro modo di intendere la filosofia del cinema è quello che si è diffuso nel pensiero analitico angloamericano, ambito che ha visto la philosophy of film al centro di un dibattito molto acceso. Tale prospettiva, accogliendo come punto di partenza una programmatica chiarezza di argomentazione e il frequente ricorso alle scienze cognitive, ha l’intento sistematico di chiarire i presupposti concettuali del fenomeno cinematografico in esplicita polemica con le analisi e il linguaggio, considerato poco rigoroso, usato dai filosofi di matrice continentale. Il dibattito analitico ha visto il confronto di molti filosofi su alcuni temi principali, quali, per es., l’artisticità del cinema, la questione dell’autore (o degli autori), il rapporto tra reale e rappresentazione e la risposta emotiva dello spettatore (cfr. The Routledge companion to philosophy and film, ed. P. Livingston, C. Plantinga, 2009; Angelucci 2009).

Il percorso compiuto dagli studiosi che si riconoscono in questo tipo di approccio si potrebbe riassumere dicendo che si è partiti dalla domanda prettamente estetica, quella che ha animato anche le prime teorie del cinema («Il cinema è arte oppure no?»), per arrivare principalmente alla questione ontologica: «Cosa è il film?», ovvero: «Qual è la sua modalità di esistenza?». Pur non essendo l’unico tema, certamente il problema ontologico è quello più frequentato, animando una discussione che ha visto la formulazione di risposte molto differenti tra loro, con posizioni che vanno dall’essenzialismo (Noël Carroll, Gregory Currie) al relativismo (Thomas Wartenberg; cfr. Terrone 2014, pp. 15-47).

Dalla domanda sull’essenza del film, che implica in parte un abbandono della prospettiva estetica, poiché ciò che interessa nella ricerca di una definizione generale sono tutti i film, non quelli con un intento necessariamente artistico ed espressivo, si è giunti poi a indagare altri aspetti propri del cinema, quali le sue possibilità di rappresentazione, o la natura delle emozioni provocate nello spettatore. In particolare, la questione delle emozioni è stata codificata con la formula paradox of fiction – perché proviamo emozioni vere di fronte a immagini che sappiamo essere finte? –, paradosso già evidenziato negli anni Settanta da Kendall Walton e riportato nel dibattito contemporaneo con forza a partire dal testo di Carroll The philosophy of horror, or,Paradoxes of the heart (1990), trattazione che ha ispirato molti articoli successivi. Se la vivacità del confronto risulta apprezzabile, nella volontà di fare del cinema l’oggetto di una indagine concettuale e linguistica volta a proporre definizioni rigorose, tale prospettiva sconta la ripetitività di un approccio volutamente ingenuo, come anche l’idea preliminare di un soggetto sempre e univocamente razionale.

Cinema e filosofia come pratiche creative. – Un’ulteriore possibile interpretazione della locuzione che stiamo considerando è quella propria di molti autori continentali che considerano il cinema stesso un luogo di produzione di pensiero. Questo tipo di approccio fa riferimento principalmente ai due testi scritti negli anni Ottanta dal filosofo Gilles Deleuze L’image-mouvement (1983; trad. it. 1984) e L’image-temps (1985; trad. it. 1989), la cui premessa è la convinzione di una forte analogia tra la pratica cinematografica, creazione di immagini, e la pratica filosofica, creazione di concetti. Secondo Deleuze, la filosofia deve infatti essere pensata come una pratica, un’attività costruttiva che propone descrizioni e modi di dire inediti, nuove risposte a nuovi problemi, e non come riflessione, meditazione a posteriori, né tantomeno come attività comunicativa. Questa rivendicazione della concretezza e della inventività della pratica filosofica ha il suo effetto di ritorno anche sul cinema, che non viene inteso come ambito di applicazione di una qualche riflessione già pronta, ma tra le attività artistiche è quella che produce i ‘blocchi di sensazione’, i ‘blocchi di movimento/durata’ più risonanti con la filosofia, più vicini a essa nel mostrare la vita del pensiero. Naturalmente tutto ciò non significa promuovere l’idea di una identità tra le due pratiche, ognuna delle quali è caratterizzata dall’utilizzo di mezzi differenti: ciò che le avvicina e le fa risonanti, ma non interscambiabili, è la capacità di reagire creativamente – avendo un’idea, più idee su terreni diversi – all’urgenza delle medesime scosse del pensiero.

