Fisica matematica

Enciclopedia del Novecento (1977)

Fisica matematica

EEugene P. Wigner

di Eugene P. Wigner

Fisica matematica

sommario: 1. Introduzione. 2. Il ruolo della matematica nella fisica. a) Uno schema dei concetti fondamentali della fisica. b) Si può mettere in dubbio l'epistemologia dei concetti fondamentali?. c) Il ruolo della matematica. 3. Il ruolo della fisica nella matematica. a) Fisica e calcolo delle variazioni. b) Fisica e teoria dei gruppi. 4. Breve storia della fisica teorica fino al secolo scorso. a) Meccanica e gravitazione: il primo grande successo. b) Le teorie di campo per l'ottica e altri fenomeni. Elettromagnetismo. c) Calore, termodinamica e teoria atomica. 5. Il nostro secolo. a) La teoria della relatività speciale. b) La teoria della relatività generale. c) La teoria quantistica. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Per essere esauriente, un articolo sulla fisica matematica deve necessariamente occuparsi sia del ruolo di questa parte della fisica nell'intera disciplina, sia dei suoi rapporti con la matematica e della sua influenza su quest'ultima. Esso deve inoltre trattare i traguardi raggiunti dalla fisica matematica e i suoi limiti attuali.

Il secondo capitolo, sul ruolo della matematica nella fisica, prenderà l'avvio da una descrizione dei tre tipi di oggetti di cui si occupa la fisica, e cioè gli eventi, le leggi della natura e i principi di invarianza, detti anche simmetrie. Seguiranno poi alcune osservazioni sia riguardo alla tendenza della fisica a formulare leggi della natura, di precisione e di validità sempre maggiori, sia sulla ancora attuale utilità delle leggi più vecchie e in teoria sorpassate. Verrà poi trattato il problema della nettezza della linea che divide i tre concetti, cioè gli eventi, le leggi della natura e i principi di invarianza, anche se la conclusione della discussione non sarà molto definita. L'ultima parte del capitolo metterà in luce il ruolo, già da lungo tempo conosciuto ma ancora stupefacente, che la matematica svolge nel formulare le leggi della natura e la sua importante funzione nel valutarne le conseguenze.

Il terzo capitolo, sul ruolo della fisica nella matematica, ha inizio con un breve accenno alla differenza fondamentale tra gli obiettivi delle due discipline. Esso tratterà poi della stretta interazione tra le due discipline, la quale ha avuto un duplice risultato: anzitutto la fisica ha posto interrogativi che presentano interesse per il matematico e in secondo luogo sono stati risolti alcuni problemi che hanno stimolato i matematici a un ulteriore lavoro nello stesso campo.

L'interazione tra le due discipline è illustrata da un breve esame di due campi della matematica: il calcolo variazionale e la teoria dei gruppi. Lo scopo del primo è quello di risolvere i problemi di massimo o di minimo. Si è trovato infatti che la maggior parte delle leggi della natura può essere formulata sotto forma di problemi di massimo o di minimo, il che ne permette facilmente la formulazione in termini di variabili arbitrarie: in altre parole, se una grandezza fisica assume il valore più piccolo possibile quando è espressa in termini di un dato insieme di coordinate, essa assumerà il suo valore più piccolo anche quando è espressa in termini di qualsiasi altro insieme di coordinate. Il calcolo variazionale ha tratto molto vantaggio dai contributi dei fisici e nello stesso tempo esso ha avuto un'importanza decisiva nella soluzione di alcuni problemi di fisica, e in particolare di teoria della relatività.

Quanto alla teoria dei gruppi, faremo notare anzitutto che le operazioni di simmetria soddisfano i postulati per gli elementi di un gruppo. In realtà la teoria dei gruppi fu inventata allo stesso tempo in cui furono determinate tutte le possibili simmetrie dei cristalli, ma il suo ruolo nella fisica si accrebbe molto con la scoperta della meccanica quantistica che postula per i suoi stati uno spazio lineare. I fisici trovarono molte informazioni già pronte per l'uso negli sviluppi precedenti della teoria dei gruppi, ma in seguito essi hanno anche dato notevoli contributi, proponendo sia problemi che soluzioni nuovi.

Il quarto capitolo contiene una breve storia della fisica teorica fino al secolo scorso. Dopo un breve esame delle prime fasi, esso descrive lo sviluppo e il grande successo della meccanica di Newton e della sua teoria gravitazionale, rese possibili da precedenti osservazioni astronomiche che erano culminate nelle leggi di Keplero e nelle scoperte sperimentali di Galileo sulla caduta libera dei gravi. Tutti questi risultati, tra loro molto diversi, sono spiegati dalla stessa teoria.

L'evento' fondamentale della meccanica di Newton sta nell'ipotesi che un corpo a un istante assegnato abbia una posizione definita. Lo sviluppo seguente della fisica culminò nella teoria dell'elettromagnetismo di Maxwell, il cui ‛evento' fondamentale è completamente diverso consistendo nella presenza in ogni punto dello spazio di campi sia magnetici che elettrici. Il concetto di campo fu suggerito anche dai fenomeni ottici, dai problemi di conduzione del calore e dalla meccanica del continuo. Il successo principale della teoria di Maxwell consiste nell'avere unificato l'ottica e l'elettromagnetismo.

In ultimo vengono discusse le teorie sul calore e la termodinamica. L'importanza di quest'ultima è assai simile a quella delle teorie di Newton e Maxwell. Il suo sviluppo, come anche quello delle teorie del calore, dimostrò anche l'utilità e la fertilità della teoria atomica e portò ambedue al centro dell'attenzione dei fisici.

Nello scrivere questi primi quattro capitoli abbiamo cercato di renderli accessibili anche al lettore profano, e non soltanto al fisico di professione.

Il quinto capitolo sul nostro secolo s'inizia con una breve discussione sulla varietà dei fenomeni di cui la fisica teorica può oggi occuparsi con successo. Non entreremo in dettagli su questa materia, ma discuteremo invece i principali sviluppi del nostro secolo, cioè le teorie della relatività e della meccanica quantistica.

Il fatto empirico che la velocità della luce sia uguale in tutte le direzioni, non soltanto per gli osservatori fermi, ma anche per quelli che si muovono con moto uniforme, sembra contenere una contraddizione. La teoria della relatività speciale risolve questa contraddizione ammettendo che due eventi, che a un osservatore appaiono simultanei, non lo siano invece per un osservatore che sia in movimento rispetto al primo. Il postulato secondo cui la velocità della luce è indipendente dalla direzione per tutti gli osservatori che si muovono con velocità costante lungo linee rette porta allora a quella che costituisce la base della teoria della relatività speciale di Einstein, cioè alla trasformazione di Lorentz. La teoria postula che tutte le leggi della natura sono indipendenti dallo stato di moto dell'osservatore, a condizione che questo avvenga con velocità costante e lungo una linea retta. Questo postulato si è dimostrato molto fruttuoso e ha portato a conseguenze importantissime, nessuna delle quali è stata confutata, eccetto, forse, su scala cosmologica.

La teoria della relatività generale viene descritta come una teoria di campo della gravitazione. Le sue equazioni si ottengono in base a un principio variazionale e questo le rende invarianti anche rispetto a trasformazioni quasi arbitrarie delle coordinate. Essa mira a usare come ‛eventi', cioè come grandezze osservabili, le coincidenze spazio-temporali degli oggetti, o, in altri termini, le loro collisioni. Tuttavia, la derivazione delle grandezze fondamentali delle equazioni di campo delle componenti del tensore metrico da queste grandezze non è per nulla diretta.

Per ultima viene discussa la teoria quantistica, cioè l'altra teoria del nostro secolo che ha aperto nuove strade nella fisica. Essa ha una lunga storia, ma, se si limita la sua applicazione a sistemi in cui tutte le velocità sono molto al di sotto di quella della luce, sembra che essa abbia assunto la sua forma definitiva. Per tali sistemi, infatti, sembra che le descrizioni che essa dà siano molto accurate, almeno per quanto riguarda la natura inanimata. Ciò significa che la meccanica quantistica non relativistica contiene in teoria, ma soltanto in teoria, tutte le risposte ai problemi della fisica e della chimica di ogni giorno. La sua estensione al campo relativistico ha avuto molti successi, ma non è ancora completa nè del tutto soddisfacente. L'applicazione della teoria quantistica ai fenomeni che avvengono alle alte energie e i problemi relativi vengono trattati a conclusione dell'articolo.

L' ‛evento' fondamentale della teoria quantistica è l'osservazione, il che solleva difficili problemi filosofici, dal momento che il processo di osservazione non può essere completamente descritto dalla teoria; tali problemi verranno sollevati, ma non saranno trattati a fondo. Alla fine accenneremo al grave conflitto tra le idealizzazioni e gli ‛eventi' della teoria della relatività generale da una parte e quelli della meccanica quantistica dall'altra.

2. Il ruolo della matematica nella fisica

a) Uno schema dei concetti fondamentali della fisica

I due concetti più importanti della fisica odierna sono gli ‛eventi' e le ‛leggi della natura'. La natura e la descrizione degli eventi della fisica hanno subito mutamenti molto profondi nel corso dello sviluppo di questa disciplina. Originariamente, ‛evento' indicava la presenza di un oggetto in una posizione data a un istante dato e questo è ancora il tipo di evento di cui si occupa la meccanica classica. Un evento nelle teorie di campo classiche, come l'elettromagnetismo di Maxwell, è costituito da qualcosa di molto più complesso: esso è dato dalla presenza, a un dato istante, di determinate ampiezze dei campi in tutti i punti dello spazio e può essere descritto da tante funzioni della posizione quante sono necessarie per descrivere il campo in un punto. Le teorie moderne, quali la relatività e in particolare la meccanica quantistica, descrivono i loro eventi in maniera ancora più sofisticata, come si vedrà meglio nell'ultimo capitolo.

Le leggi della natura stabiliscono delle correlazioni o delle regolarità tra gli eventi. Una regolarità di questo tipo è descritta per es. dall'affermazione che se una pietra si trova in una data posizione, a un'altezza sufficiente da terra, e viene lasciata a un tempo O - questo costituisce il primo evento -, dopo 1 secondo essa si verrà a trovare in una posizione di 5 m al di sotto della prima. Questo trovarsi in una posizione inferiore di 5 m al tempo 1 s costituisce il secondo evento e la legge della natura mette insieme, cioè correla, i due eventi permettendo di prevedere il secondo sulla base del primo.

Il numero di eventi che permette di prevedere un evento futuro dipende evidentemente in gran parte dalla situazione che si considera. Nel caso di un corpo singolo in uno spazio vuoto le posizioni in due istanti diversi sono sufficienti per permettere di prevederne, attraverso la prima legge di Newton, la posizione in qualsiasi istante successivo. Nel caso di n corpi nel vuoto ma interagenti tra loro è necessario specificare le posizioni di tutti gli n corpi in due istanti diversi per permettere alle leggi della natura di predirne le posizioni in un istante successivo. Invece di dare tutte le posizioni in due istanti successivi, si possono usare come dati iniziali per le leggi della natura tutte le posizioni e le velocità a un dato istante di tempo. Le leggi della natura rappresentate dalle equazioni di Maxwell permettono di prevedere le ampiezze dei campi elettromagnetici a ogni istante e in ogni punto se queste ampiezze sono note in tutto lo spazio a un istante assegnato. La situazione è assai più complicata tanto per la teoria della relatività quanto per le teorie quantistiche le quali, come si è detto, saranno trattate nell'ultimo capitolo. A questo punto il nostro proposito è soltanto quello di descrivere i due concetti fondamentali: eventi e leggi della natura.

Un insieme di eventi che permette, attraverso le leggi della natura, di trarre delle conclusioni sugli eventi successivi - cioè i dati iniziali necessari per le leggi della natura - definisce quello che viene detto lo ‛stato' del sistema in questione. Se questi eventi sono effettivamente usati per prevedere eventi successivi, essi vengono detti ‛condizioni iniziali'. Da quanto abbiamo detto risulta evidente che leggi della natura diverse descrivono lo stato dei sistemi in modo diverso e richiedono tipi di condizioni iniziali diverse per la previsione di eventi successivi, o, per dirla in altra maniera, per determinare lo stato successivo dei sistemi di cui trattano.

