LATTANZIO, Firmiano

Enciclopedia Italiana (1933)

LATTANZIO, Firmiano


Apologista cristiano del sec. IV. Africano, discepolo d'Arnobio, chiamato a insegnare retorica latina a Nicomedia di Bitinia, residenza imperiale, sotto Diocleziano, era già cristiano allo scoppiare della persecuzione. Vecchissimo, fu chiamato da Costantino a Treviri, precettore del principe Crispo: presumibilmente nel 317, allorché Crispo, nato nel 307, venne proclamato Cesare.

Che L. lasciasse la Bitinia nel 305 o l'anno dopo, per ritornarvi nel 311, è congettura, che dipende da un modo di raffigurarsi la composizione delle Institutiones (in V, 11, 2 e x1, 15, L. non è più in Bitinia) e del De mortibus persecutorum; con questa assenza, e l'allontanamento dalla scuola, si è cercato di spiegare la grande miseria di cui parla S. Girolamo (Chron., ad a. 2333), che altrove (De vir. ill., 80) accenna ai pochi scolari del retore latino nella città greca. Quanto al nome, Lactantius è signum o soprannome, Firmianus a torto è stato addotto per dirlo di Fermo; prenome e nome sono in alcuni manoscritti (fra cui il più antico, Bolognese, Univ. 701, sec. VI-VII) Lucius Caelius; in altri, come quello del De mortibus, L. Caecilius; un L. Caecilius Firmianus è nominato in un'iscrizione di Cirta (Corpus Inscr. Lat., VIII, n. 7241).

Parecchi scritti di L. sono perduti, o se ne hanno scarsi frammenti: Symposium (scartata l'identificazione con il libretto d'indovinelli di Symphosius), ‛Οδοιποπικόν (racconto del viaggio dall'Africa a Nicomedia), Grammaticm, due libri Ad Asclepiadem, raccolte di lettere, che S. Damaso trovava noiose: quattro libri Ad Probum, due Ad Demetrianum de providentia, due Ad Severum. Questa attività letteraria di carattere scolastico dovette precedere quella apologetica, che L. stesso permette di ordinare cronologicamente: De opificio Dei, Divinae institutiones, De ira Dei. Il primo è diretto a un Demetriano; l'opera di Dio è l'uomo, composto di corpo e d'anima: del primo L. dimostra la perfezione, della seconda l'immortalità. Le Institutiones, in sette libri (De falsa religione; De origine erroris; De falsa sapientia; De vera sapientia et religione; De iustitia; De vero cultu; De vita beata) combattono scritti anticristiani di un filosofo (in 3 libri; dunque non Porfirio) e di un magistrato (Ierocle, confutato anche da Eusebio di Cesarea?). Il De ira, contro i filosofi che asseriscono Dio impassibile, mostra la giustizia divina punire i malvagi. Più incerta è la collocazione dell'Epitome, scritta per un "fratello" (di sangue o di fede?) Pentadio, varî anni dopo le Institutiones, e piuttosto rifacimento compendioso che vero riassunto. È conservata intera in un codice torinese (già bobbiese) letto nel 1711 da S. Maffei (Lettera... al sig. Ap. Zeno, in Giorn. dei letter., VI) e da C. M. Pfaff, che ne diede la poco accurata editio princeps (Parigi 1712).

Nelle Institutiones - da lui dette divinae, in antitesi alle giuridiche e oratorie - L., primo tra gli apologisti latini, vuole non tanto ribattere accuse quanto istruire, convincere, convertire. Perciò ricorre ad argomenti razionali, volutamente cita autori pagani (specie Virgilio e gli Oracoli sibillini) più assai che la Bibbia; si preoccupa di scrivere chiaro e ornato: onde anche l'ammirazione degli umanisti per il "Cicerone cristiano" (G. Pico della Mirandola). Il suo punto di vista è prevalentemente etico: tutta la discussione ha per motivo principale l'esaltazione della virtù cristiana per eccellenza, l'amore del prossimo e della giustizia, che stabilisce anche il vero rapporto tra l'uomo e Dio. Da questa sete di giustizia L. è indotto nell'ultimo libro a credere anche nel regno millenario dei giusti sulla terra (la catastrofe ultima è dipinta secondo lo schema consueto delle apocalissi; tra gli altri segni della fine - "horret animus dicere, sed dicam, quia futurum est"- è la fine dell'impero di Roma: Instit., VII, xv, 11 segg.); e in ciò, come nell'avversione alla cultura profana (benché se ne serva) e alla politica realistica, e come nelle tendenze dualistiche, L. - del resto teologo mediocre - si ricongiunge ad Arnobio (per altri riguardi, n'è assai lontano) e alla tradizione del cristianesimo africano.

Le tendenze dualistiche appaiono più evidenti in una serie di passi (De op. Dei, 19, 8; Ínstit., II, viii, 7; VII, v, 27) che insieme con due dediche più lunghe e altri accenni a Costantino (Instit., I, 1, 12; II, 1, 2; III, 1, 1; IV, 1, 1; V,1, 1; VI, 111, 1; VII, xxvii, 2) si trovano in una classe di manoscritti (Parigini 1663, sec. IX, e 1664, sec. X), mancano nell'altra (Bolognese, ecc.). Le due serie sono state ritenute: interpolazioni (Brandt, Monceaux); originali, ma cancellate dall'editore che raccolse il Corpus lattanziano, con De ira, De opif. e l'Epitome acefala (solo capo 51 e segg.), quali libri VIII, IX e X, come nel codice Bolognese (Pichon, quindi Brandt); rimaneggiamenti dell'autore, per una seconda edizione, dedicata a Costantino (Belser, che ritiene però spurî i passi dualistici; Batiffol; Piganiol: secondo il primo, di poco anteriore all'editto di Milano; per il secondo, che vi ravvisa accenni a Licinio come persecutore, intorno al 321). L'ipotesi di un rimaneggiamento per entrambe le serie e in genere per tutta l'opera sembra confermata da un nuovo esame dell'intera tradizione; e si spiegherebbero, senza complicare la biografia, anche i passi Instit., V, ii, 2 e XI, 15 (v. sopra). La dedica del libro I con l'augurio che a Costantino possano succedere i figli, non sembra possa essere anteriore al 317.