La prospettiva deleuziana – che da queste premesse procede individuando due epoche, o meglio due stili, del cinema: l’uno classico, che mostra lo scorrere del tempo attraverso il movimento, l’altro moderno, in grado di mostrare il tempo come divenire, come ‘durée’, nel senso proposto da Henri Bergson – si è rivelata assai influente, alimentando il pensiero di molti autori contemporanei. Si rifà alle teorie di Deleuze il filosofo francese Jacques Rancière, che propone però anche alcune critiche. La possibilità di una frattura netta tra classicità e modernità cinematografiche viene infatti discussa a partire dall’affermazione della difficoltà di sovrapporre le cesure della Storia a quelle interne all’immagine, cioè di attuare un’immediata connessione tra l’arte ed eventi esterni a essa. Rancière vede piuttosto nelle due modalità cinematografiche indicate da Deleuze due momenti che non si costituiscono in opposizione, ma sono uniti in una «spirale infinita» che fa del cinema un’arte dialettica. In La fable cinématographique (2001; trad. it. 2006) Rancière declina la correlazione tra visibile e dicibile nei termini di una interdipendenza che lo porta alla definizione del cinema come «favola contrastata»: l’elemento visibile può manifestarsi cinematograficamente in tutta la sua forza soltanto emergendo dal racconto, cioè lottando con esso, con la «favola» in senso aristotelico. Il visibile cinematografico è dunque sempre uno «scarto», un momento sospeso che spezza la razionalità del racconto e rivela «la struttura intima delle cose», addirittura una «preda» che sfugge alla caccia della volontà agente della drammaturgia narrativa, come ribadirà nell’opera del 2011 Les écarts du cinéma.

Vicino alle idee proposte da Deleuze è anche Alain Badiou, che insiste sulla ‘impurità del cinema’, sulla natura paradossale dell’immagine cinematografica, vicina alla realtà ma nello stesso tempo artificiale, e individua in questo suo statuto duplice il carattere che ne fa una «situazione per la filosofia». Ecco allora che tra cinema e filosofia, di per sé due dimensioni incommensurabili, si può immaginare una sintesi, cioè appunto una relazione tra due attività diverse ma con tratti in comune (A. Badiou, Del capello e del fango.Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, 2009).

La riflessione deleuziana sul cinema ha avuto molta influenza anche al di fuori della Francia. Tra gli studiosi di cinema che scrivono in lingua inglese ricordiamo Patricia Pisters, che ha ibridato i concetti del filosofo francese con la riflessione della Feminist film theory e addirittura con i contributi delle neuroscienze (The neuro-image. A Deleuzianfilm-philosophy of digital screen culture, 2012). Di matrice filosofica deleuziana è anche la collana Thinking cinema, che, nata nel 2014 ed edita dall’inglese Bloomsbury, promuove ricerche che intersecano cinema e filosofia. In Italia, un approccio simile è quello della rivista «Fata Morgana», diretta da Roberto De Gaetano, periodico che di fatto considera l’immagine cinematografica come strumento di indagine concettuale e filosofica della nostra contemporaneità.

Immagini ed esperienza. – Sul versante italiano, non ispirate a Deleuze, ma impegnate filosoficamente nella chiarificazione dell’immagine anche cinematografica sono le analisi di Pietro Montani; a partire dai primi anni Duemila, il filosofo si è occupato degli effetti delle nuove tecnologie sulla produzione e la ricezione delle immagini (P. Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, 2014). La questione dell’esperienza dello spettatore è anche al centro dell’indagine di Francesco Casetti (L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005), che descrive come «messa in forma negoziata» la ricomposizione delle istanze del reale, della cultura e della mentalità di un’epoca che il cinema è stato in grado di attuare, sottolineando attraverso la nozione di «rilocazione» – quel movimento che consente ai media di continuare a funzionare su piattaforme nuove – la continuità dell’esperienza cinematografica anche all’interno di un rinnovato panorama mediale. La stessa attitudine teorica è presente in alcuni altri autori che, pur impegnati principalmente in altri ambiti di ricerca, frequentano spesso il territorio cinematografico: tra questi, lo storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman, con le sue analisi volte a indagare la natura dell’immagine, la filosofa francese di origine algerina Marie-José Mondzain, che si interroga sul destino delle immagini nella società contemporanea e sulla libertà dello sguardo (Images (à suivre). De la poursuite au cinéma et ailleurs, 2011), e il filosofo sloveno Slavoj Žižek, il quale, unendo l’approccio psicoanalitico e la teoria politica, vede nel cinema e nella letteratura popolare i luoghi di emersione dei ‘sintomi’ della cultura contemporanea.

Bibliografia: D. Angelucci, Cinema ed estetica analitica, in XXI Secolo. Comunicare e rappresentare, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009, pp. 553-60; D. Dottorini, Nuove tendenze nelle teorie del cinema, in XXI Secolo. Comunicare e rappresentare, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009, pp. 543-52; D. Angelucci, Filosofia del cinema, Roma 2013; P. Bertetto, Microfilosofia del cinema, Venezia 2014; E. Terrone, Filosofia del film, Roma 2014.

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