Probabilmente è superfluo ricordare che siamo convinti che tutte le leggi della natura conosciute (e verosimilmente anche tutte le altre leggi di questo tipo accessibili alla mente umana) sono approssimative e che per le previsioni noi adoperiamo di solito la legge più semplice che si riesce ad applicare e che si pensa dia un risultato sufficientemente accurato per la previsione, la macchina o l'apparecchiatura sperimentale a cui è destinata. Tutte le leggi attualmente conosciute saranno con ogni probabilità sostituite da leggi più accurate, che si applicheranno a un maggior numero di fenomeni. Come mostreremo in seguito, lo sviluppo passato della fisica è avvenuto proprio secondo queste linee. Tuttavia le leggi vecchie non hanno perso la loro utilità: esse infatti continuano a essere valide nelle condizioni in cui furono ottenute e, cosa forse sorprendente ma certo anche positiva, spesso anche in condizioni molto più ampie di quelle originariamente sperimentate. Le vecchie leggi della natura, quando vengono sostituite da altre più avanzate, appaiono come limiti: così, per esempio, la meccanica classica non relativistica è ancora valida, nel caso limite in cui le velocità di tutti i corpi considerati siano molto basse rispetto a quella della luce. Questo evidentemente implica un'ottima validità della legge anche per un intervallo di velocità molto maggiore di quello su cui fu sperimentata inizialmente la meccanica classica o di quello che troviamo nell'ambiente che ci circonda. Le vecchie leggi vengono adoperate ogni volta che sembrano sufficientemente accurate perché sono più facili da applicare, più semplici e meno sofisticate di quelle più recenti che le hanno sostituite.

Da quanto abbiamo detto appare chiaro che l'obiettivo dei fisici è quello di trovare leggi della natura di validità e precisione sempre maggiori. I fisici, come tutti gli altri uomini, possono essere interessati a tutti gli eventi che si producono nel mondo che li circonda, ma in quanto fisici essi studiano gli eventi e gli stati degli oggetti dei loro esperimenti soltanto per verificare o per confutare leggi della natura proposte o supposte. Il campo di validità delle leggi è stato determinato in questo modo, ed è assai sorprendente vedere quanto esso sia ampio per tutte le leggi generalmente accettate e quanto accurate esse siano entro questo campo. La maggior deviazione dalla teoria di Newton attualmente conosciuta per le orbite planetarie è di circa un centesimo di grado di arco, deviazione, questa, oggetto di estese discussioni e uno dei principali elementi di sostegno per una modifica della teoria di Newton, cioè per la teoria della relatività generale.

Un fattore molto importante e anzi decisivo per la scoperta delle leggi della natura è dato dal terzo concetto fondamentale della fisica, quello delle leggi di invarianza o simmetrie. Una di tali invarianze è quella secondo cui le correlazioni tra eventi sono indipendenti dal luogo in cui gli eventi stessi si producono: in altri termini, se esistono delle correlazioni tra un dato insieme di eventi, si avranno le medesime correlazioni tra questi eventi, purché si verifichino nelle stesse condizioni, anche se si producono in luoghi diversi.

Questo costituisce anche il carattere generale dei principi di invarianza della fisica che mettono in relazione tra loro gli eventi: l'invarianza rispetto allo spostamento nello spazio di cui parlavamo poc'anzi mette in relazione, per esempio, l'atto di lasciar cadere una pietra in un punto della terra con il medesimo atto in un altro punto e poi postula che tra l'evento iniziale e quello successivo nei due punti diversi sussista la stessa relazione. Il principio di invarianza non ci dice quale sia il secondo evento (nel nostro caso esso è la presenza della pietra dopo 1 s in un punto posto 5 m al di sotto di quello in cui essa è stata lasciata cadere), ma ci dice che la sua posizione può essere ottenuta nello stesso modo, dovunque si sia verificato il primo evento. La legge della natura è invariante rispetto al cambiamento di posizione.

Il principio di invarianza fornisce delle correlazioni tra leggi della natura allo stesso modo in cui le leggi della natura forniscono correlazioni tra eventi.

Le leggi di invarianza sono certamente assai più generali di quella riportata nell'esempio precedente. Tuttavia esse valgono per le leggi della natura soltanto se queste sono formulate per sistemi isolati, cioè per sistemi nei quali nessun elemento è soggetto all'influenza di oggetti all'infuori di quelli contenuti nel sistema stesso. Quindi la legge precedente sulla caduta della pietra dovrebbe essere formulata in maniera differente dato che il corpo in caduta è, in questo caso, soggetto all'influenza dell'attrazione terrestre. Essa potrebbe essere sostituita dal postulato che se a una distanza di 6.370 km da un corpo puntiforme di massa 6 × 1021 tonnellate vi è una pietra non soggetta all'influenza di nessun altro corpo, essa nel primo secondo dopo il rilascio percorrerà una distanza di 5 m. In questa forma la legge della natura è già invariante rispetto a tutte le trasformazioni di invarianza generalmente accettate. Ovviamente questo è vero anche per gli assiomi di Newton e per la sua legge della gravitazione che formano le normali leggi della natura, le quali valgono per gli eventi considerati ma che, come si è detto prima, possono essere applicate in condizioni molto più generali. Esse infatti danno tutte le relazioni tra gli eventi del sistema solare, ossia le posizioni dei pianeti, che noi consideriamo conseguenze delle leggi della natura. Esse non ci danno le condizioni iniziali, vale a dire le masse, le posizioni e le velocità iniziali dei pianeti le quali formano l'oggetto di studio dell'astronomia, ma ci permettono tuttavia di ottenere a ogni momento le posizioni, una volta dati gli eventi caratterizzati come condizioni iniziali.

Sarebbe impossibile enumerare anche una piccola parte di tutte le leggi della natura che svolgono un ruolo importante e in effetti essenziale nella fisica (esse sono trattate anche in altri articoli di quest'opera). Tuttavia possiamo elencare qui i principi di invarianza generalmente accettati: le leggi della natura sono uguali dovunque si trovi il sistema isolato al quale esse si applicano e in qualunque momento si applichino. Si suole dire che esse sono invarianti rispetto alle traslazioni nello spazio e nel tempo. Esse sono pure invarianti rispetto alle rotazioni nello spazio, il che significa che, se postulano una certa correlazione tra eventi, continueranno a postulare la stessa correlazione anche tra eventi che risultano uguali ai precedenti se visti dopo una rotazione dell'osservatore.

Tali invarianze delle leggi della natura, rispetto alle traslazioni nello spazio e nel tempo e rispetto alle rotazioni, ci sembrano del tutto naturali e lo erano in effetti anche per i nostri antenati. Se esse non valessero, sarebbe stato estremamente più difficile trovare delle leggi della natura. Tuttavia i principi di invarianza postulano anche che le relazioni tra eventi rimangano uguali anche se gli eventi stessi sono osservati da un osservatore che si muove lungo una linea retta a velocità costante, quale che sia la direzione e il valore della velocità. Questa invarianza universalmente riconosciuta, benché sembri meno naturale di quelle citate prima, venne in luce soltanto con il lavoro di Newton. Poiché la successione di due trasformazioni di invarianza è ancora una trasformazione di invarianza (cioè se le leggi della natura appaiono uguali sia che l'osservatore si sposti sia che ruoti, esse appariranno uguali anche se l'osservatore viene prima spostato e poi ruotato), le trasformazioni di invarianza formano quello che i matematici chiamano un ‛gruppo'. Il gruppo di invarianza delle leggi fisiche, che oggi si considera il gruppo di Poincaré, sarà trattato in seguito, nel capitolo quinto.

b) Si può mettere in dubbio l'epistemologia dei concetti fondamentali?

È possibile criticare i tre concetti descritti sopra? E, in particolare, esistono linee di separazione ben nette tra eventi, leggi della natura e condizioni di invarianza? Da un punto di vista logico la distinzione tra eventi e leggi della natura potrebbe benissimo essere spostata. Sarebbe certamente possibile dire che sono leggi della natura sia il fatto che in media le stelle si allontanano le une dalle altre sia la grandezza della attuale massa della Terra. In pratica, però, la distinzione è netta e non sembra esserci alcuna tentazione di spostarla. Fino a poco tempo fa anche la distinzione tra leggi della natura e invarianze sembrava essere data in maniera unica, ma ora il cosiddetto fenomeno della rottura spontanea delle simmetrie può far sorgere dei dubbi. Questo argomento non verrà però trattato in profondità.

Abbiamo detto più sopra che noi consideriamo le leggi della natura come approssimate e non valide in tutte le condizioni, anche se in realtà esse sono valide sotto condizioni sorprendentemente vaste. Invece si pensa che le invarianze siano meglio accertate delle leggi della natura, perché altrimenti non potrebbero servire come criteri per nuove leggi proposte o per la modifica di quelle attuali. È tuttavia bene ricordare che numerosi principi di invarianza dovettero essere abbandonati perché non riuscirono a superare le prove sperimentali sempre più rigorose cui venivano sottoposti. Questo è in particolare il caso di due postulati di invarianza che si basavano non sulla rotazione ma sulla riflessione. Oggi sembra ancora più incredibile il fatto che circa 150 anni fa fosse generalmente accettato un ‛principio di scala' formulato da Fourier il quale postulava che le proprietà dei corpi non cambiano quando questi vengono suddivisi arbitrariamente. Questo principio è valido e utile a livello macroscopico, ma evidentemente perde ogni valore quando la suddivisione raggiunge la scala atomica.

Vi sono ragioni per dubitare che le leggi della natura abbiano un significato? È un concetto valido quello di una legge della natura precisa, anche se nessuna legge di questo tipo è al presente conosciuta? Noi pensiamo che le leggi della natura si applichino soltanto ai sistemi isolati, ma ci si può chiedere se esistano sistemi di questo tipo. H.D. Zeh ha fatto notare che questa è una idealizzazione non solo criticabile, ma nel caso di corpi macroscopici probabilmente neppure approssimativamente realizzabile, se sono importanti gli effetti microscopici che influenzano la struttura atomica del corpo. Solo una grande abilità dello sperimentatore consente di ridurre gli effetti esterni sulla struttura sperimentale, ma è tuttavia preoccupante rendersi conto dell'apparente impossibilità di creare condizioni nelle quali una legge precisa della natura potrebbe essere valida in maniera esatta.

Esistono motivi per dubitare degli attuali principi di invarianza e della validità del gruppo di Poincaré? In effetti la teoria della relatività generale mette in dubbio il significato di questi principi su scala macroscopica facendo notare che può non essere possibile verificare sperimentalmente l'uniformità del moto di un osservatore lungo una linea retta. Anche questo problema verrà ripreso nell'ultimo capitolo.

Prima di lasciare l'argomento se sia mai possibile dare una definizione rigorosa dei concetti e ottenere una verifica precisa delle leggi della natura, può essere bene ricordare ancora una volta che, nonostante la debolezza epistemologica di questi concetti, le teorie che si basano su di essi si sono dimostrate estremamente fruttuose sia per le loro applicazioni pratiche sia per il fatto che hanno arricchito e migliorato la nostra immagine del mondo, o almeno di quello inanimato.

c) Il ruolo della matematica

Poiché gli eventi tra i quali la fisica stabilisce delle correlazioni sono specificati da numeri, come le coordinate di un corpo a un istante dato, o da funzioni, come le intensità di campo in tutti i punti dello spazio, non è sorprendente che le correlazioni che esistono tra di essi, cioè le leggi della natura, siano, per dirla con Galileo, ‟scritte in lingua matematica".

In effetti la matematica fa parte del modo di pensare dei fisici in due modi. Da un lato, come si è già detto, essa serve loro per formulare le leggi della natura e, dall'altro, li aiuta a dedurre le conseguenze di tali leggi, ossia a risolvere le ‛equazioni del moto' che danno implicitamente, e anzi nella maggior parte dei casi molto implicitamente, la descrizione delle condizioni future del sistema, cioè degli eventi futuri, in funzione delle condizioni iniziali.

L'interpretazione o meglio la descrizione data da Tolomeo del moto dei pianeti in epicicli sembra essere la prima prova storica di una descrizione matematica esplicita di una successione di eventi, in questo caso delle successive posizioni dei pianeti. Vari reperti archeologici fanno però pensare che già prima dell'epoca di Tolomeo esistessero descrizioni elaborate e precise degli oggetti celesti.

Anche la fisica moderna ha avuto inizio con la formulazione di leggi della natura in termini di concetti matematici non ovvi: l'uso del calcolo differenziale fatto da Newton può oggi parere uno sviluppo logico ed evidente, ma a quei tempi costituì una scoperta sensazionale, tanto che due grandi uomini, Newton stesso e Leibniz, si disputavano la priorità della scoperta. Newton non ne fece esplicitamente uso nei suoi scritti di fisica, ma appare evidente che egli non avrebbe potuto sviluppare le sue idee né dedurne le conseguenze se non avesse avuto presente il calcolo differenziale.

Il passo fondamentale successivo, cioè l'introduzione, da parte di Maxwell, del concetto di campo, faceva uso di un concetto matematico che ancora oggi presenta problemi che interessano i matematici, e cioè la teoria delle equazioni differenziali alle derivate parziali. Anche in questo caso il concetto di campo e il fatto che sia naturale usare le equazioni alle derivate parziali per descrivere le variazioni temporali di un campo ci appare ovvio. Questo non era però affatto tanto ovvio al tempo di Mawxell e infatti la sua teoria fu per molti anni ben poco capita.