Il senso vivo del male ch'è nel mondo e l'attesa d'uno scoppio dell'ira di Dio che punisce e atterra i malvagi si manifestano nel De mortibus parsecutorum, ormai quasi da tutti riconosciuto di L., che descrive soprattutto, con molti particolari, le persecuzioni di Diocleziano e dei colleghi e successori, sino all'editto di Milano. Le differenze stilistiche si spiegano con il carattere polemico dell'opera: da tener presente nel valutarla come fonte storica. L'autore vissuto in Nicomedia e testimone bene informato, nell'interpretazione dei fatti è uomo di parte (ein Publizist: O. Bardenhewer).

L'editio princeps fu pubblicata da É. Baluze Parigi 1679): la discussione sull'autenticità cominciò con N. Le Nourry, nella sua edizione (1710). La differenza del titolo da quello (De persecutione) indicato da S. Girolamo conta poco; per il nome, v. sopra. L'operetta è dedicata a un Donato, come il De ira: due L. Cecilî avrebbero dedicato due opere latine a uno stesso Donato - o a due diversi - nella stessa Nicomedia, fra il 311 e il 313?. Fu osservato, che L. allora era in Gallia: ma da una parte è inverosimile lo si desse come precettore a Crispo quattrenne, dall'altra il De mortibus presuppone solo che l'autore sia vissuto in Nicomedia, non - a rigore - che vi abbia scritto il libro. Ciò darebbe ragione a chi lo ritiene composto in Gallia, come monito a Licinio e per attirargli l'ostilità dei cristiani, prima dell'urto finale con Costantino. Ma Licinio vi è pure esaltato: la preghiera vagamente monoteistica dei soldati è presentata come cristiana. È più probabile che proprio il De mortibus procurasse a L. la chiamata a Treviri.

Sia in base alla tradizione, sia per somiglianze con gli scritti in prosa, si tende a riconoscere a L. il poemetto De ave phoenice. Alcuni vi hanno veduto l'opera d'uno stoico (dottrina dell'ekpýrōsis o conflagrazione finale) e d'un pagano (per l'argomento mitologico): lo si è quindi ritenuto di L. ancora non convertito, o di un omonimo (Lattanzio Placido, sec. V-VI; G. Landi: sec. IV). Le lodi della verginità, certe espressioni, il mito stesso della fenice che è in scrittori (Clem. rom., 25-26, Tertull., De resurr. carn., 13; Commod., Carm. apol., 139 segg.) e nell'arte cristiana simbolo della risurrezione contraddicono queste ipotesi.

Altre poesie sono a torto attribuite a L. Un frammento De motibus animi è in un cod. ambrosiano (già bobbiese). Un libro contro tutte le eresie è promesso in Instit., IV, xxx, 14; un Contra Iudaeos in VII, 1, 26.

Ediz.: L'edizione principe è la celebre sublacense del 1465; in Patrol. Lat., VI e VII sono riprodotte le edizioni di J. B. Brun e N. Langlet Dufresnoy, Parigi 1748; l'ediz. critica di S. Brandt e G. Laubmann, Vienna 1890-97 (Corpus Script. Eccles. Lat., 19 e 27) è insoddisfacente (cfr. S. Brandt, Zu Laktanz, in Philologus, 1922. p. 131); del De mortibus, ed. I. B. Pesenti, Torino 1922 (Corpus Script. Lat. Parav., 40); trad. it. di F. Scivittaro, Roma 1923.

Bibl.: R. Pichon, Lactance, Parigi 1901 (cfr. S. Brandt, in Berlin. philol. Wochenschr., 1903, coll. 1223 e 1225); L. Monceaux, Hist. littér. de l'Afr. chrét., IV, Parigi 1905; P. Batiffol, La paix constantinienne et le catholicisme, Parigi 1914, p. 224; F. Fessler, Benützung d. phil. Schrift. Ciceros durch L., Lipsia 1913; H. Koch, in Zeitschr. f. die Neutest. Wissensch., 1917-18, p. 196; id., in Philologus, 1922, p. 381; T. Stangl, in Rheinisch. Mus., 1915, pp. 224 segg., 441 segg.; S. Anfuso, L. autore del De mort., in Didaskaleion, 1925; G. Malignoni, L. apologeta, ibid., 1927, p. 117; L. Rossetti, Il De opif. Dei di L. e le sue fonti, ibid., 1928, p. 115; L. Castiglioni, in Riv. di filol., 1928, p. 454; S. G. P. Borleffs, in Mnemosyne, 1929, pp. 415 segg., 426 segg.; A. Piganiol, L'emp. Constantin, Parigi 1932, p. 134; per il De ave Phoenice: M. Masante, in Didaskaleion, 1925, pagina 105; bibl. di Marin, in Bursians Jahresbericht, CCXXI, Lipsia 1929, p. 113 segg.