I concetti fondamentali del calcolo differenziale e della teoria delle equazioni alle derivate parziali furono suggeriti, almeno in buona parte, dai problemi fisici cui furono applicati. Poiché la posizione di un oggetto sembra essere una funzione derivabile del tempo e poiché essa può essere ottenuta nel modo più semplice per un istante molto vicino a quello per cui è conosciuta, cioè dopo che il corpo ha compiuto uno spostamento piccolissimo, sembra evidente descriverne il moto con un'equazione differenziale. Una constatazione simile vale anche per la relazione tra equazioni alle derivate parziali e concetto di campo, come a suo tempo aveva già notato J.-B.-J. Fourier. Analoga constatazione non si può invece fare per le tre più recenti teorie matematiche applicate a problemi di fisica, cioè la geometria di Riemann, lo spazio di Hilbert complesso e la teoria delle funzioni analitiche, le quali furono inventate e sviluppate dai matematici molto prima che fossero concepite le teorie fisiche alla cui formulazione e al cui fondamento hanno contribuito.

Einstein si rese conto che se le traiettorie dei corpi in un campo gravitazionale devono essere descritte allo stesso modo in cui vengono descritte le traiettorie delle particelle libere (cioè mediante linee geodetiche nello spazio-tempo), è necessario modificare la geometria dello spazio. Egli trovò la geometria di Riemann pronta per il suo scopo, la adottò e mediante essa formulò la sua teoria della relatività generale. Come si è detto prima, ciò sarà trattato a un livello più approfondito nel capitolo quinto.

La scoperta che i principi della meccanica quantistica possono essere espressi nel modo più semplice e conciso facendo uso dello spazio di Hilbert complesso è dovuta a J. von Neumann. Anche in questo caso la teoria era già stata ben sviluppata nelle sue linee essenziali assai prima che divenisse manifesta la sua utilità per la fisica: questa utilità aspettava soltanto di essere riconosciuta. Il terzo caso e quello delle funzioni analitiche, il cui più importante teorema (quello di Cauchy) risale a circa 150 anni fa. La sua rilevanza per la teoria della diffusione e delle collisioni emerse solo lentamente, nella forma della cosiddetta teoria della dispersione proposta inizialmente da Kronig e H. A. Kramers del 1926, ma portata a compimento molto più tardi con l'impiego della teoria delle funzioni analitiche da parte di M. Gell-Mann, M. L. Goldberger, Van Kempen, K. M. Watson e molti altri.

Ci si è spesso meravigliati della sorprendente utilità delle idee e dei concetti introdotti inizialmente dalla matematica per la formulazione di teorie fisiche: essa rappresenta una convergenza quasi misteriosa delle due discipline che nelle parole del filosofo C.S. Peirce ‟racchiude probabilmente un segreto che deve ancora essere scoperto".

La discussione che abbiamo appena fatto ha dato degli esempi del contributo della matematica alla formulazione delle leggi della natura, ossia delle teorie fisiche. Non è poi tanto sorprendente che la matematica abbia dato un contributo decisivo anche per trarre le conseguenze di tali leggi e per la soluzione e la riformulazione delle equazioni ‟scritte in lingua matematica". Tuttavia non si possono trascurare la riformulazione, o anzi la generalizzazione, fatta da d'Alembert e da Lagrange delle leggi newtoniane della meccanica né i contributi di Laplace e di Fourier i quali in un certo senso anticiparono lo sviluppo delle teorie di campo. Questi costituiscono ovviamente contributi importantissimi, ma probabilmente ancora più essenziale per lo sviluppo, l'uso e la verifica delle leggi della fisica è l'aiuto quotidiano e naturale che gli articoli e i libri di matematica forniscono ai fisici. Non tratteremo qui questo argomento che è più propriamente materia di altri articoli.

All'inizio di questo capitolo abbiamo stabilito una specie di ordine gerarchico tra eventi, leggi della natura e principi di invarianza: le leggi della natura danno correlazioni tra eventi mentre i principi di invarianza danno correlazioni tra leggi della natura. È quindi sorprendente che i principi di invarianza diano un grande contributo alla soluzione del problema matematico che porta dalle leggi della natura alla previsione degli eventi. Questo contributo lo danno principalmente sotto forma di leggi di conservazione, dieci delle quali corrispondono ai dieci tipi di trasformazione di invarianza. Una di queste leggi di conservazione, quella dell'energia, è di particolare importanza.

La scoperta della relazione tra le leggi di conservazione e le invarianze è dovuta almeno per le teorie classiche ai matematici O. Hamel, F. Klein e E. Noether. Nella teoria quantistica la relazione è ovvia, ma l'efficacia dell'invarianza va molto oltre tanto che, come ha detto M. von Laue, quasi tutte le leggi della spettroscopia atomica derivano da considerazioni di simmetria. Anche in questo caso non è necessario entrare in dettagli, che saranno forniti in altri articoli.

3. Il ruolo della fisica nella matematica

La matematica e la fisica sono discipline molto diverse. La prima si basa solamente su processi mentali, il pensare, il trarre conclusioni, l'immaginare. La varietà e la natura, per alcuni di noi affascinante, di questa disciplina è sorprendente, nonostante che essa cerchi di essere distaccata dalle nostre esperienze quotidiane, cioè dal carattere del mondo che ci circonda. Il matematico definisce concetti che consentono mediante ingegnosi ragionamenti di dedurre interessanti relazioni tra essi; questo è il suo scopo principale e spesso anche l'unico. Proprio per questo motivo è sorprendente che i suoi concetti si siano rivelati così utili alla fisica, cioè a una disciplina che cerca di trovare relazioni tra eventi, sia naturali che prodotti dall'uomo. Il fisico cerca di formulare queste relazioni in un modo semplice e, secondo Einstein, molto bello, ma è assai strano che egli ci riesca e che finisca per usare quasi sempre i concetti del matematico, inventati con intenti del tutto diversi.

L'influenza della fisica sulla matematica è assai meno sorprendente. Essa ha in parte l'effetto di uno stimolo, in quanto il fisico domanda la soluzione dei problemi che gli si presentano quando cerca di ottenere le conseguenze delle sue leggi della natura formulate in termini matematici. Vi sono casi in cui il fisico risolve tali problemi da solo, ma essi possono spesso essere molto generalizzati e suscitano quindi anche l'interesse del matematico. Vi sono infine casi in cui il fisico si trova davanti a un problema che aveva già molto tempo prima suscitato l'interesse dei matematici per la grande ingegnosità richiesta per risolverlo.

All'inizio della nostra epoca scientifica, a partire già dai lavori di Copernico, Galileo e Keplero, le due materie erano spesso oggetto dell'interesse del medesimo scienziato. Non è chiaro se il lavoro di Newton sul calcolo differenziale sia stato stimolato dalle sue idee sulla meccanica, o se si sia invece verificato il contrario. È probabile però che le due cose siano cresciute contemporaneamente. Con l'aumentare delle conoscenze nelle due materie divenne sempre più difficile seguirle ambedue da vicino e con il passare del tempo l'interesse di ogni scienziato dovette limitarsi a un campo sempre più ristretto. All'inizio di questo secolo vi erano poche persone versate tanto in matematica quanto in fisica, e da allora, come ha detto molto argutamente C.F. von Weizsäcker, il numero di persone che occorre riunire in una stanza per avere un panorama completo di tutta la fisica è passato da circa cinque a una trentina. Nell'esaminare l'influenza che la fisica ha avuto sugli interessi e sul pensiero dei matematici è bene tenere presente la crescente specializzazione degli scienziati e la crescente concentrazione degli interessi di generazioni consecutive o sulla matematica o sulla fisica: il cambiamento è stato particolarmente pronunciato durante i secc. XVIII e XIX.

L'interazione tra la fisica e la matematica non sarà qui esaminata in generale, ma ci limiteremo a esaminare due aree di interazione particolarmente forte, cioè il calcolo delle variazioni e la teoria dei gruppi. Anche per quel che riguarda questi due argomenti non entreremo in dettagli tecnici troppo accurati, ma ci accontenteremo di rilevare l'importanza che essi rivestono in entrambe le discipline considerate, in particolare nella fisica.

a) Fisica e calcolo delle variazioni

Il calcolo delle variazioni si prefigge di risolvere problemi di minimo o di massimo, qual è per esempio quello di ottenere il volume massimo che può essere racchiuso in una data superficie, scegliendo la migliore forma geometrica (quella sferica). Se si ha il volume massimo, una piccola variazione della forma che non faccia variare le dimensioni della superficie farà diminuire il volume; il matematico ottiene le condizioni per il massimo semplicemente postulando che non esista alcuna variazione comunque piccola delle condizioni che faccia ulteriormente crescere la quantità da massimizzare. Evidentemente lo stesso vale per il minimo.

Per venire all'interesse dei fisici per tali problemi, già Galileo aveva suggerito che la forma assunta da una catena sospesa per le estremità a due punti diversi è quella per la quale la somma delle altezze degli anelli dal suolo è minima. Il medesimo problema per una catena con un numero infinito di anelli infinitamente piccoli fu risolto da un altro scopritore del calcolo, cioè da Leibniz. Anche Newton si interessava di problemi simili e infatti cercò di determinare la forma di un tubo, con diametri diversi alle due estremità, che oppone la resistenza minima quando viene trascinato attraverso un liquido.

Il contributo più decisivo alla determinazione delle forme minime e a problemi analoghi fu dato, tuttavia, da Eulero (nel 1744) il quale, sebbene abbia contribuito grandemente alla riformulazione della meccanica, aveva interessi soprattutto matematici. Egli ottenne l'equazione differenziale che deve essere soddisfatta da una funzione che deve assumere il valore minimo o massimo per una data quantità. Questo era per Eulero un problema di matematica.

Più tardi (la pubblicazione definitiva apparve nel 1788) Lagrange generalizzò le equazioni di Newton formulandole per sistemi arbitrari di coordinate. Egli, e d'Alembert prima di lui, si interessavano alla meccanica di corpi soggetti a determinati vincoli, costretti per esempio a muoversi su una superficie o su una curva o rigidamente legati a un altro oggetto. In questo caso è ragionevole introdurre coordinate che sono funzioni derivabili delle coordinate normali, ma alcune delle quali hanno valori fissi se sono soddisfatti i vincoli. Queste coordinate, allora, non possono cambiare e il problema si riduce al calcolo delle variazioni delle altre coordinate. D'Alembert e Lagrange derivarono le equazioni che determinano le variazioni di queste ultime coordinate e ottennero insieme a esse le equazioni della meccanica in termini di coordinate arbitrarie anche in assenza di vincoli. In realtà non è sorprendente che si sia riusciti a dedurre tali equazioni: se infatti sono note le variazioni delle coordinate normali (rettangolari) e se sono date le nuove coordinate in termini di quelle normali, evidentemente si possono ottenere anche le variazioni delle nuove. Quello che invece è sorprendente è la semplicità della forma delle equazioni ottenute, le cosiddette equazioni di Lagrange (pubblicate nel 1788), che nella notazione attuale hanno la forma:

Formula

e sono valide per ogni valore dell'indice i, cioè per tutte le coordinate. In questa equazione t rappresenta il tempo, qi una delle coordinate e ói = dqi/dt la sua derivata temporale, cioè una velocità generalizzata. La grandezza L è la differenza fra l'energia cinetica e quella potenziale, espressa in funzione di qi e di ói.

La sorpresa per la generalità e la relativa semplicità delle equazioni di Lagrange sparì quando (nel 1834, cioè molti anni dopo) W.R. Hamilton mostrò che tali equazioni sono esattamente le condizioni di Eulero necessarie affinché l'integrale

Formula

assuma valore estremale: esso assume il suo valore estremale (generalmente minimo) per i qi(t) che soddisfano le equazioni di Newton, e il paragone si estende a tutte le funzioni qi(t) a condizione che tutte abbiano lo stesso qi(t1) e qi(t2), cioè che rappresentino le stesse configurazioni sia iniziali che finali. È quindi chiaro che la natura delle coordinate è arbitraria: il valore dell'integrale sarà sempre uguale per un dato moto, qualunque siano i tipi di coordinate qi con cui viene calcolato, e, se esso è minimo in termini di un insieme di coordinate, lo sarà in qualsiasi insieme di quel tipo.

Da quel momento il calcolo variazionale si sviluppò tanto in fisica quanto in matematica. I matematici erano ovviamente interessati alla deduzione esatta della equazione di Eulero, alle condizioni di derivabilità delle qi, ecc.; essi cercavano anche di formulare una condizione sufficiente affinché un integrale del tipo di quello della formula (2) assumesse un valore minimo (o massimo): l'equazione di Eulero è soltanto una condizione necessaria. I fisici intravidero invece la possibilità di ottenere equazioni con un alto grado di invarianza: come si è detto prima, se L è espresso in termini delle nuove variabili qi′, dove queste sono funzioni arbitrarie delle qi:

qi′ = fi (q1...qn), (3)

le equazioni di Eulero (1) saranno valide anche per le qi′ se lo sono per le qi, a condizione che lo stesso L sia espresso in funzione di entrambi i gruppi di variabili. Questa considerazione fu di importanza decisiva quando si trattò di ‛indovinare' le equazioni della teoria della relatività generale che si postula siano invarianti rispetto a tutte le trasformazioni delle coordinate spaziali e temporali.

La breve storia, che qui abbiamo appena delineato, dello sviluppo del calcolo delle variazioni e dell'interazione tra matematica e fisica realizzatasi nel corso di esso è caratteristica di altri rami della matematica. Tale interazione fu molto proficua anche nello sviluppo e nell'applicazione della teoria dei gruppi a cui ora ci rivolgiamo.

b) Fisica e teoria dei gruppi

Perché si possa parlare di simmetria di un oggetto bisogna che vi sia un'operazione che lascia invariato l'oggetto stesso. Un cubo, per esempio, rimane immutato se viene sottoposto a una rotazione di 90° intorno a un asse che passa attraverso il centro di due sue facce opposte. Anche il risultato della successione di due operazioni di questo tipo lascia invariato l'oggetto e cioè anch'esso deriva da un'operazione di simmetria, prodotto di due operazioni di simmetria. Se la prima si chiama R e la seconda S, la loro successione è SR. Analogamente, anche l'inversione di un'operazione di simmetria è un'operazione di simmetria e si chiama l'‛inversa' di quella iniziale: se la prima era chiamata R, indicheremo questa seconda con R-1. Si può dire che anche l'assenza di un'operazione sia un'operazione di simmetria dal momento che ovviamente lascia invariato l'oggetto: essa si chiama operazione neutra o unità. E infine, e questo è un po' più difficile da spiegare, se si hanno tre operazioni di simmetria, R, S e T, e si moltiplica la prima, R, per il prodotto TS delle altre due, si ottiene l'operazione indicata da (TS)R. Analogamente, moltiplicando il prodotto SR delle prime due per l'ultima, cioè per T, si ottiene l'operazione T(SR). Alla fine si è ottenuta la medesima operazione, ossia la successione di tutte e tre, R, S e T. Quindi si ha che

(TS) R = T (SR) (4)

e il matematico dice che la legge associativa, cioè l'equazione (4), è valida per queste operazioni e che l'operazione (4) può essere indicata semplicemente con TSR. Conviene notare che la legge commutativa non è necessariamente valida: la rotazione che si ottiene dalla successione di due rotazioni di 90° intorno a due assi passanti attraverso i centri di due coppie diverse di facce opposte, per esempio, dipende dalla rotazione che si esegue per prima. Così, se le due rotazioni si indicano rispettivamente con R e S, allora SR e RS non sono la stessa operazione (esse sono, cioè, ambedue rotazioni di 120° intorno ad assi che collegano vertici opposti, ma i due assi passano attraverso due diverse coppie di vertici opposti).

Le proprietà delle operazioni di simmetria appena descritte, cioè l'esistenza della legge del prodotto e dell'inverso e la validità di quella associativa (4), sono proprio gli assiomi postulati dal matematico francese É. Galois (nel 1832) per quelli che egli chiamava gli elementi di un gruppo. Le operazioni di simmetria, quindi, formano un gruppo e dunque tutti i bellissimi teoremi che Galois e i suoi successori stabilirono per i gruppi sono validi anche per esse. Le operazioni di simmetria formano sempre un gruppo, la struttura del quale dipende ovviamente dall'oggetto le cui proprietà di simmetria esso descrive; il numero di gruppi di simmetria è molto grande, anzi infinito.

Nello stesso periodo in cui Galois formulava i suoi postulati, Hessel, un fisico, o meglio come diremmo oggi, un cristallografo, nel 1830 determinò i 32 diversi gruppi di simmetria che possono assumere i cristalli. Uno di questi è evidentemente quello del cubo, caratteristico, tra l'altro, del cristallo del salgemma e di molti altri. Il lavoro di Hessel fu per lungo tempo trascurato, ma a un certo momento divenne il punto di partenza per una teoria dei cristalli molto elaborata e fertile di nuovi sviluppi. Gli studiosi di questo campo, A. Schönfiies, E.S. Fëdorov, P. Groth, W. Voigt e molti altri fecero un uso esteso dei risultati della teoria matematica dei gruppi e determinarono l'effetto della simmetria su tutte le proprietà importanti dei cristalli. Non tratteremo qui in dettaglio di queste ultime, ma accenneremo però alla natura sorprendente di alcune di esse. Per esempio, l'indice di rifrazione della luce in un cristallo cubico è indipendente dalla direzione della luce incidente: esso è uguale, per esempio, sia che il fascio di luce sia parallelo a uno degli spigoli del cristallo (un asse quaternario) sia che esso segua una qualsiasi altra linea, quale per es. quella che unisce due vertici opposti. Lo studio delle simmetrie nei cristalli, che può dirsi quasi concluso con l'opera di W. G. G. Seitz (1935-1936), stimolò varie considerazioni matematiche più generali.

La nascita della meccanica quantistica segnò l'inizio di una nuova era per il ruolo della teoria dei gruppi in fisica. La sostituzione della teoria classica con la meccanica quantistica ebbe tra le altre conseguenze quella di mettere in luce i limiti della teoria della struttura dei cristalli: infatti, secondo la teoria classica, se un atomo si trova in una posizione di equilibrio, anche tutti gli atomi nei quali questo può essere trasferito attraverso un'operazione di simmetria saranno in posizioni di equilibrio. Se per spostare il primo atomo occorre una certa energia, cioè se ad ogni posizione spostata corrisponde un'energia maggiore di quella della posizione effettivamente occupata, lo stesso varrà per gli atomi che esso può sostituire in seguito a un'operazione di simmetria. Da ciò si deduce che come conseguenza dell'introduzione di un requisito di simmetria vengono soddisfatte tante equazioni per l'equilibrio quanti sono i parametri fissati dal requisito di simmetria stesso. Nella meccanica quantistica non esiste un ragionamento analogo a questo che spiega le simmetrie dei cristalli nella teoria classica: gli atomi, infatti, non hanno posizioni fisse e anzi le probabilità delle loro posizioni dipendono dalle posizioni degli altri. Secondo la meccanica quantistica sembra quindi che le simmetrie dei cristalli siano soltanto approssimate, anche se i dati sperimentali mostrano che l'approssimazione è molto buona; non sappiamo, però, quanto essa sia buona e quali deviazioni ci si debbano aspettare: questi costituiscono degli interessanti problemi alla cui risoluzione potrebbero contribuire sia i matematici che i fisici, forse senza servirsi di considerazioni della teoria dei gruppi.

Se nel campo della fisica dei cristalli la teoria quantistica ha avuto come conseguenza una riduzione dell'applicabilità rigorosa dei principi di simmetria, essa ha avuto l'effetto opposto nella fisica atomica e molecolare. Il motivo sta nel fatto che, mentre ai tempi di Planck, Einstein, Bohr, Schwarzschild, Epstein e molti altri essa cominciò col ridurre, attraverso le condizioni quantistiche, la varietà degli stati classici che un sistema può assumere, finì poi coll'accrescerli all'infinito.

Come si vedrà meglio nell'ultimo capitolo, la descrizione quantistica di uno stato è data da un vettore in uno spazio complesso a infinite dimensioni (spazio di Hilbert). La somma dei vettori di un tale spazio è ancora un vettore, il che permette di costruire, per esempio, stati con simmetria sferica. Prendiamo uno stato arbitrario e sottoponiamolo a rotazione, o, in altri termini, consideriamo, oltre allo stato originale, un altro stato che si presenti invariato a un osservatore che abbia compiuto una piccola rotazione attorno a una certa direzione. Uno stato come questo può essere costruito anche nella teoria classica, ma la differenza sta nel fatto che nella meccanica quantistica i vettori di stato dei due stati, cioè di quello originale e di quello ruotato, possono essere sommati ottenendo così la descrizione di un nuovo stato. Nella meccanica classica non è possibile compiere un'operazione del genere: infatti, se si osserva un atomo di Bohr, con un elettrone che si muove su una orbita intorno al nucleo, si può certamente costruire una seconda orbita ruotando quella iniziale in un altro piano, ma non ha alcun senso sommare le due orbite.

Nella meccanica quantistica si possono sommare i due vettori di stato, e anzi si può integrare su tutti i vettori di stato soggetti a tutte le possibili rotazioni. In questo modo o si ottiene un vettore di stato che rappresenta uno stato a simmetria sferica, oppure si ottiene un vettore nullo, cioè non si ottiene alcuno stato, dal che si può concludere che esistono stati a simmetria sferica. Come ci si doveva attendere, se si trascura lo spin, lo stato normale dell'atomo di idrogeno presenta una simmetria sferica: dal momento che, sempre trascurando lo spin, lo stato normale è completamente definito, non sarebbe logico che questo stato desse la preferenza a una direzione piuttosto che a un'altra. (Lo stato normale dell'He ha realmente una simmetria sferica per lo stesso motivo e perché esso non ha spin).

È anche chiaro che non tutti gli stati hanno una simmetria sferica, perché, se così fosse, il mondo intero avrebbe una simmetria sferica: in alcuni casi, infatti, l'operazione descritta sopra, cioè l'integrazione sui vettori di stato degli stati ruotati in tutte le direzioni possibili, dà come risultato zero. Il problema non finisce qui, perché in questo caso, che si verifica nella maggior parte degli stati eccitati, tutti i vettori di stato che descrivono uno stato eccitato di questo tipo possono essere espressi in termini di pochi vettori di stato i quali, come si suol dire, formano una base. Essi sono tutti somme dei vettori di stato della base, moltiplicati per opportuni coefficienti, e vengono detti combinazioni lineari dei vettori di stato. Inoltre, poiché qualsiasi vettore di stato di uno stato eccitato, e quindi qualsiasi vettore di stato della base, rimane ancora un vettore di uno stato eccitato anche se è sottoposto a rotazione, esso può essere espresso come una combinazione lineare dei vettori di stato della base originaria, cioè di prima della rotazione. Evidentemente i coefficienti della combinazione lineare dipendono sia dalla rotazione che dalla scelta dello stato base che si è ruotato.

I coefficienti di cui abbiamo appena parlato formano delle matrici che sono state studiate dai matematici G.F. Frobenius (1896-1899), W. Burnside, F.H. Schur e altri, molto prima che W.K. Heisenberg, M. Born, E.P. Jordan, E. Schrödinger e P.A.M. Dirac (1925-1926) inventassero la meccanica quantistica. Si dice che queste matrici formano un gruppo che contiene le operazioni in questione, cioè, nel nostro caso, il gruppo delle rotazioni nel nostro spazio tridimensionale. La possibilità di esprimere i vettori di stato degli stati base iniziali sottoposti a rotazione come combinazioni lineari degli stessi stati base (i coefficienti sono dati dalle rappresentazioni) presuppone delle proprietà di questi stati quasi tanto estese quanto quelle che valgono nel caso della simmetria sferica in cui si ha un solo stato base e il coefficiente è semplicemente 1 per tutte le rotazioni. Da ciò si possono dedurre moltissime proprietà di tutti gli stati, molte più di quanto si possa fare nella teoria classica. Per far ciò era necessario uno studio delle rappresentazioni assai più dettagliato di quello che era stato fatto fin a quel momento dai matematici. Tale studio fu iniziato dai fisici ai quali si unirono poi i matematici. Inoltre, i fisici estesero la teoria delle rappresentazioni all'intero gruppo di simmetria delle leggi della fisica in modo da determinare il tipo di sistemi elementari, e in particolare quello delle particelle elementari, la cui esistenza, secondo la meccanica quantistica, è compatibile con questi requisiti di simmetria. Il gruppo di tutte le simmetrie che noi consideriamo valide è ‛più grande' di quello che era prima preso inconsiderazione dalla teoria delle rappresentazioni. Anche in questo caso i matematici si unirono ai fisici per cercare di estendere la teoria a gruppi ulteriori di interesse prevalentemente matematico, e questi studi continuano tuttora.

La discussione che abbiamo appena fatto della storia della teoria dei gruppi sarebbe molto incompleta, almeno dal punto di vista del fisico, se non si facesse anche un cenno all'utilità delle simmetrie approssimate. Queste sono utili, per esempio, per descrivere i vettori di stato degli elettroni nei metalli nell'ipotesi che le loro interazioni siano trascurabili e supponendo che essi si muovano nel potenziale periodico, normalmente ad altissima simmetria, che prevarrebbe nel caso che fosse valida la teoria classica dei cristalli di cui si è parlato all'inizio di questo capitolo. La descrizione del cristallo che si ottiene in questo modo è sorprendentemente buona, anche se certamente approssimata, e quindi l'utilità della teoria dei gruppi nella fisica dei cristalli non è per nulla cessata. Un'altra simmetria approssimata che è stata molto utile nella fisica atomica suppone che le forze che dipendono dall'orientamento degli spins degli elettroni siano molto piccole. Questo introduce l'ulteriore invarianza dell'indipendenza dell'energia dalle direzioni degli spins e porta al modello di Russell-Saunders, proposto su base empirica molto prima che fosse inventata la meccanica quantistica (v. Atomo). Tuttavia la simmetria approssimata finora più interessante è quella che si applica alla fisica delle alte energie, cioè la simmetria di SU3 (Gell-Mann e Ne'eman) la cui base resta ancora assai poco chiarita.

Certamente i due esempi appena considerati, quello del calcolo delle variazioni e della teoria dei gruppi, sono stati scelti perché presentano un'interazione particolarmente stretta tra matematica e fisica; tuttavia l'interazione è stata ed è tuttora presente anche in altri campi e, almeno in quello delle equazioni differenziali, essa è stata di un'intensità pressappoco paragonabile a quella dei due campi che abbiamo esaminato. In effetti vi sono probabilmente soltanto due parti della matematica che non sono state influenzate dalla fisica e che attualmente non svolgono a loro volta alcun ruolo nella fisica, e cioè la logica matematica e la teoria dei numeri. In definitiva si può concludere che l'interazione tra le due discipline è veramente intensa.

4. Breve storia della fisica teorica fino al secolo scorso

È difficile tracciare le origini della fisica teorica (o matematica). A mano a mano che si scoprivano leggi della natura sempre più complicate, crebbe anche la fiducia degli scienziati nelle proprie capacità di scoprire nella natura delle regolarità valide in campi sempre più estesi. La scoperta fatta da Archimede della perdita di peso degli oggetti immersi in liquidi e le sue leggi della leva apparvero all'inizio sorprendenti per la loro generalità, ma oggi appaiono molto limitate se paragonate per esempio alle equazioni della meccanica quantistica le quali, come ha rilevato Dirac, in teoria possono risolvere tutti i problemi della fisica e della chimica d'ogni giorno. Quando si studia la storia di questo sviluppo è difficile sottrarsi al suo fascino tanto che molti scienziati pensano che alla fine sarà possibile ‛comprendere' tutto, cioè che sarà possibile conoscere tutte le regolarità della natura. Questo non è per nulla certo perché non è impossibile che le capacità della mente umana abbiano dei limiti come quelle degli altri animali; ciò nonostante la storia dello sviluppo della scienza fino al giorno d'oggi è interessante, anche se è impossibile prevederne il futuro e se la prima parte è difficile da studiare e da comprendere bene.

Le origini della scienza risalgono certamente ai tempi preistorici: i Cinesi, gli Egiziani, i Babilonesi e pare anche gli antichi abitanti dell'attuale Inghilterra (come starebbe a dimostrare Stonehenge) già cinquemila anni fa sapevano molto sul moto delle stelle nel cielo. Tuttavia queste conoscenze, eccetto forse che nella formulazione di Tolomeo (anch'egli un grande matematico), hanno avuto poca influenza sulla nostra scienza e lo stesso lavoro di Tolomeo, che risale a circa il 150 d.C., fu dimenticato per lungo tempo. Diverso sembra sia stato il caso dei contributi apportati da Archimede (circa 250 a.C.), ma neanche questi per molti secoli ebbero alcun seguito.

a) Meccanica e gravitazione: il primo grande successo

Gli inizi della ‛nostra' scienza possono essere fatti risalire alla seconda metà del XVI o alla prima metà del XVII secolo quando Copernico e Keplero reinterpretarono e resero molto più precise le leggi di Tolomeo e quando Galileo scoprì la legge della caduta libera e del pendolo (intorno al 1590) e riuscì a osservare con un telescopio le lune di Giove. Queste scoperte e osservazioni furono alla base della meccanica di Newton (1687), la cui scoperta fu l'avvenimento più sensazionale tra tutti quelli che l'avevano preceduta e tra la maggior parte di quelli che la seguirono, perché unì sotto un unico principio due serie di osservazioni estremamente diverse, come quelle relative alla rotazione della Luna intorno alla Terra e alla caduta dei gravi. Newton scoprì che esse erano entrambe governate dall'attrazione gravitazionale della Terra la quale accelera il moto dei corpi in caduta verso di essa e mantiene la Luna sulla sua orbita circolare intorno alla Terra: se infatti essa fosse libera, si muoverebbe lungo una retta, così come farebbero tutti gli altri corpi. Egli riuscì anche a dedurre come conseguenze dell'attrazione gravitazionale del Sole il moto dei pianeti e della Terra e il fatto che essi obbediscono alle tre leggi di Keplero.

La meccanica di Newton è perfettamente in accordo con i principi che abbiamo discusso nel secondo capitolo. I suoi eventi sono dati dalle posizioni assunte a un istante dato da parte di oggetti, che in questo caso sono i pianeti nello spazio o i corpi lasciati cadere sulla Terra. La teoria non determina a priori questi eventi, ma permette di dedurre la posizione a un istante arbitrario se essa è data in due istanti definiti. Essa determina, anche se solo implicitamente, le possibili orbite, cioè la successione di posizioni possibili che vengono occupate dai corpi, ma non specifica quale orbita venga percorsa da un corpo particolare. Questa può essere determinata dall'osservazione della posizione in due istanti scelti arbitrariamente, ed è anzi proprio così che si controlla la validità della teoria. Tuttavia, la determinazione della forma generale delle orbite partendo dalle equazioni date dalla teoria richiede delle operazioni matematiche tutt'altro che facili dato che le equazioni, nella loro forma matematica molto semplice, non danno direttamente la relazione tra le posizioni per tre istanti arbitrari, ma soltanto quella per tre istanti separati da distanze infinitamente piccole.

È forse opportuno notare che Newton e i suoi contemporanei erano perfettamente a conoscenza dell'esistenza di forze diverse da quella gravitazionale, come quelle che tengono insieme i corpi solidi o quelle che contrastano la compressione. La teoria della gravitazione descriveva il moto dei corpi soltanto a condizione che queste altre forze non esercitassero un'influenza apprezzabile e oggi sappiamo che in queste condizioni essa è di un'accuratezza estrema: la proporzionalità tra la forza e la massa, conosciuta oggi, è di una parte su un miliardo. Newton, confrontando la Luna con oggetti sulla Terra, la verificò per una parte su 25.

b) Le teorie di campo per l'ottica e altri fenomeni. Elettromagnetismo

La meccanica generale di Newton e la legge dell'attrazione gravitazionale non furono gli unici contributi importanti alla fisica durante questo periodo. Vi furono anche scoperte nel campo dell'ottica compiute da W. Snellius (la legge del cambiamento di direzione di un fascio di luce al passaggio da un mezzo, quale l'aria, a un altro mezzo, quale il vetro), dallo stesso Newton (la scomposizione della luce bianca nello spettro dell'arcobaleno) e da O.Chr. Römer, il quale misurò la velocità di propagazione della luce. Il passo decisivo verso la scoperta della natura della luce fu compiuto da Th. Young, il quale all'inizio dell'Ottocento scoprì l'interferenza della luce confermando così la sua teoria, e quella precedente di Huygens, sulla natura ondulatoria della luce. Questo costituì l'inizio delle teorie di campo secondo le quali l'evento principale era la presenza in ogni punto dello spazio di intensità di campo specifiche descrivibili con ‛funzioni' di tre coordinate e non con un insieme finito di numeri. Lo sviluppo di queste teorie fu favorito pure dagli studi sulla meccanica dei continui (come i liquidi incomprimibili), il cui stato è descritto anch'esso dalla velocità in ogni punto dello spazio occupato dal liquido e non da un numero finito di dati che specificano per esempio le posizioni e le velocità di un numero finito di corpi. Un terzo impulso nella stessa direzione venne dal problema della conduzione del calore al quale Fourier, che fu anche un grande matematico, dette un contributo decisivo. Si trattava di ottenere, partendo da una data distribuzione di temperatura, quella a un istante successivo e l'evento anche in questo caso era qualcosa che doveva essere specificato da una funzione della posizione, cioè dalla temperatura in ogni punto del mezzo conduttore di calore, e non da un insieme finito di numeri.

Le equazioni di campo fondamentali per la luce furono formulate da A.J. Fresnel nel 1821 e il lavoro di Fourier, Théorie analitique de la chaleur, fu pubblicato nel 1822, mentre la teoria della meccanica dei continui si sviluppò più gradualmente. Ciò nonostante, questi sviluppi non condussero ad alcun risultato simile a quello della teoria gravitazionale di Newton, la quale era riuscita a spiegare fenomeni tanto differenti come il moto planetario e la caduta libera sulla Terra.

All'inizio dell'Ottocento si ebbero sviluppi importanti anche in altri due campi, e in particolare in quello della chimica fisica e della termodinamica che saranno trattati brevemente in seguito. Gli studi nel campo dell'elettromagnetismo cominciarono con l'osservazione, fatta da H.Chr. Oersted (1820), che una corrente elettrica produce un campo magnetico: fino ad allora, infatti, non si conosceva alcuna relazione tra fenomeni elettrici e magnetici. Nello stesso anno questa scoperta ricevette una formulazione quantitativa per merito di C. Biot, F. Savart e A.-M. Ampère; poco dopo seguì la legge di Ohm che stabiliva una relazione tra la corrente continua, il campo che la produce e la resistenza che la ostacola. Non è qui possibile accennare a tutte le scoperte di Faraday in questo campo, ma bisogna almeno ricordare la sua osservazione e descrizione dell'induzione elettromagnetica che sta alla base dei generatori elettrici.

Nel 1873 Maxwell riunì in un'unica teoria le formulazioni quantitative di queste scoperte sperimentali e i fenomeni ottici, compiendo così un innovazione di importanza paragonabile a quella di Newton.

L'esistenza di una relazione tra i fenomeni elettromagnetici e quelli ottici era già stata intuita in seguito all'osservazione di F.W.G. Kohlrausch e H. Weber i quali nel 1856 notarono che il rapporto tra la repulsione di due correnti parallele; scoperta da Ampère, e quella tra le cariche elettriche che creano le correnti stesse è uguale al quadrato del rapporto tra la velocità di queste cariche e la velocità della luce. Ciò indicava una connessione tra l'elettromagnetismo e l'ottica, ma si dovette attendere il genio di Maxwell per averne la formulazione matematica, che avrebbe creato una base unica per quelli che fino ad allora erano stati due rami separati della fisica.

In questo articolo non ci occupiamo esplicitamente delle applicazioni pratiche di tutte queste scoperte. Tali applicazioni sono presenti ovunque: dalle centrali elettriche alle fabbriche, dagli edifici alle automobili, dalle strade alle cabine telefoniche. Sarebbe anche difficile rendere completa giustizia alla precisione delle equazioni di Maxwell, almeno nel vuoto: non ne conosciamo infatti alcuna limitazione, all'infuori di quelle postulate per la prima volta dalla teoria della relatività generale secondo la quale i raggi di luce vengono deviati dai campi gravitazionali. Le onde elettromagnetiche si trasmettono fedelmente attraverso lo spazio percorrendo distanze astronomiche e noi siamo perfettamente in grado di riconoscere la voce di un amico anche se essa viene trasmessa da una distanza di migliaia di chilometri.

c) Calore, termodinamica e teoria atomica

L'inizio e le prime fasi dell'altro importante ramo di ricerca sviluppatosi nel secolo scorso, a cui si è già accennato, sono dovuti più ai chimici e ai chimici fisici che non ai fisici propriamente detti. Tuttavia esso ha avuto un'importanza decisiva non soltanto per i suoi contributi diretti, ma anche perché risvegliò l'interesse dei fisici per la teoria atomica. Anche in questo caso negli stadi iniziali si ebbero soltanto dei risultati sperimentali approssimati, ma molto generali, che descrivevano la dipendenza della pressione esercitata dai gas dal rapporto di compressione e dalla temperatura. La prima relazione era stata in effetti scoperta nel 1662 da R. Boyle mentre la seconda, dovuta a J.L. Gay-Lussac, risale al 1802. Questo secondo risultato fu ben presto (1805) seguito dalla scoperta fatta da J. Dalton della legge delle proporzioni multiple, che costituì la prima indicazione chiara dell'esistenza degli atomi. Dalton trovò che è possibile associare a ogni elemento un numero, che oggi sappiamo essere essenzialmente il suo peso atomico, in modo tale che la sua frazione in peso in ogni composto, o almeno in ogni composto non troppo complesso, risulta essere un numero intero semplice multiplo di quello. In tal modo, attribuendo all'ossigeno il numero (cioè il peso atomico) 16 e al cloro quello 35,45, il rapporto tra i pesi di questi elementi in due loro composti è 2 × 16 : 35,45 (O2Cl) e 16 : 2 × 35,45 (OCl2). È importante notare che in tutti i composti questi elementi entrano con lo stesso numero. Per esempio, il rapporto tra il magnesio e l'ossigeno nel loro composto è 24,31:16, e il rapporto tra il magnesio e il cloro nel composto di questi due elementi è 24,31 : 2 × 35,45. A parte i numeri interi molto semplici 1 e 2, i tre numeri 16, 35,45 e 24,31 determinano la composizione di tutti i composti che abbiamo menzionato e di moltissimi altri. Questo sembrò essere, soprattutto ai chimici, un'indicazione molto forte della struttura atomica della materia e della composizione relativamente semplice della maggior parte dei composti di questi elementi. (v. Atomo).

La prima scoperta di importanza fondamentale che seguì quella di Dalton si basava in gran parte sul lavoro di Boyle, di Gay-Lussac e dei loro successori, e fu stimolata anche dall'impiego della macchina a vapore che cominciava a diffondersi proprio in quell'epoca. Questa scoperta fu la formulazione da parte di M.-A. Carnot di quella che oggi chiamiamo la seconda legge della termodinamica (1824). Carnot postulò che il lavoro meccanico non può essere prodotto da una macchina termica che riceve e restituisce calore sempre a una stessa temperatura. Per produrre lavoro, come il sollevamento di un peso, al motore deve essere somministrato calore e una parte di questo deve essere restituita a una temperatura inferiore a quella iniziale. Questo postulato porta a moltissime conclusioni, che non elencheremo qui, tra le quali vi è anche una definizione della scala della temperatura che risultò essere uguale a quella implicitamente adottata da Gay-Lussac.

È da notare che la seconda legge della termodinamica fu formulata prima della legge di conservazione dell'energia che, in questo contesto, viene detta prima legge della termodinamica. Poiché l'energia meccanica viene costantemente dissipata a causa dell'attrito e poiché d'altra parte essa viene prodotta dai motori a vapore, il principio generale della conservazione dell'energia non fu riconosciuto che nel 1842, di modo che in questo campo non esisteva alcun principio simile a quelli della conservazione del momento angolare e lineare già noti a Newton. Fino a che J.R. Mayer non riconobbe in esso una forma di energia, il calore era considerato da molti di natura materiale, nonostante che esperimenti di B.Th. Rumford e H. Davy avessero chiaramente mostrato che poteva essere prodotto mediante attrito. Le idee di Mayer ricevettero una forma più precisa poco dopo, principalmente ad opera di H.L.F. von Helmholtz.

Non è qui necessario addentrarci più profondamente nella storia della scoperta delle leggi della termodinamica che sono probabilmente la pietra angolare della chimica fisica. Per i nostri scopi basta notare che la scoperta che il calore è una forma di energia fu determinante perché si cominciasse a pensare a esso in termini di energia cinetica degli atomi. Questa teoria costituì un'ulteriore conferma della teoria atomica e fu un punto di partenza per i tentativi fatti di derivare le proprietà dei gas dalle strutture atomiche o, in altri termini, per la teoria cinetica dei gas. Questa deduzione delle proprietà dei gas avvenne nel periodo compreso tra il 1851, anno in cui J.Pr. Joule calcolò per la prima volta la velocità media degli atomi in un gas, e il 1857, quando R.J.E. Clausius cominciò a studiare più da vicino le collisioni tra gli atomi che costituiscono il gas stesso.

Le vicende della seconda legge furono molto diverse. Infatti, mentre il principio della conservazione dell'energia può essere facilmente dedotto dalle equazioni della meccanica, una volta che la loro validità sia postulata anche in campo atomico e il calore venga interpretato come energia cinetica degli atomi, la seconda legge non può essere dedotta in maniera altrettanto semplice. Per fare questo è stata necessaria molta immaginazione e abilità matematica e anzi i lavori in questo campo continuano tuttora. I fondamenti di questa teoria sono dovuti all'austriaco L. Boltzmann e all'americano W. Gibbs, nessuno dei quali ricevette ai suoi tempi il riconoscimento dovuto. Oggi, finalmente, la natura essenziale dei loro contributi viene riconosciuta, come viene pure riconosciuto il contributo che il loro lavoro ha dato a quello che alcuni loro rivali consideravano l'ultimo problema che la fisica doveva risolvere, e cioè la determinazione delle costanti dei mezzi materiali, come la densità, la viscosità, la conduttività del calore, ecc.

La storia della fisica, e della fisica teorica in particolare, nel secolo scorso ha grande importanza, oltre che per il suo valore intrinseco, anche perché mostra come l'estensione dei campi d'interesse della fisica possa implicare, anche se non sempre, un cambiamento fondamentale nei concetti e, in particolare, nella natura degli ‛eventi' dei quali essa vuole occuparsi. Un simile cambiamento fondamentale ebbe luogo quando i fenomeni dell'elettricità, del magnetismo e della radiazione divennero parte della fisica. Ciò non avvenne invece quando vennero studiate le proprietà del calore, sebbene anche in questo caso si sia avuto un cambiamento nella visione d'insieme della fisica e la ricerca sia passata prevalentemente dall'aspetto macroscopico a quello microscopico. I progressi della fisica del nostro secolo si sono verificati prevalentemente in quest'ultimo campo e le due conquiste più importanti, la teoria della relatività e quella quantistica, propongono ambedue come fondamentali concetti completamente nuovi, ma purtroppo diversi.

Essi saranno l'oggetto del prossimo e ultimo capitolo.

5. Il nostro secolo

Abbiamo già detto che la matematica aiuta la fisica teorica in due modi, cioè facilitando la formulazione delle leggi della natura e aiutando a dedurre le conseguenze delle leggi già conosciute. Questa sua seconda funzione ha assunto un'importanza molto maggiore nel nostro secolo, in parte anche perché si conoscono più leggi di prima. Le leggi della meccanica, e in particolare quelle della meccanica dei continui, sono state applicate a molti fenomeni, alcuni dei quali, come le normali onde d'urto, sono completamente retti dalle leggi della meccanica classica. In altri campi, per esempio nello studio dell'attrito e degli ultrasuoni (suoni di lunghezza d'onda molto corta), si è rivelata molto utile una fusione con altri rami della fisica, quali la teoria cinetica, la fisica atomica e la fisica termica.

Anche lo studio dei fenomeni ottici ha progredito assai rapidamente, sia nella regione delle onde molto lunghe, le onde radio, che, ancora di più, in quella dei raggi X molto corti. La scoperta compiuta da von Laue della riflessione dei raggi X da parte dei cristalli (1912) deve la sua origine a un'applicazione delle teorie di questi raggi, della loro capacità di interferenza e della struttura dei cristalli. La termodinamica è stata applicata largamente e con successo, soprattutto nella regione delle temperature basse, e ha portato alla scoperta della teoria quantistica che è uno degli argomenti principali di questo capitolo. A sua volta questa teoria ha trovato, nella sua forma più sviluppata, applicazioni ancora più vaste, perché su di essa si può basare interamente la fisica atomica e perché essa spiega anche la maggior parte dei fenomeni fondamentali dei gas e molte proprietà dei solidi. Lo stesso si può dire per la fisica nucleare, che è per intero figlia del nostro secolo. L'elenco dei campi in cui le teorie fondamentali hanno trovato applicazioni utili e proficue potrebbe essere molto più lungo. L'edizione del 1967 del Handbook of physics contiene 79 articoli sulla fisica (13 sulla matematica), 21 dei quali prevalentemente sperimentali, 58 prevalentemente teorici, e di questi 47 trattano soprattutto delle conseguenze delle teorie fondamentali applicate a un certo numero di fenomeni. Dal momento che sarebbe impossibile trattare a fondo nel presente articolo questo problema, che è comunque trattato più dettagliatamente in altri articoli, ci dedicheremo ora principalmente alla discussione delle due innovazioni fondamentali nel campo della fisica matematica avvenute nel nostro secolo, e cioè delle teorie della relatività e della meccanica quantistica.

Prima di procedere oltre con la discussione sarebbe però utile ribadire che il fondamento della fisica matematica, o teorica, è dato dalle osservazioni e dagli esperimenti e non dalla matematica. Questa è utile per la formulazione delle leggi della natura, ma il loro fondamento è empirico e le idee principali vengono suggerite dalle osservazioni e dagli esperimenti. Il modello nucleare dell'atomo di Rutherford fu certamente suggerito dai suoi esperimenti e non da una teoria. Anche alcuni dei metodi matematici usati per dedurre le conseguenze delle equazioni fondamentali sono suggeriti da osservazioni, come si è verificato per esempio nel caso del modello a guscio del nucleo e in quello del nucleo composto. Inoltre, alcune di quelle che sembrano essere leggi della natura, come per esempio quella secondo cui tutte le cariche elettriche sono multipli interi della carica elettronica, non seguono in maniera naturale dalle attuali leggi della natura, ma appaiono soltanto come fatti sperimentali ancorché fondamentali. Lo stesso vale per le varie leggi di conservazione che non seguono dai principi di invarianza, a meno che questi ultimi non vengano artificiosamente modificati per dedurne appunto tali leggi: tale è il caso, per esempio, della carica elettrica, del numero barionico e di due tipi di numero leptonico. Con queste considerazioni concludiamo la discussione dell'applicazione dei principi fondamentali e procediamo a trattare le due teorie più importanti del nostro secolo.

a) La teoria della relatività speciale

La teoria della relatività speciale di Einstein (1905) ristabilì la validità del gruppo di invarianza delle leggi della fisica rispetto a un insieme di trasformazioni tanto vasto quanto quello ritenuto valido già da Newton. Queste trasformazioni, come si è già detto (v. sopra, cap. 2), comprendono non soltanto le traslazioni spaziali e temporali e le rotazioni, ma anche il passaggio a un qualunque sistema di coordinate in movimento uniforme in qualsiasi direzione e con qualsiasi velocità. Quest'ultimo postulato non sembrava conciliabile con il fatto che vi è un sistema di coordinate nel quale la luce si propaga in ogni direzione con la stessa velocità, non solo indipendentemente dalla sua frequenza, ma anche indipendentemente dallo stato di moto del corpo che la emette. Se questo è vero in un sistema di coordinate, che chiameremo sistema di coordinate in quiete, non sembrerebbe però essere altrettanto. valido per un sistema in movimento: certamente il raggio di luce che si muove nella stessa direzione del moto dell'osservatore apparirà a quest'ultimo più lento del raggio che si muove nella direzione opposta. Sembrerebbe quindi non poter essere valida per due osservatori che si muovono in direzioni opposte la legge secondo cui la luce si propaga sempre con la stessa velocità, indipendentemente dalla sua direzione, dalla sua frequenza e dallo stato di moto della sorgente emittente.

Ciò nonostante l'esperimento di A.A. Michelson e E.W. Morley (1881) indicò chiaramente che la velocità della luce risulta essere indipendente dalla direzione anche a un osservatore in movimento (in movimento insieme alla Terra) e le osservazioni astronomiche compiute sulle stelle doppie mostrarono che essa è indipendente anche dal moto del corpo emittente. Questa, che sembra essere una peffetta contraddizione, fu risolta in parte da Lorentz (1903) e più compiutamente da Einstein: infatti l'arrivo nei punti A e A′ dei due raggi di luce che si muovono in direzione opposta non appare simultaneo all'osservatore in movimento. Invece il loro arrivo nei punti B e B′ gli appare contemporaneo, proprio perché essi sono ugualmente distanti da lui. Il fatto che questi due eventi, cioè l'arrivo del raggio di luce in avanti nel punto B e di quello indietro in B′, appaiano simultanei all'osservatore è confermato anche dal fatto che un raggio di luce emesso dalla posizione e al tempo B e uno emesso da B′ (le due traiettorie sono indicate dalle linee tratteggiate) lo raggiungono allo stesso istante. Nella teoria della relatività il tempo di un evento è dato da (t1 + t2)/2, dove t1 è il tempo al quale l'osservatore deve emettere un segnale luminoso che giunge al punto dell'evento proprio quando questo ha luogo e t2 è il tempo al quale il segnale luminoso emesso nel punto e nell'istante dell'evento stesso raggiunge l'osservatore. La distanza dell'evento dall'osservatore è invece data da c (t2t1)/2, dove c indica la velocità della luce.

Da questa definizione delle coordinate spaziali e temporali attribuite a un evento da un osservatore si possono dedurre le relazioni:

x′ = β (x − vt), t′ = β (t − vx/c2), (5)

che legano le coordinate spaziali e temporali x e t, attribuite a un evento da un osservatore, alle corrispondenti coordinate x′ e t, attribuite a esso da un secondo osservatore che si muove a velocità v in direzione x rispetto al primo. Il fattore di scala β non è determinato dalle definizioni che abbiamo dato, ma, postulando che x e t siano dati da relazioni analoghe alla (5), cioè da

x = β (x′ + vt′), t = β (t′ + vx/c2), (5a)

con β uguale a quello della (5), si ottiene che

β = (1 − v2/c2)-1/2.

Queste sono le equazioni che danno le coordinate spaziali e temporali di sistemi di coordinate in moto l'uno rispetto all'altro ottenute da Lorentz, determinando le trasformazioni che lasciano invariate le equazioni di Maxwell. Il suo layoro si estendeva ovviamente anche alla determinazione delle trasformazioni delle intensità dei campi magnetici ed elettrici che non saranno però date qui (v. Relatività).

Einstein partì dal postulato che ‛tutte' le leggi della natura sono invarianti rispetto a trasformazioni da un sistema di coordinate in movimento a un altro, e da questo postulato dedusse alcune sorprendenti conclusioni usando le trasformazioni di Lorentz che abbiamo più sopra discusso. Una di queste è l'aumento della massa apparente al crescere della velocità, che segue molto naturalmente dalla (5): infatti, se l'osservatore con le coordinate x′ e t′ accelera alla velocità w un corpo, che inizialmente è in quiete rispetto ad esso, all'osservatore con le coordinate x e t la velocità apparirà

Formula

L'equazione (7) si ottiene inserendo x′ = wt′ nella (5a) e calcolando v′ = x/t. Quindi la variazione di velocità che appare al secondo osservatore è

Formula

e cioè molto piccola se la velocità iniziale v dell'oggetto era vicina a quella della luce (v c). Per questo, per il primo osservatore è molto difficile accelerare l'oggetto: la sua massa gli appare molto grande. Anzi non è possibile imprimere al corpo un'accelerazione tale da uguagliare la sua velocità a quella della luce c che costituisce un limite.

L'esempio che si è appena dato è molto particolare e soltanto qualitativo. È più importante osservare che la teoria della relatività speciale è accettata come assioma in tutti i rami della fisica che non trattino fenomeni cosmologici. Quindi gli sforzi attuali della meccanica quantistica puntano, oltre che a spiegare i fenomeni della fisica delle alte energie, anche ad armonizzarne le equazioni con il postulato dell'invarianza rispetto alle trasformazioni della relatività speciale, pur mantenendo sempre la forma semplice delle equazioni stesse.

b) La teoria della relatività generale

La teoria della relatività generale, contrariamente a quella speciale, rappresenta una legge della natura. Essa è valida, nella sua forma normale, se si è in presenza soltanto di forze gravitazionali, e cioè, in pratica, soltanto per fenomeni macroscopici, e in particolare astronomici, in cui per esempio le forze elettromagnetiche non sono rilevanti. Essa fu formulata per la prima volta da Einstein (1915) e si fonda su una specificazione molto interessante del tipo di ‛eventi' che egli considerava reali e che postulava dovessero essere alla base di tutte le teorie fisiche: ‟Tutte le misure fisiche si riducono a una determinazione di coincidenze spazio-temporali (cioè al fatto che due oggetti si trovino nella stessa posizione allo stesso tempo); a parte queste coincidenze nulla è osservabile". Inoltre, poiché la teoria deve assumere la forma di teoria di campo per tener conto della distribuzione continua della materia, le sue equazioni devono essere invarianti rispetto a trasformazioni arbitrarie delle coordinate spazio-temporali degli eventi. Tali equazioni possono essere facilmente ricavabili da un principio variazionale usando un integrale sullo spazio e sul tempo come quantità che varia, o, per adoperare la terminologia del cap. 3, che assume un valore estremale.

L'idea delle coordinate generali, nel nostro caso delle coordinate spazio-temporali, per specificare la posizione e la localizzazione di un evento, fu introdotta da Gauss, mentre la geometria di un tale spazio fu studiata più dettagliatamente da Riemann; ambedue erano grandi matematici, anzi secondo alcuni Gauss è stato il più grande che sia mai vissuto, e il loro lavoro ha fornito il fondamento matematico della teoria della relatività generale. Per specificare la localizzazione e l'istante di un evento si adoperano quattro coordinate che vengono indicate con x0, x1, x2 e x3. Le quantità fondamentali della geometria riemanniana sono le componenti gik del tensore metrico, dove i e k assumono i valori 0, 1, 2 e 3 corrispondenti alle quattro coordinate xi. Le gik sono funzioni delle xi e servono per esprimere il quadrato della distanza ds2 tra un punto x0, x1, x2, x3 e un punto infinitamente vicino di coordinate x0 + dx0, x1 + dx1, x2 + dx2, x3 + dx3. L'espressione del quadrato della distanza è

Formula

dove la sommatoria deve essere estesa sui quattro possibili valori di i e k. Poiché il coefficiente di dxidxk nella (8) è gik + gki, non v'è bisogno di distinguere i due coefficienti e cioè, in generale, è:

gik = gki , (8a)

il che riduce a 10 il numero di funzioni indipendenti gik delle xi.

Il quadrato della distanza è dato da un'equazione della forma della (8) anche nella geometria ordinaria, cioè euclidea, con la differenza che in questo caso le gik = δik (0 per i k, 1 per i = k) sono costanti indipendenti dalla posizione. Usando invece coordinate gaussiane generali, non si può assumere che esse siano costanti e anzi, introducendo un nuovo insieme di coordinate yi che siano funzioni delle xi o, inversamente,

xi = xi (y0, y1, y2, y3) (9)

tali che

Formula

si ottiene per ds2:

Formula

dove

Formula

Queste, dunque, sono le componenti del tensore metrico nel sistema di coordinate yj ed è chiaro che esse non sono necessariamente costanti, anche se lo sono le gik, dal momento che vogliamo che le funzioni xi(y) siano arbitrarie anche se derivabili. Nella teoria della relatività speciale, dove sono ammesse soltanto trasformazioni di Lorentz (5), rotazioni spaziali e traslazioni, si ha

ds2 = c2dt2dx2dy2dz2, (10)

che è invariante rispetto alle trasformazioni della relatività speciale. Scegliendo opportunamente le funzioni xi(y) si può dare a ds2 una forma identica alla (10),

ds2 = c2 (dy0)2 − (dy1)2 − (dy2)2 − (dy3)2, (10a)

in un punto o anche lungo una linea, ma, di regola, non in tutto lo spazio, cioè non per tutti i valori di y.

La teoria della relatività generale di Einstein considera le gik(x) come le componenti del campo e il ds2 dell'equazione (8) come l'osservabile fondamentale. L'integrale invariante, la cui variazione egli pone uguale a zero, contiene il tensore di curvatura di Riemann R, cioè un'espressione assai complicata funzione delle gik e delle loro derivate rispetto alle xi che però rimane immutata, vale a dire invariante, rispetto a una trasformazione (9c) in cui le xi sono funzioni arbitrarie delle yj. Da ciò segue che l'integrale

Formula

è un invariante (g rappresenta il determinante delle gik cambiato di segno; il determinante è negativo nelle applicazioni fisiche). Le equazioni della teoria della relatività generale per il vuoto sono le condizioni variazionali di Eulero per l'integrale (11), una delle cui soluzioni banali è l'insieme gik dell'equazione (10a) o, più in generale, gik = cost. Queste soluzioni sono analoghe a quelle delle equazioni di Maxwell per il vuoto, che corrispondono all'annullarsi dei campi elettrici e magnetici. Vi sono tuttavia delle soluzioni più generali per le condizioni di Eulero applicate alla (11), come vi sono pure soluzioni più generali per le equazioni di Maxwell per il vuoto: nel nostro caso esse corrispondono alle onde gravitazionali e in quello delle equazioni di Maxwell alla radiazione elettromagnetica.

In presenza di materia l'integrale (11) è sostituito da

Formula

dove x è la costante gravitazionale e T la densità di energia nel sistema di coordinate in cui la materia nel punto x0, x1, x2, x3 è in quiete. Non daremo qui, a causa della loro complessità, le equazioni di Eulero per la (11) e la (11a). Analogamente, non discuteremo in dettaglio le prove sperimentali degli scostamenti dalle equazioni prerelativistiche; tali scostamenti riguardano essenzialmente tre campi, cioè la deviazione dei fasci di luce in un campo gravitazionale, lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali e il moto del perielio dei pianeti. Le prove sono in generale abbastanza buone, ma, soprattutto nell'ultimo caso, sono state anche messe in dubbio. Resta tuttavia assai notevole il fatto che dei ragionamenti matematici, basati su una bella teoria matematica che non ha però a priori molti legami con la gravitazione, abbiano potuto riprodurre e anche migliorare la teoria classica della gravitazione. Di recente sono stati trovati ulteriori elementi a conferma della validità della relatività generale.

Ci si domanda se la teoria della relatività generale sia conforme alla definizione degli eventi data inizialmente da Einstein e riportata all'inizio della presente trattazione. Il suo concetto fondamentale è il quadrato della distanza ds2 tra collisioni infinitamente vicine le une alle altre sia nello spazio che nel tempo: la semplice esistenza di tali collisioni presuppone che lo spazio sia riempito di oggetti o che almeno lo possa essere. La misura di una distanza temporale postula l'esistenza di un orologio che passi tra i due punti di spazio-tempo tra i quali deve misurare la distanza. Si possono concepire degli orologi gravitazionali, per esempio la nostra luna, ma essi alterano in maniera assai significativa il campo gravitazionale. Si possono immaginare anche degli orologi molto più piccoli, per esempio due masse che ruotano intorno al loro centro di massa comune, come nel caso di una stella doppia, con un raggio di luce che va avanti e indietro tra di essi, ma anche in questo caso le dimensioni e gli effetti gravitazionali sono molto rilevanti. Bisogna quindi ammettere che anche misure approssimate del tempo richiedono orologi basati su forze non gravitazionali, ma per questi la meccanica quantistica ci insegna che essi devono trovarsi in stati nei quali almeno due valori dell'energia hanno probabilità apprezzabili e che lo stesso vale per le masse. Nell'attuale relatività generale non è possibile introdurre delle correzioni per questi effetti.

La misura delle distanze tra eventi in relazione spaziale tra loro è ancora più difficile. Infatti è necessario un orologio che passi attraverso uno degli eventi più un segnale luminoso emesso da esso che raggiunga l'altro evento e un secondo segnale luminoso emesso dall'evento stesso che ritorni all'orologio. Se il primo segnale viene emesso al tempo t1 e il secondo viene ricevuto al tempo t2 e se l'evento attraverso cui passa l'orologio si verifica anch'esso al tempo t1, il quadrato della distanza tra i due eventi sarà c2(t − t1)(t − t2), cioè una quantità negativa. Tuttavia la meccanica quantistica ci insegna ancora che i segnali luminosi non possono avere momenti definiti, ossia che momenti che differiscono di h/l hanno probabilità non trascurabili (l è la lunghezza del segnale luminoso, l/c la sua durata). Da questo segue che l'effetto del segnale sull'orologio e sull'altro evento non è determinato in maniera univoca.

Tutti questi problemi spariscono se non si richiede una misura accurata di ds2 e ci si accontenta di una misura sufficiente su scala cosmologica. Si deve concludere che i concetti fondamentali della relatività generale si applicano soltanto nel caso limite di masse e dimensioni molto grandi quali quelle che si trovano principalmente in astronomia e cosmologia e che la teoria è, nei suoi fondamenti, più che macroscopica, si potrebbe dire quasi ‛gigantoscopica'.

c) La teoria quantistica

Mentre la teoria della relatività generale si occupa di eventi macroscopici, ma si serve di strumenti il più possibile piccoli per non influenzare i fenomeni la cui natura essa cerca di studiare, per la teoria quantistica avviene quasi l'opposto. Questa, infatti, studia soprattutto oggetti microscopici, cioè i sistemi atomici, ma i suoi ‛eventi' vengono rivelati per mezzo di apparecchiature macroscopiche, chiamate spesso strumenti misuratori.

Anche la storia della meccanica quantistica è molto diversa da quella della relatività generale. L'idea che soltanto quantità finite di luce possono essere emesse e assorbite fu avanzata da Planck (1900) per superare le difficoltà della teoria della radiazione di corpo nero, cioè della radiazione che è in equilibrio con l'ambiente che la contiene. L'elettrodinamica classica postulava per questa radiazione una densità infinita, il che non può sorprendere dal momento che essa non contiene delle costanti fondamentali dalle quali si possa formare, insieme con la temperatura o con kT, una quantità avente le dimensioni di un'energia. D'altra parte era ben confermata sperimentalmente la validità della legge di Stefan-Boltzmann (1879) la quale stabilisce la proporzionalità tra la densità di energia e (kT)4. Si poteva dunque supporre che la costante fondamentale addizionale necessaria per formare un'espressione con le dimensioni di una densità di energia avesse le dimensioni della costante di Planck h, vale a dire energia × tempo, in modo che il rapporto (kT)4/h3c3 avesse le dimensioni richieste. L'introduzione di una simile costante fu anche, o soprattutto, suggerita dalla legge di Wien (1893) secondo la quale kT/ν entra nella formula della radiazione dando la relazione di dipendenza tra l'intensità di radiazione e la frequenza ν, dal momento che kT/hν ovvero hν/kT è adimensionale.

Quando Planck propose la sua teoria era difficile accettarla completamente, perché la radiazione seguiva le equazioni di Maxwell e non vi era alcuna indicazione che essa fosse quantizzata. Planck stesso aveva dei dubbi e fu soltanto Einstein che per primo accettò appieno la teoria così da poterne trarre varie conclusioni che furono poi confermate sperimentalmente e dettero alla teoria stessa una base assai più solida. La scoperta successiva fu la teoria degli spettri di Bohr (1913), quella, in particolare, relativa allo spettro dell'atomo di idrogeno. Essa postulava che gli elettroni non possono muoversi su tutte le orbite che sarebbero possibili secondo la meccanica classica, ma soltanto su alcune che soddisfano determinate ‛condizioni quantiche', una delle quali stabilisce che il momento angolare degli elettroni intorno al nucleo è un multiplo intero della costante di Planck h.

Furono fatti vari tentativi per rendere più generali le condizioni quantiche di Bohr estendendone la validità al caso di più elettroni e tenendo conto della loro interazione, ma non si riuscì a trovare alcuna soluzione che fosse coerente, neanche matematicamente. Alla fine Heisenberg ne propose una che consentiva di ottenere le energie delle orbite permesse senza specificare le orbite stesse. Queste idee ricevettero un'elegantissima formulazione matematica quasi simultaneamente (1925) da Born e Jordan e da Dirac i quali erano arrivati al risultato indipendentemente l'uno dagli altri. Un anno più tardi Schrödinger propose una teoria le cui conclusioni risultarono essere identiche a quelle di Heisenberg, Born, Jordan e Dirac.

La concezione di Schrödinger è quella più facilmente visualizzabile. Egli stabilì un'equazione d'onda nello spazio delle configurazioni, cioè in uno spazio a 3n coordinate se le particelle sono n. Le 3n coordinate sono le coordinate di posizione delle n particelle di modo che un punto di questo spazio specifica la posizione di tutte le particelle, o, in altri termini, specifica la loro configurazione. Uno stato delle n particelle è descritto da una funzione a valori complessi su questo spazio, cioè da una funzione ψ(x1, y1, x1, x2, y2, z2, ..., xn, yn, zn). ψ è naturalmente anche una funzione del tempo e la sua variazione nel tempo è data dall'equazione di Schrödinger (ℏ, cioè l'h di Dirac, è la costante di Planck divisa per 2π):

Formula

dove m1, ..., mn sono le masse delle particelle e V(x1, ..., zn) è l'energia potenziale della configurazione data dalle coordinate x1, ..., zn. Il modulo quadrato, cioè ψ* ψ = ∣ ψ ∣2, dà la probabilità che le posizioni delle n particelle corrispondano alla configurazione specificata dagli argomenti x1, y1, ..., zn di ψ. Si può dire schematicamente che Schrödinger arrivò alla sua equazione cercando un'equazione per la ψ tale che, se la funzione ψ ha un massimo abbastanza definito in un punto x1, ..., zn al tempo zero, abbia al tempo t un massimo simile nella configurazione che si otterrebbe da quella al tempo 0 se valessero per il sistema le leggi della meccanica classica, o, in altre parole, se si potesse ammettere che le condizioni quantistiche non abbiano un ruolo importante nel moto. Evidentemente questa descrizione dell'origine dell'equazione di Schrödinger è assai incompleta; possiamo, però, dire che per descrivere il moto delle particelle individuali Einstein faceva uso di concetti simili, molto prima dell'avvento della meccanica quantistica e che chiamava Führungsfeld, ossia campo che guida il moto della particella, quella che oggi chiamiamo funzione d'onda di Schrödinger.

La dipendenza dal tempo degli stati con energia definita E è tale che, dopo un lasso di tempo t, la ψ risulterà semplicemente moltiplicata per il fattore exp (− iEt/ℏ). Per questo, in conseguenza della (12), lo stato ψx con energia definita Ex soddisfa l'equazione

Hψx = Exψx, (13)

dove H è l'operatore a secondo membro dell'equazione (12):

Formula

Poiché il fattore exp (− iEt/ℏ) cade se si forma l'espressione ψx*ψx, le probabilità delle varie configurazioni per gli stati di energia definita rimangono invariate nel tempo. Questo vale anche per tutte le altre proprietà, e in generale lo stato caratterizzato dalla funzione d'onda o vettore di stato cψ è identico allo stato ψ se c è un numero, cioè se è indipendente dalla variabile x1, ..., zn. Gli stati con energia definita vengono detti anche stati stazionari dal momento che rimangono invariati nel tempo.

Ovviamente le equazioni (12) e (13) sono non relativistiche e non tengono conto dell'emissione di luce da parte degli stati eccitati i quali, come si è accennato, appaiono stazionari anche se, in realtà, essi emettono luce e passano a stati ‛stazionari' di energia più bassa. Tuttavia il successo delle equazioni (12) e (13) per i sistemi non relativistici è veramente sconcertante e dimostra ancora una volta la connessione misteriosa che esiste tra la natura e le equazioni di aspetto matematico semplice. Era rassicurante il fatto che lo spettro dell'atomo di idrogeno, cioè i valori di Ex della (13) per i quali tale equazione ammette in questo caso soluzioni, fosse in accordo con i valori sperimentali; era anche possibile sperare che l'accordo per l'elio, un sistema per il quale non era neppure possibile formulare l'antica teoria, fosse entro una parte per un milione (Hylleraas e, in seguito, altri). Ma fu veramente sorprendente che si riuscisse a incorporare il principio di esclusione di Pauli (1925) nella meccanica quantistica (Dirac), che si potessero dedurre tutte le leggi generali della spettroscopia dai principi di invarianza (Wigner), che si potesse applicare l'equazione (12) dipendente dal tempo ai fenomeni di collisione (Born) e si riuscisse a estendere la teoria così da spiegare l'emissione di luce da parte degli stati eccitati. La teoria ebbe, oltre a questi, innumerevoli altri successi.

Invece, l'adattamento della teoria per permetterle di conformarsi alla teoria della relatività speciale anziché ai principî di invarianza classici ha incontrato molti ostacoli. La descrizione delle particelle singole poté essere dedotta dai postulati di invarianza (Wigner) e, in effetti, come si è già detto, questa deduzione ha portato a un'estensione di una parte della teoria dei gruppi, cioè alla teoria delle rappresentazioni. Tuttavia la sua applicazione a sistemi più complessi non è ancora completa. L'articolo di Dirac sull'emissione di luce cui abbiamo più sopra accennato rappresenta un primo passo in questa direzione sostituendo la funzione di Schrödinger ψ, la quale dà la probabilità delle posizioni delle particelle (la probabilità è data dal suo modulo quadrato), per mezzo di vettori di stato Ψ le cui variabili sono funzioni di x, y, z, di modo che Ψ dipende da funzioni anziché da numeri. La teoria può anche essere formulata in termini di vettori di stato Ψ che dipendono da un numero infinito di variabili. Questa non è certamente una descrizione interamente accurata della teoria; è però vero che tra la descrizione di uno stato fatta dalla nuova teoria e la descrizione di Schrödinger esiste una relazione non dissimile da quella che corre tra la teoria di campo e la meccanica del punto. In ambedue i casi la variabile è immensamente più complicata.

Nonostante che la nuova meccanica quantistica relativistica non abbia ancora raggiunto la forma completa e matematicamente elegante che si sperava, essa ha già avuto molti successi, tra i quali la spiegazione, ad opera di Schwinger, Weisskopf, Feynman e Bethe, del cosiddetto spostamento di Lamb, cioè un piccolo spostamento nei livelli energetici dell'atomo di idrogeno causato dalla relatività. Si sono anche avuti molti tentativi di dare alla teoria una base rigorosa, quale per esempio la formulazione dell'assiomatica di Wightman, che non hanno però ancora avuto pieno successo per cui le ricerche in questo campo continuano ancora.

Non esiste neanche una concordanza completa sui principi fondamentali della teoria, cioè sul problema degli ‛eventi' che essa descrive. Heisenberg, che fu il primo a occuparsi di ciò, fece notare che non vi è alcuno stato, cioè alcuna funzione ψ(x, y, z), che possa garantire un risultato definito della misura della posizione e della velocità. Infatti, se il risultato della misura della posizione x è certamente compreso entro un intervallo Δx, la probabilità del risultato della misura della velocità è distribuita almeno entro un intervallo dell'ordine di h/mΔx, dove m è la massa della particella. Questo è dovuto allo stesso motivo che determina la distribuzione della frequenza di un'onda luminosa contenuta in un intervallo spaziale limitato; a questo abbiamo accennato nella discussione della teoria della relatività generale. Bohr generalizzò l'osservazione di Heisenberg, cioè il suo principio di indeterminazione, dandogli la forma di un teorema di complementarità più generale.

La formulazione matematica delle misure, indubbiamente idealizzate, fu data da von Neumann il quale postulò un processo di misura per ogni cosiddetto operatore autoaggiunto, quale la moltiplicazione per x (misura della coordinata x della posizione), o l'operatore H della (13a) (misura dell'energia), o −i per la derivata rispetto ad x (misura della massa per la velocità nella direzione x). Egli dette anche un'espressione per la probabilità di un risultato determinato della misura, di modo che la probabilità di ottenere il valore Ex, se viene misurata l'energia di un sistema nello stato ψ, è:

Formula

È possibile dimostrare che la somma delle probabilità Px per tutte le possibili Ex è 1. Dopo la misura, si sostiene, il sistema si troverà nello stato ψx cosicché, ripetendo la misura, essa darà certamente il risultato Ex. Questo è il senso in cui von Neumann intendeva l'affermazione: è stato trovato che in effetti l'energia è proprio Ex, cosa che a molti appare ragionevole.

Se al posto dell'energia si vuole misurare un'altra grandezza fisica, ψx dell'equazione (14) deve essere sostituito dalla soluzione di un'equazione come la (13) nella quale, però, H viene sostituito dall'operatore corrispondente a tale grandezza ed Ex dal risultato della misura della quale si deve dare la probabilità. Tuttavia, nonostante la sua importanza fondamentale e la sua innegabile natura chiarificatrice, la teoria di von Neumann ha una debolezza, in quanto non indica chiaramente come la grandezza debba essere misurata, quali apparecchiature vadano adoperate e come vada letto il risultato. Si può infatti dimostrare che alcuni operatori, benché autoaggiunti, non sono misurabili e che la maggior parte può esserlo soltanto con apparecchiature di dimensioni crescenti se si vuole essere sempre più sicuri che una seconda misura, immediatamente successiva, della stessa grandezza dia lo stesso risultato della prima. Bisogna inoltre ammettere che, nella sua forma attuale, la teoria non si conforma ai principî della teoria della relatività, neppure di quella speciale.

Dal momento che la supposizione di von Neumann riguardante la varietà delle grandezze misurabili è certamente troppo vasta, all'estremo opposto è stato suggerito che sono osservabili soltanto gli elementi di una matrice di collisione. La matrice di collisione, che è un concetto affascinante anche dal punto di vista matematico (fu introdotto da J. A. Wheeler nel 1937), descrive la natura, l'energia e la direzione del moto delle particelle che risultano dalla collisione di due o più particelle di composizione, energia ecc. date. Si possono identificare vari dati relativi agli atomi, quali le energie, i momenti angolari, gli stati normali ed eccitati ecc., partendo da una conoscenza della matrice di collisione e in effetti essa viene ottenuta sperimentalmente proprio a partire da tali processi. Non è però del tutto chiaro se con tale metodo si possano ottenere tutte le proprietà fisiche interessanti. Ad ogni modo gli elementi di una matrice di collisione possono certamente essere determinati da opportuni esperimenti ammettendo la disponibilità di un'apparecchiatura macroscopica fissa nello spazio e dotata di strumenti capaci di rivelare le particelle che escono da una collisione e di determinarne la posizione e la natura su scala macroscopica. La posizione deve essere accertata solo su scala macroscopica per determinare la direzione del moto delle particelle che escono, dal momento che gli apparecchi di rivelazione sono a distanze macroscopiche dal punto di collisione.

Ciò nonostante, anche la dimostrazione della possibilità di misurare mediante la matrice di collisione richiede l'ipotesi che l'apparecchiatura non influenzi le particelle che entrano in collisione e, fino a che si adotta l'attuale teoria, anche quella che la geometria ordinaria, cioè non riemanniana, sia valida per l'intero sistema. Queste condizioni sono soddisfatte molto bene per quelle collisioni le cui matrici sono attualmente oggetto di interesse, ma non si è ancora appurato se la teoria possa essere estesa fino al punto da farla concordare pienamente con la relatività generale. Non vi è invece alcun problema per quanto concerne la sua concordanza con la teoria speciale.

Bisogna notare, infine, che esistono degli ulteriori problemi epistemologici connessi coll'atto di osservazione. L'apparecchio per la misura, essendo esso stesso soggetto alle leggi della meccanica quantistica, non assume uno stato definito dopo l'interazione con il sistema il cui stato esso deve indicare, di modo che si può soltanto stabilire una correlazione statistica tra lo stato dell'apparecchiatura e quello del sistema. Quindi, l'osservazione è completa soltanto quando qualcuno legge l'apparecchiatura, come aveva già scoperto von Neumann e come fu in seguito chiarito molto bene da London e Bauer (1934). La discussione sul significato di questa osservazione non ha portato a un accordo generale e ha indotto alcuni di noi a credere che la realtà ultima sia il contenuto della consapevolezza dell'osservatore. Su questo argomento molto è stato scritto e detto sia da parte dei filosofi che dei fisici, ma noi non ce ne occuperemo in questo contesto.

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